Le avventure di un Alpino astemio: “Bepo” Novello e la satira analcolica

Il cervello umano è un complesso organo sviluppato per risolvere problemi. E’ quello che fa in continuazione: risolve problemi.

Che capita però se nasci in un’agiata famiglia borghese e, tragedie permettendo, non hai problemi pressanti di cui occuparti?

Beh, il cervello se li crea.

Non c’è una ragione reale sul perché le norme sociali debbano essere così complicate, le ricorrenze così faticose, o le cene di famiglia così angosciose: è così e basta. L’inutilità gratuita del disagio che ne consegue è tragicomica.

Non sto tirando la pietra a nessuno, sia chiaro. Io stessa sono nata in una famiglia borghese (microscopica borghesia ora, grazie alla crisi economica), sono familiare con l’ambiente e so che è difficile sfuggirci.

Oggi vorrei parlare di un disegnatore che ha elevato il disagio borghese di tutti i giorni ad ARTE: Giuseppe Novello.

Novello nasce nel 1897 a Codogno. Suo zio è il pittore milanese Giorgio Belloni, un paesaggista affermato. Da ragazzo Novello visita spesso l’atelier dello zio e si appassiona di pittura. Il nostro decide: vuole fare il pittore come zio Giorgio!

E perché no dopotutto? Lo zio ha una buona carriera, il padre è un direttore di banca e la famiglia non ha certo urgenza di fondi.

Ma nessuno sfugge all’inutile disagio di cui sopra, e finito il Liceo Giuseppe è costretto baionette alle reni a cercarsi una carriera rispettabile.

Come tutti sappiamo, le femminucce devono sposarsi e sgravare tanti bambini. I maschietti invece hanno la vasta scelta tra 4 mestieri, gli unici esistenti sulla faccia della Terra: Avvocato, Dottore, Ingegnere e Architetto.

Il Novello finisce in facoltà di Legge. Ducunt volentes fata nolentes trahunt eccetera.

Ma il Novello non si rassegna: si laurea con una tesi sui diritti d’autore nelle Arti Figurative.

Frattanto che il Novello si dibatte tra le futili fisime della borghesia bene milanese, un Vero Problema si presenta: la Prima Guerra Mondiale.

Nel 1917 Novello viene arruolato e entra nel battaglio Tirano del 5° reggimento Alpini. Ha 20 anni precisi e sarà forse l’unico alpino astemio mai esistito.

No, sul serio.

Il tizio è un esperto in acque minerali. GIURO CHE NON STO SCHERZANDO!

Tornando a noi, non tutti quelli arruolati se la sono passata proprio malissimo durante la Guerra. La maggioranza sì, ma uno può sempre avere fortuna. Alla fine le guerre sono un po’ come catastrofi naturali: aleatorie. Chi se la passa bene, chi male, chi così così…

Giuseppe Novello si cucca prima la battaglia di Ortigara e poi la disfatta di Caporetto.

Ma esce dalla guerra con la pelle salva e tutti i pezzi del corpo più o meno intatti, quindi alla fine il nostro ha avuto molta più fortuna di decine di migliaia di giovanotti della sua età.

Tornato a casa il nostro abbandona ogni velleità di diventare avvocato e si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove aveva studiato anche lo zio pittore.

Riguardo alle sue scelte di carriera Novello commentò: “Sento tuttora questi miei clienti mancati che mi ringraziano per aver rinunciato alla toga per i pennelli: altrimenti sarebbero tutti in galera “.

Ad ogni modo, il nostro si diploma nel 1924 e inizia subito una promettente carriera di pittore.

Giuseppe non è solo un paesaggista: si diletta di caricature e satira, i suoi disegni compaiono dal 1925 nel quindicinale L’Alpino.

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Nel 1929 viene avvicinato da un altro ex-alpino, anche lui reduce di Caporetto: Paolo Monelli. Qualcuno degli habitués del blog avrà già sentito questo nome: il Monelli è l’autore de Le scarpe al sole (1921), sulla vita degli alpini sull’Altopiano di Asiago e la Valsugana. A differenza di Novello, Monelli era un interventista, e resterà una testolina per il resto della vita.

Restando in tema, Monelli propone al Novello di partecipare come umorista a una raccolta satirica pubblicata dall’editore Treves, e Novello accetta: nasce così La guerra è bella ma scomoda.

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Fun times

Sempre il Monelli introduce il Novello al circolo della Bagutta, una trattoria toscana dove facevano buca artisti e critici per parlare di libri ed arte davanti a un bicchiere di Chianti e un bel piatto di lampre (la più alta espressione artistica che Homo sapiens abbia mai raggiunto). Tra i baguttiani di spicco val la pena citare Adolfo Franci, nome che qualcuno ricorderà da Sciucià o Ladri di biciclette.

Qui il Monelli e compari avevano deciso (dopo non si sa bene quanti fiaschi di rosso di Greve) di creare un premio letterario di cui loro sarebbero stati giudici (ma ti pare?).

A chiosa, lo statuto del Premio Bagutta è riassumibile con “abbiamo bevuto come scimmie e abbiamo deciso che dall’anno prossimo daremo un premio all’opera presentataci che più ci garba!”

I Baguttiani reclamarono sempre indipendenza, tanto che il premio fu sospeso tra il ’37 e il ’46 per non subire pressioni dai fascisti. Onestamente non so quanto questa protestata indipendenza sia stata reale, visto che non si trattava proprio di antifascisti, anzi! Monelli era uno di quelli che s’ingollarono la panzana fascista con tutto il bicchiere, e uno dei laureati del premio Bagutta è quel pasticcio umano noto come Montanelli (che non so come mai insistiamo a prendere sul serio, ma bon). Ciò detto, tra i laureati compaiono anche Calvino, Primo Levi e altri, abbastanza da controbilanciare quella verruca pomposa che risponde al nome di Indro Montanelli.

[NOTA: se vi garba il Montanelli, cool, io adoro Ungaretti che certo non manca di scheletri nell’armadio. Ciò detto, il primo che dice “ma la storia di Roma era scritta bene” lo sculaccio con un battipanni storicamente accurato]

Tornando alla Bagutta, quale che fossero le tendenze politiche dei compari di bevute, resta un vivace e prominente circolo intellettuale del periodo, la cui produzione non dovrebbe essere giudicata solo dal clima politico. E parlando di clima politico, dal ’29 il Novello inizia a pubblicare su Il Guerin Meschino e La gazzetta del Popolo, due giornali storici finiti sotto il concone fascista.

Le vignette di Novello sono uno tra i rarissimi esempi di satira che sopravvisse durante tutto il Regime (perché se c’è una cosa per cui sono noti i fasci è il loro senso dell’umorismo). La ragione è semplice: sono vignette astemie. Sono satira di costume che prende in giro la sottocultura dell’alta borghesia del nord-Italia. Niente di politico, niente di davvero sensibile.

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Troviamo però una vena molto cinica in diversi disegni, non proprio in linea con la prosopopea nazionalista e pomposamente conformista del fascismo. Novello non è un coraggioso resistente come Bloch (martire a Parigi), non è un dichiarato antifascista o un idealista come Mucha (assassinato dalla Gestapo), ma non è nemmeno un leccaculo servo del potere come Pirandello.

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Politica a parte, durante il trentennio il Novello entra a far parte del mondo intellettuale, e con l’ex-commilitone Monelli si lanciano in una serie di progetti di ricerca importantissimi per la cultura italiana. Stiamo parlando di roba tipo la guida ai monumenti più brutti d’Italia o un viaggio gastronomico edito nel ’35 col titolo Il ghiottone errante. Nel frattempo, Novello pubblica vignette che deridono la borghesia bene, con la raccolta Il signore di buona famiglia.

Per alcuni, questo periodo rende Novello particolarmente poco potabile. E la cosa è più che comprensibile.

L’Italia è comandata da un bandito e un truffatorucolo improvvisatosi dittatore, la libertà d’espressione è annientata, i militari italiani compiono stragi atroci in Etiopia, il regime prepara il terreno alle leggi razziali, e Novello fa il dandy nei salotti intellettuali e va in tour gastronomico con quel pazzoide del Monelli. Se è vero che non tutti possono essere un Piero Gobetti o una Sophie Scholl, è anche vero che in certi contesti chi avalla è complice. E Novello, pur non mostrandosi un fascistone sbavante che va a pestare dissidenti, è senza dubbio complice della situazione.

Capisco come per alcuni questo renda Novello del tutto indigeribile.

In questo caso, io credo che l’autore presenti sufficiente interesse per essere degno di attenzione nonostante tutto (pur senza scordare il contesto).

In ogni caso Novello si trova presto a patire in prima persona dell’inettitudine criminale del regime, quando il Duce decide che entrare in guerra è proprio ciò che ci vuole.

Novello viene quindi richiamato al suo reggimento.

Si è cuccato Caporetto nella Prima Guerra Mondiale, quindi cosa gli riserva il Karma a questo giro?

La campagna di Russia.

Making History Russian Cat Timofei

Il valoroso gatto Timofei con un prigioniero tedesco da lui catturato durante la Grande Guerra Patriottica, di Alexander Zavaliy

Ora capitano, Novello si guadagna una medaglia d’argento alla battaglia di Nikolajevka.

Nella sfiga il nostro ha comunque fortuna: è uno dei pochi che riescono a tornare con tutte le appendici apposto.

Novello sarà stato lieto di tornare a casa, ma non aveva contato sul proprio governo: l’8 settembre del ’43 arriva, il battaglione di Novello è in Alto Adige quando l’esercito cessa di esistere. Nel giro di 24 ore, il nostro e alcuni compagni, sbandati e confusi, abbandonati dal loro re, vengono catturati da una banda di tedeschi incazzati come iene.

Novello viene deportato in Polonia, poi nel campo di concentramento di Wietzendorf, in Germania.

Siccome è un personaggio, qualche manina influente ci mette una buona parola, e gli viene proposto di tornare in Italia come membro della Repubblica Sociale.

Novello rifiuta.

Tra i compagni di prigionia, un tal Guareschi, maledetto reazionario baciapile che ci ha donato l’impareggiabile Don Camillo (le serie tv sono meglio delle novelle, fight me!).

Nel 1945 la sorella di Novello viene a sapere della sua morte.

Tra i vari omaggi, spicca quello del giornalista Silvio Negro: “la morte, quando è ingiusta, colpisce di regola i migliori

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PIU’ FORTE DELLA GIOIA: L’autore dell’ammiratissimo articolo “In morte di un amico lontano” riceve la smentita della triste notizia

Solo che, usando le parole di Novello stesso, “evidentemente e per fortuna non sono tra quella eletta schiera “.

Come fece notare Buzzati, “il redivivo che si gode i propri elogi funebri è abbastanza novelliano

Contro ogni aspettativa, il Novello sopravvive alla prigionia e, dopo la guerra, torna in Italia, dove diventa vignettista per a Stampa.

L’Italia del Piano Marshall è l’Italia della “conciliazione”, l’Italia vittima, l’Italia che dà pochi mesi di galera ad assassini di massa come Graziani. E’ l’Italia che vuole con ogni atomo passare ad altro e far finta che non sia successo niente.

E Novello con questa vigliaccheria piccolo-borghese (di cui lui stesso è colpevole) ci va a nozze. Nel 1950 esce la sua nuova raccolta Dunque dicevamo, che canzona proprio quest’attitudine ignava.

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La stanza fiorita

Seguono Steppa e Gabbia, sulla sua esperienza in Russia e in prigionia, e Sempre più difficile, entrambi del ’57. Dieci anni dopo esce Resti fra noi.

Ad ogni modo dal ’65 in poi il nostro si dedica soprattutto alla pittura.

Novello si campa il resto della vita come artista apprezzato, ricevendo anche la medaglia d’oro di benemerenza dal Comune di Milano nel 1985.

Muore tre anni dopo a Codogno, dov’è nato, alla veneranda età di 91 anni.

Non male per uno che ha subito il disastro di Caporetto, la campagna di Russia, i campi di concentramento in Germania e la compagnia del Monelli.

Novello è stato importante per la satira del costume. Le sue vignette sono una lente di ingrandimento su ciò che c’è di piccolo, meschino e petulante nell’italiano, e in particolare nel borghese italiano.

Tipo la famiglia ricca a teatro che finge di non vedere il parentado povero che saluta dal loggione. O la famiglia che si rallegra del fatto che il recente bombardamento ha distrutto il caseggiato dirimpetto, liberando la vista sul mare.

Ma non c’è superiorità arrogante nelle vignette di Novello. Novello stesso è un borghese, e quando parla della meschinità dell’uomo, parla della meschinità che si annida in tutti, lui per primo:

“All’umorista che se ne sta sulla torre d’avorio ad osservare, non ho mai creduto. Prima di mettermi di fronte agli altri mi sono sempre guardato allo specchio e ho cominciato a ridere di me stesso

Non tutte le vignette sono incisive e crudeli, ovviamente. Molte sono bonarie, un’ironia inoffensiva sulla famiglia in ambascia poiché Luigino rifiuta di fare “ciao ciao” con la manina al signor Commendatore.

A conti fatti, si tratta di satira, o è semplice ironia di un borghese sui borghesi?

In un’intervista al Tempo del 1957, Novello si esprime sul perché i suoi disegni sono così popolari.

Forse la tua popolarità” mi ha detto un caro amico “è dovuta al fatto che i tuoi disegni piacciono anche ai cretini”. Dove quell’anche salva egregiamente i miei estimatori e il mio amor proprio.

Novello aveva amici preziosi.

Ciò detto, l’auto-deprecazione è un chiaro strumento di difesa. Novello non è il Bill Mauldin italiano, e lo sa.

Quindi che valore ha, a oggi?

Quando la moglie è in vacanza, perché Novello è Novello anche quando dipinge

Le vignette di Novello sono uno specchio della sua carriera: Novello non prende rischi, a meno che non sia costretto a farlo. Quando vince il premio per il ritratto nel 1940, abbandona il genere. Non parte volontario in guerra ma va quando chiamato. Negli anni ’60, davanti a una modernità che lo perplime, molla la satira e si dedica alla pittura. E la sua pittura è come le sue vignette: ironica, ma inoffensiva.

Sappiamo che Novello poteva, quando voleva, essere un commentatore crudele e cinico. Allo stesso tempo, anche le più crude delle sue vignette, non condannano mai davvero la borghesia.

E’ uno sguardo cinico, ma bonario.

E’ all’altezza delle lodi sperticate che gli riservano alcuni?

Forse no, ma alcune sue vignette sono eccellenti, ed è un fatto.

Merita di essere dimenticato come lo snob borghese che sfotte senza esporsi?

Nemmeno, anche se certa roba che ha disegnato è davvero la camomilla della satira.

