Come non si fa (2): la Battaglia dei Bastardi (Game of Thrones)

Prima che a qualcuno parta un embolo, lasciate che ve lo dica: a me Game of thrones piace, e l’ultima serie in particolare mi piace pure. Non solo, trovo che mediamente la serie sia migliore dei libri. Ad esempio, sono stata molto grata del fatto che gli sceneggiatori abbiano dato un senso alla gita campestre di Brienne e Pod, o che abbiano scorciato di brutto tutta la menata su quei mongoli a rotelle degli Ironborns.

Oggi però non voglio parlare della storia nel suo insieme, bensì voglio concentrarmi su una scena in particolare, la scena clou dell’ultima serie, la Battaglia dei Bastardi.

Trattandosi di un post puramente tecnico, cercherò di fare meno spoilers possibili, ma qualcuno ci potrebbe sempre scappare. Ergo siete avvisati.

Cominciamo con gli aspetti positivi di questa scena:

-Sul lato visivo, c’è poco da dire. La fotografia è bella, il ritmo è buono, la musica anche. E’ una scena divertente da vedere, a differenza di quell’altra merda stellare in Vikings.

-Certi spunti erano ben trovati. Mi fa piacere che finalmente si comincino a vedere degli sforzi per far apparire le battaglie più verosimili (manovre, trucchi, movimenti coordinati, etc.) e meno burine.

Cosa intendo per “burine”? Intendo quando due gruppi incasinati si corrono addosso a cazzo di cane con musica epica e scatenano un mischione molto virile di gente che mena a caso facendo facce molto maschie e scuotendo le villose barbe. L’ultima battaglia del film del Signore degli Anelli, per intendersi. Le scene così le odio.

Nel caso in esame c’è chiaramente il tentativo di mostrare dei professionisti coordinati, e ciò è bene.

Purtroppo però restano dei problemi.

Partiamo dalla situazione: Gianni Neve deve scannarsi con Ramsay. Ramsay è spalleggiato dagli Umbers e di Karstarks, due delle maggiori case del Nord, e vanta più del doppio degli effettivi rispetto a Gianni.

La notte prima dello scontro, Gianni e Capitan Cipolla convengono che devono indurre Ramsay a inseguirli e scavare trincee laterali per proteggere i fianchi.

Primo problema: scavare una trincea è un lungo lavoro, e un lavoro faticoso. Gianni SA da giorni che la lotta sarà impari, avrebbe dovuto adoperarsi almeno dalla mattina prima a scavare delle difese.

Secondo: le trincee sono, appunto, faticose e lunghe da fare. Probabilmente Gianni e i suoi farebbero prima e meglio a piantare in terra pali appuntiti, o legare legni aguzzi tra loro per creare dei proto-cavalli di frisia. E’ più rapido, il legno non manca, e probabilmente costa molta meno fatica.

Ad ogni modo tutto ciò si risolve in nulla perché troviamo subito il problema numero tre.

Dove sono ‘ste trincee?

Peraltro, visto che il grosso dell’esercito di Gianni è fatto di wildlings, forse sarebbe stato meglio tentare di attirare Ramsay in una zona boscosa, più che non sfidarsi su un pratino più o meno pianeggiante. Questo però non è un difetto stricto sensu, in quanto nessuno dei tizi coinvolti è un tattico collaudato. Plus, esigenze di tempo, e ok.

Veniamo a quello che però è un problema: l’equipaggiamento.

Pochissimi portano l’elmo. E non dico i wildlings, ma anche i cattivi. L’elmo è il pezzo di armatura che qualcuno si procura prima di tutto. Perché in tv la gente deve sempre andare in giro a pera con la capoccia scoperta?

Plus, com’è che nell’esercito di Gianni quasi nessuno porta uno scudo? Uno scudo non è roba particolarmente complicata da fare, è utilissima, e richiede poco o punto metallo.

E parlando di pochissimo sforzo e metallo: qualcuno poteva dare una cazzo di clava al gigante?

E’ una bestia di quindici metri che spacca la gente in due e spappola cavalli a cazzotti, e non serve quasi a nulla! Non ha nemmeno un effetto psicologico sui nemici!

Nel cerchio rosso, il personaggio più sprecato della serie

Ci voleva tanto a tirare giù un abete e metterglielo in mano? E’ come andare in battaglia con un Merkava senza munizioni! Ok, va bene, puoi spiaccicarci qualcuno passandoci sopra coi cingoli, ma non stai davvero approfittando delle potenzialità di questo gioiellino!

Ma torniamo alla tattica.

I nostri sono schierati. Da una parte Gianni, che ha soprattutto fanteria, un po’ di arcieri e un po’ di cavalieri, dall’atra Bolton, che ha il doppio della gente. Entrambi hanno piazzato gli arcieri in prima fila.

Ok, è una scelta difendibile. Io li avrei messi dietro, ma hey, va bene anche così.

Storia a parte, ci troviamo all’inizio con un Gianni Neve da solo, al centro del campo di battaglia, a tiro delle frecce Bolton. Siccome ormai è lì, Gianni decidere di caricare i Boltons da solo.

Ora, vi parrà strano, ma questa scena non mi pare del tutto folle. Gli arcieri Bolton stanno tirando a campana, e Gianni è esposto. Ha due scelte: ritirarsi, o avanzare, dacché le due scelte lo tolgono dalla “fascia bersaglio” dei dardi.

Peraltro, è realistico il fatto che la carica duri poco, ed è verosimile che Gianni riesca a saltare di sella prima di restare incastrato sotto il cavallo.

Il problema in questo frangente non è tanto Gianni, quanto la sua cavalleria.

In primis, prima lo lasciano correre avanti allo scoperto e solo dopo si svegliano “oh cazzo, già, è il comandante, ‘ndiamo a ripigliaccelo!”. Meh.

Quello che però ha di buono questo passaggio è che i cavalieri cavalcano lancia in resta e “lunghi”, con staffe basse, come facevano, con ogni probabilità, i catafratti europei. Un bel dettaglio. Anche contando che, nell’urto della lancia, il cavaliere deve spingere avanti il bacino stendendo le gambe, per scaricare la botta sulle spalle del cavallo e non sui suoi lombi (le zampe anteriori del cavallo sono quelle che portano meglio il peso e le botte).

A sinistra, un fotogramma del film. A destra, miniatura sul romanzo di Yvain o Il cavaliere del leone, Chrétien de Troyes (XIII° secolo). Notare, a destra, i piedi spinti avanti rispetto al centro di gravità del cavaliere.

Tornando a noi, la cavalleria Bolton carica.

Perché?

La cavalleria Snow sta entrando nella portata degli arcieri. A meno che la portata dei tuoi archi non sia 20m scarsi, non sarebbe meglio scompaginarli un po’ prima di buttare le tue truppe d’élite nel gioco?

Nevermind, le due cavallerie si schiantano l’una contro l’altra, e Gianni Neve nel mezzo sblocca la Modalità Eroe e diventa invulnerabile.

No, sul serio, la battaglia è figa e tutto, ma Giovanni Neve che passeggia in giro mentre il resto del mondo lo schiva in automatico proprio non si può vedere. C’è perfino un momento in cui si ferma per diversi secondi di sguardo intenso!

Comunque, mentre Gianni se ne va in giro invulnerabile a cavalli e tizi, i Boltons decidono di tirare altre frecce.

Su un mischione?

Perché?

Ok che Ramsay è tanto kattyvo, ma falciare i propri cavalieri è da fessi e basta!

Un cavaliere è un guerriero d’élite. E’ estremamente costoso, al punto che interi sistemi politico-economici sono stati costruiti attorno ad esso, per rendere possibile il suo addestramento ed equipaggiamento. Basti pensare che in epoca feudale l’indennizzo da versare al signore per la morte di un suo féal era moltiplicato nel caso il tizio fosse stato un guerriero montato.

Non solo: Gianni Neve ha, bene o male, lasciato entrare un putiferio di wildlings. I Boltons avranno bisogno di uomini per dar loro la caccia e controllare il Nord. Perché dovrebbero sterminarsi la cavalleria da soli?

Dico sterminarsi perché, a un certo punto, i cavalli spariscono. Quindi i fatti sono due: o i cavalieri di Gianni e di Ramsay si sono annientati vicendevolmente (nonostante quelli di Ramsay fossero il doppio in numero e, si suppone, meglio nutriti e riposati), o Ramsay è riuscito a spacciare tutti i suoi guerrieri migliori a botte di “esigenza di trama”.

E parlando del campo, questa è la situazione:

Il cavaliere sulla sinistra funge da riferimento: ‘sti mucchi sono alti il doppio di un uomo a cavallo!

Ora, ok che avete tritato mille cavalieri e spicci, ma ‘sti mucchi da dove escono?

I mucchi di cadaveri hanno di solito 2 origini: gente che muore contro un ostacolo architettonico; qualcuno che sposta i cadaveri. Non è la prima, visto che siamo in pianura, e non è la seconda visto che nessuno ha l’agio di farlo.

Ne deduco che sia andata così.

Anyway, Ramsay, tutto felice del fatto che ora l’intero Nord non ha più un solo cavaliere nell’esercito, manda la fanteria: i suoi e gli Umbers, che dovrebbero essere a cavallo ma sono a piedi perché boh, sticazzi.

Gli Umbers caricano e spariscono. No, davvero.

Con Umbers…

Senza Umbers…

Errore di editing, son sicura, ma comunque…

Quando ricompaiono, scalano i mucchi di morti e scendono nella fossa insieme ai wildlings. Buonsenso vorrebbe restassero sulla cresta per ributtare sotto chiunque cerchi di scappare. Ma no, il capoccia degli Umbers deve scendere nel merdaio e ritrovarsi così pigiato che tra lui e Thormund parte un match di testata nel muso.

Frattanto, i fanti dei Boltons accerchiano per benino Gianni e i suoi, che li lasciano fare perché…

Boh. Perché dargli fastidio sarebbe stato scortese.

Accerchiati i dodo, i Boltons iniziano la fiera dello spiedino. E niente da dire qui, la manovra è bella e fatta bene, e visualmente è molto carina. Però, giusto per fiscaleggiare, direi che le lance sono tenute troppo in avanti.

Niente impedirebbe ai wildcosi di agguantarle e sfasciare la linea. Niente a parte la buona creanza, ovviamente.

Devo dire però che la prima linea con la spada è molto caruccia, offre scenette memorabili.

Knock knock… oh shit…

Ho sinceramente apprezzato la parte in cui Gianni Neve viene pesticciato nella merda e nel sangue. E’ realistica e ben fatta. Un po’ lunghetta, magari, e la musica struggente stona con il realismo crudo del momento, ma hey, bella comunque.

Quello che invece mi ha fatto cascare le braccia è l’arrivo dei rinforzi.

Tre osservazioni e poi giuro smetto di scassare le palle:

  • Per arrivare a Winterfell, i cavalieri del Vale devono aver attraversato un territorio molto vasto. Vista la celerità con cui arrivano dopo l’appello di Sansa, si suppone che abbiano usato la King’s Road, che se s’impelagavano per bozzi e grottoni ciao. Insomma, c’è un esercito di diverse centinaia di cavalieri in armi che avanza sulla via maestra, com’è che non c’è stato un solo fesso che li ha visti ed ha avvertito Ramsay?
  • I cavalieri del Vale arrivano a battaglia iniziata (quasi finita) e attaccano subito. Si suppone che siano arrivati in un rush di marce forzate per fare in tempo. I loro cavalli dovrebbero essere esausti, i loro uomini stanchi. Sembra poco probabile che possano passare sopra una fanteria perfettamente organizzata (e notevolmente lenta di reazione! Secondo me Ramsay ha pochi sergenti…) manco fossero una schiacciasassi sui marshmellows. Sarebbe stato meglio, a parer mio, se la vittoria dei rinforzi fosse da attribuire più a un effetto psicologico (panico e fuga della fanteria), ma tant’è…
  • Tanti complimenti a Sansa che prima sfrangia la minchia a Gianni “non hai chiesto il mio parere per i piani di battaglia”, e poi se ne esce “oh sì, avevo 1000 cavalieri di scorta nascosti nel culo, non te l’ho detto perché ci tenevo a farti una sorpresa!”. Se Gianni avesse saputo che i rinforzi stavano per arrivare, forse, forse avrebbe potuto organizzarsi diversamente. E forse quella piaga di tuo fratello Rikon sarebbe ancora in vita. Ma bon, era un personaggio marginale in ogni caso.

 

E poi well, c’è la fine, con Ramsay rimasto praticamente solo dopo aver tirato il suo intero esercito nel tritacarne. Non che non sia mai successo nella Storia, ma bon, m’è parso un pochettino cliché.

E questo è quanto. Sì, la battaglia è uno spasso da guardare! Sì, rispetto alla media delle battaglie in tv è comunque buona. Però ecco… secondo me c’è ancora del margine.

Parlando di clichés, m’importa ‘n cazzo se l’ha già detto in diecimila, ma Lyanna Mormont spakka!

MUSICA!

Vita da campo: Jumiège 2016

-Dopo ardua ponderazione, io dico…- Ragnar il Giovane svita il tappo dalla fiaschetta di vodka. –Spitfire.

-Nah. Junkers 87. Se non ti piacciono gli stuka, non conosci gli stuka.

E’ notte sull’accampamento, l’aria è fresca, le associazioni bevono intorno ai falò. Si preannuncia un buon campo. Lo hanno organizzato i Klanen, una banda di artigiani e combattenti, gente d’oro. Più in là ci sono gli Spadaccini di Normandia, e i Byggvir, i Compagni d’Esculapio, una banda di variaghi… Tanta gente ben equipaggiata.

All’ingresso della spianata il comune ha costruito una pira gigantesca. Non abbiamo ancora deciso chi bruciarci sopra. E’ alta come una casa, fatta di tronchi incrociati e piena di frasame. Farà una fiammata bellissima.

Sotto il nostro auvent, Bothvar e Petrus stanno confabulando, boccali in mano. Ragnar il Giovane mi rende la fiasca.

-Diving bombers?

Bothvar e Petrus si accostano pitte pitte a una delle tende dove dormono i nostri.

-Right!- Mi riprendo la fiasca di vodka. –Vuoi mettere un tuffo sul tank mentre il vento fischia sulle ali col fracasso delle trombe di Gerico?

Bothvar e Petrus si acquattano alle due porte della tenda, sguainano i long sax.

-Comunque se vogliamo parlare di ardimento e gagliardia, il 588esimo sovietico-

-ATTACCO A SORPRESA!

Bothvar e Petrus si slanciano nella tenda con la grazia e la leggerezza di due orche assassine. Urla e botte, bestemmie in franzoso. Sorseggio la mia vodka. I compari sono motivati. Speriamo bene.

Sabato

L’Abbazia di Jumiège, fondata verso la metà del VII° secolo

Sono le otto di mattina, e sto già sudando come un cavallo. La giornata non è ancora iniziata e già pondero la possibilità di strappare le maniche della tunica.

Mi vesto nella tenda, comincio ad allacciarmi gli stivali. Cogito che se crepo di caldo prima di stasera, potranno buttarmi sulla pira e spedire a mia madre una secchiata di cenere.

Da fuori sento i compagni che fanno colazione.

-Chi dorme ancora?

-La Tenger non è uscita.

-Olaf, valla a svegliare.

Tsk. Come se fossi ingenua abbastanza da farmi beccare addormentata.

Sto legando l’ultimo laccio quando Olaf spalanca la tenda, long sax in mano.

Eh merda.

Cerco di alzarmi, mi spintona a terra e tenta di segarmi la pancia. Gli afferro il polso. Mortacci sua, pesa il doppio di me! Gli punto un piede sullo stomaco per scalciarlo fuori, l’infame m’agguanta la caviglia e mi strattona, mi assesta un fendente sul polpaccio.

E dire che per questo campo avevo deciso di non pestarmi con nessuno.

La catasta. Foto di Nanette (link a fine articolo).

Jumiège è un paese graziosissimo. Ci si arriva in ferry attraversando la Senna. E’ un’accozzaglia di case di mattoni e vecchie costruzioni in legno e intonaco. I ruderi dell’abbazia torreggiano oltre le chiome degli alberi. Scoperchiata, senza rosoni, i pilastri e le pareti si alzano contro un cielo blu incandescente.

Entriamo nella cinta del giardino. Sul prato ci sono dei padiglioni bianchi quattrocenteschi. E’ sempre un piacere trovare dei quattrocentisti ai campi. Petrus si volta verso di noi dalla testa della fila. Sogghigna.

-Secondo voi sono in vena di sport mattutino?

Passa parola lungo la fila. Prima di entrare nel loro campo, abbiamo già le armi in mano. Tagliamo di corsa sotto gli alberi.

