Prima delle grandi riforme: diplomazia, suicidi, e l’Incidente di Isshi

Uno degli eventi fondamentali nella Storia del Giappone è la cosiddetta Riforma di Taika: una serie di riforme radicali enunciate dall’Imperatore Kōtoku nel 646 che trasformarono profondamente il Paese. Prima di Kōtoku c’era il regno di Wa, 50 anni dopo c’era l’Impero del Giappone. Prima di Kōtoku c’era una coalizione di capi-clan, 50 anni dopo c’era uno stato burocratico basato su un Codice di leggi alla cinese.

La Riforma è un soggetto interessantissimo se si vuole capire il meccanismo di state formation giapponese. Ma altrettanto interessante è il mezzo secolo che precede Kōtoku. Come è stato possibile passare da una situazione all’altra? Cos’è successo, cosa ha spianato la via alla modernizzazione?

Si tratta di una combinazione tra il tracollo dell’equilibrio geopolitico nella regione (Cina-Corea-Giappone) e l’esplodere di irrisolvibili tensioni politiche nel regno di Wa stesso.

Una dinastia sparisce, generali si ribellano, e un uomo viene fatto a pezzi nella sala del trono: oggi parliamo dell’Incidente di Isshi!

Contesto politico e diplomatico

Il sipario si alza agli inizi del VII° secolo. Nella Penisola coreana troviamo il regno di Goguryeo nel nord, il regno di Baekje nel sud-ovest, e il regno di Silla a est. I più assidui lettori potrebbero chiedersi: «hey, ma non c’era una Confederazione di Gaya incuneata tra Baekje e Silla?»

E la risposta è sì, c’era. Il letterale vaso di coccio tra i due vasi di bronzo. Nel 562 è stata cannibalizzata da Baekje e, soprattutto, da Silla, lasciando i giapponesi senza uno dei loro partner commerciali e diplomatici principali.

Nelle isole, il regno di Wa controlla il grosso di Kyūshū, la parte occidentale e centrale di Honshū, e ha una forte influenza sulla piana del Kantō, anche se tracciare confini veri e propri è una questione complicata. A questo punto il re di Wa è una sorta di «capo tra i capi» che si appoggia su una classe di capi-clan suoi alleati. La sua influenza non è stabilita direttamente sul territorio, ma «irradia», diventando sempre più debole verso est e nordest, fino a svanire nel nulla nelle regioni dominate dagli emishi, simpatici piromani a cavallo di cui abbiamo parlato qui.

Tra la fine del VI° e gli inizi del VII°, il regno di Wa sta subendo quella che Fried definisce secondary state formation, ovvero un’evoluzione da stato “tribale” verso uno stato burocratico a seguito dell’influenza di stati vicini più avanzati.

[Nota: il termine “stato tribale” è oggetto di un sacco di polemica pallosissime discussioni dibattito, è usato qui solo per intendersi, non sminuzzatemi le scatole a riguardo che vi sculaccio]

Nel 604 viene stilata una lista di 17 principi che avrebbero dovuto reggere il governo del domani, la famosa “Costituzione in 17 articoli”. Non si tratta di una vera e propria Costituzione, ovviamente, quanto di un elenco di principi sulle virtù e il ruolo del governo. Un punto però, il 12, è molto chiaro:

[…] Un paese non ha due signori. Il popolo non ha due sovrani. Il sovrano è il solo signore del Paese e dei sudditi. […]

All’atto pratico si tratta di una dichiarazione di intenti di muoversi da un sistema basato sul paradigma Re di Wa -> Capi-clan -> sudditi a uno in cui Re di Wa -> sudditi.

Fino a questo punto i capi clan di gran parte delle isole, chiamati in giapponese kuni no miyatsuko, “capi di territorio”, hanno sostenuto il re di Wa, ma continuano a incarnare il potere politico, militare e religioso nella loro zona. La corte di Yamato (di cui fanno parte i capi dei clan più importanti) ha la ferma intenzione di eliminare questo anello intermedio in favore di un sistema più centralizzato e moderno. Per fare questo, i nostri partecipano attivamente a scambi di tecniche e idee con la Cina dei Sui e i regni coreani (soprattutto Baekje).