Le vignette di Novello sono l’acqua minerale della satira. Allo stesso tempo, se non ci fosse l’elefante nella stanza delle sue simpatie per il regime, nessuno metterebbe in dubbio la sua bravura e la deliziosa costruzione dello scherzo.

Citavo Ungaretti dianzi, ma non è l’unico esempio. Ci sono artisti le cui opere sono così straordinarie e innovative che è facile separare il loro operato dal resto della loro persona. Ungaretti, Picasso, Charlie Chaplin, Woody Allen… Sì, è vero, Chaplin aveva un debole per le bambine quattordicenni. Era un predatore con spiccate tendenze pedofile. Il fatto che fosse un attore e artista assolutamente straordinario non lo assolve da nessuno dei suoi crimini, ed è importante sia separare l’arte dall’artista che ricordare che, se fu grande in un certo campo, fu terribile nel resto.

Esiste anche il caso contrario: certuni sono così sopravvalutati che è molto difficile riconoscere l’interesse del loro lavoro al di là di una personalità davvero infetta: ho già nominato Indro Montanelli, ma un altro fenomeno che non so perché ce lo prendiamo ancora tanto sul serio è Rousseau, per esempio. In realtà sono uomini che hanno un valore, ma la loro persona era così odiosa e la loro opera celebrata in modo così esagerato e ingiustificato, che la reazione a pelle è di buttare l’intero autore nel tritarifiuti.

Novello a parer mio si situa tra i due. Non è stato all’altezza dei suoi tempi, ma non è stato né un criminale né un traditore di Salò. La sua satira annovera alcuni esempi straordinari, ma anche molta fuffa di colore locale. Offre un interessante spaccato d’epoca e uno sguardo spietato nella società borghese del nord.

Capisco chi non ne voglia nemmeno sentire parlare. Personalmente però trovo che, al di là di tutto, era un umorista di talento, e le colpe che gli si possono assegnare non sono tali da offuscare la sua arte.

Ne consiglio quindi la lettura, pur con tutti i caveat del caso.

MUSICA!


Bibliografia

Un eccellente articolo de Il Tascabile

La pagina wiki del Novello

MONELLI Paolo e NOVELLO Giuseppe, Il ghiottone errante, Slow food editore, 2016

MONELLI Paolo e NOVELLO Giuseppe, La guerra è bella ma scomoda, Treves, 1929

NOVELLO Giuseppe, Il signore di buona famiglia, Mondadori, 1934

La storia del gatto Timofei

The Handmaid’s Tale: m’è garbato ma c’ho da ridire lo stesso

Nei mesi in cui sono stata fantasma, pare che un paio di persone abbiano effettivamente sentito la mancanza del blog.

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Eh, non me lo spiego nemmeno io, ma il mondo è bello perché è vario.

Quindi mi accingo a punire costoro con ciò che meritano: la mia indispensabile opinione su robe che passano in TV!

The Handmaid’s tale – la serie

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Un briciolo di contesto

The Handmaid’s tale, tradotto in italiano con La storia dell’ancella, è una serie uscita su Hulu, tratta dall’omonimo libro di Margaret Atwood.

Uscito nel 1985, The Handmaid’s tale è un romanzo distopico che esplora le conseguenze del potere volto a preservare se stesso . L’elemento portato alle estreme conseguenze qui è il potere patriarcale, in particolare il patriarcato di stampo fondamentalista cristiano.

In un futuro non troppo remoto, la fertilità degli esseri umani crolla. Un attentato terroristico spaccia la gran parte del parlamento statunitense e un gruppo fondamentalista chiamato Sons of Jacob prende il controllo del paese. Ribattezzati Gilead, gli Stati Uniti vengono trasformati in una dittatura puritana.

Le donne sono quelle che perdono più diritti sotto il nuovo regime: non possono più scegliere, divorziare, abortire, possedere beni o anche solo leggere. Le loro funzioni sono strettamente limitate. Le Wives sono le mogli dell’élite, amministrano le loro case e vestono in blu. Le Marthas sono domestiche e vestono in verde. Le Econowives vestono abiti a strisce colorate ed esercitano tutti i compiti muliebri per le classi subalterne, a cui sono assegnate come ricompensa.

Una branca a parte è dedicata alle donne fertili ma immorali (donne che sono state promiscue, divorziate o che hanno tenuto altri comportamenti poco biblici), che sono ridotte in schiavitù e costrette a concepire figli per l’élite. Queste sono le ancelle: vestono in rosso e sono assegnate alle famiglie dei Comandanti. Una volta al mese il marito stupra l’ancella in un balordo rituale in cui la moglie regge ferma la disgraziata.

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Nell’eventuale necessità di un atto sessuale, è necessario fare in modo che nessuno si diverta!

Una volta sgravato il pargolo, l’ancella lo allatta fino allo svezzamento e poi passa a una nuova famiglia. In tutto ciò, le ancelle prendono il nome del proprietario di turno (tipo Offred, impiegata da Fred Waterford, “of Fred”) e sono controllate e indottrinate da delle “zie” (Aunts), che vestono marrone e si preoccupano di applicare le draconiane leggi di Gilead.

Nel libro, un’ancella di nome Offred racconta via delle cassette la propria vita, com’era prima del colpo di stato, l’indottrinamento, e infine la sua esistenza in Gilead. Attraverso il punto di vista di Offred, possiamo esplorare le contraddizioni, l’ipocrisia e la crudeltà insita dell’ideologia patriarcale, come anche i metodi repressivi e propagandistici usati dai dirigenti per mantenere il controllo sulla popolazione.

La serie

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Parte del successo della serie è PROBABILMENTE legato al clima politico in America

La prima serie di The Handmaid’s tale ha aperto col botto nell’aprile del 2017 e ha ricevuto applausi pressoché universali, portandosi a casa un sacco di premi, tra cui diversi Emmys e un Golden Globe per miglior serie tv nella categoria drammatica.

Prova del famoso complotto nazifemminista volto a sterminare i maschi vincendo premi tv, ovviamente.

Anche il pubblico però sembra aver apprezzato, con un 95% Su Rotten Tomatoes.

Una serie acclamata dai critici, diretta in buona parte da donne e con sottotono femminista. Ma vi pare che non la guardavo?

Prima di cominciare è opportuno specificare: ho letto molto a proposito questo libro, ma non ho letto ancora il libro stesso, quindi il mio commento porta soprattutto sulla serie tv.

Serie tv su cui, ovviamente, ho da ridire.

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We are not amused

Il primo problema che ho con la serie (e col libro, di conserva) è la faccenda del calo della natalità.

All’interno del genere distopico, l’improvviso crollo della fertilità è ricorrente, ne sono un esempio storie come When she woke o The children of Men. L’idea che la razza umana appassisca lentamente è piuttosto attraente per la sottoscritta, ma al di là della sete di estinzione della Tenger, questo elemento è strutturalmente problematico qui.

L’infertilità generale è uno degli elementi decisivi nella genesi di Gilead (la sopravvivenza dell’Umanità è in gioco!) e nella vita dei personaggi (un personaggio commette un “reato” punibile con la morte, ma essendo una donna fertile viene risparmiata).

Ora, una distopia è un esercizio nel portare alle estreme conseguenze elementi reali. In altre parole, è un “avvertimento” contro cose che esistono. Per esempio, il pensiero unico e la sorveglianza capillare insiti nel regime comunista russo sono ciò che ha favorito l’ascesa e il mantenimento dello stalinismo, ed è pertanto normale che giochino un ruolo così prominente in 1984.

La misoginia e il patriarcato hanno molto poco a che vedere con un catastrofico calo delle nascite. Il trattare le donne come incubatrici che cucinano e stirano è una costante di tantissime culture, a prescindere dal numero di pargoli per famiglia.

E’ vero che il tasso di fertilità mondiale è calato. Ciononostante il problema principale di oggigiorno non è una carenza in gristiani. Con tutto il calo di natalità, abbiamo comunque un surplus di umani rispetto alle risorse (anche a causa di sfruttamento predatorio, Cambiamento Climatico, ecc.).

Una brutta persona potrebbe dire addirittura che il tasso di natalità ha raggiunto un livello ottimale, è la mortalità che è troppo scarsa, ma non divaghiamo.Risultati immagini per blackadder death meme

Un’altra celebre opera che studia gli effetti del potere assoluto sugli oppressi

Il punto è, oggi e ora misoginia e narrativa patriarcale sono reali, e sono quelli che la Atwood prende di mira nel suo libro. Però non dipendono da una scarsa fertilità.  Un esempio sono appunto gli Stati Uniti, in cui il tasso di natalità è rimasto pressoché stabile dal  1990 in poi  (e che quando la Atwood scrisse il libro era perfino in leggera rimonta). Nonostante ciò hanno un Presidente che pare l’incarnazione di una barzelletta sessista pronunciata in un singolo rutto in un bordello livornese. Nonostante ciò ci sono persone come Kevin Williams che sostengono che l’aborto dovrebbe essere punito con l’impiccagione.

E’ vero che la stagnazione demografica viene usata come scusa per spingere quella porcheria immonda della propaganda pro-life. Se la catastrofe demografica fosse stata una scusa usata dai Sons of Jecob, avrebbe potuto funzionare. Ma no, è reale, non nascono più figlioli.

In altre parole, una piaga di infertilità fulminante non è un elemento reale, non ha avuto un ruolo strutturale nell’evoluzione e mantenimento del patriarcato. Pare che sia inserita qui meramente come elemento scatenante per la trama.

Aggiungere un elemento alieno come questo inficia un po’ l’analisi sociale.

Da un punto di vista puramente narrativo, offre vantaggi e svantaggi.

Un vantaggio è che il regime oppressivo è una risposta a una minaccia reale e pressante. Può essere una risposta sbagliata, ma un qualche tipo di azione drastica è percepita come necessaria e urgente davanti a qualcosa che minaccia la specie.

Da un punto di vista speculativo, questo è problematico perché la misoginia non è una risposta a una catastrofe urgente, non è necessaria e non è nemmeno costruttiva. Gli evangelisti americani non vogliono vietare l’aborto per risolvere un qualche problema reale: lo vogliono vietare perché sono delle sottomerde (semplificando). Il loro “problema reale” non è che l’umanità è in pericolo, è che le donne possono scegliere cosa fare coi loro corpi (ovvove e vaccapviccio!).

Sul piano puramente narrativo, questo fa dei Sons of Jacob gente pazza e pericolosa, ma mossa da buone intenzioni che sono giustificate da un reale pericolo. Aumenta il conflitto (gli antagoniti non sono cattivi per il gusto della cattiveria).

Di contro, introduce un secondo problema, comune in questo genere di film, che a me piace chiamare “e quindi ora?”.

Prendiamo l’esempio di What happened to Monday?: c’è un problema di sovrappopolazione e il governo adotta SoluzioneBruttaRandom. La SoluzioneBruttaRandom è sbagliata e cattiva e viene nullificata dall’eroico sforzo dei protagonisti.

Ok, e quindi ora?

Il problema che ha portato all’adozione di SoluzioneBruttaRandom è ancora presente. Le opzioni sono due: o gli eroi propongono una SoluzioneBuonaRandom, o si stabilisce che l’estinzione di massa è la scelta più etica.

In The Handmaid’s tale c’è lo stesso problema. Sappiamo che solo Gilead ha imposto il sistema delle ancelle. Il Messico non si sa che fa, ma è detto chiaro che non sta funzionando. In Canada la gente sta meglio e non ci sono ancelle ma non è spiegato che cosa si siano inventati per ovviare alla denatalità.

Non sarebbe troppo male se non fosse che questo aspetto (fondamentale nella storia) non viene mai affrontato.

Ridurre la gente in schiavitù e stuprarla è sbagliato. Ok, e quindi ora?

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In una scena Offred affronta una diplomatica messicana, venuta per trattare un qualche tipo di “importazione di ancelle” verso il Messico. Offred fa notare il piccolissimo dettaglio che si tratta di schiavitù, stupro e repressione. L’ambasciatrice le risponde “eh sì, brutta cosa, ma da noi non nascono marmocchi da 6 anni e non sappiamo che altro fare”.

Ergo la soluzione del Canada per qualche ragione non è applicabile in Messico.

E quindi ora?

In un’altra scena Offred e il Comandante parlano del “prima e dopo Gilead”. Mentre il Comandante offre collaudati argomenti da evangelista scoppiato (le donne sono più felici ora che possono realizzare il loro “destino biologico” di uteri ambulanti, prima erano comunque oggettivizzate dal consumismo edonista, ecc.), il fatto che la razza umana sia sull’orlo dell’estinzione non viene nemmeno sfiorato.

La sterilità dilagante, ancorché verosimile, viene usata meramente per spingere la trama a pedate. Potrebbe arricchire il conflitto, ma no, come in What happened to Monday? restiamo a chiederci “ok, quello che fanno in Gilead è sbagliato, e quindi ora?”.

Il secondo punto che mi crea problema è la protagonista: June/Offred.

In buona parte ciò dipende dal tipo di romanzo da cui è tratta la serie.

L’interesse principale della letteratura distopica è la speculazione: si tratta (in teoria) dell’analisi di un meccanismo reale e di come questo può danneggiare l’umanità se lasciato senza controllo.

Il romanzo distopico pone l’accento sul contesto più che non sui personaggi. Il protagonista spesso è il più  normale possibile, perché lo scopo è esplorare l’effetto che il potere ha sull’essere umano qualsiasi.

Winston Smith è una persona normale che cerca di ribellarsi come può. Se fosse un genio del computer capace di hackerare i teleschermi e mandare in crush il Big Brother, il romanzo sarebbe del tutto differente. Sarebbe magari un romanzo d’azione, ma la sottile analisi dell’effetto della dittatura sulla persona qualsiasi sarebbe in buona parte persa.

Il film Running man è divertentissimo. Ma la fine analisi sociale finisce sullo sfondo quando The Governator in tony sgargiante corre in giro cazzottando gente e snocciolando battutacce di pessimo gusto.

Insomma, in un romanzo distopico, il protagonista è spesso poco attivo, qualcuno che cerca di sopravvivere ed opporsi con mezzi molto limitati.

Questo funziona bene in un romanzo, o in un film, ma in una serie di 10 puntate da un’ora?

Quelle puntate vanno riempite, e non possono essere riempite solo da gente che si fa pestare.

Offred è un personaggio spesso molto passivo.

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Ovviamente non succede

Intendiamoci: è verosimile che lo sia. La maggioranza della gente al suo posto lo sarebbe. Ma per un format di 10 ore, questo è un problema.

Nel libro, Offred registra i propri pensieri e la propria storia. Ciò è di per sé un atto rivoluzionario. E’ una donna che trova il modo di conservare la propria individualità in un mondo che le ha tolto i mezzi, la famiglia, il lavoro, la libertà e anche il nome. In un mondo che vuole annullarla come persona, Offred trova il modo di “preservarsi”, anche a rischio di brutali punizioni.