I quattrocentisti sono già in armatura, brillano sotto il sole come catarifrangenti.

-SKJALDBORG!

I nostri scudi tondi si chiudono in una linea. Avanziamo a passo rapido. I quattrocentisti abbassano i bec de corbin, sguainano le spade. Cominciamo un match di berci e spintoni.

Vicini di campo. Foto di Nanette (link a fine articolo).

Contrattiamo una quantità di birra adeguata per smettere di rompere le scatole. I quattrocentisti ci pensano un attimo, poi concludono che non vogliono sporcare di sangue le armature di prima mattina (ci contavamo!) e accettano.

Di ritorno alla base, la gente comincia ad arrivare, il pomeriggio avanza lento, il calore si fa infernale. Siamo cooptati per una scenetta, sotto il sole. L’acciaio del mio elmo si riscalda fino al punto in cui non lo posso più togliere senza i guanti. Il metallo scotta. Mi sembra di avere la capoccia in una pentola a pressione. Grosse gocce di sudore mi colano lungo il collo. E non ho nemmeno l’armatura. Sono grata a Odino che a questo giro posso risparmiarmi la mischia, altrimenti mi raccattavano in barella.

Mi ritiro quando iniziano i pestaggi. Siccome non meno nessuno, oggi il mio ruolo è stare al campo e fare divulgazione. E’ un’attività che mi piace, peccato che la rastrelliera sia irrimediabilmente al sole.

Troppo caldo per un pestaggio in armatura? Puoi sempre occuparti della forgia! Foto di Nanette (link a fine articolo).

Durante la giornata, mi schiodo dal posto quanto basta per fare un salto a vedere i quattrocentisti. Il loro campo è più piccolo del nostro, ma sono un sacco di gente comunque. Riconosco la bandiera dell’Ordinanza San Michele. Mi sa che li ho già incontrati a Coudekerque, o forse era Ecaussine? Il mondo dei ricostitutori è relativamente piccolo.

Come al solito, il loro equipaggiamento è spettacolare. Armature a parte, si sono portati dietro artiglierie, spiedi, un forno per il pane. Una coscia di maiale intera sta arrostendo lentamente, schiacciata tra sole e brace.

Diavolo, ad averci i soldi non mi dispiacerebbe un salto di secolo, ogni tanto!

L’Ordonnance Saint-Michel e soci. Foto di Nanette (link a fine articolo).

Al calar della notte, degli sputafuoco si radunano intorno alla pira, appiccano il rogo.

All’inizio pare non succedere nulla. Fiammelle timide baluginano appena in un punto tra due travi. Mi siedo sull’erba, aspetto. Ho sempre avuto un debole per il fuoco. Da bimbetta mi divertivo a costruire case con calcinacci, riempirle d’erba secca, accenderle e guardare le fiamme uscire dalle finestre.

Se mi va male con l’università, posso sempre riciclarmi come piromane.

Lentamente fumo inizia a uscire dal graticolo di tronchi, denso e viscoso come melassa. Il bagliore aumenta, lingue di fuoco guizzano attorno a un trave, prima sparse, poi sempre più numerose. All’interno della struttura, cartone e ritagli divampano. Il calore aumenta. La folla si ritrae mentre il rogo si sviluppa senza fretta, sempre più grande, sempre più luminoso. Le facce degli astanti sono tinte di arancione. Nuvole di scintille appiccano piccoli focolai nel prato circostante. E’ un bello spettacolo. Il calore ti mangia la pelle.

Foto di Nanette (link a fine articolo).

Quando torno al campo, trovo degli scudi rossi posati contro uno dei nostri pali.

-Hanno cominciato il Gioco degli Scudi.- Mi avverte la Matrona. –I nostri li abbiamo rimpiattati.

Il Gioco degli Scudi, altresì detto “andiamo a rompere i coglioni ai vicini”. Consiste nel soffiare gli scudi alle tende circostanti e pretendere un riscatto in birra. Complice il buio, la tecnica di solito sta nel passare con disinvoltura accanto a uno scudo non sorvegliato e imbarcarlo come se niente fosse.

Non ho mai giocato, ho sempre avuto remore a metter le mani su roba che non mi appartiene. Mi rendo conto che ciò fa di me uno schifo di vichingo.

Andando a coricarmi, vedo due bambine scappare dal nostro campo, in braccio uno scudo quasi più grande di loro. Hanno fregato uno dei nostri. Alas.

Domenica

Affettuosi abbracci tra colleghi. Foto di Nanette (link a fine articolo).

Di prima mattina cerco di rendere il favore a Olaf. Lo becco che si sta allacciando le bande mollettiere, tento di affettargli un ginocchio. Mi strattona per difendersi. Il colpo va a segno, ma nel liberarmi incespico e prendo una ginocchiata nella soglia. Per essere un fine-settimana senza botte, me ne sto tornando a casa con un sacco di lividi.

Mi ricompongo per l’arrivo del pubblico. La gente è numerosa, in due giorni abbiamo più di quattromila visitatori. In questi frangenti, uno deve sempre prepararsi a rispondere a domande bizzarre, da “ma esisteva l’acciaio nel medioevo?” a “ma le vostre armi sono autentiche?”.

A questo giro mi capita solo l’evergreen “ma le vostre armi sono affilate?”.

Sì, sono affilate perché ci piace mandare all’ospedale metà dei membri e in galera l’altra metà. E’ un po’ il nostro stile.

Un marmocchio indica il cane di uno dei nostri.

-Nel medioevo non esistevano i cani.

Fissa davanti alla rastrelliera, mostro elmi e armi, faccio soppesare armature, spiego che no, i vichinghi non andavano in giro con asci bipenni e mutande pelose. Intanto noto l’assenza di  magliette o felpe di Vikings, e ciò mi ridà fede nell’umanità. Forse un giorno guariremo da questo morbo infame chiamato History Channel…

A destra, la mia armatura partecipa alla zuffa mentre io me ne sto in panciolle dietro una rastrelliera. Foto di Nanette (link a fine articolo).

Sto mostrando come usare uno scudo a una coppia con figli quando strilli e casino scoppiano tra le tende dei Klanen. Gente in arme che corre, gente disarmata che scappa. I visitatori intorno a me sono perplessi.

-Cosa capita?

-Oh è un raid per raccattare schiavi.- Accenno alle macerie fumanti. –Li venderanno tra un po’, vi consiglio di investire in un irlandese.

Nella confusione, noto un centro d’azione più frenetica. E’ Dall, uno dei nuovi arrivati, tosto e ticcio come un bue da traino. Avanza nel chiasso a torso nudo mulinando sberle come una quintana a reazione, fa volare elmi, spedisce in terra chiunque si avvicini. Gli saltano addosso in tre. Se li scuote di dosso come fossero mosconi, i tizi in armatura finiscono col culo in terra. Era dai tempi di Bud Spencer e Terence Hill che non vedevo legnate così divertenti.

Ci vogliono cinque uomini per legargli le mani. Lo perdo di vista mentre tre armigeri lo trascinano al mercato di peso. Un po’ mi dispiace per i tizi in armi. La storia degli schiavi doveva essere una scenetta tutta riposo per il pubblico. Staranno sudando a morte sotto gli elmi.

Me ne torno alle mie chiacchiere, mentre da lontano mi arriva l’eco del mercato.

-I vichinghi erano gli antenati dei pirati.- Mi dice un tizio del pubblico.

-Oibò.- Sorrido. -Non lo dica a chi fa rievocazione fenicia, potrebbe risentirsi.

-Ah, ma i vichinghi avevano più onore e umanità dei Fenici.

Come no. E nel medioevo non esistevano i cani.

Nel medioevo non esistevano le foto di gruppo!

In definitiva, è stato un buon campo. Piacevole, senza incidenti, senza troppe gomitate nelle costole.  Jumiège è un posto davvero splendido e abbiamo dato fuoco a una montagna di legna! Dar fuoco a qualcosa grande come un edificio val sempre la pena!

MUSICA!


Mille ringraziamenti a Nanette, la fotografa dei Klanen. QUI la sua pagina, check it out!

Illustri sconosciuti: Taira no Masakado (2.1)

Ho ponderato a lungo se pubblicare o meno un nuovo articolo questa settimana. Tra i mentecatti che vedono facce di Al-Bagdadi nei fondi di caffé, gli archeologi attentatori e il sorgere del sultanato, è stata una settimana di merda. Mi ero chiesta se non fosse il caso di esprimere il mio punto di vista, ma visto il coro di esperti che si sta scatenando sui social mi son detta: fanculo, un articolo di gente che si ammazza a caso ci sta bene, a conti fatti.

Illustri sconosciuti: Taira no Masakado (2.1)

Ovvero Il ritorno dei parenti assassini.

Le basi di Masakado e Yoshikane

Nell’ultima puntata avevamo visto l’aitante guerriero alle prese  con notabili locali e zii fedifraghi. Dopo aver nuclearizzato il nemico Mamoru e gli zii Kunika e Yoshimasa, Masakado è tornato a casa, pieno di gloria e bottino. La sua banda non ha lasciato niente dietro di sé, solo villaggi bruciati e campi rovinati.

Un uomo è sopravvissuto alla faida: Taira no Sadamori. Figlio ed erede di Kunika, Sadamori ha assicurato a suo cugino Masakado che mai e poi mai cercherà di vendicarsi. Dopotutto Sadamori, funzionario alla Capitale, è più burocrate che guerriero.

Un altro uomo è rimasto indenne: Yoshikane, zio e suocero di Masakado, che si è guardato bene dal prendere parte agli scontri. Fino a questo punto.

Come i suoi fratelli, Yoshikane ha sposato una delle figlie di Minamoto no Mamoru. Di fatto, ha buone chances di essere il beneficiario, per legame di sangue e alleanza, di suo fratello Yoshimasa e del suocero Mamoru. C’è poi un dettaglio sottile ma fondamentale: Masakado non è nessuno, non ha funzione, mentre sia Yoshimasa che Mamoru sono funzionari provinciali.

Il Governo non ha per il momento preso nessuna misura contro Masakado. La Corte ha tendenza a lasciar stare i guerrieri dell’Est il più possibile. Voler impedire a questa gente di scannarsi è farsi delle pie illusioni e pertanto il Governo si limita di solito ad una politica del “fate un po’ quel che vi pare fintanto che i tributi arrivano e che non si presenta una palese sfida all’autorità costituita”.

Se la lite familiare dovesse prendere dimensioni troppo vaste, il Governo avrebbe preso le parti dei funzionari. Yoshikane lo sa.

Il 27 del sesto mere del quinto anno dell’era Jōhei (936), Yoshikane e Yoshimasa si ritrovano alla base di Mimori nella provincia di Hitachi, non lontana dal fiume Sakura. Non sono i soli a presentarsi: Sadamori arriva strascicando i piedi. Yoshikane lo accoglie a pesciate nel viso.

-Che cazzo hai combinato in questi mesi?- Pesciate grandinano da tutte le parti. –Tuo padre si fa sbusacchiare come un puntaspilli e te? L’onta va lavata col sangue!

-Ma il sangue macchia…

-Hai lasciato le palle alla Capitale?

-Ma zio, io non voglio menarmi con mio cugino, voglio solo sistemare questa storia in modo civile senza provocare altri inutili-

In modo civile!- Giù pesciate da orbi. –Che, sei fuori allenamento? Troppo tempo passato col muso nel culo del tuo patrono, e ora non sai più tenere in mano un cazzo di arco?

La sfuriata imperversa, ma il messaggio è chiaro: saper accettare un compromesso sarà anche una dote  alla Capitale, ma il Bandō è una terra di sangue e acciaio, e un uomo senza onore è un uomo senza nulla.

-Va bene, va bene.- Fa Sadamori. –Fanculo l’esser ragionevoli, facciamo ‘sta stronzata e mettiamo termine a tutta questa brutta storia. Tanto alla fine siamo in tre, lo Shōmonki dice che abbiamo “diverse migliaia” di guerrieri (iperbole sicura), mentre il cugino Masakado è solo, cosa mai può andare storto?

Yoshikane gongola. –Fidati di me, nipote! Adesso andiamo ad attaccare la sua base di Kawawa, ma facendo il giro da nord attraverso la provincia di Shimotsuke, così il fellone non ci sgama!

Lo fanno. Due giorni dopo sono alla frontiera di Shimōsa dove li aspetta Masakado.

-Oibò, ci ha sgamato.

-Non importa!- Fa Yoshimasa. –Guardateli! Sono un centinaio di arcieri su cavalli stanchi! Noi siamo in superiorità, li schiacciamo come zecche!

-Zio, ma sei sicuro, a non sembra-

-Taci nipote di poca fede! Questa vittoria è assicurata!

I cavalieri di Yoshikane e soci caricano come un sol uomo, imbaldanziti dall’evidente vantaggio. Alti sulle staffe, arco in pugno, sferragliano sicuri verso la linea nemica, una marea di pennacchi e acciaio. Arrivati a portata, incoccano. E’ l’ora della vendetta, della resa dei conti!

Da lontano Sadamori tira la manica dello zio.

-Senti, ma… non vedo i suoi uomini a piedi…

Uno schiocco dalla boscaglia, una salva di frecce investe nel fianco la cavalleria, falcia uomini e cavalli tra urla di sorpresa e dolore. Sono gli uomini a piedi di Masakado. Stavano aspettando la carica dei Dodo da ore.

Il tattico di Yoshikane al pezzo

Non essendo Jon Snow, Masakado ha scelto il terreno dello scontro e ha approfittato del vantaggio. I cavalieri di Yoshikane e Sadamori sono in scompiglio, la sorpresa ha troncato lo slancio e l’entusiasmo. Altre frecce piovono, feriscono, uccidono. C’è chi carica a capofitto e si fa crivellare dai cavalieri di Masakado, chi esita e si fa uccidere dagli uomini a piedi, chi viene disarcionato dal cavallo, chi scappa calpestando i feriti.

In meno di nulla, gli uomini di Yoshikane e Sadamori si sono rotti le corna. L’intera avanguardia è annientata. Zio e nipote si ritirano con le sottane in mano.

-Lo dicevo che era una cattiva idea!

-Zitto e cavalca! Vedi mica cosa sta facendo?

-Ci sta inseguendo al galoppo lanciato con una banda fresca e intatta.

Incalzato, Yoshikane si precipita verso la sede del governo provinciale di Shimotsuke. Si rifugia negli uffici, tra scartoffie e computisti perplessi. Masakado arriva sulla soglia, esita. Ammazzare suo zio per una faccenda privata è perfettamente ok, ma violare un edificio pubblico è un altro paio di maniche.

Può sembrare bizzarro, ma mentre il rogo di 500 fattorie è una faccenda tra gentiluomini, entrare in un ufficio senza essere invitati potrebbe essere interpretato come ribellione allo Stato, il peggiore dei reati. Senza funzione e senza vera protezione politica, Masakado preferisce giocare di prudenza.

-Ha intenzione di entrare e sgozzare i fuggiaschi?- L’uscere indica un cartello sulla porta. –L’omicidio è dal lunedì al giovedì dalle nove alle cinque. Se vuole mettere tutto a ferro e fuoco e dichiararsi Nuovo Imperatore, deve prendere appuntamento, riceviamo solo il venerdì mattina.

-No.- Fa Masakado. –Sono in tempo per inviare una lamentela ufficiale alla Corte? ‘Sti stronzi mi hanno rotto un sacco di frecce impalandocisi sopra.

-Sicuro. Vada allo sportello e richieda un Lasciapassare A38.

Mentre Masakado si sciroppa la burocrazia, Yoshikane e un migliaio dei suoi riescono a filarsela all’inglese.

La denuncia di Masakado arriva a Corte, insieme a quella di Mamoru. Non sapendo scegliere tra le due campane, la Corte decide di convocare il nostro eroe. E’ possibile che insieme alla convocazione ufficiale ne sia arrivata anche una ufficiosa del ministro Fujiwara no Tadahira, ex-patrono di Masakado e di professione Uomo Più Potente del Giappone.

Masakado parte in tromba e si precipita a Heian, dove viene affidato al Bureau di Polizia.

Per avere un’idea di come funzionava un processo ai tempi, il tutto cominciava di solito con una lettera di lagnanze.

Esempio: “Il signor T. Masakado ha ammazzato i miei tre figli”.

L’omicidio o la ribellione erano reati gravi che sorpassavano le competenze del governo provinciale, pertanto la denuncia poteva risalire fino al Consiglio di governo, che la esaminava e decideva se occuparsene o meno. In caso di risultato positivo, la delibera del Consiglio veniva sottomessa all’Imperatore per approvazione (un processo di solito pro-forma). Accusato e accusatore venivano quindi convocati alla Capitale, presi in custodia e interrogati, mentre la documentazione fornita dal governo provinciale dove il fatto era avvenuto era analizzata da un dottore in Legge.