Nella serie, Offred non registra niente, abbiamo la sua voce narrante e basta. Questo la rende più passiva della sua controparte letteraria.

Aiuta il fatto che l’attrice che la interpreta è Elisabeth Moss, che è bravissima. Doppiamente bravissima, conto tenuto che recita la parte di una donna che, nel 99% dei casi, non può mostrare le proprie emozioni, deve abbassare al testa e inghiottire le parole.

Purtroppo resta il fatto che la nostra subisce per la stragrande maggioranza del tempo. Di nuovo: verosimile, ma non molto compelling per 10 ore di visione.

Ci sono momenti in cui la nostra fa cose. Ad esempio nasconde un pacchetto di lettere di ancelle per conto della resistenza. Purtroppo queste lettere giocano un ruolo molto marginale nella prima serie e un ruolo cretino e basta nella seconda. L’impressione è che ‘sto benedetto pacchetto sia stato tirato nella storia non per arricchire il contesto, l’analisi o la vicenda, ma per dare a Offred qualcosa da fare.

In un paio di casi la serie pare non rendersi nemmeno conto della passività di Offred.

C’è un cliché inaffondabile, che è quello del protagonista che marcia deciso verso la telecamera alla testa della squadra, di solito in slow motion. E’ un sotterfugio trito e ritrito ma a cui siamo affezionati, e che di solito viene usato dopo che il personaggio ha compiuto un qualche tipo di atto simbolico (magari ha fatto esplodere qualcosa).

Offred per qualche ragione si cucca due camminate in slow motion, nessuna delle due davvero giustificata.

Nel quarto episodio Offred scopre un messaggio lasciato dalla disgraziata prima di lei. Il messaggio la incoraggia a non arrendersi e ciò è inframezzato da flashbacks in cui le altre ancelle danno prova di solidarietà verso una June ferita e invalida. Tutto si conclude su note ottimiste, una camminata in slow mo e Offred che chiacchiera di come sono ancelle, e hanno una divisa, e non si faranno macinare dai padroni!

Ok, quindi questo episodio sprona Offred a prendere in pugno la situazione, magari convince le altre ancelle a scioperare, o ribellarsi, o assassinare tutti nel sonno in una catarsi di sangue e fuoco!

No, nell’episodio 5 Offred è punto e da capo.

Il messaggio che la rincuora ha senso se presentato per ciò che è: un piccolo gesto che aiuta questa disgraziata a sopportare la propria situazione ancora un po’.

Invece no, camminata lenta, note pimpanti di piano, mo’ ve se famo un culo così, e un niente di fatto.

La seconda volta è ancora peggiore. Senza troppi spoilers, nell’ultimo episodio Offred e le altre si trovano a dover lapidare una di loro. Una delle ancelle, Offglen, si oppone. E’ l’unica ad osare e viene brutalmente picchiata e trascinata via.

Ma questo sprona Offred, che lascia cadere il sasso e se ne va, seguita dalle altre, mentre Aunt Lydia urla che ci saranno conseguenze. Camminata in slow mo e passo coordinato, mo ve se famo il culo 2 il ritorno!

Cosa fanno?

Niente.

Ritornano ordinatamente ognuna a casa sua in attesa della mannaia, ma con la camminata tosta davanti alla telecamera che fa sempre figo.

Immagine correlata

Non dico che non sia un atto di eccezionale coraggio rifiutarsi in una situazione del genere, ma boh, la camminata stile Deadpool mi pare molto fuori luogo. Anche contando che non è stata nemmeno Offred la prima a fronteggiare l’autorità. Offglen è stata la prima a rifiutarsi e l’unica a soffrire una punizione immediata. Dovrebbe essere lei a cuccarsi la camminata figa, no? Mah.

Offred resta un personaggio passabile, verso cui è facile provare empatia. La sua passività è verosimile e giustificata dal contesto. Uno però si chiede se non fosse meglio, per una serie a puntate, seguire un personaggio in una posizione diversa che sia quindi più attivo. Perché i personaggi attivi ed affascinanti certo non mancano, e sono uno dei grandi pregi di questa serie!

Prendiamo la prima Offglen/Emily: è un ex-professoressa universitaria, lesbica, sposata e con un figlio. Dopo aver perso la famiglia ed essere finita in schiavitù, Emily collabora con la resistenza. Allaccia una relazione con una Martha. Viene arrestata. Uccide un guardiano. Insomma, è una donna che non ha niente da perdere ed è disposta a qualsiasi cosa pur di resistere.

La seconda Offglen è contenta di essere un’ancella. Era poverissima prima di Gilead, e costretta a prostituirsi per miseria. Ora è mantenuta in una casa da gente che, tutto sommato, la tratta bene. Le basta, le va bene così. Ma quando le impongono di far del male a un’altra ancella si rifiuta, perché è comunque una persona empatica e di fegato.

Moira riesce a scappare dal centro di detenzione e indottrinamento, ma viene ricatturata e costretta a scegliere tra una vita di stenti in una colonia contaminata e una vita di stenti (ma con la droga) in un bordello.

La lista continua: ci sono un sacco di personaggi ganzi nella serie, tutta gente che si trova ad agire più di Offred.

Serena Joy (interpretata da Yvonne Stahovski), la moglie di Waterford e uno degli antagonisti principali, è il mio personaggio preferito in assoluto.

Nel libro, Serena è una donna in là con gli anni, afflitta dall’artrite e infelice nel suo ruolo marginale. Nella serie Serena è più giovane e più reattiva. Si scopre che lei è il vero cervello dietro al marito, che prima del ribaltone Serena ha giocato un ruolo cardinale nell’organizzazione del colpo di stato.

E’ una donna che ha costruito con determinazione, intelligenza e metodo il nuovo sistema… e ci si trova ora intrappolata. E’ una versione tragica di Phyllis Schlafy, una fervente fondamentalista antifemminista che riuscì a frenare il progresso dei pari diritti con grande efficacia.

Il patriarcato è sempre stato protetto e perpetrato grazie a donne come Serena Joy o Phyllis Schlafy, donne che hanno interiorizzato la misoginia inerente del sistema e che lavorano attivamente alla sua conservazione in cambio di potere e status. Non vogliono emancipazione per sé stesse, vogliono controllo sul prossimo, e lo possono ottenere attraverso il sistema patriarcale. Serena orchestra gran parte della congiura, partecipa alla costruzione di Gilead, ma alla fine suo marito la mette da parte.

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Serena è anche una fonte inesauribile di reaction pics. 50 sfumature di disappunto.

Potrei andare avanti a parlare della serie: come storia distopica, offre di conserva un sacco di spunti di discussione.

In generale, ha delle cose che non mi sono piaciute, ma nell’insieme gli elementi positivi (o quantomeno interessanti) superano quelli su cui ho da ridire.

Plotpoint dell’infertilità subitanea
Format poco consono al tipo di storia
Elementi come il razzismo sono del tutto assenti nel worldbuilding
Camminate in slow mo
Recitazione
Una compagine di personaggi secondari interessanti e ben fatti
Atmosfera
Antagonisti ben delineati e non appiattiti a macchiette
Sceneggiatura
Serena Joy

 

Per certi versi il romanzo è un mostro sacro, e la serie è di certo degna di interesse. Nonostante l’abbia menata fin qui su tutte le cose che non mi garbano, molte altre mi son piaciute. Non è per tutti (non è una storia d’azione, la protagonista non ha un vero e proprio arco, ecc.), ma invito a tentare per lo meno la prima puntata.

E la seconda serie?

Risultati immagini per serena joy angry

No.

La prima si conclude dove si conclude anche il romanzo, quindi con la seconda serie gli sceneggiatori hanno dovuto inventarsi tutto da zero senza le idee della Atwood.

E niente, secondo me l’esperimento è un fiasco.

L’ho vista a pezzi e bocconi e ho lasciato perdere. Immaginate tutte le cose che non mi son piaciute nella prima, aggiuingete più scene di violenza più morbose e meno motivate, e buchi di trama estemporanei (che nella prima serie, vivaddio, non c’erano).

Non dico che sia tutta da buttare: ci sono belle trovate, momenti notevoli, e un arco interessante nel personaggio di Serena Joy. Ma nell’insieme non mi è garbata abbastanza da finirla e pertanto non la consiglio.

Ora scusatemi, devo andare a scrivere una fanfiction dove Serena Joy, Ramsay Bolton e Standartenführer Hans Landa conquistano il mondo con il loro esercito di zombie sovietici a cavallo di tirannosauri.

MUSICA!


Letture aggiuntive

La pagina wiki del libro

La pagina wiki delle serie

Qualcuno fa notare che la seconda serie non è all’altezza

Una critica alla prima serie

Un altro lungo e ponderoso articolo sulle implicazioni femministe delle serie

Come non si fa (2): la Battaglia dei Bastardi (Game of Thrones)

Prima che a qualcuno parta un embolo, lasciate che ve lo dica: a me Game of thrones piace, e l’ultima serie in particolare mi piace pure. Non solo, trovo che mediamente la serie sia migliore dei libri. Ad esempio, sono stata molto grata del fatto che gli sceneggiatori abbiano dato un senso alla gita campestre di Brienne e Pod, o che abbiano scorciato di brutto tutta la menata su quei mongoli a rotelle degli Ironborns.

Oggi però non voglio parlare della storia nel suo insieme, bensì voglio concentrarmi su una scena in particolare, la scena clou dell’ultima serie, la Battaglia dei Bastardi.

Trattandosi di un post puramente tecnico, cercherò di fare meno spoilers possibili, ma qualcuno ci potrebbe sempre scappare. Ergo siete avvisati.

Cominciamo con gli aspetti positivi di questa scena:

-Sul lato visivo, c’è poco da dire. La fotografia è bella, il ritmo è buono, la musica anche. E’ una scena divertente da vedere, a differenza di quell’altra merda stellare in Vikings.

-Certi spunti erano ben trovati. Mi fa piacere che finalmente si comincino a vedere degli sforzi per far apparire le battaglie più verosimili (manovre, trucchi, movimenti coordinati, etc.) e meno burine.

Cosa intendo per “burine”? Intendo quando due gruppi incasinati si corrono addosso a cazzo di cane con musica epica e scatenano un mischione molto virile di gente che mena a caso facendo facce molto maschie e scuotendo le villose barbe. L’ultima battaglia del film del Signore degli Anelli, per intendersi. Le scene così le odio.

Nel caso in esame c’è chiaramente il tentativo di mostrare dei professionisti coordinati, e ciò è bene.

Purtroppo però restano dei problemi.

Partiamo dalla situazione: Gianni Neve deve scannarsi con Ramsay. Ramsay è spalleggiato dagli Umbers e di Karstarks, due delle maggiori case del Nord, e vanta più del doppio degli effettivi rispetto a Gianni.

La notte prima dello scontro, Gianni e Capitan Cipolla convengono che devono indurre Ramsay a inseguirli e scavare trincee laterali per proteggere i fianchi.

Primo problema: scavare una trincea è un lungo lavoro, e un lavoro faticoso. Gianni SA da giorni che la lotta sarà impari, avrebbe dovuto adoperarsi almeno dalla mattina prima a scavare delle difese.

Secondo: le trincee sono, appunto, faticose e lunghe da fare. Probabilmente Gianni e i suoi farebbero prima e meglio a piantare in terra pali appuntiti, o legare legni aguzzi tra loro per creare dei proto-cavalli di frisia. E’ più rapido, il legno non manca, e probabilmente costa molta meno fatica.

Ad ogni modo tutto ciò si risolve in nulla perché troviamo subito il problema numero tre.

Dove sono ‘ste trincee?

Peraltro, visto che il grosso dell’esercito di Gianni è fatto di wildlings, forse sarebbe stato meglio tentare di attirare Ramsay in una zona boscosa, più che non sfidarsi su un pratino più o meno pianeggiante. Questo però non è un difetto stricto sensu, in quanto nessuno dei tizi coinvolti è un tattico collaudato. Plus, esigenze di tempo, e ok.

Veniamo a quello che però è un problema: l’equipaggiamento.

Pochissimi portano l’elmo. E non dico i wildlings, ma anche i cattivi. L’elmo è il pezzo di armatura che qualcuno si procura prima di tutto. Perché in tv la gente deve sempre andare in giro a pera con la capoccia scoperta?

Plus, com’è che nell’esercito di Gianni quasi nessuno porta uno scudo? Uno scudo non è roba particolarmente complicata da fare, è utilissima, e richiede poco o punto metallo.

E parlando di pochissimo sforzo e metallo: qualcuno poteva dare una cazzo di clava al gigante?

E’ una bestia di quindici metri che spacca la gente in due e spappola cavalli a cazzotti, e non serve quasi a nulla! Non ha nemmeno un effetto psicologico sui nemici!

Nel cerchio rosso, il personaggio più sprecato della serie

Ci voleva tanto a tirare giù un abete e metterglielo in mano? E’ come andare in battaglia con un Merkava senza munizioni! Ok, va bene, puoi spiaccicarci qualcuno passandoci sopra coi cingoli, ma non stai davvero approfittando delle potenzialità di questo gioiellino!

Ma torniamo alla tattica.

I nostri sono schierati. Da una parte Gianni, che ha soprattutto fanteria, un po’ di arcieri e un po’ di cavalieri, dall’atra Bolton, che ha il doppio della gente. Entrambi hanno piazzato gli arcieri in prima fila.

Ok, è una scelta difendibile. Io li avrei messi dietro, ma hey, va bene anche così.

Storia a parte, ci troviamo all’inizio con un Gianni Neve da solo, al centro del campo di battaglia, a tiro delle frecce Bolton. Siccome ormai è lì, Gianni decidere di caricare i Boltons da solo.

Ora, vi parrà strano, ma questa scena non mi pare del tutto folle. Gli arcieri Bolton stanno tirando a campana, e Gianni è esposto. Ha due scelte: ritirarsi, o avanzare, dacché le due scelte lo tolgono dalla “fascia bersaglio” dei dardi.

Peraltro, è realistico il fatto che la carica duri poco, ed è verosimile che Gianni riesca a saltare di sella prima di restare incastrato sotto il cavallo.

Il problema in questo frangente non è tanto Gianni, quanto la sua cavalleria.

In primis, prima lo lasciano correre avanti allo scoperto e solo dopo si svegliano “oh cazzo, già, è il comandante, ‘ndiamo a ripigliaccelo!”. Meh.

Quello che però ha di buono questo passaggio è che i cavalieri cavalcano lancia in resta e “lunghi”, con staffe basse, come facevano, con ogni probabilità, i catafratti europei. Un bel dettaglio. Anche contando che, nell’urto della lancia, il cavaliere deve spingere avanti il bacino stendendo le gambe, per scaricare la botta sulle spalle del cavallo e non sui suoi lombi (le zampe anteriori del cavallo sono quelle che portano meglio il peso e le botte).

A sinistra, un fotogramma del film. A destra, miniatura sul romanzo di Yvain o Il cavaliere del leone, Chrétien de Troyes (XIII° secolo). Notare, a destra, i piedi spinti avanti rispetto al centro di gravità del cavaliere.

Tornando a noi, la cavalleria Bolton carica.

Perché?

La cavalleria Snow sta entrando nella portata degli arcieri. A meno che la portata dei tuoi archi non sia 20m scarsi, non sarebbe meglio scompaginarli un po’ prima di buttare le tue truppe d’élite nel gioco?

Nevermind, le due cavallerie si schiantano l’una contro l’altra, e Gianni Neve nel mezzo sblocca la Modalità Eroe e diventa invulnerabile.

No, sul serio, la battaglia è figa e tutto, ma Giovanni Neve che passeggia in giro mentre il resto del mondo lo schiva in automatico proprio non si può vedere. C’è perfino un momento in cui si ferma per diversi secondi di sguardo intenso!

Comunque, mentre Gianni se ne va in giro invulnerabile a cavalli e tizi, i Boltons decidono di tirare altre frecce.

Su un mischione?

Perché?

Ok che Ramsay è tanto kattyvo, ma falciare i propri cavalieri è da fessi e basta!

Un cavaliere è un guerriero d’élite. E’ estremamente costoso, al punto che interi sistemi politico-economici sono stati costruiti attorno ad esso, per rendere possibile il suo addestramento ed equipaggiamento. Basti pensare che in epoca feudale l’indennizzo da versare al signore per la morte di un suo féal era moltiplicato nel caso il tizio fosse stato un guerriero montato.

Non solo: Gianni Neve ha, bene o male, lasciato entrare un putiferio di wildlings. I Boltons avranno bisogno di uomini per dar loro la caccia e controllare il Nord. Perché dovrebbero sterminarsi la cavalleria da soli?

Dico sterminarsi perché, a un certo punto, i cavalli spariscono. Quindi i fatti sono due: o i cavalieri di Gianni e di Ramsay si sono annientati vicendevolmente (nonostante quelli di Ramsay fossero il doppio in numero e, si suppone, meglio nutriti e riposati), o Ramsay è riuscito a spacciare tutti i suoi guerrieri migliori a botte di “esigenza di trama”.

E parlando del campo, questa è la situazione:

Il cavaliere sulla sinistra funge da riferimento: ‘sti mucchi sono alti il doppio di un uomo a cavallo!

Ora, ok che avete tritato mille cavalieri e spicci, ma ‘sti mucchi da dove escono?

I mucchi di cadaveri hanno di solito 2 origini: gente che muore contro un ostacolo architettonico; qualcuno che sposta i cadaveri. Non è la prima, visto che siamo in pianura, e non è la seconda visto che nessuno ha l’agio di farlo.

Ne deduco che sia andata così.

Anyway, Ramsay, tutto felice del fatto che ora l’intero Nord non ha più un solo cavaliere nell’esercito, manda la fanteria: i suoi e gli Umbers, che dovrebbero essere a cavallo ma sono a piedi perché boh, sticazzi.

Gli Umbers caricano e spariscono. No, davvero.

Con Umbers…

Senza Umbers…

Errore di editing, son sicura, ma comunque…

Quando ricompaiono, scalano i mucchi di morti e scendono nella fossa insieme ai wildlings. Buonsenso vorrebbe restassero sulla cresta per ributtare sotto chiunque cerchi di scappare. Ma no, il capoccia degli Umbers deve scendere nel merdaio e ritrovarsi così pigiato che tra lui e Thormund parte un match di testata nel muso.

Frattanto, i fanti dei Boltons accerchiano per benino Gianni e i suoi, che li lasciano fare perché…

Boh. Perché dargli fastidio sarebbe stato scortese.

Accerchiati i dodo, i Boltons iniziano la fiera dello spiedino. E niente da dire qui, la manovra è bella e fatta bene, e visualmente è molto carina. Però, giusto per fiscaleggiare, direi che le lance sono tenute troppo in avanti.

Niente impedirebbe ai wildcosi di agguantarle e sfasciare la linea. Niente a parte la buona creanza, ovviamente.

Devo dire però che la prima linea con la spada è molto caruccia, offre scenette memorabili.

Knock knock… oh shit…

Ho sinceramente apprezzato la parte in cui Gianni Neve viene pesticciato nella merda e nel sangue. E’ realistica e ben fatta. Un po’ lunghetta, magari, e la musica struggente stona con il realismo crudo del momento, ma hey, bella comunque.

Quello che invece mi ha fatto cascare le braccia è l’arrivo dei rinforzi.

Tre osservazioni e poi giuro smetto di scassare le palle:

  • Per arrivare a Winterfell, i cavalieri del Vale devono aver attraversato un territorio molto vasto. Vista la celerità con cui arrivano dopo l’appello di Sansa, si suppone che abbiano usato la King’s Road, che se s’impelagavano per bozzi e grottoni ciao. Insomma, c’è un esercito di diverse centinaia di cavalieri in armi che avanza sulla via maestra, com’è che non c’è stato un solo fesso che li ha visti ed ha avvertito Ramsay?
  • I cavalieri del Vale arrivano a battaglia iniziata (quasi finita) e attaccano subito. Si suppone che siano arrivati in un rush di marce forzate per fare in tempo. I loro cavalli dovrebbero essere esausti, i loro uomini stanchi. Sembra poco probabile che possano passare sopra una fanteria perfettamente organizzata (e notevolmente lenta di reazione! Secondo me Ramsay ha pochi sergenti…) manco fossero una schiacciasassi sui marshmellows. Sarebbe stato meglio, a parer mio, se la vittoria dei rinforzi fosse da attribuire più a un effetto psicologico (panico e fuga della fanteria), ma tant’è…
  • Tanti complimenti a Sansa che prima sfrangia la minchia a Gianni “non hai chiesto il mio parere per i piani di battaglia”, e poi se ne esce “oh sì, avevo 1000 cavalieri di scorta nascosti nel culo, non te l’ho detto perché ci tenevo a farti una sorpresa!”. Se Gianni avesse saputo che i rinforzi stavano per arrivare, forse, forse avrebbe potuto organizzarsi diversamente. E forse quella piaga di tuo fratello Rikon sarebbe ancora in vita. Ma bon, era un personaggio marginale in ogni caso.

 

E poi well, c’è la fine, con Ramsay rimasto praticamente solo dopo aver tirato il suo intero esercito nel tritacarne. Non che non sia mai successo nella Storia, ma bon, m’è parso un pochettino cliché.

E questo è quanto. Sì, la battaglia è uno spasso da guardare! Sì, rispetto alla media delle battaglie in tv è comunque buona. Però ecco… secondo me c’è ancora del margine.

Parlando di clichés, m’importa ‘n cazzo se l’ha già detto in diecimila, ma Lyanna Mormont spakka!

MUSICA!

Abaddon, di Giuseppe Menconi

Settembre si avvicina, con tutte le sue simpatiche scadenze, ma dopo questa bellissima estate l’idea di sciropparmi scartoffie e iscrizione ha un appeal nuovo. Diavolo, mi sembra quasi di dover andare in vacanza!

Non tutto era da buttare negli ultimi mesi. Uno degli aspetti positivi di questa maledetta estate, per esempio, è stato che ho finalmente trovato il tempo di leggere qualcosa che non fosse direttamente legato al mio settore. Tra le altre cose, ho potuto recuperare un po’ sui romanzi che mi ero procurata e che avevo poi messo da parte per tempi migliori.

Uno di questi romanzi è Abaddon, di Giuseppe Menconi!

La storia (potrebbe contenere leggeri spoilers)

Una nave spaziale arriva dal cielo e si parcheggia davanti al Golden Gate di San Francisco, dove rimane inattiva. La nave è protetta da scudi impenetrabili e viene sorvegliata notte e giorno, ma gli anni passano e la nave resta morta, come una gigantesca patata bollita. La gente si abitua alla sua presenza, la battezza Abaddon, l’Angelo Sterminatore del Vangelo.

William Boore è un militare, un eroe di guerra per pura botta di culo e un uomo stanco di correre rischi. Si è fatto assegnare al controllo della nave aliena contando di aspettare la pensione in una posizione prestigiosa ma sicura.

Tutto molto bello, finché gli scudi di Abaddon non si abbassano, e William è chiamato a prendere la testa di una nuova squadra ed entrare nella nave per vedere cosa si nasconde dentro e quali minacce si annidano nella gigantesca struttura.

Abaddon è un horror fantascientifico che aveva tutti i numeri per lasciarmi indifferente. Il setup “soldati cazzutoni entrano in astronave piena di mostri” non è una novità, l’eredità videoludica è lampante in diversi punti, e la storia in sé non è la cosa più originale dell’universo. A ciò aggiungete la mia personale idiosincrasia per quella che chiamerei una tendenza “post-evemerista” (e se gli dei erano ALIENI?!).

Detta così parrebbe una roba “Dead Space meets Voyager“, molto al di sotto dei miei raffinati gusti di signorina perbene.

Al contrario. Ho apprezzato un sacco questa storia.

Surprise!

Anche se il soggetto può sembrare già visto, la realizzazione è creativa e ben pensata. Il senso di claustrofobia e minaccia della nave è reso molto bene, e questo soprattutto per il fatto che Menconi ha un’ottima tecnica. Per tutto il romanzo la “telecamera” resta salda nella testa bacata di William e la storia è “mostrata” molto bene. Il che, in un racconto centrato sull’azione, è un grande pregio.

I personaggi sono tutti ben delineati e memorabili. Il protagonista-PoV è ovviamente il più approfondito. William non è un personaggio positivo, ma ha qualità che lo rendono interessante e likable nonostante tutto. William è un vigliacco e un macellaio, ma allo stesso tempo ha sincero affetto per suo figlio e sua moglie. L’angoscia di vivere in un ruolo fasullo e la consapevolezza di essere un codardo quando tutti lo ritengono un eroe sono rese in modo ottimo, senza bisogno di inutili spiegoni. Avendo una comprensione così chiara del protagonista, è facile farsi risucchiare nelle sue disavventure.

Il resto dei comprimari è altrettanto ben delineato. Tutti hanno tratti memorabili, senza però diventare caricature. Menconi usa benissimo lo spazio che ha per svilupparli e rende dei personaggi verosimili e attachants senza dilungarsi in dialoghi o scene e inutili. Per gran parte del romanzo, i soldati sono tutti paludati in tute identiche che li coprono da testa a piedi, ma le loro voci sono sempre distinte e non capita mai di confonderne uno con quell’altro.

Un altro punto a favore di questa storia è il dettaglio e l’attenzione portati all’equipaggiamento e alla tecnologia di cui i personaggi dispongono. Si nota una ricerca e una documentazione nel campo, il che rende la vicenda verosimile. Menconi ha curato bene questo aspetto e ne trae vantaggio durante la storia.

L’influenza videoludica è chiara, così chiara che il nome di Dead Space mi è saltato in mente pur non avendoci mai giocato. Nonostante tutto, ciò non sbalza mai il lettore fuori dalla storia. Niente scene ridicole tipo il pestaggio della scalinata in The protector, per intendersi (sì, mi piacciono i film di cazzotti fine a se stessi, so what!).

I nemici si presentano d’acchito come una masnada di mutanti assetati di sangue stile zombies, con la sola particolarità di essere esapodi invece che tetrapodi. Tuttavia anche loro, che potrebbero incarnare uno degli aspetti meno originali della storia, offrono un paio di gradite sorprese.

 

Orrori inumani scorrazzano nel buio!

Trattandosi di una storia di esplorazione, non voglio spoilerare oltre la trama!

Ho letto questo libro molto alla svelta. Nonostante la relativa lunghezza, scorre via molto bene. Da notare che mi è piaciuto nonostante la mia spiccata antipatia per diversi aspetti presenti, il che va tutto a merito di Menconi.

Concludendo

La tecnica narrativa  
Il protagonista  
I comprimari  
L’ambientazione  
Il ritmo  
Post-evemerismo (questo dipende puramente dai miei gusti)  
Il finale  

La cura dell’ambientazione eleva il libro sopra al semplice “sparatutto con mostri mutanti” e lo spessore dei personaggi lo eleva sopra al semplice “Alien 2 rivisitato” o “ficcy su Dead Space“. Non è diventato uno dei miei libri preferiti, ma è stata di certo una lettura molto gradevole.

Consigliato di cuore anche a chi non è appassionato del genere: è divertente, ha un ottimo ritmo, buona tensione.

Qui potete trovare i primi 5 capitoli per prova.

E qui potete trovare il romanzo.

MUSICA! (Because Aliens)

Noli timere messorem

Oggi è morto Terry Pratchett.

Pratchett è stato uno dei migliori e più prolifici scrittori dei nostri anni. Ho letto più di una venticinquina dei suoi libri, e non ho mai trovato una trama ripetitiva o un messaggio cacciato in gola a martellate o un personaggio mal costruito. Non tutti i suoi romanzi erano della stessa qualità, ma il peggiore che abbia mai scritto era divertente, i migliori sono perle di genialità.

Pratchett ha scritto una quarantina di romanzi sul Mondo Disco, più storie brevi, saggi, racconti… Era una fonte inesauribile di umorismo e fantasia, e adesso il mondo è un po’ meno interessante.

So che c’era da aspettarselo (era malato da tanto tempo), ma per il momento non riesco ad agguantare davvero l’idea che non scriverà più. Lo so che non scriverà più, ma non ci credo ancora. Quest’uomo è riuscito a farmi ridere e divertirmi mentre ero inchiodata a letto con ustioni di secondo grado su tutto il corpo. Mi ha strappato un sorriso durante il lutto per il mio migliore amico. Avrei voluto che fosse immortale per poter raccontare storie all’infinito.

Anche la sua clessidra è finita. Mi sembra che con lui siano morti tutti i personaggi che ho amato così tanto. Carota, Scuotivento, Cohen il Barbaro, il Professor Ridcully… anche MORTE, uno dei personaggi migliori di sempre.
Per celebrarlo, eccovi una storia breve di sua mano. E’ bella, è divertente, è tipicamente Pratchett: Death and What Comes Next.

Se non avete mai letto nulla di lui, fatelo. Un libro a caso, sono tutti carini o belli o bellissimi, sono tutti divertenti o geniali, sono tutti fantasiosi. Molti sono tradotti in italiano, ma consiglio la lettura in inglese: rendere fino in fondo lo stile e l’umorismo di Pratchett è impossibile.
Per chi non lo conosce, consiglio:

The colour of Magic, il primo libro della saga del Mondo Disco.