Letti i documenti ufficiali e ascoltate tutte le campane, il dottore in Legge stabiliva chi aveva ragione, chi torto e quale punizione era applicabile a chi. Se la punizione prevedeva la pena di morte (quasi mai data durante l’epoca di Heian), la sentenza veniva sottoposta nuovamente al Consiglio, che la discuteva e, in caso, la presentava all’Imperatore per l’approvazione finale.

Tornando al nostro caso specifico, in teoria mettere in campo più di venti uomini senza un decreto imperiale costituisce, di per sé, un atto di ribellione. In pratica Masakado ha la testimonianza favorevole di numerosi funzionari provinciali. Plus, la Corte sta cercando di indorare l’immagine del giovane imperatore Suzaku con vistose prove di compassione e benevolenza. Se uno considera anche che i nobili hanno tendenza a sorridere ai vincitori, si può capire come Masakado non sia stato condannato.

Dopo quattro mesi di inchieste e discussioni, il nostro viene finalmente liberato. Felice come un francese che ha appena inventato un paio di calzoni auto-rimuoventi (cit.), Masakado se ne torna bel bello in provincia, pronto a mettere una pietra su tutta questa incresciosa vicenda.

Dal canto suo, Yoshikane era pronto a mettere una pietra su di lui. Quattro mesi dopo il ritorno del nipote, lo zio si rifà vivo in forze, e a questo giro non si fa sorprendere. Quando Masakado si rende conto di essere sotto attacco, Yoshikane è già schierato, e sui mantelletti ha fatto attaccare l’immagine del padre di Masakado, il defunto capofamiglia.

Facendosi scudo del faccione del morto, Yoshikane rivendica la legittimità del suo ruolo di nuovo capofamiglia, e mette Masakado in una posizione eticamente complessa: né lui né i suoi guerrieri possono portare le armi contro l’antenato, ne va della coesione della banda.

Mappa degli scontri. Con spoilers.

Colto alla sprovvista dal sotterfugio, Masakado viene sconfitto ed è costretto a ritirarsi mentre Yoshikane gli rende la pariglia devastando il distretto di Toyoda. Fattorie, stalle, orti, campi, frutteti: Yoshikane e i suoi saccheggiano, bruciano e uccidono.

10 giorni dopo Masakado prova a raccogliere le proprie forze. Riesce a mettere insieme qualche centinaio di armati, ma le grane volano sempre in squadriglie: prima di poter organizzare un contrattacco, Masakado viene colpito da una non meglio specificata “malattia alle gambe”.

E’ l’unica volta in cui questo problema di salute fa capolino nelle fonti, ergo non si tratta di certo di una malattia cronica. E’ possibile che Masakado sia rimasto ferito, ma l’interpretazione dominante pende per un attacco di beri-beri, una malattia causata dalla carenza di vitamina B1 e spesso rilevata in culture dove la base alimentare è costituita da riso bianco.

E’ un’ipotesi come un’altra, fatto sta che Masakado si trova di botto incapace di camminare, figuriamoci di cavalcare. Col capo incapacitato, la banda di Toyoda incassa una seconda sconfitta ed è costretta a fuggire.

Infermo, braccato, Masakado decide di separarsi da moglie e figli secondo l’idea “se scappiamo in due direzioni diverse almeno uno di noi due dovrebbe cavarsela”.

Quello che se la cava è Masakado: sposa e figli sono scovati dagli uomini di Yoshikane mentre si nascondono in una barca sul lago Hiroe. La donna e i bambini vengono trascinati in Kazusa.

Secondo lo Shōmonki, è questo il momento in cui Masakado cambia radicalmente ordine di idee. Se fino a quel momento è sempre rimasto disponibile, almeno in teoria, a un compromesso pacifico con lo zio, il rapimento della famiglia è la goccia che fa traboccare il vaso. Yoshikane deve pagare.

Ricordiamo che, secondo l’interpretazione dominante, la moglie era anche figlia di Yoshikane. Chissà di cosa avranno parlato, durante questa bella riunione familiare?

Una cosa è sicura: la signora di restare non ne vuol sapere. Per due mesi resta prigioniera in Kazusa. Alla fine i fratelli l’aiutano a scappare. Libera, questa donna senza nome torna dal marito.

E’ una delle cose affascinanti dello studio della Storia, il vuoto umano lasciato dalle fonti. Cosa pensavano questi tre fratelli che hanno lasciato andare la sorella, che l’hanno lasciata tornare dal più acerrimo nemico di famiglia? Cosa si sono detti? Perché lo hanno fatto?

Nessuno ce lo dice perché a nessuno interessa: sono guerrieri, non hanno scritto nulla per i posteri, e per i letterati sono poco più che barbari di cui non si può fare a meno.

Non sappiamo neanche quale Fato sia spettato ai figli di Masakado. Yoshikane potrebbe averli uccisi. O potrebbe averli tenuti presso di sé: in casi normali, i figli appartenevano più alla famiglia della madre che a quella del padre. Forse sono stati liberati anche loro. Sta di fatto che non li troviamo più nominati nelle fonti.

In ogni caso una cosa è chiara: la frattura non è riparabile. La lotta tra zio e nipote è ormai all’ultimo sangue.

MUSICA!

Prima puntata

Terza puntata

Quarta puntata

Quinta puntata

Interludio

Sesta puntata

Settima puntata


Bibliografia

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In lingua occidentale

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Catastrofi epiche: Gods of Egypt

Vi è mai capitato di andare a vedere un film noto per essere pessimo e di ritrovarvi, con incredula sorpresa, davanti a un prodotto più che dignitoso?

A me non è mai capitato.

Abbiate paura. Abbiate molta paura.

Questo film è un capolavoro assoluto e chi non la pensa così ha torto. E’ il Nirvana dell’orrido, il Santo Graal del trash!

E il fatto che in un film intitolato Gods of Egypt non ci sia nemmeno un attore egiziano non è che lo zucchero a velo su questa fenomenalenale torta di che cazzo sto guardando!

Immaginate che qualcuno abbia preso Lory del Santo (regista della celeberrima serie The Lady), le abbia dato 170 milioni di dollari e le abbia chiesto di realizzare i filmatini in Computer Grafica di un videogioco del 2004. Aggiungete Leonida di 300 e Jamie Lannister nei panni di Jamie Lannister. Metteteci Aladdin della Disney, ma togliete la scimmietta, così che il ladruncolo acrobata si ritrovi a parlare da solo come uno psicotico. Aggiungete una spolverata di humor anni ’80 stile episodio ciofeca di Friends. Dategli la trama di una puntata mediocre di Xena principessa guerriera.

Mixate tutto e… avrete comunque qualcosa di meglio di questo film.

Ammirate! Pensavate che Foodfight fosse il fondo del barile quanto a CG? SBAGLIAVATE!

La trama è quella del re leone: il fratello del re ammazza quest’ultimo ed esilia il nipote (legittimo erede). Costui deve ritrovare la propria forza per salvare il regno dal folle usurpatore, ma durante il suo viaggio scoprirà che il vero potere non viene da fuori, ma dal Quore. Jaimie Lannister salva tutti grazie al Potere dell’AmiciziaTM.

No, non sto scherzando.

In ciò ci sono sottotrame che da sole stordirebbero un elefante. Tipo Seth Butler che prende il potere con la stessa strategia di Lillard in In the name of the king di Uwe Ball, ovvero spaccia il sovrano durante la benedizione urbi et orbi e dice “bon, il tipo è morto, io sono il nuovo capoccia”.

Il primo provvedimento di Seth Butler, peraltro, consta nell’alzare la tariffa per l’ingresso al Paradiso.

No, non è per dire. L’ingresso al Paradiso si paga. In oro o altri beni. C’è una scena nell’Oltretomba, con la bilancia e tutto, dove i ricchi pagano ed entrano, e i poveri vengono distrutti.

Io mi chiedo, che contano di farci, gli dei, con i quattrini? Li investono? Li accumulano? Qual è il piano di sviluppo economico sul lungo periodo?

Seth ad esempio accumula oro in una piramide. Magari ci nuota dentro come un muscolacciuto e depilato Paperone. O magari vuole investire tutto in un’astronave (why does God need a starship? cit.)

Si capisce che parte almeno del malloppo è usata per costruire un’armatura. Ok, ma è una sola armatura. Una massa di oro pari al Titanic, tutta magicamente pigiata nella carrozzeria di un pandino? E se davvero avevi bisogno di tutto ‘sto oro, non potevi confiscarlo e basta? C’era bisogno di far girare la filiera dell’Oltretomba?

Insomma, tornando alla trama (termine usato qui nel senso più lato possibile), Seth Butler prende il potere con la stessa facilità con cui io prendo l’autobus, schiavizza tutti, frega la ragazza a Jamie Lannister (Hator la dea Vacca) ed esilia quest’ultimo. Dopodiché chiama John Murdoc e gli fa costruire una torre alta altissima. Visto come se l’è cavata nella città deglli Strangers, direi che Johnny è l’uomo giusto.

Tornando alle astronavi, Butler decide di andare a trovare suo padre, il dio Rah. Costui sta su una nave spaziale e non scende mai. La scena del loro incontro è pregnante, la luce è drammatica, le espressioni tese, tutto urla “sviluppo personaggi angst trauma!”

-Mi hai schiaffato in un deserto di merda dove non c’era un cazzo da fare a parte crossfit!- Si lagna Butler –Non mi hai mai voluto bene!

-Ma no che ti volevo bene.- Replica Rah –Vieni, guarda.

Un vermone cosmico della Madonna emerge dal buio. Rah gli tira una forchettata e il vermone se ne va.

-Vedi, questo vermone viene tutti i giorni per mangiare il mondo.- Spiega Rah. –E io tutti i giorni devo star qui su a fiocinarlo. E’ una vita di merda. Allora mi son detto, “ci vuole qualcuno che venga su a fare ‘sta vita di merda al posto mio”. Ti ho schiaffato nel deserto perché TU sei quello che intendo inchiodare qui in eterno, mentre tuo fratello se la spassa nella valle dei fiorellini. Vedi come ti voglio bene?

Seth acchiappa una seggiola e sfascia il vecchio di legnate. E fa bene.

Solo che Seth non ha fatto i conti con Aladdin!

Su terra il nostro ha una fidanzata con due tette gigantesche.

-Dobbiamo trovare il modo di rimettere al potere Jamie Lannister.- Fa lei. –Dovresti rischiare la vita per restituirgli gli occhi magici e quindi i poteri!

-Come fai a sapere che ha degli occhi magici a cui sono vincolati i poteri? Siamo due morti di fame, da dove ti viene ‘sta conoscienza sulla fisiologia divina?

-Ho due tettone giganti.

-Ok, vero. Però Jamie Lannister è un pirla, perché dovrei rischiar la pelle per lui?

-Ho due tettone giganti.

-Ok, vero.

I due rubano i piani segreti della piramide in cui sono gli occhi di Jamie (una roba che a confronto le trappole di Indiana Jones sembrano fedeli ricostruzioni storiche) e ne recuperano uno. Per vendetta, John Murdoc ammazza una delle tette. Dramma!

Insomma, Jamie, Aladdin e Hator si ritrovano in un avventuroso viaggio alla ricerca dell’altro occhio. Sì, perché in questo universo tutti gli dei hanno un pezzo di corpo magico da cui traggono tutto il loro potere, e se smonti i pezzi magici puoi fare una superarmatura spakkaculi fortissima.

Suona stupido da morire, e lo è. Ma a parte ciò, è realizzato malissimo. La natura degli dei non è mai spiegata, il che lascia lo spettatore perplesso davanti all’idea che tu li possa smontare e rimontare come pupazzetti lego. Vi ricordate come nel film del Signore degli Anelli (che peraltro a me nemmeno garba ‘sto granché) erano riusciti a rendere il carattere diverso di elfi, nani, hobbit e uomini così che, al di là delle apparenze, dal loro modo di parlare e pensare fossero chiare le differenze di razza e longevità?

Bene. Qui non c’è niente del genere.

Gli dei di questo film sono usciti dritti dal Jersey shore. L’unica differenza con gli umani è che sono più alti, e tendenzialmente più stupidi.

A sinistra, un personaggio divertente; a Destra, Jamie Lannister sogna la pensione.

Questo film è un DISASTRO. Nonostante sia una visione divertentissima e trash in modo delizioso, non riesco a immaginare a chi possa genuinamente piacere.  E’ stato fatto a pezzi dalla critica, e a ragione. Tutto trasuda schifo a livelli epici. Il tono, le scene, i personaggi, i dialoghi…

La cosa triste è che il regista si è sentito in dovere di andare su Facebook a lagnarsi di come i critici non capiscano la vera arte.

Un bello scivolone per Proyas. Come? Il suo nome non vi dice nulla?

E’ il regista di The Crow, e di Dark city.

Yup. La mente malvagia dietro questo armageddon cinematografico ci ha regalato un grandissimo cult e quello che dovrebbe essere un cult, Dark city, uno dei miei film preferiti in assoluto.

Iste mundus furibundus falsa prestat gaudia

Il cast  
La Computer Grafica  
La storia  
Aladdin  
Rah redivivo  
Ogni singolo dettaglio di questa boiata colossale
Il vermone  

 

Questo film è ancora più assurdo di Dungeons & Dragons. Trascende l’assurdo e diventa spettacolare!

Consigliatissimo anche per i non amanti di trash: è così stupido che chiunque può trovarci roba di cui ridere. E mal che vada, la ragazza di Aladdin ha delle tette grandi così.

E’ un film del’Asylum che ha un budget di 170 milioni di dollari! Chi non lo guarda è complice!

MUSICA!

Illustri sconosciuti: Taira no Masakado (1)

Ci sono momenti della Storia di un paese che segnano grandi cambiamenti e restano nella memoria come avvenimenti-cardine. E’ il caso, ad esempio, della Guerra di Genpei.

Ce ne sono altri che non spalancano le porte a una nuova era, ma sono molto indicativi del loro tempo. Spesso sono tralasciati, ed è uno sbaglio. Come spiega Gaston Bouthoul nel suo Polémologie, la guerra è il più evidente dei fenomeni sociali. Nella guerra tutto è condensato: economia, società, storia, religione, costume… Studiare in dettaglio una guerra è come fare un carotaggio di un dato strato storico.

Oggi vorrei parlare di un tizio che quasi nessuno si fila: Taira no Masakado.

E’ così poco filato che le pagine italiane lo nominano appena e in francese l’unico testo approfondito sul tizio (salvo sorprese) l’ho scritto io.

In inglese la situazione è migliore: il nostro amico viene nominato in numerosi libri e ha ben un (1) saggio tutto per sé. Il saggio è stato scritto da Karl Friday, che uno dei ricercatori più fighi di sempre, ma resta il fatto che il personaggio è quasi del tutto ignorato dalla storiografia occidentale.

E sinceramente non capisco perché. E’ un ganzo!

Ma andiamo con ordine.

Giusto per ricordare i due poli di Honshu: al Centro la corte, all’est i pascoli

La famiglia

come ogni buona storia di formazione che si rispetti, è importante cominciare dalla famiglia.

E’ il nono secolo quando il terzo figlio dell’Imperatore Kanmu (737-806) riceve dei pascoli in appannaggio. Sono terre nel Bandō, selvaggia terra di predoni e allevatori di cavalli.

Il Principe in questione era un pezzo grosso e, da buon pezzo grosso, non mise mai piede in nessuno dei suoi poderi.

Stesso non si può dire dei suoi discendenti: suo nipote Takamochi fu nominato vicegovernatore della provincia di Kazusa. E’ Takamochi a trapiantare il suo ramo dinastico nelle lontane terre orientali.

E’ importante fare due parentesi qui:

-Kazusa, come anche Hitachi e Kōzuke, è una provincia-beneficio. Il che significa che per legge i governatori di tali provincie sono sempre Principi Imperiali. Si tratta di una sine cura, dacché col cacchio che un Principe muove il culo fino alla provincia, e col cacchio che guasta il suo prezioso tempo in triviali faccende amministrative. Un Principe ha roba più importante da fare, tipo comporre versi, partecipare a rituali o gareggiare in agoni poetiche.

No, non sto scherzando, e non immaginatevi roba tipo Versailles, o una nobiltà indolente. Comporre poesia di buon livello è un incubo (l’unica cosa peggiore è tradurla). E ad ogni modo, dal punto di vista della classe dirigente dell’epoca, quanto elencato non era solo un passatempo elegante e pio, ma un’attività serissima volta a mantenere l’Impero in pace.

Sì, se non componi poesie decenti gli dei s’incazzano e ti nuclearizzano.

E non fate tanto gli spocchiosi, che noi ci siamo bevuti la favola della Mano Invisibile.

E’ difficile comporre poesie che giungano allo spirito

Seconda parentesi: come qualcuno potrà immaginare, avere una Corte di gente che non combina nulla di materialmente produttivo costa caro. Soprattutto quando la nascita di un individuo comporta automaticamente un certo rango, funzione e rendita.

Se i Principi devono ricevere certe risorse, allora, come far fronte al loro proliferare?
La soluzione è semplice: dopo un certo numero di generazioni, i principi vengono cancellati dai registri della casa regnante e viene assegnato loro un cognome (roba triviale da comuni mortali!). I Principi cessano così di essere tali e diventano Taira o Minamoto.

Takamochi è uno di questi “principi sprincipati”: riceve il nome Taira e viene spedito come vicegovernatore in Kazusa. Essendo questa una provincia-beneficio, la carica di vicegovernatore comporta, di fatto, la stessa autorità di una carica di governatore.

Trapiantato nelle lande orientali, Takamochi mette al mondo otto figli. I quattro che interessano a noi si chiamavano Yoshimochi, Kunika, Yoshikane e Yoshimasa.

Gli ultimi tre sposano le figlie di un notabile locale, un tipo chiamato Minamoto no Mamoru, funzionario di terza classe della provincia di Hitachi.

Per avere un’idea di dove stanno di casa i nostri amici. Yoshimasa non figura perché non sono riuscita a trovare l’esatta posizione della sua base principale. Molto probabilmente si trovava in Hitachi, assiama a quella di Mamoru e Kunika.

Ora, quando pensate a un “clan” di questo periodo, non figuratevi i legami stretti e gerarchici del periodo Sengoku o Edo. Siamo ne cuore di Heian, il legame tra genitori e figli è l’unico legame di sangue che conta. Quello fraterno ha una qualche importanza, senza troppo trasporto. Cugini? Ah!

I legami che avevano una solidità rimarcabile erano, per contro, quelli di matrimonio e l’alleanza personale tra gregario e capo.

Forse dipende dal fatto che i parenti stretti te li appioppa il karma, mentre quelli d’alleanza te li scegli, ma sta di fatto che queste parentele artificiali sono il cemento che regge la società di questa gentry provinciale. Sposandosi tutti con le figlie di un uomo solo, i tre fratelli entrano a far parte della sua famiglia.

Ora, questo può essere un problema quando il suocero si trova ai ferri corti con uno dei tuoi parenti. Un nipote, ad esempio.

Le disavventure tragicomiche dei grandi guerrieri del Bandō sono raccontate nello Shōmonki, un testo di poco successivo ai fatti.

Ma veniamo al nostro eroe: Masakado.

Masakado fa polpette di qualcuno, opera di Yoshitoshi Tsukioka

Figlio di Yoshimochi, non sappiamo di preciso quando è nato né quanti fratelli avesse o in che ordine, perché i guerrieri di questo periodo non scrivono, mortacci loro. Si ipotizza che il nostro sia nato nei primi anni del 900 e che abbia passato parte dell’infanzia o dell’adolescenza a Mutsu (suo padre sarebbe stato Chinjufu shōgun e governatore militare della regione, almeno per un periodo). Nel 935 Masakado è l’erede principale della cospicua fortuna di suo padre.

Masakado è un dogō, un ricco proprietario terriero, con basi fortificate in due distretti nella parte occidentale di Shimōsa.

Non pensate a fortini arroccati su perrupi: in quest’epoca una base è una fattoria fortificata con un muro di terra e tronchi, qualche torretta, eventualmente un fossato.

Quanto al nostro eroe, non immaginatevi un rude provinciale senza maniere. Masakado passa un periodo della sua giovinezza alla Capitale (a quest’epoca è Heian, ovvero l’attuale Kyōto), probabilmente al servizio del Fujiwara no Tadahira. Costui è un pezzo grosso, il capo dei Fujiwara, futuro Ministro degli Affari Supremi e, all’occorrenza, Uomo Più Potente del Giappone.

Non è inusuale per un alto aristocratico circondarsi di clienti (in senso romano) provenienti dalle provincie. Va bene che l’amministrazione è triviale, ma in qualche modo la roba deve arrivare alla Capitale, e cosa di meglio che dei rapporti personali con i barbari uomini di buonsenso basati sul posto? Di solito il patto tra aristocrazia centrale e aristocrazia provinciale è in questi termini: i provinciali mantengono l’ordine, fanno arrivare le vettovaglie e curano gli interessi del patrono, e il patrono protegge il cliente in caso di grane legali o politiche, fa in modo che sia nominato funzionario e che faccia carriera. Una mano lava l’altra, insomma.

Tuttavia, alla differenza di altri giovanotti nelle stesse condizioni, Masakado non ottiene mai nessuna funzione governativa. E’ possibile che la morte intempestiva del padre lo abbia privato degli agganci necessari a continuare un altrimenti decente carriera alla Capitale.

O magari non ha mai voluto far carriera, magari allevare cavalli era la sua grande vocazione (e siamo sinceri, vivere in un posto dove è ufficialmente vietato morire non è proprio facile).
Quale che sia la spiegazione, nel 930 Masakado torna in provincia, la Corte perde un tattico coi controcazzi e un uomo con poca intelligenza politica ma con capacità diplomatiche di tutto riguardo.

Ad ogni modo i guerrieri del Bandō hanno reputazione di esser gente litigiosa, e nel 931 il nostro eroe si trova già ai ferri corti.

Con chi?

Ma con lo zio, ovviamente, Yoshikane. Credete che la moda di odiarsi tra parenti stretti sia recente? Ah! Le vostre cene di Natale sono pinzillacchere! In tempi più civili zii e nipoti si scannavano mettendo a ferro e fuoco il vicinato, altro che commenti infidi e regali brutti!

Lo Shōmonki non scende nel dettaglio sugli hows, and the whys, and the do-you-mind-if-I-don’ts (cit.), ma ci dice che l’oggetto del contendere è “una donna”. Una delle interpretazioni dominanti è che la signorina in questione fosse la figlia di Yoshikane. La ragazza avrebbe sposato l’aitante Masakado senza l’approvazione del padre.

Ah, molto Shakespeariano, no?

Secondo il Konjaku monogatari shū la vera ragione sarebbe stata la robba (IE l’eredità del padre di Masakado), ma una cosa non esclude l’altra. Magari si erano scerrati per robba e per questo Yoshikane si opponeva all’unione.

Questa tensione non sfocia in bagno di sangue, il che è notevole, ma dopotutto pare proprio che Masakado sia stato un uomo posato e di buon senso, non uno che si divertiva ad attaccar briga. Ciò lo rende più unico che raro nel contesto.

L’inizio del cicciaio: l’agguato di Nomoto

Trattandosi del Bandō, la quiete non può durare troppo. Un bel giorno del 935 (o, per dirla alla giapponese, il quarto giorno del secondo mese del quinto anno dell’era Jōhei), Masakado e una nutrita banda di gregari e alleati sta attraversando a cavallo il territorio di Minamoto no Mamoru.

Non siamo sicuri del perché questi allegri compari si trovassero a spasso in Hitachi, ma sappiamo che sono tanti e sono armati. Non che la cosa si traduca automaticamente per intenzioni bellicose: a più riprese Masakado fa mostra di muscolo proprio per evitare un confronto.

Secondo Friday, tutto comincia quando Mamoru rompe i piatti con un tale Taira no Maki, un piccolo guerriero locale. Maki non ha nessuna parentela di sangue con Masakado, ma è un suo gregario.

Siamo agli albori della banda feudale: il rapporto tra capo e gregario è ancora molto reciproco ancorché asimmetrico. Un capo che molla un gregario nella merda non è un capo degno e può perdere ogni sostegno in meno di niente.

Incombe a Masakado farsi portavoce del suo uomo, e quale modo migliore per far valere i propri argomenti se un po’ di sana e genuina intimidazione?

Solo che Masakado non conta sulla paranoia dei Minamoto. Siccome c’è rischio di uno scontro armato, i figli di Mamoru optano per la strategia “fuori il dente, fuori il dolore” e assaltano Masakado nelle vicinanze del villaggio di Nomoto.

Brutta idea. Bruttissima idea.

A volte anche il più scanzonato degli omicidi può avere conseguenze impreviste…

I tre Minamoto non hanno pianificato ammodo la loro sorpresa, e si trovano a scoccare frecce controvento. Il che, col libbraggio ciofeca degli archi di questo periodo, è un grosso problema. Le frecce cadono a caso, picchiettano inoffensive sulle capocce del capetto Taira.

-I Minamoto.- Masakado strofina il pollice su un graffietto rimasto sulla carrozzeria dell’armatura. -Venivo proprio a cercar voi. Tempuccio oggi, vero?

-Vero.- Il maggiore dei fratelli sorride. -Abbiamo sentito dire che ti piacevano le sorprese…

-Oh, mi piacciono da morire.

Masakado e i suoi fanno a fettine i tre ragazzi Minamoto. Poi la loro bande. Poi si dicono “ormai abbiamo scaldato i cavalli, e la giornata è partita ad ogni modo, tanto vale continuare”.

I villaggi di Nomoto, Ōgushi, Ishida e Toriki sono messi a ferro e fuoco, i contadini massacrati, le donne stuprate, i campi distrutti, i villaggi obliterati. In un pomeriggio, una quindicina di chilometri quadrati di buona campagna sono rimodellati in una plaga di terra bruciata e ciccia per corvi.

Al villaggio di Ishida Masakado controlla le capocce mozzate.

-Toh, questa è di mio zio Kunika.

Kunika ha un figlio, Sadamori. Masakado lo conosce bene: hanno servito insieme alla Capitale. Solo che Masakado è tornato a casa a mani vuote, mentre quel damerino leccaculo sta facendo una bella carriera nell’Ufficio delle Scuderie.

-Dì…- Azzarda Maki -Quel tuo cugino alla Capitale… dici che si risente per questa faccenda che abbiamo ammazzato suo padre?

-Oh di sicuro.- Masakado ributta la capoccia di Kunika nel mucchio delle teste mozzate. Attorno a loro il villaggio arde, le donne urlano, i feriti sono trascinati fuori dalle baracche e sgozzati come agnelli. -Il lutto gli scombinerà il programma. Non puoi andare in ufficio se sei in lutto, i capi dicono che porti sfiga.

-Mi sembra un’idea cretina.

-Non sarebbe la prima idea cretina che hanno, alla Capitale.

-Allora che si fa?

Masakado fa un gesto vago. -Gli scriverò una lettera. Meglio che lo venga a sapere da me che non da qualche altro fesso che passa per caso.

-Che pensi di scrivergli?

-Oh, qualcosa tipo “Ciao cugino. Ho ucciso tuo padre. Mi spiace tanto, ma era al posto sbagliato al momento sbagliato. Potessi tornare indietro farei tutto diverso!”

-Davvero?

-No, non davvero razza di scimmia!- Masakado si arriccia un baffo. -Sai che pensavo… mio zio Yoshimasa non sta lontano da qui.

-Pensi che voglia vendicare suo fratello?

-Ah! Penso che è genero di Mamoru.- Fa un gesto verso quello che un tempo era un villaggio e che ormai è un girone infernale. -Questa è roba di Mamoru. Il che vuol dire che è della figlia di Mamoru. Il che vuol dire che è di mio zio. E ora che Kunika è morto è di mio zio a maggior ragione. E’ ovvio che cercherà di fare qualcosa di sconsiderato.

Masakado potrebbe tornare alla sua base e prepararsi a difendersi. Ma così facendo porterebbe il conflitto a casa. Inoltre, la sua banda è composta di gregari, ma anche di alleati (i banrui). Costoro seguono il capo per profitto o per timor, hanno poco da vincere e molto da perdere. Se Masakado mette fine alla spedizione e torna indietro, i banrui torneranno ai loro villaggi e il nostro perderà un sacco di prezioso manpower. Se vuole vincere contro Yoshimasa, deve restare sul campo.
C’è un problema però: Yoshimasa è un funzionario provinciale, e la pena per chi uccide un funzionario è, in teoria, la perdita di ogni diritto. Chi viene dichiarato Nemico dello Stato, non ha più nessuna protezione: chiunque può ucciderlo e pretendere una ricompensa.
Allo stesso tempo, la Corte è reticente ad applicare la legge in modo troppo severo. Fintanto che nessuno disturba i convogli di rifornimento, gli aristocratici tendono a catalogare i massacri nel Bandō sotto “so’ ragazzi”.

Masakado opta per una strategia di guerriglia e raid. Per otto lunghi mesi lui e i suoi allegri compari scorrazzano per Hitachi, costringendo suo zio Yoshimasa a corrergli dietro.

Questo ha un doppio beneficio: per un verso Yoshimasa è costretto a dissipare le proprie energie e sfiancare i propri partigiani, e allo stesso tempo non è in grado di andare in Shimōsa e spianare le basi di Masakado.

Masakado e un uomo a piedi, ricostruzione Osprey

Mentre questo teatrino si svolge tra pantani e foreste, la lettera di Masakado arriva alla Capitale, insieme a tante altre notizie per Sadamori: le sue terre sono state trasformate in cave di mota e gente bruciata, sua madre è rimasta barbona per la campagna, suo padre è morto e suo cugino sta seminando morte e distruzione col contagocce.

Senza por tempo in mezzo, il rampante burocrate ottiene un congedo (consegnatogli con le pinze e l’incoraggiamento “cavati subito di qui, te e la tua sfiga!”) e torna in tromba nel Bandō.

La situazione che trova è FUBAR.

Se Sadamori vuole avere una qualsivoglia chance di continuare una carriera decente, deve rimettere in sesto la propria base economica e ripartire il prima possibile. La prima cosa da fare è cercare la pace con suo cugino. Sadamori prende carta e pennello.

“Caro Masakado- scrive -Sono sicuro che avevi delle buon ragioni per uccidere mio padre. Sappi che non ho nessuna intenzione di vendicarmi, e se potessimo far pace di modo che io possa cavarmi il prima possibile da questo buco di merda tornare quanto prima alla capitale, credo che saremmo tutti e due più felici”.

Sigilla la lettera, la dà a un galoppino con la consegna “per mio cugino. Lo troverai probabilmente a sfilettare le truppe di mio zio in qualche posto strategicamente vantaggioso”.

La fine di Yoshimasa: la vittoria di Kawawa

Il 21 del decimo mese, Masakado si accampa senza troppa discrezione nei pressi del villaggio di Kawawa, nel distretto di Niihari.

Lieto di poter finalmente incastrare il nipote, Yoshimasa si affretta sul posto con tutta la precipitazione di un Dodo che vede per la prima volta una scialuppa portoghese e vuol fare amicizia.

E come il dodo, Yoshimasa ha una brutta sorpresa. Masakado non è scemo: lo sta aspettando.

Gli uomini di Yoshimasa si rompono le corna peggio degli egiziani nel Sinai. Secondo lo Shōmonki 60 dei guerrieri di Yoshimasa perdono la vita quella mattina d’autunno.

Può sembrare un numero ridotto, conto tenuto che nella sua vendetta Masakado ha distrutto 500 “focolai” (modo di contare i nuclei familiari), ma una sessantina di uomini costituiscono una ragguardevole banda di guerra. Con questa vittoria, Masakado ha annientato la banda personale di Yoshimasa.

Militarmente e politicamente parlando, Yoshimasa è finito. Sparisce dalle fonti e dalla scena, del tutto obliterato. Masakado ha ottenuto una vittoria totale.

Con l’autunno alle porte, il nostro ritorna a casa, pieno di bottino e gloria. Non solo ha protetto uno dei suoi gregari, non solo ha cancellato un fastidioso notabile rivale, ma ha anche fatto fuori due zii. Far fuori gli zii è sempre un gran piacere!

Sembra una storia a lieto fine (o forse no, dipende per chi fate il tifo), ma non è finita.

Come accennato nella sezione riguardante la famiglia, Masakado ha un altro zio. Un ultimo zio. E un cugino fellone.

Il grande casino nel Bandō è appena iniziato.

MUSICA!

Per chi volesse maggiori precisazioni sui guerrieri di questo periodo, rimando agli articoli sull’evoluzione del sistema militare e sulla banda di guerra.