Mort, la storia dell’assistente di MORTE.

Pyramids, una storia di Assassini, Dei, piramidi e paradossi geometrici. Uno dei suoi romanzi migliori a parer mio.

La Trilogia delle Guardie Cittadine: Guards! Guards!Men at armsFeet of clay. Sono tre dei romanzi più belli che abbia mai letto.

Moving Pictures, con 1000 elefanti!

 

Musica.

 

Ship Breaker

Ho scoperto Bacigalupi con The windup girl, grazie a un articolo del Tapiro (qui per chi fosse interessato). Il romanzo mi garbò assai, e in particolar modo mi garbò l’ambientazione: un futuro non troppo remoto in cui il Cambiamento Climatico ha innalzato gli oceani, sterminato le colture e ridotto l’umanità a grattare il fondo del barile.

E’ un buon libro, ve lo consiglio.

Quello di cui oggi voglio parlare è un altro romanzo di Bacigalupi, Ship Breaker.

La storia si svolge in un universo come quello di The Windup girl (lo stesso?): a Bright Sands Beach, una popolazione assortita campa smontando antiche petroliere e rottami, per recuperarne le materie prime. La spiaggia è un luogo di miseria e crudeltà, in cui ognuno cerca di restare a galla, tra trafficanti di organi, spacciatori, sfruttamento e uragani.

In questo vivaio, Nailer è un ragazzino che recupera filo di rame dalle budella dei relitti. Fa parte di una banda di altri marmocchi, impiegati da un magnaccia perché abbastanza piccoli da infilarsi in condotti e anfratti. Presto Nailer sarà troppo grande per infilarsi nei tubi, ma sempre troppo piccolo per lavorare con le squadre pesanti, e Bright Sands Beach non è posto per disoccupati. Di giorno Nailer striscia nel buio e nei fumi tossici, di sera torna alla sua baracca, dove lo aspetta un padre violento col cervello fritto dalla droga. La sola “famiglia” che Nailer davvero ha è la sua banda, e in particolare Pima, la ragazzina capoccia, e sua madre Sadna, una delle rare brave persone in circolazione.

La routine di fame e fatica cambia di botto quando un grande uragano colpisce la spiaggia: allontanatisi per cercare qualcosa da mettersi sotto i denti, Nailer e Pima trovano un relitto nuovo, un clipper ultramoderno! La nave apparteneva chiaramente a gente molto ricca, e tra cadaveri e macerie c’è un sacco di ricchezza da recuperare. E’ un vero colpo di fortuna, un Lucky Strike che può permettergli di sfuggire alla fame e ai mercanti d’organi!

Nailer e Pima si fanno strada nel relitto e in una stanza, sorpresa: non tutti i passeggieri sono morti! Una ragazzina è ancora viva. Ha anelli d’oro alle dita e un diamante al naso. Si chiama Nita ed è ricca. Può valere un buon riscatto, o può valere una sanguinosa punizione, perché un Lucky Strike non basta a salvarti, devi saperlo sfruttare, devi essere intelligente.

E difatti, prima di subito i nostri si trovano nei guai: gli adulti sono sul posto, guidati dal padre di Nailer. E si sa, quando gli adulti s’impicciano, è sempre un casino.

Sano lavoro all’aria aperta!

Ship Breaker è un romanzo Young Audults, e si vede: il target di riferimento è chiaramente più giovane di quello di The Windup girl. Non ci sono scene di stupro, e certi passaggi sono raccontati invece che mostrati. Non vediamo davvero gli adulti mettere le mani addosso a Pima, ne siamo solo informati.

Non che il libro sia “addolcito”: la società in cui i ragazzi si muovono è crudele, come è realistico supporre che sia. Immagino che Bacigalupi sacrifichi a tratti la tecnica per non calcare la mano. E’ un compromesso che non mi convince molto, ma passa tutto sommato bene.

I personaggi sono ben delineati e credibili nel loro contesto.

Nailer vive nel conflitto. E’ terrorizzato da suo padre, ma gli vuole anche bene e quando il pericolo arriva non può risolversi a lasciarlo morire. E’ cosciente di aver avuto fortuna in un paio di occasioni fondamentali, e non si monta la testa. Sa che le cose sarebbero potute andare diversamente, e che talvolta fai la scelta “morale” solo perché te lo puoi permettere. In questo è ben caratterizzato perché mischia bene tratti infantili con un modo di pensare quasi adulto (la spiaggia è un posto in cui la gente cresce in fretta).

Pima è una brava ragazza, affidabile, coraggiosa e generosa con quelli del suo gruppo. Ma deve sopravvivere, ed è pronta a prendere drastiche decisioni per l’interesse suo o dei suoi. Farebbe di tutto per il bene dalla sua banda, e non esiterebbe a mutilare una ragazzina inerme se questo vuol dire salvezza e sicurezza per loro.

Nita dal canto suo è una ragazzina di buona famiglia, coinvolta in una faida politica che oppone suo padre e suo zio (c’è anche un accenno ecologista! OMG!). E’ intelligente e piena di risorse, ma può essere sprezzante e ignorante per quel che riguarda i disperati della spiaggia. Non è una mocciosetta viziata, ma non ha i mezzi per cavarsela da sola in un ambiente del tutto nuovo.

Nell’insieme, la storia non è proprio originale. La struttura è piuttosto classica, ma l’ambientazione e i personaggi la rendono interessante. Il mondo di Bacigalupi è affascinante e il ritmo è ben gestito, come anche le interazioni tra i personaggi.

Mi piace anche il fatto che, pur essendo un romanzo per ragazzi, non sia buonista. Non per tutti finisce bene, perché nella vita non per tutti finisce bene. Non tutti si redimono. Nailer salva la pelle a suo padre: in un film di Hollywood il signore si sarebbe pentito delle proprie malefatte e avrebbe dato un taglio alla droga.

No. Richard Lopez ha i neuroni tostati e i neuroni tostati si tiene. Non smetterà di essere un pezzo di merda perché ormai fa parte della sua natura. Non lo è sempre stato, a quel che si capisce, ma la cosa non cambia: certe persone girano male e così restano.

Ma tiriamo le somme.

Talvolta il raccontato poteva essere evitato
La trama è a tratti prevedibile e certi colpi di scena un po’ telefonati
L’ambientazione
I personaggi
Le interazioni tra i personaggi
La storia
L’atmosfera
Il finale

 

Ship Breaker è breve e si legge in due o tre giorni. E’ una storia d’avventura divertente con dei buoni personaggi, a cui si perdona volentieri un frequente ricorso al raccontato.

Non sarà il libro dell’anno, ma è di sicuro consigliato!

Qualche brano per avere un’idea.

1

Nailer è stato rispedito nelle budella della nave per raccattare altro rame:

Bapi already didn’t like him. And Sloth was too damn eager to steal his slot. Her words still lingered in his mind: “I’ll get twenty times the scavenge he does.”

A warning. He had competition now.

It didn’t matter that Pima vouched for him. If Nailer failed to pull quota, Bapi would slash out his work tattoos and give Sloth a try. And Pima couldn’t do a damn thing about it. No one was worth keeping if they didn’t make a profit.

Nailer wriggled onward, driven by Sloth’s hungry words. More and more copper came down in his hands. His LED faded to black. He was alone. Nothing but a trail of loosened electrical cable to lead him out. For the first time he feared he might not be able to find his way. The tanker was huge, one of the workhorses of the oil age, almost a floating city in itself. And now he was deep in its guts.

When Jackson Boy died, no one had been able to find him. They’d heard him banging away on the metal, calling out, but no could locate a way into the double hull where he’d trapped himself. A year later, heavy crews cut open a section of iron and the little licebiter’s mummified body had popped out like a pill from a blister pack. Dry like leaves, rattling as it hit the deck. Rat-chewed and desiccated.

Don’t think about it. You’ll just bring his ghost onto the ship.

The duct was tightening, squeezing around his shoulders. Nailer began to imagine himself stuck like a cork in a bottle. Pinned in the darkness, never able to get free. He strained forward and yanked down another length of wire.
Enough. More than enough.

Nailer hacked Bapi’s light crew code into the duct’s metal with his knife, doing it blind, but at least making a stab at saving the territory for later. He tightened himself into a ball. Knees against chin, elbows and spine scraping the duct walls as he turned himself around. Folding tighter, letting out his breath, fighting off images of corks and bottles and Jackson Boy caught in the darkness, dying alone. Tighter. Turning. Listening to the duct creak as he squeezed against metal.

He came free, gasping relief.

In another year, he’d be too big for this work and Sloth would take his niche for sure. He might be small for his age, but eventually everyone got too big for light crew.

Nailer squirmed back down the duct, rolling the wire ahead of him. The loudest sound was his own rasping breath in the filter mask. He paused and reached ahead for the loosened wire, confirming that it was still there, still leading him out to the light.

Don’t panic. You took this wire down yourself. You just need to keep following it

A scuttling noise echoed behind him.

Nailer froze, skin crawling. A rat, probably. But it sounded big. Unbidden, another image intruded. Jackson Boy. Nailer could imagine the dead crew boy’s ghost in the ducts with him, creeping through the darkness. Stalking him. Reaching for his ankles with dry bone fingers.

2

Nailer e il suo gruppo parlano del tradimento di Sloth e di un incidente avvenuto in giornata.

“If you were Lucky Strike, you’d have figured out how to sneak it out, instead of wasting it. Be a big rich man now, owning the beach.”
The others grunted agreement, but Pima had gone still, her black skin a shadow. “No one’s that lucky,” she said bitterly. “Everyone daydreaming about being the next Lucky Strike is what made Sloth go bad.”

“Yeah, well”—Nailer shrugged—“I still feel lucky today.”

Pima made a face. “You weren’t just lucky,” she said. “You were smart. And Lucky Strike, he was smart, too. Half the crews out here find some cache of oil or copper or whatever and none of them figure out what to do with it. Crew boss grabs it in the end, and they get bumped off the wrecks. Shit.” She took another swig from the bottle and wiped her lips on her arm before passing it on to Moon Girl, who drank and coughed. “Luck isn’t what you need out here,” Pima said. “Smarts is what you need.”

“Luck or smarts, I don’t care, long as I’m not dead.”

“Cheers to that. Still, we get all excited about being like Lucky Strike and we lose our heads. We waste all our money throwing dice, trying to get close to Luck, trying to get the big win. We pray to the Rust Saint to help us find something we can keep for ourselves. Hell, even my mom puts good rice on the Scavenge God’s scale for a luck offering, and we just end up like Sloth.”

Pima nodded down the beach to where men from the heavy crews had started their bonfires. Nailshed girls were with them, laughing and teasing them, twining slender arms around the men’s waists, urging them to drink and spend. “Sloth’s down there now. I saw her. Dreaming about a Lucky Strike got her nothing except shame cuts through her crew tattoos, and a whole lot of bad company.”

Nailer studied the men’s bonfires. “You think she’ll come after me?”

“I would,” Pima said. “She’s got nothing to lose now.” She nodded at Nailer’s luck gifts. “You better find a good place to stash all that. She’ll probably try to steal it. Maybe she finds some sugar daddy down there to take her under his wing, but no one else is going to deal with her. Grub shacks won’t take her because the ship breakers won’t buy anything from someone with slashed crew tats. Smelter clans definitely won’t touch an oath breaker. Liar like that, she’s out of options.”

Moon Girl said, “She could sell off a kidney. Maybe tap out a couple pints of blood for the Harvesters. They’re always buying.”

“Sure. She’s got those pretty eyes,” Pearly said. “Harvesters would take those in a second.”

Pima shrugged. “Medical buyers can slice and dice her like a side of pork, but after a while everyone runs out of pieces. Then what?”

“Life Cult,” Nailer suggested. “They’d buy her eggs.”

“Just what we need.” Moon Girl made a face. “Bunch of half-men that look like Sloth.”

“Dog DNA would be a step up for her,” Pearly said. “At least dogs are loyal.”

3

Pima e Nailer trovano Nita

The girl’s eyes snapped open.

“Please,” she whispered.

Pima pressed her lips together, ignoring the words. The girl’s free hand brushed at Pima’s face and Pima swatted it away. Pima leaned on the knife and blood welled up. The girl didn’t flinch. Didn’t pull away, just watched, black eyes begging as the knife cut into her brown skin.

“Please,” she said again.

Nailer’s skin crawled. “Don’t do it, Pima.”

Pima glanced up at him. “You going to get squeamish on me? You think you’re going to save her? Be her white knight like in Mom’s kiddie stories? You’re just a beach rat and she’s a swank. She gets out of here, this ship’s hers and we lose everything.”

“We don’t know that.”

“Don’t be stupid. This is only scavenge if she’s not standing on it saying it’s hers. All that silver we found? All this gold on her fingers? You know this boat’s hers. You know it. Look at the room she’s in.” Pima waved a hand at the wreckage around them. “She’s no servant, that’s for sure. She’s a damn swank. We let her out, we lose everything.”

She looked at the girl. “Sorry, swank. You’re worth more dead than alive.” She glanced at Nailer. “If it makes you feel better, I’ll put her down first.” She moved the knife to the girl’s smooth brown throat.

The girl’s eyes went to him, starving for salvation, but she didn’t speak again. Only stared.

“Don’t cut her,” Nailer said. “We can’t make a Lucky Strike like this… It would be like Sloth was with me.”

“It’s not the same at all. Sloth was crew. She swore blood oath with you. She didn’t have morals. But this swank?” Pima tapped the drowned girl with her knife. “She’s not crew. She’s just a boss girl with a lot of gold.” She made a face. “If we pigstick her, we’re rich. No more crew for life, right?”

The gold glittered on the girl’s fingers. Nailer struggled with his conflicting emotions. It was more wealth than he had ever seen. More wealth than most of the crews collected in years off the ships, and yet it decorated this girl’s fingers as casually as Moon Girl pierced her lip with steel.

Pima pressed her case. “This is once in a lifetime, Nailer. We play it smart, or we’re screwed for life.” She was shaking and a glitter of tears showed in her eyes. “I don’t like it either.” She looked down at the girl. “It’s not personal. It’s just her or us.”

“Maybe she’ll give us a reward for saving her,” he said.

“We both know that’s not the way it works.” Pima looked at him sadly. “That’s for fairy tales and Pearly’s mom’s stories about the rajah who falls in love with his servant girl. We either get rich, or we die on heavy crew—if we’re lucky. Maybe we walk oil scavenge until our legs get sores and your dad beats your head in. What else? The Harvesters? The nailsheds? We can always run red rippers and crystal slide out to the wrecks until Lawson & Carlson string us up. That’s what we get. And swanky here? She goes right back to her rich girl life.”

Pima paused. “Or we get out. With this gold, we get out for good.”