Seconda puntata

Terza puntata

Quarta puntata

Quinta puntata

Interludio

Sesta puntata

Settima puntata
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YANASE Kiyoshi, YASHIRO Kazuo, MATSUBAYASHI Yasuaki, SHIDA Itaru, INUI Yoshihira, Shōmonki, Mutsu waki, Hōgen monogatari, Heiji monogatari, Shōgakukan, Tōkyō, 2002, p.7-130

FUJIWARA Tadahira, Teishin kōki (Notes journalières de l’ère Teishin), Iwanami shōten, Tōkyō, 1956

KAWAJIRI Akio, Shōmonki wo yomu (Lire le Shōmonki), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2009

KAWAJIRI Akio, Taira Masakado no ran (La révolte de Taira Masakado), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2007

KAWAJIRI Akio, Yuregoku kizoku shakai (Une société aristocratique tremblante), Shōgakukan, Tōkyō, 2008; L’ère des zuryō

KITAYAMA Shigeo, Ōchi seiji shiron (Essai historique sur la politique de la Cour), Iwanami shōten, Tōkyō, 1970

In lingua occidentale

HERAIL Francine, La Cour et l’administration du Japon à l’époque de Heian, Genève, DROZ, 2006

HERAIL Francine, La Cour du Japon à l’époque de Heian, Hacette, Paris, 1995

HERAIL Francine, Gouverneurs de provinces et guerriers dans Les Histoire qui sont maintenant du passé, Institut des Hautes Etudes Japonaises, Paris, 2004

HERAIL, Francine, Aide-mémoire pour servir à l’étude de l’Histoire du Japon des origines à 1854, lieu de publication inconnu, date de publication inconnue

HALL John Whitney , Government and Local Power in Japan, 500 to 1700, Center for Japanese Studies Univesity of Michigan, 1999,

RABINOVITCH Judith N., Shōmonki, The story of Masakado’s Rebellion, Tōkyō, Monumenta Nipponica, Sophia University, 1986

PIGGOT Joan R., YOSHIDA Sanae, Teishin kōki, what did a Heian Regent do?, East Asia Program, Cornell University, Itacha, New York, 2008

FRIDAY Karl, Hired swords, Stanford University press, Stanford, 1992

FRIDAY Karl, The first samurai, John Wiley & Sons, Hoboken, 2008

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FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Harvard University Press, Cambridge

BRYANT Anthony et MCBRIDE Angus, Early samurai, AD200-1500, n.35, Osprey publishing, Oxford, 1991

PIGEOT Jacqueline, Femmes galantes et femmes artistes dans le Japon ancien, Gallimard, 2003, Paris

Archeologia sperimentale e ardimento: la Nave Drago di re Harald

Haugesund è un cittadina in Norvegia. Non molto grande, non molto piccola, un trentamillaio circa di abitanti, affacciata sullo stretto di Karsmund nel Rogaland.

Niente di che come posto, non fosse che qui, nel marzo del 2010, seguendo il sogno dell’imprenditore Sigurd Aase, parte uno dei progetti più fighi di sempre: la costruzione di un drakkar oceanico!

Gatti vichinghi. Le corna sono photoshoppate: i veri gatti vichinghi non hanno corna sull’elmo.

Senza entrare nel dettaglio della storia e della struttura delle navi scandinave (materiale che richiede almeno un articolo completo), “drakkar” è un termine generico per “nave scandinava”. Data la propensione marittima e perniciosa della gente del nord, possiamo capire come queste navi siano state oggetto di ricerca e studi.

Un esempio archeologico straordinario è dato dalle celeberrime e spettacolari navi conservate a Oslo: l’elegante esemplare di Oseberg, la spartana di Gokstad e la tenace di Tune.

La seconda è sempre stata la mia preferita. Lunga 23 metri e larga 5 e spicci, questa bellezza era una cacciatrice, sulla pista di pesca, guerra e saccheggio. Ma poteva attraversare l’oceano?

La nave di Gokstad in tutta la sua famelica bellezza

La grande nave di Haugesund, costruita in solida quercia (sì, le navi erano di quercia, non d’abete come vorrebbero farci credere quei mentecatti di History Channel mortacci loro!), supera in taglia della Gokstad, con 35 metri di lunghezza, un albero di 8 metri e una capacità di carico di 95 tonnellate. Il nome di questa belva è Draken Harald Hårfagre, in memoria di Harald Bellachioma, noto per essere stato il primo re di Norvegia e per essere morto pluriottantenne nel suo letto (un’impresa che non tutti i capi scandinavi potevano vantare, nel X° secolo).

La Draken Harald Hårfagre e la sua vela di seta

Il nuovo drakkar può mettere ai remi 50 persone, proprio come le navi che, di media, componevano la flotta da guerra norvegese dopo che un sistema di leva marittima fu implementato verso la metà del X° secolo.

Tutto molto bello, ma un esperimento non è niente senza una metodologia precisa (capito Thomas Morton?). Come è nata ? Non abbiamo manuali sulla costruzione di navi. Abbiamo dei reperti archeologici, ma a parte i tre tesori al museo navale, si tratta di frammenti incompleti.

Quella che però abbiamo è una tradizione vivente di costruttori di barche. Nonostante ci siano ovvie differenze tra le barche costruite oggi da costoro e quelle che hanno raggiunto la Groenlandia, molte delle tecniche usate sono rimaste più o meno inalterate. In particolare, la caratteristica principale delle barche moderne e di quelle antiche è la tecnica con cui sono state costruite, un sistema detto “clinker“, in cui le assi della chiglia si sovrappongono l’una sull’altra come le tegole di un tetto.
voilà! Dopo due anni di lavoro la Draken Harald Hårfagre è pronta a solcare il mare e perpetrare la tradizione di archeologia sperimentale norvegese (tra cui citiamo uno deglii uomini più ganzi di sempre, quel matto di Thor Heyerdahl).

Sigurd Aase sorride perché ha investito i suoi soldi in trappole mortali per solcare i mari in nome della ricerca storica. Sii intelligente, fai come Sigurd Aase.

E’ importante notare che la Draken Harald Hårfagre non è una ricostruzione. Ci sono state ricostruzioni fedeli di reperti, nel passato, come la danese Stallone del Mare(la Havhingsten fra Glendalough), che ricrea una delle navi di Skuldelev, sito irlandese. La Havhingsten è un mirabile esempio di archeologia sperimentale, ma non è abbastanza sicura da prendere il mare (oggi è considerato come socialmente inappropriato quando ti affoga la ciurma in piena traversata).

La Havhingsten alla carica!

La nave norvegese, per contro, è equipaggiata con strumenti moderni, in caso di necessità.
La Draken Harald Hårfagre è finalmente messa in acqua nel 2012. La prima parte (il vascello) è a posto, manca il resto (la ciurma). Fino al 2012 nessuno, nemmeno quel matto di Thor Heyerdahl, aveva provato a manovrare una nave di questo tipo e di queste dimensioni. I partecipanti hanno quindi dovuto imparare a remare, far vela, manovrare. Per due anni la nave ha quindi costeggiato le spiagge norvegesi, mentre i suoi marinai prendevan la mano.

La ciurma, sotto il comando del Capitano Ahlander, conta 32 persone tra uomini e donne. Metà di costoro sono marinai collaudati, l’altra metà è composta da volontari (molti di quali studenti universitari e ricercatori, noti per l’eccellente forma fisica e le prodezze atletiche).

La nave non ha un “sottocoperta”: lo spazio sotto il ponte è così scarso che a stento basta per le provviste. Una tenda permette ai partecipanti di riposare al riparo, più o meno. Può ospitare 16 persone e i turni sono precisi: 4 ore di lavoro, 4 ore di riposo.

Una confortevole crociera sull’Oceano! (foto dalla Pagina Facebooc dell’impresa, vedi Bibliografia)

Nel 2014 la Draken Harald Hårfagre ha finalmente avuto il suo primo battesimo oceanico, con una traversata da Haugesund a Liverpool (Merseyside per la precisione).

Immagino il drakkar arrivare sulle onde, scudi alle fiancate, manco a dire “oh, hey, vi siamo mancati?”.

Il viaggio non è stato facile: i prodi marinai sono stati per mare per circa 3 settimane, in un tempo di merda. Nei pressi delle Shetland una bufera spezza l’albero come un grissino e lo schianta sul ponte.

I nostri decidono che forse è meglio avviare il motore: va bene l’archeologia sperimentale, ma se non sopravvivi per raccontare l’esperienza, l’intera faccenda è inutile.

Dal 17 luglio al 5 agosto 2014, la Draken Harald Hårfagre resta in porto. Quando riparte, gli indigeni sono, per la prima volta, tristi di vederla andar via. Ah, come cambiano i tempi!

Sul serio, se lo sarebbe immaginato un sassone che un giorno una nave vichinga sarebbe stata salutata con “so fare thee well my, own true love“?
La nave riparte sulle note della triste canzone The leaving of Liverpool, e via, per nuove avventure! E’ ora di tornare sui luoghi tanto visitati dai simpatici antenati: l’isola di Man, le Orkneys, le Shetland e le Ebridi. Prima di lasciare il porto di Stornoway, il Capitano assicura ai giornalisti che i vichinghi “hanno preso quest’isola un tempo, e noi torneremo!”
No so gli scozzesi, ma io comincerei a preoccuparmi.

Il 23 aprile del 2016, i prodi marinai della si sono riuniti di nuovo per la cerimonia della Testa di Drago, ovvero la cerimonia in cui la testa mitologica veniva montata sulla prua della nave (sì, le “teste” iconiche delle navi vichinghe non erano fisse, ma venivano montate in caso di lungo e periglioso viaggio).

Il drago apre gli occhi! (foto dalla Pagina Facebook, vedi Bibliografia)

Il 26 la Draken Harald Hårfagre è partita verso l’Ovest!

Quasi subito, una delle sartie si spezza. La nave ripara nelle Shetland, per rinforzare l’attrezzatura.

Il 2 maggio i nostri sono a Torshavn, nelle Isole Faroe. La traversata dalle Shetland non è stata facile, con onde alte e vento forte. La nave ha tenuto, ma la ciurma è esausta. Il Capitano ha deciso di fare una pausa ed evitare di ritrovarsi in mezzo a una bufera, in alto mare, con una ciurma di gente scoppiata.

La rotta per l’Islanda (foto dal sito dell’impresa, vedi Bibliografia)

Il viaggio è di nuovo in corso in questo momento e la nave si trova sulla via per l’Islanda (potete seguire lo spostamento sul loro sito).

Addio alle Faroe (foto dalla Pagina Facebook, vedi Bibliografia)

Questa impresa non solo ci permette di studiare da vicino lo svolgimento di un viaggio del genere, ma pompa linfa vitale nella ricerca storica di un periodo difficile da esplorare. Tutti coloro che hanno preso parte a questo bellissimo progetto hanno la mia più sincera stima.

Vi invito a seguire le vicende della nave da vicino.

Questo è tutto e TO GLORY AND VALHALLA!

MUSICA!
(Then place me on a ship of OAK, History Channel, QUERCIA!)

BTW, se qualcuno si stesse chiedendo “perché non Tyr, hanno un album su Eric il Rosso, ci stava a ciccio di sedano, la ragione è: da quando li ho visti live mi stanno sul cazzo da morì. E sì, la loro musica mi garbava anche.


Bibliografia

Il sito ufficiale dell’impresa

Un ritratto dettagliato della nave

L’arrivo in Merseyside

La partenza da Merseyside

La nave a Stornoway

L’arrivo nelle Faroe

La cerimonia della testa di Drago

La pagina Facebook della nave

Il canale YouTube dell’impresa

La pagina wiki della nave

Il sito informativo di Avaldsnes

Sulla tecnica del clinking

Sulla tradizione di fabbricazione di barche in Norvegia

Il museo danese dove si trova la Stallone del mare

Il museo delle navi vichinghe di Oslo

Vita da Campo: Somme 2016

La mattina è umida e nuvolosa. Al primo passo fuori dalla tenda, sprofondo nella mota gelata fino al ginocchio. Ha piovuto tutta la notte, mannaggia al demonio.

E’ il primo “campo-off” a cui partecipo. Niente pubblico, siamo solo noi, una federazione di gruppi , a manovrare in un campo in mezzo al niente. Una bella idea e una bella attività, se il tempo non ci odiasse.

Zampetto verso il fuoco, gli stivali già pieni di fango. Siamo nel dipartimento della Somme, se la giornata gira male possiamo sempre lasciar perdere le armature e ricreare qualcosa dal corposo catalogo “Giornatacce autunno/inverno 1916”.

Il campo inizia con con calma, con un piccolo atelier per quelli che vogliono imparare ad accendere il fuoco con acciarino ed esca. Ha l’aria divertente! E la figlia dodicenne del capo ci riesce, quindi io, dall’alto dei miei 28 anni, dovrei arrivarci in un battibaleno. Che sarà mai? Di certo tutte quelle ore passate a guardare Dual survival saranno servite a qualcosa!

Sono servite a farmi capire che se mai mi troverò spiaggiata in culo ai lupi, morirò di ipotermia.

PUTTANA L’EVA DELLA MAJALA ‘NGRIFATA TRAVESTITA DA PIRATA! (foto di Natalja, link a fine articolo)

Mi applico, picchio il pezzo di metallo sul selce, nemmeno una scintilla. Il motto della mia famiglia è Uccidere morendo, quindi insisto. Dopo la prima ora ho perso la pelle delle nocche e pezzetti di ciccia, il sangue comincia a colarmi tra le dita.

Dopo un altro po’ non ho tirato su una scintilla, ma il capo ora si trova un bellissimo set di selci arrotondati che manco ciottoli di fiume. Alla fine di un week-end di freefight vichingo le uniche ferite che avrò saranno quelle che mi sono fatta da sola prendendo a nocchini un sasso, evviva!

Alla fine la bimba mi toglie l’acciarino di mano. La scusa è che sua sorella vuole provare, la verità è che vuole evitare che finisca di snudarmi le ossa delle falangi. Mollo i balocchi alla terzogenita del capo, una ragazzina di sette anni appena. Mi allontano alla svelta: so già in due graziosi colpetti lo scricciolo appiccherà fuoco alla legna fradicia e voglio tenermi un pochino di autostima per il resto della giornata.

Dietro le tende, gli uomini sono in cerchio, uno di loro al centro con un berretto in testa e nella mano un sacco legato a una corda.

Il gioco è tanto semplice quanto divertente: strappargli il berretto di testa senza prenderti saccate nel muso. All’occorrenza, il sacco è pieno di paglia, ma già gli astanti discutono sulla possibilità di alzare la posta. Un sacchetto i sabbia, magari? O qualche sasso… O magari dei chiodi arrugginiti! Ok, però c’è un problema: se metti roba pesa nel sacco è vero che puoi spaccare la faccia a qualcuno, ma devi considerare gli effetti collaterali, tipo che il tizio nel mezzo potrebbe affaticarsi il braccino.

Non sarebbe più ganzo con un sacco pieno di ghiaia? Ti muscoli anche la spalla! 

(foto di Natalja, link a fine articolo)

Quando ci chiamano al rancio, la pioggia ricomincia. Aumenta. Inizia a grandinare. Il panno del padiglione comincia a incurvarsi, carico d’acqua. Il capo fa cenno verso l’estremità della tavola.

-Siete troppo vicini al bordo, vuotatelo o scansatevi.

Nessuno gli dà corda, stiamo mangiando un delizioso rancio di grano, pollo e cipolle, il mondo al di fuori delle nostre scodelle non esiste nemmeno.

Finché un colpo di vento non scuote il padiglione. Ulf è in piedi a capo del tavolo, tende una mano verso il mestolo per rabboccarsi la ciotola. Sulla testa gli cade un gavettone da quaranta litri che lo pianta in terra tipo piolo e lo zuppa come una spugna. Io lo guardo mentre affoga e penso ai romanzi di Licia Troisi, con Nihal sconvolta perché all’accademia militare si addestrano anche mentre piove. A volte mi dico che gli scrittori fantasy dovrebbero essere obbligati a un campo storico, per legge.

Il pomeriggio è dedicato alle manovre. La mia armatura è bellissima, luccicosissima e fuorissimo di almeno un secolo rispetto al periodo storico della compagnia, ma sticazzi, finché lo spiego al pubblico la mia coscienza è (quasi) a posto.

Cominciamo con roba semplice. Muro, avanti, dietro, carica, dietrofront… Non ho memorizzato gli ordini e faccio un po’ fatica a seguire.

Plus, il mio scudo è la metà di quello degli altri. Siccome sono gente antipatica, non lo chiamano nemmeno scudo, lo chiamano “targa” direttamente. Sono un sacco simpatici quando fanno così.

I postulanti tengono botta bene, ma verso la fine puoi leggergli la sofferenza in faccia. Uno scudo non sembra tanto pesante, i primi cinque minuti che lo tieni in mano.

Una bella linea ordinata (foto di Natalja, link a fine articolo)

Finite le manovre, ci mettiamo a menare sul serio. E’ il mio momento preferito, anche se mi ammazzano subito.

Niente duelli, solo combattimenti di gruppo. Alle volte va benone, alle volte una delle due linee si disfa come burro, e allora le botte ti grandinano addosso da tutte le parti. E’ sempre buffo sentire un capoccia che urla “tenete la linea” quando tutti sono mischiati a cane sciolto. Dio, ai tempi saremmo morti così alla svelta!

La mia schiena comincia a farsi sentire, ma resisto. Ci raggruppiamo, carichiamo di nuovo. L’altra squadra rompe il nostro muro, mi arriva un fendente preciso sulla capoccia. Non so chi me lo abbia tirato, ma la botta mi rincalcagna la testa nelle spalle, le orecchie mi rimbombano. Tu ma’ majala!

Ci raggruppiamo di nuovo. La testa mi pulsa, gli occhi mi fanno male. Niente di grave, ho picchiato capocciate peggiori, ma m’irrita il fatto di aver lasciato la mia zucca esposta.

Verrà un giorno in cui avrò avuto l’agio di prepararmi ammodo e in cui sarò scattante come… boh, come qualcosa di animato, invece che come il mio solito “sacco di cemento dimenticato”.

Alla fine ci ritiriamo un po’ pesti ma soddisfatti. E’ tardo pomeriggio, tempo di far qualche passo di ripetizione, di discorrere di quanto la lamellare in cuoio sia pratica ma mai documentata in nessuna fonte esistente, di fare incetta di calzini asciutti.

L’aria si raffredda alla svelta man mano che il sole cala. Le ragazze ricamano e tessono, l’Aldegarda affetta la carne per lo stracotto di stasera. Io mi cavo gli stivali dopo solo venti minuti di erculei sforzi. Il cuoio è fradicio, ho i piedi come prugne. So di avere dei calzini di ricambio da qualche parte, ma so anche che nel casino della nostra tenda sarà impossibile trovarli. Ci rinuncio, prendo gli scarponi dell’esercito, tanto al buio non si notano.

Acqua a catinelle. Ogni. Singolo. Campo.

C’è chi viene per le botte, chi per la Storia, chi per la compagnia, ma di ripiego tutti siam qui per la cucina dell’Aldegarda. La marmitta di stracotto evapora in meno di quindici minuti cronometrati. Purtroppo non ce n’è abbastanza per una terza portata, e il dolore è tale che non abbiamo altra scelta che annegare il dispiacere nell’alcol.

La sera accanto al fuoco è uno dei momenti migliori del campo. Il freddo è carogna, ma bruciamo ciocchi enormi da un giorno e mezzo ormai, la buca vomita un calore da bolgia dantesca.

Metà della gente che è pigiata accanto a me non la conosco, è da troppo tempo che partecipo poco o pochissimo alla vita dell’associazione. Cerco di ricordare facce e nomi e socializzare, qualcosa che mi riesce ancora meno che menar le mani o accendere il fuoco con un cazzo di acciarino.

Per fortuna restano sempre alcol e canzonacce oscene.

Il gruppo intona qualche delicato stornello francese, quando il Fortunato crolla a una spanna dalla fornace. Lo tirano su. Il tizio è chiucco cotto. Lo spingiamo su uno sgabello. Dove eravamo rimasti?

Ah sì, han fatto più battaglie le tue mutandine che tutti i giapponesi alle Filippine, giusto…

Il coro riprende, verte per qualche strana ragione sulle canzoni Disney. Perché la cosa più logica dopo le chiappe della pastora è I’ll make a man out of you. Non che mi lamenti, ma ho un nutrito repertorio di canti osceni in latino, e non ho mai occasione di cantarlo con qualcuno!

Oh, mio padre li conosce, ma se provo a cantarli quando sono a casa dei miei mia mamma mi lava la bocca col sapone. Ha fatto il classico.

Quando pare che anche il repertorio Disney sia esaurito, un movimento alla mia destra. Il Fortunato crolla di nuovo sulla buca. Per essere uno dei nostri migliori combattenti, ha davvero un equilibrio di merda stasera. Gli astanti lo acchiappano per la tunica prima che finisca in barbecue. Il capo s’incazza come una iena.

Mobbastaveramenteperò! Pintatelo fuori dal foco, che se si rosticcia è colpa mia!

Il Fortunato viene spintonato nelle tenebre, a riflettere sull’Assenzio e sul baricentro del corpo umano.

La bottiglia verde continua a girare. Non sono una grande fan di Assenzio, prenderei un Famous Grouse a mani basse se ci fosse, ma non sono neanche tipo da lamentarsi quando mi danno da bere gratis. E poi mi servirà: nella tenda sta crescendo il muschio.

Una delle nuove reclute è Melissa, una ragazza simpaticissima. Stiamo parlando di linguistica e università quando un’ombra si profila nel buio. E’ di nuovo il Fortunato. Lo vediamo arrivare come una valanga. A un passo dal cerchio, ha uno scatto da giaguaro.

WHAM.

Testa per prima diritta nel girone infernale.

-Merda!

Lo tiriamo fuori dal culo di Belzebù. La sua faccia è nera. Qualcuno gli passa le mani sul viso, la fuliggine vien via. Ha ancora gli occhi e ha ancora i capelli, ma sulla fronte, la guancia e il naso restano croste nere. La pelle è cotta e croccante. Evviva, è riuscito a battere Bjorn nel primato di ubriachezza suicida!

Lo prendiamo in due io e il Franco, lo trasciniamo via.

-Ora di andare a nanna.

Non ne vuole sapere. Si allontana a bordo campo per pisciare. Giuro che se casca sul filo spinato lo lasci lì. Quando torna indietro zigzaga abbelva.

-Ok, è fatta.- Lo trasciniamo alla tenda. -Ora di dormire.

-Nono.- Punta i piedi. Non fosse che fa il doppio di me, lo pigerei dentro a pedate. -Non ssssono briaho…

-No, infatti.- Sfodero un sorriso a trentadue denti. -Lo sappiamo. Infatti ti devi riposare.

-Naaah. Non voglio perghé brinda la supercazzola con scappellamento a destra…

Mi spiega perché sta benissimo e vuole restare con noi. Sarebbe interessante non fosse che non c’è nessun nesso logico tra parole (o, a tratti, tra sillabe). Resto lì a sentirlo, annuendo col mio sorrisone.

-Ma certo. Appunto. Esatto! E’ proprio come dici tu, devi sederti un po’ per tornare dopo. Proprio. Per l’appunto, ti stendi e ti riprendi.

Riusciamo a pigiarlo in terra sulla soglia. Esito. Non ha una coperta o, se ce l’ha, l’ha persa nel bailamme. Gli butto addosso il mio mantello prima di chiudere la tenda. Checazzo.

Non è una buona idea. Quando vado a dormire, il freddo è feroce. Provo a coprirmi con le pelli, ma non basta. Mi sveglio a metà della notte che batto i denti e tremo come un tossico in astinenza. Al diavolo. Dopo un po’ il Fortunato ci sveglia di nuovo calpestandoci tutti. Perché avendo la scelta tra l’uscita lì accanto e quella all’altro capo della tenda, ha beccato la più pratica. Yay.

Il campo in un raro momento di sole

(foto di Natalja, link a fine articolo)

Il giorno dopo mi pare di avere il cervello in acqua, ma per lo meno non mi son presa malanni. Elge sta messo peggio di me: non è riuscito a ritrovare la sua coperta e non ha osato disturbare i compagni di tenda. La sua cortesia gli è costata cara. E’ rimasto sveglio accanto al fuoco tutta la notte e si è buscato una marmotta coi fiocchi. Non può inghiottire nemmeno l’acqua.

Mentre discutiamo su cosa fare nel caso il Fortunato emerga dalla tenda senza più la faccia, la sua capoccia bruciacchiata fa capolino. Ha due brutte ustioni sul viso, ma niente pus o carne esposta. Ha avuto fortuna, poteva rimetterci un occhio o lo scalpo. Il capo gli fa un cazziatone selvaggio. Il Fortunato ha la decenza di apparire contrito. Spero gli sia di lezione, o la prossima volta lo ritroviamo la mattina addormentato nella brace. Che a quel punto non lo ripeschi nemmeno, lo giri e fai cuocere l’altro lato.

Le manovre riprendono sonnacchiose e stanche. Ho la schiena a pezzi. Meglio tenersi sulla dane axe per oggi. Sarebbe una soluzione ottima, non fosse che i tizi in prima linea sono tutti più alti di me e io non ci vedo una ceppa di niente.

Una linea diversamente ordinata. Sulla destra, io zampetto cercando di ricordare quali elmi devo martellare e quali no

(foto di Natalja, link a fine articolo)

Oggi il capoccia decide di andar giù un po’ più pesante sui postulanti. Mette tutte le armi in asta davanti al muro e giù di affondi negli scudi con l’ordine “soprattutto non fate regali ai nuovi”. Vedo Melissa soffrire. Le va bene che son cotta come un befanino, sennò sai che botte su quello scudo!

Al secondo passaggio mi rendo conto che scegliere un’arma in asta è stata proprio una buona idea: l’esercizio consiste nel rannicchiarsi sotto lo scudo mentre il resto della compagnia ti cammina addosso. Dopotutto può capitare, se cadi durante una mischia. Guardo allibita mentre il capo marcia sulla gente con la massa di una montagna. Con mia grande sorpresa, sono tutti in grado di camminare alla fine dell’esercizio. L’essere umano è un animale straordinario.

Evito la mischia a questo giro. Va bene far contenta la mia osteopata, ma non bisogna esagerare, che poi la vizio.

Mi siedo accanto al fuoco. Non so quanto tempo ancora potrò giocare al guerriero vichingo, la mia schiena peggiora sempre un pochino. Ho deciso che il giorno che non potrò più portare le armi mi metterò a cucire e scassare i coglioni al mondo intero su fonti e storicità della tenuta. Tanto la mia lamellare futurista sarà a casa a prender polvere. Aha!

E’ stato un buon campo, nonostante il freddo e l’acqua e la grandine. Mi sono fatta male il giusto, non troppo da preoccuparmi, ma non troppo poco (mi sembra sempre di aver partecipato a metà quando rientro senza nemmeno un livido).

Bisogna davvero che vada a più campi di questo tipo. E bisogna che finisca il mio mantello imbottito. Che sia novembre o il quindici di luglio, la solfa è sempre la stessa: acqua, e un freddo assassino.

MUSICA!

Fotografia: Natalja Photography

Serio e faceto: The revenant & Deadpool

Pasqua è trascorsa e io ho sempre meno fede negli esseri umani. Ergo questa settimana, invece di parlare di sanguinosi scontri che i protagonisti potevano probabilmente evitare con un minimo di pianificazione e buonsenso, mi butterò su un argomento più leggero: il cinema!

The revenant

 

Hugh Glass è una guida per un gruppo di cacciatori di pelli. Quando dei nativi li attaccano, è Glass che deve portare i suoi in salvo attraverso le montagne, lontani dal fiume Missouri e verso lo Yellowstone.

Purtroppo per tutti, Glass è aggredito da un orso e malamente masticato, tanto da non essere più in grado di camminare. Non potendo portarsi dietro un ferito in barella, il capo della spedizione decide a malincuore di lasciarlo indietro, insieme a un paio di compagni. La loro missione è accudire Glass fino a che non sarà defunto (nessuno crede troppo in una guarigione) per poi seppellirlo. Si offrono tale Fitzgerald, il giovane Bridger e il figlio di Glass, Hawke.

Restare fermi in un posto solo, però, è pericoloso, e Fitzgerald non ha nessuna intenzione di rischiare la pelle per un moribondo. Dopo aver assassinato il figlio di Glass, il tipo convince Bridger che un gruppo di indiani si sta dirigendo verso di loro, e i due abbandonano il ferito nella sua stessa fossa, senza armi e senza aiuto.

Solo con le proprie ossa rotte, in mezzo alla foresta innevata, Glass deve trovare il modo di sopravvivere, tornare dai suoi e vendicarsi.

Il film si ispira a una storia vera. Hugh Glass è esistito davvero, era davvero un cacciatore nella lontana terra di frontiera e prese parte alla spedizione di Ashley lungo il fiume Missouri. Nel 1823 lui e gli altri degli Ashley’s hundreds furono davvero attaccati da degli indiani Arikara e poso dopo Glass fu davvero aggredito da un orso e masticato così male da lasciar le costole esposte.

La storia non è verificabile al di là di ogni dubbio, ma pare che in effetti Glass sia stato lasciato con un tale Fitzgerald e un ragazzo (probabilmente Bridger), incaricati di accudirlo. Davvero questo Fitzgerald avrebbe convinto il ragazzo ad abbandonare il ferito e avrebbe lasciato Glass ai corvi dopo avergli fregato il fucile.

Dopo 6 settimane nella foresta, Glass riuscì a trascinarsi fino a un avamposto. Rimessosi in piedi, il nostro partì alla ricerca dei suoi ex-compagni per esporre loro i suoi sentimenti riguardo all’intera vicenda. O per staccar loro la testa, una delle due.

Nella realtà, Glass dovette rinunciare alla vendetta. Bridger era un ragazzino ai tempi e il nostro decise di perdonarlo. Quanto a Fitzgerald, quando lo trovò questo si era arruolato nell’esercito statunitense, e uccidere un soldato era una faccenda poco igienica.

Il film non segue la storia vera alla lettera, aggiungendo sottotrame come quella del figlio di Glass o la ricerca del capo indiano. Rispetto ad altri film del tipo “ispirato a una storia vera” resta comunque molto vicino alla fonte.

“Ricapitoliamo: lo mangia un orso, precipita da un perrupo, atterra su un formicaio, mentre cerca di trascinarsi via una freccia lo centra senza ucciderlo, e alla freccia ci trova legata una bolletta del gas…”

La trama è molto semplice, come semplice è la vicenda a cui si ispira. Iñárritu non risparmia nulla al suo protagonista, che appare minuscolo in una Natura sterminata e indifferente. Il paesaggio ha un ruolo centrale, con lunghe riprese e momenti di apparente immobilità. Più il film procede, più si ha l’impressione che le vere protagoniste siano le montagne, un regno di neve e lento ritmo stagionale in cui gli uomini si agitano e si scannano per ragioni più o meno gratuite.

Passaggi onirici si alternano con momenti molto realistici, aumentando il senso di solitudine e smarrimento.

La lentezza del ritmo è spezzata da scene di lotta cruente e rapide. In particolare l’ultima rissa riesce a essere sanguinosa e cruda come poche, senza mai apparire esagerata o “hollywoodiana”.

Ma di cosa parla davvero il film?

The revenant non spiattella il proprio messaggio e alla fine lascia la conclusione aperta a interpretazione.
Il tema portante pare venato da un forte nichilismo. Che tu sia un brav’uomo o un criminale, che tu persegua la vendetta o che tu rinunci, niente cambia. Sei solo, in un mondo selvaggio in cui la tua vita può finire da un momento all’altro per le ragioni più disparate. Un attacco indiano, orsi, un uomo in cerca di vendetta, il divertimento sadico di qualcuno… giusto o infame, ogni individuo deve lottare per tirare la prossima boccata d’aria.

Non c’è vera redenzione, se non la realizzazione che ogni fisima è futile e che la sola cosa reale è l’istinto di sopravvivenza davanti alle avversità.

Fin qui tutto bello, ma devo dire che ci sono delle parti di The revenant che mi hanno lasciato perplessa.

Ad esempio, Quando Di Caprio cade in acqua in un uggioso tardo pomeriggio: nonostante le ossa rotte, la neve e la sfiga, il nostro trova il modo di accendere un fuoco e asciugarsi senza andare in ipotermia o svenire dalla fatica. Non è impossibile quindi non lo definirei un buco di trama, ma resta molto poco probabile in un film che, per la maggior parte, è realistico.

Il subplot della ragazza indiana è un altro dente dolente per me. Il capo indiano è alla ricerca di sua figlia, rapita da dei bianchi. Nel far ciò, collabora con dei francesi, anche loro a cacia nella stessa zona. A loro, il capo porta pelli in cambio di cavalli e armi.
Codesti mangiarane sanno le motivazioni del capo E sono quelli che hanno rapito la ragazza!

Viene da chiedersi come la banda di nativi non si sia accorta, in uno dei suoi scambi coi francesi, che questi tengono dei prigionieri. Sono tutti a zonzo nel bosco, non è come se i froggies potessero nascondere la pulzella in cantina.
Ma diciamo che i frogs riescono a imbucare la ragazza in un cespuglio durante gli incontri col capo e gli altri guerrieri.
Perché dovrebbero correre il rischio di uno scazzo violento con una numerosa banda indiana? Si tratta di una squaw, non possono procurarsene un’altra che non sia la figlia di un capo fumino?