Nailer stared at the girl. A few days ago, he would have cut her. He would have apologized to those desperate eyes, and put the knife in her neck. He would have made it a fast kill so she wouldn’t suffer—he wouldn’t hurt her the way his dad liked to hurt people—but still he would have cut her dead, and then he would have stripped that gold off her waterlogged corpse and walked away. He would have felt sorry, sure, would even have put an offering on the Scavenge God’s scale to help her get on to whatever afterlife she believed in. But she would have been dead and he would have called himself lucky.

Now, though, the dark reek of the oil room filled his mind—the memory of being up to his neck in warm death staring up at Sloth high above him, her little LED paint mark glowing—salvation if only he could convince her, if only he could reach out and touch that part of her that cared for something other than herself, knowing that there was a lever inside her somewhere, and if only he could pull it, she would go for help and he would be saved and everything would be fine.

He’d been so desperate to get Sloth to care.

But he hadn’t been able to find the lever. Or maybe the lever hadn’t been there after all. Some people couldn’t see any farther than themselves. People like Sloth.

People like his dad.

4

Nita e Nailer in viaggio

“Is this it?” Nailer asked. “Is this the Orleans?”

Nita shook her head. “These were just towns outside the city. Support suburbs. They’re everywhere. Stuff like this goes for miles. From when everyone had cars.”

“Everyone?” Nailer tested the theory. It seemed unlikely. How could so many people be so rich? It was as absurd as everyone owning clipper ships. “How could they do that? There’s no roads.”

“They’re there.” She pointed. “Look.”

And indeed, if Nailer scrutinized the jungle carefully, he could make out the boulevards that had been, before trees punctured their medians and encroached. Now, the roads were more like flat fern and moss-choked paths. You had to imagine none of the trees sprouting up in the center, but they were there.

“Where’d they get the petrol?” he asked.

“They got it from everywhere.” Nita laughed. “From the far side of the world. From the bottom of the sea.” She waved at the drowned ruins, and a flash of ocean. “They used to drill out there, too, in the Gulf. Cut up the islands. It’s why the city killers are so bad. There used to be barrier islands, but they cut them up for their gas drilling.”

“Yeah?” Nailer challenged. “How do you know?”

Nita laughed again. “If you went to school, you’d know it, too. Orleans city killers are famous. Every dummy knows about them.” She stopped short. “I mean…”

Nailer wanted to hit her smug face.

Tool laughed, a low rumble of amusement.

Insomma, dategli un’occhio se avete tempo.
Nel frattempo, MUSICA.

Aneddoti e narrativa: Vaporteppa

Questo è un articolo di narrativa, e come tale vorrei iniziarlo con un aneddoto di vita vissuta.

Poche settimane fa ero in Italia in visita dagli Augusti Genitori. Come ogni fine di agosto, il mio tempo era assorbito da incontri col gruppo Bilderberg, consolidamento del dominio giudaico e lettere di insulti alla mia università. Io e la segreteria abbiamo un rapporto masochista, non tanto di amore e odio, quanto piuttosto di odio e antipatia (cit.).

Sicché un bel giorno pianto il summit rettiliano per l’asservimento dei goya e vado in Paese. Faccio un giro dei vari tabaccai. L’ultima volta che hanno visto un francobollo era il 1923, uno di loro giura che glieli ha mangiati il cane, un altro mi urla “NON LI AVRAI MAI SPORCA GIUDEA ALLAH AKBAR!” e si fa saltar per aria.

Avevo due opzioni: rinunciare a spedire la lettera o andare alle Poste. L’idea di lasciare la mia segretaria senza la sua usuale dose di “che cazzo state combinando coi miei documenti, manica di luddisti psicopatici” mi rattristava troppo. Alle Poste dunque!

Ammetto che sette anni a Lutezia mi hanno rammollita. A Lutezia uno entra, compila i fogli, affranca alla macchinetta e in dieci minuti è fuori dalle palle, libero come un fringuello.

Le porte automatiche si aprono con un cigolio di ruggine e metallo, una zaffata di putrefazione e polvere mi investe. Bambini piangono, aggrappati a madri macilente che hanno esaurito le scorte di merendine. Una di loro cerca di sedare il pargolo facendogli respirare della colla. Un vecchio si guarda intorno spaesato. Ha i calzoni corti e una mantellina troppo piccola. E’ qui dal 1925, voleva spedire una cartolina alla nonna. In un angolo, una donna con gli occhi iniettati di sangue sta armeggiando con una scatola puzzle per evocare i Cenobiti (che tanto non si muoveranno perché non ci sono più anime da sbranare, qui dentro). Sul tabellone lampeggiano i numeri A012, A011 e E018. Tiro il bigliettino. E389. Sarà da ridere.

Io non ho paura. Sono un vichingo, checchazzo. Mi siedo sulla cenere dei secoli. Apro la borsa.

E l’orrore mi assale.

Ho scordato la roba a casa. Non ho portato nulla! Non il romanzo americano che sto leggendo, non il romanzo giapponese che sto leggendo, né il saggio di Souyri né il numero Osprey dei Pirati d’Estremo Oriente. Sono disarmata, sola e in territorio nemico!

Il mio coraggio scema, mi ficco il bigliettino in tasca e mi precipito fuori dall’ufficio. La luce del sole mi fa male agli occhi. Ho visto una libreria da queste parti. Eccola!

Entro, m’infilo nel settore narrativa.

E’ lì che mi rendo punto a che punto il Paese sia messo male.

Pensate che la crisi sia brutta? Guardate al tipo di “arte” che mettiamo insieme. Non sono nemmeno nel reparto Fantasy/Sci-Fi (noto per essere il reparto Cottolengo), sono proprio in Narrativa, e sugli scaffali si assiepano tomi buoni per soli due target: i ritardati mentali giovani e i ritardati mentali vecchi che vorrebbero essere giovani. Tra le altre cose, scopro che la Licia Nazionale ha sfornato una nuova Creatura, con protagonista una Metallara.

Licia Troisi + Metal = WE ARE DOOMED! DOOMED!

Ora, io non ce l’ho col trash. Io amo il trash! Le porte dell’abisso è uno dei miei film preferiti, Tommy Wiseau è uno dei miei idoli (Oh hi Mark), ho un piccolo altare in casa dedicato solo al Daibosatsu Rocca-nyorai…

Ma quando esiste solo il trash, allora inizio ad aver paura. Insomma, sono come Vincent Smith di Silent Hill 3: venero il Dio, ma non per questo vorrei vederlo realizzato nel mondo reale. Il trash è il sale della vita, ma non lasciategli conquistare il Mondo o è la fine.

Nella fattispecie, l’unica cosa lontanamente potabile era una traduzione di Stephen King, che è peraltro uno degli autori più sopravvalutati di sempre (Sì, l’ho detto, non vi temo funz, fatevi sotto!).

Grazie al Cielo l’editoria digitale è messa un po’ meglio.

Non voglio scrivere un articolo sullo stato della letteratura digitale in Italia. Se vi interessa, leggetevi gli articoli del Duca di Baionette, è molto più informato di me. Oggi voglio parlare di racconti.

Racconti editi da Vaporteppa.

Sono sicura che tra i bazzicatori di questo piccolo blog molti già la conoscono: si tratta di una casa editrice digitale specializzata in narrativa fantastica, in particolar modo Steampunk (da cui il nome), ma non solo.

Devo essere sincera, di solito, quando vado a selezionare le mie letture, “fatine”, “mec a vapore”, “retro-futurismo” e “conigli” non sono proprio le parole chiave che mi vengono in mente. Non sono una gran lettrice di Stempunk o bizzarrie, conosco il genere molto poco e molto male.

Tuttavia tutti i racconti che finora ho letto usciti dalle fucine di Vaporteppa mi sono piaciuti, alcuni di più, alcuni di meno. Mi sono piaciuti in primo luogo perché sono di buona qualità. Alcuni brevi, altri lunghi, tutti sono scritti bene. Il livello tecnico degli autori sbriciola a mani basse quello di altri “campioni” dell’editoria cartacea. Non c’è paragone. Sul piano tecnico i vaporteppari vincono.

In secondo luogo, i racconti che ho letto finora hanno in generale una vena ironica e divertente.

Avete presente quando la Troisi pretende di scrivere passaggi tragici, o quando Altieri parla di ninja crucci che ammazzano lanzi a secchiellate e pretende di essere preso sul serio?

Niente di tutto questo. Il tono e lo stile cambiano ovviamente da autore ad autore (duh!) ma in generale nessuno, a mia esperienza, fa il passo più lungo della gamba. Non mi è ancora capitato di leggere passaggi involontariamente ridicoli: le scene esagerate o divertenti lo sono perché l’autore vuole che lo siano, non per sbaglio.

Con queste basi, certe opere mi sono piaciute più di altre per le trovate fantasiose, o i personaggi, o il tono più o meno spiritoso, ma sono tutte di qualità oggettivamente buona.

Qui alcune di quelle che ho letto e che consiglio caldamente anche ai non appassionati del genere.

 

L1L0, di Pippo Abrami


La storia è abbastanza lineare: L1L0 è un automa a vapore con tre cervelli di scimmia, creato da un illustre scienziato di Praga per salvare sua figlia, tenuta ostaggio in una caserma.

Cosa distingue L1L0? Il Witz. Dacché qualunque essere autocosciente, una volta resosi conto di essere un bollitore dalla forma vagamente lagomorfa, si toglierebbe la vita, L1L0 è stato dotato di Umorismo Giudaico, l’ironia fatalista.

Un minuto di awe per una delle idee migliori che abbia mai trovato in un racconto. Il Witz è in effetti un’arma culturale elaborata per sopravvivere i diciassette secoli di oppressione e antisemitismo. Inserirla come componente anti-suicidio è geniale.

Non è solo una trovata deliziosa, è anche un grande pregio della storia. L1L0 è il personaggio-PoV, ed è il suo modo di vedere e pensare a dar vita a quella che altrimenti sarebbe una quest piatta e fine a se stessa.

Le scene d’azione sono ben descritte, il Punto di Vista è adorabile, la storia è semplice ma riesce a tirar fuori un twist che non scade nello zuccheroso e banale. Con tutto che ho un’idiosincrasia feroce per i marmocchietti in narrativa (ho il santino di Erode tra la foto di Wiseau e quella di Mattia Sorrenti), il racconto mi è piaciuto un sacco.

 

Piloti e Nobiltà, di Diego Ferrara


Diego Ferrara è lo stesso che ha scritto Soldati a vapore, un racconto che straconsiglio (magari ne riparlerò). A questo giro seguiamo Elsa, un pilota donna in un mondo di uomini, che deve eseguire un volo dimostrativo di un nuovo eligibile anfibio, a beneficio di una banda di nobili (possibili acquirenti). Tra Elsa e i suoi passeggeri il disprezzo è a prima vista e reciproco, e mentre il volo prosegue e le richieste assurde si moltiplicano, la situazione si fa più scomoda e la tensione sale.

Elsa è il Personaggio-Punto di Vista. Elsa è una donna forte, competente, con un brutto carattere e un’antipatia feroce per i Nobili. E’ un buon personaggio, con qualità e difetti, e all in all molto credibile.

In questa storia l’umorismo non è dato tanto dal tono della protagonista (che di umorismo ne ha poco), quanto dalla vicenda vera e propria. Specie alla fine, il racconto strapperà un largo sorriso a chi apprezza l’humour nero (tipo me).

Consigliatissimo anche questo.

 

 

La maschera di Bali, di Francesco Durigon


Questo è forse il più fantasy tra i racconti che ho letto finora e uno dei più “seri”. E’ anche l’unico in cui ho una riserva. Ma veniamo al dunque.

Londra, 1897. Il Dipartimento di Scienze Occulte sta studiando su un povero alienato gli effetti di alcune maschere tribali, ritenute magiche in qualche maniera. Durante l’esperimento, la maschera balinese di Rangda prende vita, e la situazione precipita: in poche ore Londra è invasa da orde di demoni immortali e fiammeggianti, affamati di carne umana.

Due personaggi sono voci narranti: Abigail, veggente del Dipartimento di Scienze Occulte, e John Plye, soldato di Sua Maestà Britannica, mandato al macello contro le orde demoniache.

Parliamo dei pro della storia per cominciare. I personaggi sono ben caratterizzati nel poco spazio disponibile, sono credibili e funzionano bene nella storia.

Le scene d’azione sono eccellenti. Il volo di Plye sui tetti di Londra e il primo scontro coi demoni è un piacere da leggere.

Per il fattore: “mah”…

Attenzione, SPOILERS!

La “seconda vita” di Plye pare poco concludente. Abbiamo messo in scena un buon personaggio, gli abbiamo dato una morte intempestiva e accidentale, il che potrebbe starci bene (fatalità della guerra, stiamo come d’autunno sugli alberi eccetera). Ma non finisce lì, viene resuscitato alla meno peggio, creando una buona situazione di conflitto: Plye preferirebbe essere morto che non uno zombie motorizzato, e lo si può capire.

Ergo abbiamo un buon personaggio (il soldato di fegato), lo ficchiamo in un contesto interessante (un dipartimento scientifico invaso da mosti e demoni), con un conflitto eccellente (essere non-morto)… e poi boh, Plye viene massacrato poche pagine dopo senza nemmeno arrivare in fondo al percorso.

Era proprio necessario?

Sarebbe cambiato qualcosa se invece di avere il suo punto di vista Abigail fosse stata accompagnata per il breve tratto da un soldato a caso?

Insomma, a mio avviso un peccato.

FINE SPOILER

In conclusione, la storia resta ben scritta, con scene notevoli e una vicenda interessante. L’impressione è che ci sia molto più materiale da sfruttare, anche in termini di ambientazione e personaggi. Forse il tutto si presterebbe meglio a essere rielaborato per un romanzo, più che non per un racconto breve.

Nonostante tutto, una lettura gradevole, che consiglio.

 

 

Caligo, di Alessandro Scalzo


Questo non è un racconto, ma un romanzo. Dalla quarte di copertina:

Repubblica di Zena, Italia, 1912. Barbara Ann ha quasi diciassette anni e un seno che se crescerà ancora diventerà davvero imbarazzante. Ma questo non è il suo problema principale: da alcuni mesi soffre di forti emicranie e allucinazioni. Cosa c’è nella testa di Barbara Ann? E come si collega alla morte di suo padre, il defunto colonnello Axelrod, il primo uomo a mettere piede su Marte nel 1894, ossessionato dalla ricerca di qualcosa di ignoto fin da quando ritornò dal Pianeta Rosso? E cosa vuole Michele, quel bel ragazzo biondo col cappotto che puzza di piscio? Barbara Ann si troverà immischiata in un gioco internazionale tra Inghilterra, Austria e il protettorato inglese di Zena… e intanto, chi si preoccuperà dei suoi criceti?
Un’avventura Steampunk con mech, zombie e scafandri potenziati, in una Genova del 1912 che non è mai esistita.