Anche perché non è che i francesi pianifichino di farci chissà cosa con questo ostaggio di riguardo, al contrario, la tizia è pura carne da stupro. Mi pare un comportamento da dodo, perfino per dei francesi.

The revenant non è un film perfetto in ogni aspetto, ma resta un’opera di ottimo livello. Peraltro, regia e recitazione, così come caratterizzazione e dialoghi, sono eccellenti. La lunga lista di premi e accolades ricevute è più che meritata.

Riassumendo…

Certi dettagli poco verosimili
Il subplot dell’indiana è poco credibile (ancorché non impossibile)
La storia
La recitazione
La regia
La scena dell’attacco dell’orso
I passaggi onirici
Il messaggio suggerito senza essere cacciato a pugni nella gola dello spettatore

 

Sia chiaro, non è un film che secondo me può piacere a tutti. E’ un film lento e freddo e spartano, a tratti surreale. E’ un po’ come Valhalla rising, senza storia cretina, senza dialoghi da lobotomia e senza colori saturati. Un bel prodotto, ma non proprio a gusto di chiunque. Ci sta che ritmo, tono e finale aperto vi risultino sgradevoli o frustranti.

Ciononostante, val la pena dargli una chance.

Dopotutto, è un film con il grande Gatsby, Mad Max e il generale Hux. Che volete di più?

Deadpool

Altro film, altro genere.

Cominciamo col dire che i film di supereroi non sono per nulla la mia tazza di tè. Non guardavo i cartoni da ragazzina, non ho mai letto i fumetti, quindi per me i supereroi americani sono grosso modo dei tizi strapompati in costumini da sfilata di Carnevale a Mykonos.

Di quelli che ho visto, la maggior parte mi son risultati troppo campati per aria per esser presi sul serio, divertenti al meglio, con qualche rara eccezione.

Quando sono andata a vedere Deadpool non mi aspettavo niente di più di una boiata tutta cazzotti e battute cretine.

Ci sono cazzotti e battute cretine. E il film è divertentissimo!

Finalmente un supereroe psicopatico, violento, trollesco e che non riflette cupamente dal bordo di un cornicione nella città notturna. Sa anche disegnare!

La trama è elementare a livelli parodistici, ma non pretende di essere un film complesso o serio. E’ un film cialtrone e spassoso che si presenta come film cialtrone e spassoso. Ma andiamo con ordine.

Wade è un mercenario con “soft spots” e “hard spots”. La sua vita fatta di violenza e prevaricazione prende una nuova piega quando incontra Vanessa, una prostituta con un carattere esplosivo. Entrambi sono matti come cavalli e si intendono subito, iniziando un’appassionata liaison.

Tutto molto bello, finché Wade non ha un mancamento. All’ospedale, gli diagnosticano un cancro terminale. Incapace di affrontare la decadenza e l’agonia davanti alla donna che ama, Wade se la svigna e finisce nelle grinfie di una losca organizzazione, che gli promette di curare il suo cancro, regalargli superpoteri e rifargli la carrozzeria della macchina.

Essendo disperato e anche un po’ coglione, Wade zompa sull’occasione e inizia un trattamento a base di tortura, tortura, e un po’ di tortura. L’esperimento dovrebbe sottoporre il suo corpo a uno stress tale da provocare una mutazione.

Solo che questi buoni samaritani non hanno intenzione di fare di Wade un nuovo supereroe: il loro losco scopo è di farne uno schiavo ultra-potenziato da vendere al miglior offerente.

Dopo essere riuscito a evadere, Wade, ora sfigurato, assume l’identità di Deadpool e si lancia nella caccia al proprio aguzzino in un tripudio di schioppettate, mani mozzate e gente spiaccicata.

Non ho letto i fumetti di Deadpool né visto i cartoni, quindi baso il mio giudizio esclusivamente su questo film, e il personaggio è geniale. Per quanto un eroe immortale e de facto invulnerabile possa essere un problema (toglie tensione, sappiamo che è indistruttibile), la personalità di questo assassino seriale compensa in toto la cosa.

La vicenda ruota in buona parte attorno alla storia d’amore tra il protagonista e la sua ganza, e una volta tanto il legame tra i due risulta originale e credibile. Sono entrambi fuori di testa, ma l’intesa è realizzata molto bene senza essere melensa o noiosa.

La recitazione costituisce una fetta molto importante del buono in questo film. Tutti sono molto bravi, ma Reynolds in paricolare è da schiantare. Dopo filmacci come Amityville horror e Wolverine Origins, è un piacere vederlo in roba che vale almeno il prezzo del biglietto. Nella fattispecie, il personaggio di Deadpool è uno spasso, e Reynolds pare divertirsi come un matto nell’interpretarlo.

Tirando le somme…

La tizia ritrovata viva alla fine è improbabile perfino per gli standard di questo film
Qualche gag infelice, quella finale è telefonatissima
Deadpool
La recitazione
La cialtroneria autoironica
L’azione truculenta
Il rapporto tra il protagonista e la sua ganza
I personaggi di contorno

Non c’è molto da aggiungere. Non è un film profondo e non è un film che se la tira. A tratti le gag sono un po’ forzate, ma nell’insieme tutto fila bene, condito con una buona dose di gore e violenza tamarra. Mi piace quando un film non scorreggia più alto del proprio culo, per usare un francesismo. Deadpool non finge di essere più di quanto non sia.

A differenza di The revenant, questo film può piacere a tutti ed è consigliatissimo, a meno che non siate particolarmente sensibili al sangue.

MUSICA!

Classici Militari: Le Tre Strategie di Huang Shih

Continua la nostra serie sui grandi Classici Militari o anche “Strategie di Suor Germana: 101 Ricette per Conquistare il Mondo”.

Zhang Liang rigeve il rotolo da Huang Shih, Ogata Gekko, 1892

Oggi parleremo delle Tre strategie di Huang Shih-kung, un testo detestato dalla scuola confuciana per la sua dubbia paternità storica e perché non sfrangia abbastanza le scatole su quanto il buon esempio del sovrano irradi virtute all’ingiù fino alla plebe.

Le Tre strategie è un testo di difficile attribuzione. Divenne famoso quando fu associato al nome di Zhang Liang, un funzionario che aiutò a rovesciare la dinastia Qin (221-206 a.C.) e a portare al potere la dinastia Han (206 a.C.- 220 d.C.).

Secondo la storia, Zhang Liang stava scappando a gambe levate (dopo aver partecipato all’equivalente cinese di un’Operazione Valchiria) quando incontra un vecchio. Da buon vecchio cinese, il tipo non si presenta ma offre uno pseudonimo, Huang Shih (Roccia Gialla), e rifila al nostro rivoluzionario burocrate un pamphlet sulla guerra, il governo e tutto il resto.

Secondo la tradizione, tale pamphlet sarebbe da attribuire a nientemeno che il Taigong in persona! Prima di schiattare, il celebre pensatore avrebbe lasciato una serie di “ultimi consigli” poi arrangiati in un testo.

Per altri, il signor Sasso Giallo avrebbe scritto il libro di sua mano, infarcendolo di non troppo celata influenza taoista.

Secondo i Confuciani si tratterebbe di una porcheria inventata e inutile. Dove sono le virtù? E i riti? A un certo momento si dice perfino che far la messa agli antenati non basta per un buon governo! Ah!

Infine, Sawyer cita il punto di vista dello storico Hsu Pao-lin, secondo il quale si tratterebbe di un testo del periodo Han. Se l’incidente di Zhang Liang è vero, il libro donatogli da messer Ciottolo Biondo non sarebbe stato le Tre strategie, ma i Sei insegnamenti segreti (Taigong liu tao).

Questo breve Classico ebbe un certo successo in Giappone, Impero dominato da feroci gatti guerrieri (chiunque vi dica il contrario mente). Arte di Daniel Navarro.

Le Tre strategie si apre, sorpresa, con la prima strategia, quella definita “superiore”. Come in altri classici, più che un discorso organico sulla gestione dello stato o l’organizzazione dell’esercito, il testo si presenta come una serie di punti e consigli.

Molti di questi non sono nuovi a chi ha letto i precedenti articoli: se un governante vuole restare tale, deve tenere in pugno il popolo. Ciò significa per un verso fare in modo che il proprio volere penetri attraverso gli strati della società, e per un altro, conoscere detta società. Un governante che non ha l’appoggio del popolo non può dirsi stabile (specie in mancanza di grandi mezzi di controllo come può esserlo uno stato pre-telecomunicazioni).

Oltre al popolo, un sovrano necessita gente capace. Possiamo considerare la gente capace come lo stomaco e il cuore di uno stato, mentre il popolo come i suoi arti. Se tutto è proporzionato e in armonia, la macchina è inarrestabile.

Ovvio, puoi e devi manipolare il popolo affinché ti dia l’appoggio necessario. La manipolazione prende moltissime forme, ma si basa sulle solite due leve primordiali: ciò che la gente teme e ciò che la gente vuole. Nella loro forma più semplice: punizioni e ricompense.

Il governo deve essere capace di conoscere fatti e dettagli dei conflitti che oppongono gruppi o singoli. Per coloro che hanno lamentele da fare, lo stato dovrebbe saper mostrare indulgenza. Per contro, dovrebbe anche prender cura di stroncare chi accumula troppa forza o chi si mostra un po’ troppo volitivo, chi ha troppa iniziativa e arroganza.

Il che non vuol dire stroncare ambizione o avidità, al contrario: coloro che sono ambiziosi o hanno desideri particolari possono essere usati.

Infine, mostra sempre magnanimità verso coloro che si sottomettono senza troppo chiasso. Vuoi incoraggiare altri, in futuro, a far lo stesso, giusto?

Sono sporchi e puzzano, ma senza glebani niente esercito, e senza esercito niente divertimento.

Sempre al soggetto di trattar bene la tua gente, è da notare che la plebaglia è un po’ come uno stagno: più la rimesti e più impantani la situazione. Se il tuo paese è principalmente agricolo, fai attenzione alle stagioni. Se sei contadino non puoi posporre il fieno e non puoi rimandare la semina. C’è un momento per lavorare e se salti l’occasione il raccolto è perso prima di poter dire “ocazzo!”.

Ergo cerca di non spiaccicare di tasse i tuoi glebani e non turbare i loro ritmi più dello stretto indispensabile. Quando fai una guerra o quando richiedi corvées, tieni conto del momento.

Bon, non passare con un cingolato sulla plebaglia è l’inizio, ma per assicurarti davvero il controllo su di essa devi anche saper scegliere gli ufficiali e funzionari capaci di gestirla.

Difatti il popolo è la radice e i funzionari sono il tronco di uno stato.

Uno stato debole o instabile non è in grado di portare a buon fine una guerra. Non solo, uno stato instabile facilmente attira le mire ghiotte di qualche vicino esuberante. Una base solida e un’amministrazione funzionante e leale sono indispensabili per un regno sicuro.

Da un punto di vista tattico, la Strategia Superiore pare essere smaccatamente difensiva: l’autore invita a lasciare l’iniziativa al nemico e limitarsi a reagire dopo averlo osservato. Evita di attaccarlo se riposato e fai leva sulle sue debolezze. Ad esempio, se è forte, puoi cercare di indurlo all’arroganza.

Oh, e il controspionaggio è sempre una buona misura! Più cazzate gli fai pervenire, più è alta la probabilità che se ne beva una.

Ma se l’autore non scende in dettagli tecnici come il buon Sun Zi, ci tiene ad affrontare il tema de cosa fare dopo una battaglia. Diciamo che hai vinto. Quando hai ottenuto qualcosa dalla guerra, sia questo qualcosa bottino o terre o buoni sconto, non tenertelo per te! Non sei niente senza un esercito, e il tuo esercito non resterà saldo se non ha niente da vincere. Quello che ottieni deve essere ripartito di conseguenza tra ufficiali e soldati. In certe situazioni puoi costringere degli uomini a morire per te senza nessuna buona ragione (heilà Zar Nicola Due!), ma è molto più pratico se i tuoi soldati hanno una buona ragione per restare (a parte l’evenienza di essere fucilati per diserzione).

Parlando di esercito, come fare ad accalappiarsi dei buoni ufficiali?

Gli uomini degni verranno a te se avrai rispetto di ciò che è appropriato. Se poi li pagherai bene, saranno perfino disposti a combattere per te. Insomma, per il decoro verranno a te, per la grana o il rango moriranno per te.

Ergo se pianifichi di entrare in guerra, per prima cosa dovresti preoccuparti di offrire benefici e allecconire la tua carne da cannone i tuoi prodi combattenti.

E’ importante scegliere i tuoi ufficiali con cura, e una cura ancora più grande va nella scelta del generale. Le Tre Strategie non scende troppo in dettaglio sulle caratteristiche che fanno un buon generale, ma ribatte un collaudato concetto della storia militare: i soldati obbediranno più volentieri a un ufficiale superiore pronto a eseguire lui stesso gli ordini che dà, pronto a patirne in prima persona le conseguenze. Ergo niente cibo prima dei tuoi soldati, niente mantello pesante se loro hanno freddo, eccetera. Il contrario di quello che è stato fatto nella Prima Guerra Mondiale, per intendersi.

Solo se il generale e gli ufficiali superiori seguono questa condotta l’esercito sarà unito, e va da sé che se un esercito è unito, le probabilità di sopravvivenza degli uomini che ne fanno parte sono notevolmente accresciute.

In particolare, un generale deve essere calmo e posato, deve saper giudicare dispute, accettare critiche, distinguere tra i diversi consigli, conoscere i costumi del paese e degli uomini che comanda, oltre che avere buone capacità tattiche e geografiche.

Se il tapino ha la brutta tendenza di angariare gente che non se lo merita, l’intero morale potrebbe essere compromesso.

Differenze in equipaggiamento e addestramento dovrebbero pure esser prese in conto

Come per lo stato, la base di una buona riuscita militare è l’amministrazione dell’esercito. Gli ordini devono essere chiari, non discussi né revocati, e le punizioni o ricompense rapide e comprensibili.

E’ importante che ci sia chiarezza e armonia, dal generale al fantaccino, dacché il primo detiene il potere strategico, ma è la massa dei secondi che vince o perde una battaglia. Di conseguenza, non puoi permetterti di avere un generale impiastro né una truppa ribelle.

E’ importante che il generale tratti gli uomini come lui stesso vorrebbe essere trattato, e che li conduca di persona. E’ importante che non sia indeciso, che i suoi ufficiali non siano arroganti e che i piani, per quanto complessi, non destino dubbi.

Quindi diciamo che hai attirato buoni ufficiali e motivato i tuoi con promesse di bottino e terre e un buon salario. Diciamo che il tuo generale è un figo e che la tua situazione politica è solida. Sei in misura di menare una campagna militare. Cosa fare ora?

Conoscere il nemico, ovviamente. Che domande. Non avete letto gli altri articoli?

La cosa più importante è determinare lo stato logistico delle tue vittime del sovrano senza virtù che il Cielo ti impone di castigare: granai, armerie, magazzini, punti di forza e debolezza, situazione geografica e difensiva.

In particolare, fai attenzione ai movimenti. Se l’esercito del nemico sta trasportando granaglie invece di rifornirsi a tappe lungo la via, significa che stanno attraversando un periodo di penuria. Più è lunga la linea di rifornimento logistico, più vuoti sono i suoi granai. Per avere conferma basta fidarsi dell’aspetto dei suoi fantaccini: puoi contare le loro costole? Good!

Questa situazione è chiamata “stato vuoto”: la gente è povera, la plebaglia e la classe dirigente non sono unite e lo stato non è in grado di sostenere un serio attacco da fuori.

Osserva anche il loro sovrano. Se è crudele e autoritario, la gente e i funzionari saranno spaventati, i legami di solidarietà tra loro saranno deboli, ognuno sospetterà il proprio vicino o sarà pronto a buttarlo in pasto agli oppressori per salvarsi la pelle. Questo tipo di situazione viene definito “stato perduto”.

Un altro segno di debolezza è dato dall’amministrazione: se gli uomini che fan carriera sono scelti non per le loro capacità burocratiche, ma per la loro capacità di prevaricare o adulare, o per la crosta di ricchezza e bling di cui si ricoprono, la struttura sociale è tarlata.

Un altro segno di declino: se i funzionari formano partiti e la corruzione è rampante, o se le stesse famiglie si accalappiano gli stessi seggioloni in lunghi lignaggi di politicanti di mestiere concentrati solo sul mantenimento della loro posizione (ring a bell?).

I funzionari non sono gli unici figuri che devi osservare: i parenti del sovrano e le famiglie nobili sono pure importanti. Sono potenti e forti? Il sovrano può o non può permettersi di calciorotarli, degradarli, farli fuori?

A seconda della presa che un governante ha sui suoi baroni e sulla propria famiglia, puoi determinare la solidità reale della sua autorità.

Un ultimo fattore da tenere in considerazione è la proporzione popolazione/funzionari. Se i secondi appaiono troppo numerosi rispetto alla prima, probabilmente lo sono. E se lo sono, costituiscono un grave fattore di instabilità. Per un verso il carico sulla plebaglia sarà eccessivo, e per altri versi la concorrenza tra funzionari sarà tanto spietata quanto meschina. In altre parole, costoro saranno probabilmente più impegnati nel farsi le scarpe a vicenda che nell’amministrare con rigore e buonsenso il paese.

Tutto ciò è buono e giusto, e molto di questo segue quasi verbatim i consigli dei precedenti classici. Nella prossima puntata saranno trattate le altre due grandi strategie, quella Mediana e quella Inferiore.

Fino ad allora, spero stiate prendendo nota, e in caso di conquista del mondo non dimenticate i citare Sawyer nei ringraziamenti!

MUSICA!

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Bibliografia:

Ralph D. SAWYER, The seven military classics of ancient China, Basic Books, Boulder, 1993, pag.568

Ralph D. SAWYER, The art of the warrior, Shambala, Londra, 1996, pag.304

Genpei 1.3: Interludio

Continua la lungagnata infinita sulla Guerra di Genpei, uno dei conflitti più importanti della Storia del Giappone, nonché il glorioso bagno di sangue che apre la via al governo dei guerrieri.

Vi pare una lungagnata? Allegri: s’è appena iniziato!

La scorsa puntata avevamo lasciato Yoritomo e i suoi vincitori a tavolino dopo che la grande armata Taira è fuggita inseguita da temibili papere (true story).

Ora, Yoritomo non è il primo capetto capace di raccattare esagitati orientali e fare un mazzo gigantesco alle truppe governative. Ma cosa rende il nostro diverso dai precedenti ribelli?

Yoritomo è uno stratega prima di essere un tattico. Vincere sul campo è un buon inizio, ma non basta a tenerti in sella. Un capo deve consolidare le proprie basi.

Come prima cosa, il nostro prende cura di compensare i suoi alleati Miura e gli Shimokōbe confermando i loro diritti sui loro territori.

Ma accontentare i suoi sostenitori non è la sola incombenza: se Yoritomo ha una qualche voglia di campare vecchio, deve sottomettere il resto delle bande della regione orientale. Sarebbe antipatico se mentre assedi la Capitale qualche ambizioso bastardo ti mangiasse la groppa, nevvero?

Tra i vari problemi, abbiamo la provincia di Kōzuke: il governo provinciale è stato dato alle fiamme da dei partigiani Taira e tale Nitta Yoshishige, notabile locale della stessa linea dei Seiwa-Genji a cui appartiene Yoritomo, ha deciso bene di dichiarare la propria indipendenza, trincerandosi nella fortezza di Terao.

Altri guai fermentano nella provincia di Hitachi, dove altri lontani parenti, i Satake, sono in rivolta contro Yoritomo. Il loro capo, figlio di una donna dei Fujiwara di Hiraizumi (potente famiglia del Nord-est), tiene per i Taira. Il che è un problema, dato che i Satake sono una banda di tutto riguardo. Le fonti le attribuiscono 20.000 guerrieri, anche se è ovviamente un’esagerazione. Non solo: i Satake sono anche in lite per dei territori del nord di Shimōsa, e i loro contendenti sono i Chiba, alleati di Yoritomo.

Carta riassuntiva delle grane di Yoritomo. Sagami è la sua base.

Yoritomo riunisce il consiglio di guerra.

-Da che parte si comincia, capo? Tuo cugino in Kōzuke o tuo cugino in Hitachi?

-A volte penso di avere troppi cugini…

-Se può consolarti, non sono di primo grado.

-Oh guarda, questo cambia tutto!

-Intanto ringrazia che non abbiamo notizie di quello in Shinano, coso lì, Yoshinaka.

-Tanto meglio. Anzi, sai che ti dico? Siccome non voglio rischiare di vedermelo davanti, cominciamo con Hitachi.

Il 27 del decimo mese Yoritomo scende in campo per estirpare i Satake.

-E’ un giorno sfigato.- fa l’astrologo. -Dovresti restare a letto.

-Ma che, ancora? Non avevamo superato ‘sta manfrina l’ultima puntata?

-Oh uomo di poca fede!

-Sì sì, come no, IN MARCIA!

Hitachi è la provincia dei Satake. Avendo saputo dell’arrivo del nostro, uno dei figli del capo, Hideyoshi, si asserraglia nella fortezza di Kanasa. L’equivalente tattico di “ah, vuoi fare a botte? VUOI FARE A BOTTE?”

Prima di attaccarli, Yoritomo s’installa nel governo provinciale.

-Kanasa è una noce dura da rodere.- osservano i suoi. -Come conti di prenderlo?

-Intanto ci vuole un parente per fottere un parente. Kazusa Hirotsune! Qualche idea?

-Hai presente il tizio asserragliato in Kanasa? Suo fratello maggiore ha accettato un mio invito!

-Quale fortunata coincidenza! Uccidilo.

Il disgraziato viene prontamente acciuffato e scapitozzato. Questo scatena un gran casino nella famiglia, che inizia a disfarsi, ma Hideyoshi non molla. Kanasa è ben piazzato, chiunque voglia prenderlo dovrà sanguinare.

Il castello di Kanasa (fonte nella Bibliografia)

I vassalli ponderano.

-Arrampicarsi lì sarà una merda.

Yoritomo non si scompone. -Ho già detto che ci vuole un parente per fottere un parente?

Hideyoshi ha un caro zio di cui si fida. Il caro zio di cui si fida è un traditore. Grazie a lui, gli uomini di Yoritomo arrivano al castello, l’attacco colpisce Kanasa come un maglio. Tradito dal proprio sangue (come da antica e consolidata tradizione), Hideyoshi deve ritirarsi precipitosamente e abbandonare le proprie terre. A Yoritomo non resta che raccattare quello che il fuggiasco ha abbandonato e distribuirlo tra i suoi per compensare il loro sudore e la loro lealtà.

In pratica, con la propria rivolta mancata, Hideyoshi ha fornito a Yoritomo un cospicuo bottino con cui controllare i propri vassalli.

Ricordiamo, tutta questa gente è tutta della stessa grande famiglia. Giusto per rimettere le cose in prospettiva: quando siete inchiodati al cenone di Natale con gente che sopportate appena, pensate che c’è chi è stato peggio.

-Bene.- fa Yoritomo. -Il grosso è fatto, alla faccia dell’astrologo. Ora possiamo anche tornare a Kamakura per-

-Sire! Haha, eh… vi ricordate quando si diceva di Yoshinaka, che non avevamo notizie…

-Oh no.

-Come dire…

Dove?

-Nel nord di Kōzuke.

Per Yoritomo i parenti sono un po’ come giocare a Wac-a-mole, hai appena tirato una martellata in testa a un cugino, che ne salta fuori un altro!

Cavaliere in armatura pesante

Yoshinaka è un tipo pericoloso: è un buon comandante e la sua banda è di tutto riguardo. Kōzuke è una provincia su cui la presa di Yoritomo non è solida, e su cui Yoshinaka ha saldi appoggi da parte di diversi distretti e molte famiglie guerriere.

La situazione è tesa. Non c’è molto affetto tra i due cugini, e entrambi hanno un ego di proporzioni astronomiche. L’ostilità sfrigola. Cosa farà il nuovo arrivato? Attaccherà? Si sottometterà?

I due potrebbero scatenare un nuovo bagno di sangue. Potrebbero spaccare il clan una volta per tutte e regalare la guerra ai Taira.

Destino vuole che né Yoritomo né Yoshinaka siano così cretini. Dopo essersi guardati in cagnesco, i due si rendono conto che nessuno dei due trarrebbe vantaggio a scatenare uno scontro: le loro basi non sono ancora abbastanza solide, e i loro nemici alla Capitale non aspettano altro.

Finiscono per ritirarsi in un raro esempio di buonsenso.

E non sono i soli. Il succitato Nitta Yoshishige, il ribelle di Kōzuke, calcola che lui e i suoi sono pesci troppo piccoli in un oceano con sempre più squali. E’ il momento di ripararsi sotto l’ala di un capo: si sottomette a Yoritomo nel dodicesimo mese. E’ la fine del 1180, il grosso del Kantō è ormai nelle sue mani.

Yoritomo riesce finalmente a tornare a casa. Ed è ora. A Kamakura, nasce il primo embrione di un nuovo organo di governo.

Alla differenza dei ribelli che lo hanno preceduto, come Taira no Masakado, o degli arrampicatori professionisti, come Taira no Kiyomori, Yoritomo ha le idee chiare. Una nuova era richiede nuove idee e nuove priorità.

E la priorità principale è trovare un modo per controllare i guerrieri. Tanti guerrieri. Qualcosa che permetta di gestire e amministrare la più grande banda che il Giappone abbia mai visto.

Se la legittimità irradia dall’Imperatore, Yoritomo ha un solo modo per riuscire: diventare un anello obbligatorio tra i capi militari e la Fonte di legittimità.

Yoritomo crea il samuraidokoro, l’Ufficio dei Guerrieri. Lo scopo dell’Ufficio è controllare le attività dei vassalli principali (i gokenin). Non è più la Corte (in quanto meccanismo di leggi e funzioni) a garantire i diritti dei guerrieri: è Yoritomo.

E’ il primo embrione di quello che sarà a breve il Bakufu, il Governo dei Guerrieri.

Mentre una nuova forma di governo nasce nella provincia di Sagami, i Taira della Capitale sono occupati con altre gatte da pelare. La minaccia dell’Est non basta a far loro dimenticare che pochi mesi prima i monaci di Nara hanno preso le parti del Principe Imperiale Mochihito, provocando la Battaglia di Uji. A Taira no Kiyomori prudono le mani per un po’ di sana retribuzione. Suo figlio prediletto Shigemori, quello che secondo lo Heike monogatari metteva un freno al temperamento esplosivo di Kiyomori, è morto da poco. Nessun moderato baciapile si erge più tra il grande Ministro e i suoi nemici.

La faccenda è delicata: Nara è il centro spirituale del Paese, la Città dei Templi, prendersela con lei potrebbe attirare cattivo karma, oltre che essere un disastro apocalittico da un punto di vista propagandistico. L’Imperatore Takakura vuole a ogni costo evitare danni troppo grandi.

Non aiuta il fatto che i monaci siano sul piede di guerra e feroci oppositori dei Taira.

Uno potrebbe pensare che non sia savio stuzzicare i Taira, specie quando non hai i numeri né i mezzi di difenderti a dovere. Ma come dice il grande principio militare esemplificato dal Gen. Melchett: “If nothing else works, a total pig-headed unwillingness to look facts in the face will see us through.

A due riprese la Corte prova a spedire dei funzionari civili per convincere i monaci a darsi una calmata.

Il primo temerario è il Direttore del Collegio per l’incoraggiamento agli studi. La sua missione va benissimo.

-Un palanchino!- Urlano i frati -C’è dentro un burocrate! Chiappalo e tagliagli il ciuffetto di testa!

Il secondo a tentare la fortuna è un ufficiale della Guarda delle Porte, sezione sinistra.

-Daje un altro, vai di forbici!

Anche il secondo riesce a scappare. Non così due dei suoi accompagnatori, che sono mollati dopo un rapido passaggio sotto il rasoio. Kiyomori comincia a perdere la pazienza. Anche perché i frati non hanno intenzione di abbozzare: il nuovo gioco a Nara è una versione del calcio, solo che la palla si chiama “Kiyomori”. Non sto scherzando. L’umorismo da scuola elementare scorre potente nei monasteri.

-Forse i burocrati non bastano a spaventarli.- Ragionano i Taira. -Proviamo a mandargli un ufficiale della polizia provinciale con cinquecento uomini.

Non si tratta di una missione offensiva (i tizi non sono armati), quanto di una dimostrazione di muscolo.

Non funziona un granché.

I monaci mettono le mani su una sessantina di guerrieri, e questa volta non tagliano i loro capelli: li scapitozzano direttamente. Perché fanculo la non-azione e la pace di spirito, se non li decapiti quando sono disarmati sei un fesso!

Solo che pestare la coda di Kiyomori è uno sport pericoloso. Il nostro ha una filosofia di vita riassumibile in due precetti: “la mia famiglia prima della tua” e “se vuoi la rissa, ti do la rissa”. L’ordine viene dato, i cavalieri Taira partono per Nara. Ce ne è voluta, ma finalmente i monaci hanno la loro bella guerra.

Secondo lo Heike monogatari, le forze in campo contano 40.000 cavalieri per i Taira, contro 7.000 monaci. Ancora, si tratta senza dubbio di esagerazione, ma dà un’idea della proporzione della spedizione.

I monaci si asserragliano sulla collina Narazaka e nello Hannyaji, fanno un bel fossato di traverso alla strada, tirano su i loro mantelletti, e aspettano. I Taira non si fanno pregare. Verso le sei di mattina l’armata governativa investe le due posizioni.

I monaci combattono con tutto l’ardore che hanno, ma non c’è partita: morte piove dal cielo, le frecce grandinano sulle teste pelate, le trasformano in puntaspilli.

Il sole cala, e il massacro non è ancora finito. Uno potrebbe quasi pensare che andare a stuzzicare i calabroni della Capitale fosse una cattiva idea dal principio.

Il buio s’infittisce, senza luna e senza stelle. Diventa difficile vedere a un palmo, ma il comandante dei Taira è un uomo pratico. Se non puoi vedere il tuo nemico, dagli fuoco.

Le casupole dei dintorni s’infiammano come torce, il vento gonfia le fiamme e presto altre case bruciano, e magazzini, e templi. Il Tōdaiji e il Kōfukuji, due tra i templi più grandi e più antichi, vanno in fumo come cerini.

Vecchi monaci incapaci di camminare, grandi studiosi, amati accoliti, donne e bambini erano scappati nel caos sul terreno del Kōfukuji. Al Tōdaiji più di mille persone si arrampicarono sul secondo piano del tempio del Grande Buddha e ritirarono le scale per impedire al nemico di inseguirli. Le fiamme fameliche ingolfarono la massa accalcata di gente. Peccatori che ardono nell’Inferno senza fondo non hanno mai cacciato grida sì orribili.

Heike monogatari

Si tratta del rogo che distrusse la prima statua del Grande Buddha (quella attuale non è l’originale). Icone, pitture, archivi, libri, uomini, donne, tutto viene incenerito dalla vendetta dei Taira. In una sola notte, due dei templi più prestigiosi del Giappone sono un mucchio di cenere e corpi carbonizzati. Dal portale dello Hannyaji dondolano teste mozzate. Altre capocce sono portate alla Capitale come souvenir.

L’idea sarebbe do passeggiarle per le strade e poi appenderle agli alberi degli incroci. Sia mai, magari la gente smetterà di sghignazzare per quella faccenda del fiume Fuji!

Alto una quindicina di metri, il Daibutsu attuale è una statua del Periodo Edo. In particolare la testa era stata del tutto distrutta dal rogo.

Tuttavia l’Imperatore è un pochettino scosso, come il resto della Corte. A quanto pare la missione è stata troppo distruttiva per i loro delicati gusti aristocratici. Kiyomori decide che è meglio soprassedere, per una volta.

-Niente sfilata delle capocce?- Fanno i suoi. -I ragazzi saranno delusi.

-Oh, sai com’è, se la gente non si diverte diventa di cattivo gusto. Meglio lasciar perdere.

-E con le teste pelate che ci facciamo?

-Boh, quello che vi pare.

Le teste finiscono buttate in fossi e rigagnoli di scolo.

Tirando le somme, mentre la regione centrale brucia, il primo Piccolo Governo di Kamakura è nato nella provincia di Sagami. Ci vorranno altri 4 anni di guerra per poter stabilire la supremazia Minamoto.

E Yoritomo non ha ancora finito di fare i conti con i suoi troppo numerosi parenti.

MUSICA


Puntate precedenti:

Genpei 0.1

Genpei 0.2

Genpei 1.0

Genpei 1.1

Genpei 1.2

Bibliografia

FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Harvard University Press, 1995, Cambridge

FRIDAY Karl, Samurai, warfare and the state, Routledge, 2004, New York

ROYALL Tyler, The tale of the Heike, Viking, 2013, New York

SOUYRI Pierre-François, Histoire du Japon Médiéval – Le monde à l’envers, Tempus, 2013, Paris

UESUGI Kazuhiko, Genpei no sōran, Yoshikawa Kōbunkan, 2007, Tōkyō

Fonte dell’immagine del castello di Kanasa