Come avrete capito dalla quarta, Caligo ha una vena ironica molto presente. C’è anche molto fan-service, e l’autore non è timido a riguardo (Barbara Ann ha delle tettone così!).

Di solito mi dà sui nervi quando l’autore indulge in descrizioni fisiche del/la protagonista per il puro scopo di titillare il lettore. Nihal che si contempla nello specchio e si trova gli occhi “troppo grandi” è un esempio immortale.

Trovo anche fastidioso e vagamente inquietante quando l’autore approfitta della storia per ficcarci dentro una sua personale perversione, che non ha nulla a che fare con la trama, non serve a niente, è lì solo perché piace all’autore. Un po’ come la gatta con tre tette in Star Treck 5. Shatner, what the hell?

Nella fattispecie il fatto che Barbara Ann abbia delle tettone così e che ce lo ricordi in più di un’occasione passa, perché alla fine segue bene il tono semiserio della storia, oltre che il carattere represso-esibizionista-masochista del personaggio. Ci sono dei momenti di puro fan-service in stile anime-ecchi, perché, non scordiamocelo, Barbara Ann ha delle tettone così, ma gli si perdona, perché alla fine la scena è divertente e non rallenta la storia. E poi Barbara Ann ha delle tettone così.

Tette a parte, la storia è originale e il personaggio di Barbara Ann interessante e divertente da leggere. Combina bene competenze, inventiva, coraggio, pregiudizi e bizzarrie. Ambientazione e comprimari peraltro le corrispondono bene: una Genova d’acciaio, catrame e fumi di scarico, dove niente è come sembra, dove chiunque potrebbe essere una spia, un traditore o un abbonato a Superomo (recapito anonimo e discreto).

La storia bilancia bene momenti semiseri con momenti più truci. La scena in cui Barbara Ann ha una crisi di emicrania non ha niente di umoristico, e non è la sola, ma passaggi dl genere sono molto ben dosati senza mai essere melodrammatici.

Le scene d’azione sono buone, e Barbara Ann è una che se la sa cavare senza scadere nel cliché della tettona guerriera (peraltro, ho già detto che ha delle tettone così?). L’ambientazione è solida e creativa, con la giusta dose di follia e realismo.

Le finale ha un twist, che io non mi sarei aspettata, ergo è oggettivamente un buon twist partendo dall’assunto che (ormai lo saprete) io sono infallibile.

Insomma, non voglio spoilerarvelo troppo perché vale davvero la lettura.

E questo è tutto per questo sabato. Oggi sono di corvé Al festival Beermageddon, che promette di essere altrettanto epico del proprio nome.

Intanto, un pezzo dalla band FogHorn. Non è il mio genere di Metal, ma siccome ci suona il mio jarl, è buono a prescindere!

Horde Noire!

The Ocean at the end of the lane

[Achtung: questo articolo è stato pubblicato automaticamente! Se tutto è andato bene, in questo momento dovrei trovarmi in Kazakistan. Ergo non so se potrò regolare i commenti o occuparmi del blog in qualsivoglia maniera. Mi scuso se alcuni interventi non compariranno, me ne occuperò quanto prima. Nel frattempo fate i bravi.]

 

The Ocean at the end of the lane

 

Ho sentimenti contrastanti per Gaiman.

No, ok, non è vero: io detesto Gaiman. Non perché non sappia scrivere, è una questione personale. Gaiman è uno dei criminali dietro la sceneggiatura di Beowulf, a oggi uno dei film più raccapriccianti che abbia mai visto (tratto peraltro da uno dei poemi più belli che abbia mai letto).

Essendo però io una fanciulla illuminata e di larghe vedute, so fare astrazione dalla mia personale (e ovviamente giusta) opinione sull’individuo, e considerare anche i suoi lati positivi.

Devo ammettere che ho letto solo due libri suoi, American Gods e questo qui, ed entrambi presentano gli stessi pregi e gli stessi difetti.

Ma andiamo con ordine.

La storia si apre col nostro protagonista, un uomo di mezza età, divorziato con figli adulti e distanti, che ritorna da un funerale. Sulla strada, decide di passare a vedere la casa in cui ha vissuto tra i cinque e i dodici anni. Trasportato dai ricordi, va fino alla fattoria degli Hempstock, dove viveva una sua amica d’infanzia, Lettie.

Dietro la fattoria, ricorda, c’era uno stagno, che Lettie chiamava Oceano, un oceano da cui lei, sua madre e sua nonna sarebbero arrivate tanto, tanto tempo prima. Lettie non è più in giro quando il nostri amico arriva, è partita anni prima e il protagonista nemmeno ricorda per dove.

Arrivato sul luogo, i suoi ricordi cominciano a svolgersi.

La vicenda di questo libro è una sorta di lungo flashback retrolampo e ruota intorno agli strani eventi accaduti al protagonista quando era bambino e alla famiglia Hempstock.

L’evento che scatena la vicenda è un suicidio: è a causa di questo che il protagonista, all’età di sette anni, incontra Lettie e la sua strana famiglia.

La famiglia Hempstock è a mio parere uno dei pregi di questo romanzo: Gaiman riesce a far trasparire la loro natura soprannaturale e bizzarra senza però mai dire con chiarezza chi sono costoro, cosa fanno per davvero o perché.

Di solito la mancanza di precisione è un difetto e una scusa per far succedere roba a caso. Non in questo libro. I poteri di Lettie, di sua madre e di sua nonna non sono spiegati o definiti, ma hanno dei limiti, e questi limiti danno per lo meno l’impressione di coerenza. Niente gente che si ricorda all’ultimo di poter sparare plasma o che scorda la magia quando comoda all’autore.

Insomma, un buon rimaneggiamento dell’archetipo delle fate gentili.

Tornando alla trama, dopo il fattaccio, qualcuno o qualcosa comincia a lanciare monetine alla gente o rimpiattarle in giro. Il protagonista quasi si strozza svegliandosi con una di queste in gola. Insieme a Lettie Hempstock, il narratore si avventura in una sorta di mondo parallelo, per snidare la responsabile di questo, un parassita sovrannaturale.

Non voglio spoilerare altro della trama, perché tutto sommato il libro vale la lettura.

La storia è abbastanza classica: ricalca per molti versi l’archetipo della creatura maligna che infiltra la famiglia (nelle favole come matrigna, qui come tata), trasformando quello che dovrebbe essere l’unico vero rifugio per il bambino in un ambiente ostile e pericoloso.

Come nelle favole, il protagonista deve scegliere tra convivere con la minaccia o fuggire nel grande mondo ostile e incerto, e come nelle favole, la cattiva farà di tutto per impedirglielo.

Gaiman fa un buon lavoro. Questo archetipo, per cominciare, è ben scelto, perché ha i suoi uncini in molti lettori. Molti da bambini hanno avuto momenti in cui si sono sentiti in pericolo o abbandonati nella loro stessa casa (vera o immaginata che fosse la situazione), e dopotutto questa è una delle ragioni per cui l’infanzia è uno schifo. In questo libro questo sentimento di paura, impotenza e abbandono è reso bene.

Anche il climax è gestito bene, con un aumento del conflitto e del pericolo costante e ben ritmato fino allo showdown finale.

Quindi un libro fighissimo, no?

Purtroppo, come con American Gods, Gaiman non sa come finirlo.

Fino alle ultimissime pagine la faccenda tiene molto bene. E poi… poi il buon Niel decide di mandare tutto in vacca con uno dei cliché più abusati.

Dopo aver ricordato tutto, il protagonista dimentica di nuovo a fine conversazione.

Non è una buona idea. E’ un’idea quasi brutta quanto “era tutto un sogno” (credo che quest’ultima sia la fine peggiore possibile, piuttosto fate che arriva la Morte Nera e fa saltare il pianeta, ma per favore, non infilateci quello schifo di “era tutto un sogno”!).

Perché dico questo?

Perché una storia è cambiamento. I personaggi incontrano un problema, reagiscono al problema ed evolvono. Il punto è che alla fine della storia non siamo più esattamente dove eravamo partiti. Tutti abbiamo giocato ogni tanto al Gioco dell’Oca, sappiamo quanto sia fastidioso ritornare alla casella iniziale mentre gli altri vanno avanti.

Se il protagonista dimentica tutto, tutto quello che ha imparato sparisce.

Ora, se state scommettendo su qualcosa di kafkiano pessimista e del tutto deprimente, ok, ma se non è il caso trovate una fine migliore, per pietà!

Gaiman specifica che gli eventi lasciano comunque un impatto sul protagonista, ma nonostante ciò la stragrande maggioranza dell’informazione è persa, e alla fine di questo flashback il nostro è lo stesso uomo stanco della prima pagina!

Non ho letto altri romanzi di Gaiman per il momento, ma ho il sospetto che il buon Neil sia uno di quelli che non sanno come concludere.

La storia sa sfruttare bene l’archetipo da cui prende ispirazione
Il protagonista è un buon personaggio narrante: non mi strapperei i capelli dall’entusiasmo, ma è comunque buono e attachant
I comprimari sono resi molto bene: possono essere persone sgradevoli, ma sono molto verosimili
Gli elementi fantastici sono ben gestiti
Il villain è meschino e vanesio, con motivazioni non proprio di ferro
Ma è descritto bene e in modo coerente: è un buon villain, e per quanto poco “grande”, resta più che abbastanza pericoloso da rappresentare un vero pericolo per il protagonista
Il climax è gestito molto bene
Il senso di angoscia e abbandono del protagonista è reso molto bene
Le Hempstock sono abbastanza ben tratteggiate
Il libro è scritto bene
La fine è deludente.

9 a 2.

Un punteggio molto buono, ma vorrei mettere un caveat: questo libro vince bene anche perché gioca sicuro. La storia è lineare, molto ispirata agli archetipi più popolari. Il che non è un difetto. Ma non aspettatevi un libro che vi cambierà la vita o qualcosa di terribilmente ambizioso.

E’ una favola, e come tale va benissimo. E’ un libro che non mi avrà lasciato moltissimo, ma che è fatto bene, breve (meno di 200 pagine) e molto gradevole da leggere. Se vi capita dategli un’occhiata!

Qualche estratto:

I

A gust of wind threw leaves and dirt up into our faces. In the distance I could hear something rumble, like a train. It was getting harder to see, and the sky that I could make out above the canopy of leaves was dark, as if huge storm-clouds had moved above our heads, or as if it had gone from morning directly to twilight.

Lettie shouted, “Get down!” and she crouched on the moss, pulling me down with her. She lay prone, and I lay beside her, feeling a little silly. The ground was damp.

“How long will we—?”

“Shush!” She sounded almost angry. I said nothing.

Something came through the woods, above our heads. I glanced up, saw something brown and furry, but flat, like a huge rug, flapping and curling at the edges, and, at the front of the rug, a mouth, filled with dozens of tiny sharp teeth, facing down.

It flapped and floated above us, and then it was gone.

“What was that?” I asked, my heart pounding so hard in my chest that I did not know if I would be able to stand again.

“Manta wolf,” said Lettie. “We’ve already gone a bit further out than I thought.” She got to her feet and stared the way the furry thing had gone. She raised the tip of the hazel wand, and turned around

“I’m not getting anything.” She tossed her head, to get the hair out of her eyes, without letting go of the fork of hazel wand. “Either it’s hiding or we’re too close.” She bit her lip. Then she said, “The shilling. The one from your throat. Bring it out.”

I took it from my pocket with my left hand, offered it to her.

“No,” she said. “I can’t touch it, not right now. Put it down on the fork of the stick.”

I didn’t ask why. I just put the silver shilling down at the intersection of the Y. Lettie stretched her arms out, and turned very slowly, with the end of the stick pointing straight out. I moved with her, but felt nothing. No throbbing engines. We were over halfway around when she stopped and said, “Look!”

I looked in the direction she was facing, but I saw nothing but trees, and shadows in the wood.

“No, look. There.” She indicated with her head.

The tip of the hazel wand had begun smoking, softly. She turned a little to the left, a little to the right, a little further to the right again, and the tip of the wand began to glow a bright orange.

 

II

My mother was in there with a woman I had never seen before. When I saw her, my heart hurt. I mean that literally, not metaphorically: there was a momentary twinge in my chest—just a flash, and then it was gone.

My sister was sitting at the kitchen table, eating a bowl of cereal. The woman was very pretty. She had shortish honey-blonde hair, huge gray-blue eyes, and pale lipstick. She seemed tall, even for an

“Darling? This is Ursula Monkton,” said my mother. I said nothing. I just stared at her. My mother nudged me.

“Hello,” I said.

“He’s shy,” said Ursula Monkton. “I am certain that once he warms up to me we shall be great friends.” She reached out a hand and patted my sister’s mousey-brown hair. My sister smiled a gap-toothed smile.

“I like you so much,” my sister said. Then she said, to our mother and me, “When I grow up I want to be Ursula Monkton.”

My mother and Ursula laughed. “You little dear,” said Ursula Monkton. Then she turned to me. “And what about us, eh? Are we friends as well?”

I just looked at her, all grown-up and blonde, in her gray and pink skirt, and I was scared. Her dress wasn’t ragged. It was just the fashion of the thing, I suppose, the kind of dress that it was. But when I looked at her I imagined her dress flapping, in that windless kitchen, flapping like the mainsail

of a ship, on a lonely ocean, under an orange sky.

I don’t know what I said in reply, or if I even said anything. But I went out of that kitchen, although I was hungry, without even an apple. I took my book into the back garden, beneath the balcony, by the flower bed that grew beneath the television room window, and I read—forgetting my hunger in Egypt with animal-headed gods who cut each other up and then restored one another to life again.

My sister came out into the garden.

“I like her so much,” she told me. “She’s my friend. Do you want to see what she gave me?”

She produced a small gray purse, the kind my mother kept in her handbag for her coins, that fastened with a metal butterfly clip. It looked like it was made of leather. I wondered if it was mouse skin. She opened the purse, put her fingers into the opening, came out with a large silver coin: half a crown.

“Look!” she said. “Look what I got!”

I wanted a half a crown. No, I wanted what I could buy with half a crown—magic tricks and plastic joke-toys, and books, and, oh, so many things. But I did not want a little gray purse with a half a crown in it.

“I don’t like her,” I told my sister.

“That’s only because I saw her first,” said my sister. “She’s my friend.”

I did not think that Ursula Monkton was anybody’s friend.

 

III

I bolted, ran down the hallway, round the corner, and I pounded up the stairs. My father, I had no doubt, would come after me. He was twice my size, and fast, but I did not have to keep going for long. There was only one room in that house that I could lock, and it was there that I was headed, left at the top of the stairs and along the hall to the end. I reached the bathroom ahead of my father. I slammed the door, and I pushed the little silver bolt closed.

He had not chased me. Perhaps he thought it was beneath his dignity, chasing a child. But in a few moments I heard his fist slam, and then his voice saying, “Open this door.”

I didn’t say anything. I sat on the plush toilet seat cover and I hated him almost as much as I hated Ursula Monkton.

The door banged again, harder this time. “If you don’t open this door,” he said, loud enough to make sure I heard it through the door, “I’m breaking it down.”

Could he do that? I didn’t know. The door was locked. Locked doors stopped people coming in. A locked door meant that you were in there, and when people wanted to come into the bathroom they would jiggle the door, and it wouldn’t open, and they would say “Sorry!” or shout “Are you going to be long?” and—

The door exploded inward. The little silver bolt hung off the door frame, all bent and broken, and my father stood in the doorway, filling it, his eyes huge and white, his cheeks burning with fury.

He said, “Right.”

That was all he said, but his hand held my left upper arm in a grip I could never have broken. I wondered what he would do now. Would he, finally, hit me, or send me to my room, or shout at me so loudly that I would wish I were dead?

He did none of those things.

He pulled me over to the bathtub. He leaned over, pushed the white rubber plug into the plug hole. Then he turned on the cold tap. Water gushed out, splashing the white enamel, then, steadily and slowly, it filled the bath.

The water ran noisily.

My father turned to the open door. “I can deal with this,” he said to Ursula Monkton.

She stood in the doorway, holding my sister’s hand, and she looked concerned and gentle, but there was triumph in her eyes.

“Close the door,” said my father. My sister started whimpering, but Ursula Monkton closed the door, as best she could, for one of the hinges did not fit properly, and the broken bolt stopped the door closing all the way.

It was just me and my father. His cheeks had gone from red to white, and his lips were pressed together, and I did not know what he was going to do, or why he was running a bath, but I was scared, so scared.

 

IV

Ginnie Hempstock returned. She was carrying my old dressing gown. “I put it through the mangle,” she said. “But it’s still damp. That’ll make the edges harder to line up. You don’t want to do needlework when it’s still damp.”

She put the dressing gown down on the table, in front of Old Mrs. Hempstock. Then she pulled out from the front pocket of her apron a pair of scissors, black and old, a long needle, and a spool of red thread.

“Rowanberry and red thread, stop a witch in her speed,” I recited.

It was something I had read in a book.

“That’d work, and work well,” said Lettie, “if there was any witches involved in all this. But there’s not.”

Old Mrs. Hempstock was examining my dressing gown. It was brown and faded, with a sort of a sepia tartan across it. It had been a present from my father’s parents, my grandparents, several birthdays ago, when it had been comically big on me. “Probably . . . ,” she said, as if she was talking to herself, “it would be best if your father was happy for you to stay the night here. But for that to happen they couldn’t be angry with you, or even worried . . .”

The black scissors were in her hand and already snip-snip-snipping then, when I heard a knock on the front door, and Ginnie Hempstock got up to answer it. She went into the hall and closed the door behind her.

“Don’t let them take me,” I said to Lettie.

“Hush,” she said. “I’m working here, while Grandmother’s snipping. You just be sleepy, and at peace. Happy.”

I was far from happy, and not in the slightest bit sleepy. Lettie leaned across the table, and she took my hand. “Don’t worry,” she said.

And with that the door opened, and my father and my mother were in the kitchen. I wanted to hide, but the kitten shifted reassuringly, on my lap, and Lettie smiled at me, a reassuring smile.

“We are looking for our son,” my father was telling Mrs. Hempstock, “and we have reason to believe . . .” And even as he was saying that my mother was striding toward me. “There he is! Darling, we were worried silly!”

“You’re in a lot of trouble, young man,” said my father.

Snip! Snip! Snip! went the black scissors, and the irregular section of fabric that Old Mrs. Hempstock had been cutting fell to the table. My parents froze. They stopped talking, stopped moving. My father’s mouth was still open, my mother stood on one leg, as unmoving as if she were a shop-window dummy.

“What . . . what did you do to them?” I was unsure whether or not I ought to be upset.

Ginnie Hempstock said, “They’re fine. Just a little snipping, then a little sewing and it’ll all be good as gold.”

E hum, che musica potrei mettere alla fine di questo articolo?

Well, nel film si nomina un oceano, e mi va di cambiare un po’ genere a questo giro.

L’ISLANDA DOVEVA VINCERE, DANNATI SVEDESI!

La favola della botte

Bentornati in questo luogo di acredine e antipatia.

Il libro che vorrei segnalare oggi rientra nella categoria dei Buoni libri, tanto per dare una boccata d’aria prima dell’ultima puntata di Altieri. Non è proprio narrativa, quanto 170 pagine di trolleggio raffinato ed estemporaneo.

 

Diciamo subito che chiunque affermi di aver scritto per l’universale progresso dell’umanità è un genio del male.

In questo libriccino Swift si sbizzarrisce prendendosela con tutti a tappeto, a cominciare dagli scrittori suoi contemporanei. Difatti per tutto il libro, si finge un imbrattacarte moderno e ne scimmiotta lo stile ampolloso, le digressioni inutili e l’ego spropositato.

L’opera si apre infatti con una serie di scritti dello stesso autore, titoli imperdibili come Panegirico sul numero TRE, Storia generale delle orecchie o il mio preferito in assoluto, Modesta difesa delle azioni della plebaglia nei secoli.

Segue poi una pomposa quanto autocelebrativa lettera a nientemeno che il Principe Posterità, in cui l’autore lo mette in guardia contro un infame individuo che frequenta la sua corte e che è nemico per principio di tutte le ottime opere che gli artisti contemporanei mettono al mondo. E qui un assaggio.

Ma perché non ci siano altri dubbi per Vostra Altezza su chi fu l’autore di così grande rovina, Vi supplico di notare quella grande e orribile falce che il vostro governatore ostenta, portandosela sempre appresso. Abbiate la compiacenza, Vostra Altezza, di osservare la lunghezza, la forza, l’affilatura e la durezza delle sue unghie e dei suoi denti; considerate il suo velenoso e abominevole alito, infetto e corrosivo, nemico di ogni cosa viva, e quindi riflettete, se mai, a qualsiasi prodotto deperibile, di carta e inchiostro, della nostra generazione, sia possibile opporre adeguata resistenza.

Eh, si sa, il Tempo è una brutta bestia. Ma la colpa non è di chi forgia opere mediocri e dimenticabili. La colpa è del Tempo, e Swift è un Troll.

Leggere questo libro non è solo divertente: dà anche una misura di quanto certe bischerate non siano una decadenza nostrana, ma abbiano eccellenti precedenti. Parlando di una futura opera tutta dedicata a “lodi imparziali” sui suoi colleghi contemporanei, l’Autore afferma:

Descriverò le loro persone a lungo e nei minimi particolari, mentre ne descriverò il genio e l’intelletto in modo più succinto.

Dopo aver assistito al tipo di marketing mentecatto del baby-boom fantasy (chissenefrega se il libro fa schifo, l’ha scritto un quattordicenne lebbroso amante degli Abba, o chisssenefrega di che genere è, l’ha scritto una diciassettenne cieca), e dopo aver letto questo articolo su Masterpiece, questa frase mi ha fatto ribaltare dal ridere. Jon, Jon, se solo tu sapessi…

E sempre sullo stesso tema, l’Autore auspica la creazione di un’Accademia fatta apposta per begli ingegni, che li formi per l’universale progresso, e che dovrebbe esere strutturata con diverse scuole (Bestemmia, Salivazione, Idea Fissa, Noia… e Pederastia, che non so perché dovrebbe avere professori francesi e italiani!).

Il libro conta una lettera, una prefazione e un’introduzione prima di venire al dunque… e anche quando viene al dunque, l’Autore infila digressioni a destra e a sinistra. Ora, forse fa meno ridere oggi, ma abituata agli infodump estemporanei di buona parte dei nostri imbrattacarte fantasy o Sci-Fi, io l’ho trovato ancora attuale, amaro e divertente insieme.

Per darvi un’idea

Avendo così reso il dovuto omaggio di deferenza e riconoscimento a una consuetudine consolidata tra i nostri nuovi autori con una lunga digressione non richiesta, e un’universale critica, non necessaria, ponendo in luce, con molta fatica e grande abilità, i miei pregi e gli altrui difetti [Swift è un figo, c’è poco da fare], con integerrima giustizia verso me stesso e franchezza verso di lo so, posso ora riprendere con piacere il mio discorso, per somma soddisfazione sia del lettore che dell’autore.

La cosa doveva stuzzicarlo al punto che a metà strada infila una “digressione in lode delle digressioni”!

L’Autore fantoccio di Swift si dilunga in roba che non c’entra niente (la balorda spiegazione fisica sull’oratoria e il peso del suono) e in lamentele. Perché allora come oggi, chiaramente, qualsiasi problema l’Arte incontri non è mai da imputare al mentecatto che tiene la penna o al truffatore che vende la sua robaccia, ma ai ladri di idee, il Tempo infame o i lettori!

Ma il danno maggiore subito dalla ricezione generale degli scritti della nostra confraternita (come succede allo stato sublunare di tutte le cose passeggere) è derivato dalla vena superficiale di molti lettori del nostro tempo, i quali in nessun modo potranno essere persuasi a spingersi oltre la superficie e la scorza delle cose.

D’altro canto l’autore è anche cosciente che certe Brutte Persone disapprovano queste parentesi inconcludenti. E ribatte

Ma, dopo tutte le obiezioni di questi arroganti censori, è evidente che la società degli scrittori ben presto si ridurrebbe a un numero molto trascurabile di uomini se gli autori fossero costretti a scrivere libri con l’obbligo fatale di non offrire nulla al di là di ciò che ne è l’argomento.

Quando finalmente l’Autore si decide a venire al punto, ovvero alla Favola della Botte, capiamo che in questa parte i suoi bersagli non sono tanto critici e scrittori, quanto tre grandi sette cristiane: Cattolicesimo (impersonato dal fratello Peter), Anglicanesimo (Martin) e Protestanti (Jack, che ci fa in assoluto la figura peggiore). I tre fratelli hanno ricevuto degli abiti magici dal Padre, che crescono con loro e porteranno loro ogni bene finché rispetteranno le qualche regole che il Padre lascia loro nel testamento.

Tutto fila liscio all’inizio, finché i nostri non si innamorano delle dame Argent, Grand Titres e Orgueil. Per poter far breccia nel loro cuore, i nostri devono prima ritagliarsi un posto nell’alta società che, tutta seguace di un culto che fa dell’abito l’essenza dell’uomo, basa il proprio giudizio solo sul vestiario. I nostri sono impicciati dal testamento paterno, ma Peter, facendo leva sulla sua grande erudizione, dà il via a una serie di interpretazioni, aggiustamenti e riletture che alla fin fine si risolvono in “facciamo un po’ come ci pare”.

Peter è caratterizzato dalla vastità della cultura che impiega a proprio profitto e dalle numerose invenzioni per il bene dell’umanità, del tipo

Un altro progetto di Lord PETER su l’istituzione di un ufficio di assicurazione [le indulgenze] per le pipe, i martiri dello zelo moderno, i volumi di poesia… e i fiumi (ovvero contro i danni che questi ultimi potevano subire a causa degli incendi).

E la salamoia universale o la follia di PETER non ve le racconto, perché sono geniale e non voglio spoilerarvele.

Dopo aver rotto i piatti con Peter (spoiler…?), i due fratelli rimasti decidono di disfarsi dei fronzoli eretici, ma mentre Martin ci va coi piedi di piombo, Jack è così furioso e disgustato che dà di matto e inizia a fare a pezzi il proprio abito.

Nella sua follia, Jack fonda due nuove sette. La prima, gli Eolisti, venerano il vento e vaticinano a suon di rutti e scorregge.

Le parole non sono altro che aria, e il sapere non è altro che parole, ergo il sapere non è altro che aria.

La seconda setta fondata da Jack è chiaramente quella calvinista, che viene trattata a pesci in faccia senza alcun ritegno.

E l’Autore non si risparmia l’ennesima digressione sulla follia, in cui si permette una piccola parentesi su Luigi XIV, con mia grande gioia:

L’altro esempio è quello che lessi da qualche parte nell’opera di un autore molto antico, riguardante un potente Re, il quale in un periodo di tempo lungo trent’anni, si divertì a conquistare e perdere città, a sconfiggere eserciti e ad essere sconfitto, a cacciare principi dai loro domini, a spaventare i bambini fino a privarli dei loro mezzi di sussistenza, e a bruciare, devastare, saccheggiare, mettere a ferro e fuoco, fare crociate contro eretici, massacrare sudditi e forestieri, amici e nemici, uomini e donne. Si dice che i filosofi di ogni paese avessero in corso un grande dibattito per accertare le cause naturali, morali e politiche, per trovare una soluzione originale a tale fenomeno.

E’ sempre un piacere vedere descritto in poche righe uno dei miti della cultura francese contemporanea.

Swift non si lascia neppure sfuggire l’occasione per qualche frecciata di gratuito cinismo, tipo quando parla della felicità,

la predisposizione perpetua a essere ingannati.

Infine, concludo con un affondo ai critici, perché ovviamente Swift non perde occasione di perculare anche loro. Ed essendo io una fiskalista del caxo snz vita sxale (cit.), ho apprezzato in modo particolare la cosa. E’ come se dal passato Swift mi avesse lanciato una ciabatta!

Pausania scrive infatti che costoro erano una razza d’uomini che si dilettavano a mordicchiare il superfluo e le escrescenze dai libri: così, dopo averli a lungo osservati, i più saggi decisero di sfrondare dalle proprie opere quanto fosse in eccesso, o marcio, o morto, o avvizzito, e i rami troppo invadenti. Però, tutto questo, egli ingegnosamente nasconde sotto la seguente allegoria: che i Nopli di Argia appresero l’arte della potatura delle vigne osservando che quando un ASINO le aveva brucate esse poi crescevano più rigogliose e producevano grappoli migliori.

In definitiva, è un libro spassosissimo, ma non credo sia adatto a tutti. E’ spiritoso, arguto e trollesco, ma potrebbe risultare noioso a chi non si interessa dei soggetti sbeffeggiati. E’ scritto in modo volutamente balordo, e questo può divertire alcuni e tediare altri.

Quindi, in conclusione, caldamente consigliato a chi “bazzica” il settore della narrativa o si interessa di religione! Per gli altri, a vostro rischio. Alla peggio, vista la taglia smilza, non ci avrete investito né troppo tempo né troppi soldi.

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P.S. Il libro mi è stato regalato in italiano, quindi non ho idea del livello di difficoltà che pone la lingua originale.

Buona Pasqua a Tutti, Eolisti o meno! Festeggiamo con un’immagine di Brodèn vestito da coniglio