Un fatto viene però a stravolgere l’equilibrio dell’intera regione: 618, i Tang rovesciano i Sui e prendono il controllo della Cina.

Goguryeo è il primo regno a saltare nel letto coi Tang, anche perché si erano appena fatti un guerrone colossale coi Sui (vincendolo!).

Il secondo regno a legarsi ai Tang è Silla, acerrimo nemico di Baekje e di Wa.

Le cose si mettono male per il regno di Wa, e peggiorano quando una spedizione militare contro Silla, datata 623, si conclude in un colossale buco nell’acqua.

Lo stravolgimento geopolitico del Continente non è l’unica grana del regno: la corte era dominata da decenni ormai dal clan dei Soga. Costoro erano gente tanto potente quanto pericolosa, il sovrano stesso doveva trattarli coi guantini se ci teneva alla pelle.

Non è un’iperbole: il sovrano Sushun cercò di liberarsi di loro e finì sgozzato come un cinghiale.

La Corea

E le cose continuano a peggiorare: in pochi anni, i Tang pacificano le proprie frontiere e iniziano ad accarezzare l’idea di una bella espansione. I primi a preoccuparsi sono i regnanti di Goguryeo. E hanno ragione di sentirsela sdrucciolare: secondo Gernet a partire dal 627 i Tang lanciano quella che definisce «una delle più grandi espansioni militari della storia della Cina».

I Wa legano rapporti diplomatici coi Tang, interessati in particolar modo al loro sistema politico e militare. Wa deve modernizzarsi e i Tang sono un ottimo modello da seguire.

Un modello che però va applicato alla svelta: con lo scoccare del 641 è chiaro che i Tang hanno gli occhi sulla Penisola coreana.

Uno potrebbe pensare che, confrontati alla minaccia Tang, i regni coreani abbiano cercato di far fronte comune, magari tentando di rompere la stretta alleanza tra Silla e la nuova dinastia cinese.

Ma no: il re di Baekje decide che ora è il momento perfetto per attaccare Silla, primo alleato dei Tang in Corea.  Spoiler: nonostante iniziali successi militari, l’Imperatore Tang fa la voce grossa e il re di Baekje deve ritirarsi con un nulla di fatto.

E la classe dirigente di Goguryeo non se la cava molto meglio. Invece di fare fronte unito contro la minaccia straniera, il re e i ministri decidono che il pericolo più imminente per la corona è uno dei loro: Yeon Gaesomun, un militare molto influente. Troppo influente. Si decide che è meglio farlo fuori (perché assassinare i tuoi generali all’alba di una guerra è un’idea grandiosa!).

Il piano viene sospeso quando Gaesomun li invita tutti a un sontuoso banchetto.

Per nulla sospetto, vero?

Oh beh. Re e ministri accettano l’invito, Gaesomun fa sbarrare le porte e li fa uccidere tutti.

Surprised Pikachu is a Meme About Knowing Better

Gaesomun non usurpa il trono, ma mette in carica re Bojang, che, spoiler sarà l’ultimo re di Goguryeo.

E i Wa?

Anche dai Wa c’è poco da essere allegri: il regno è nella morsa di una crisi economica, il clan Soga è sempre più impopolare a Corte, e gli emishi hanno cominciato a risentire la pressione coloniale nel loro territorio (e un emishi risentito è un emishi che brucia villaggi).

Quindi tirando le somme:

  • sul piano estero l’alleato principale di Wa, Baekje, è impegnato a cercare rogne coi Tang e con Silla
  • un altro alleato potenziale, Goguryeo, è ora controllato da un generale poco socievole
  • la frontiera nordorientale è a fuoco
  • alla Capitale i vari capifamiglia stanno arrotando i coltelli.

Il regno ha disperato bisogno di riforme, ma invece che costruttivi progetti si tessono intrighi, tutto va male e le cose stanno per prendere una piega ancora peggiore.

La corte di Wa e il gran botto del 645

Alla morte della regina Suiko (628) l’erede al trono è il principe Yamashiro, figlio del Principe Shōtoku, una delle figure più influenti del periodo nonché autore putativo della Costituzione in 17 articoli. Yamashiro però è inviso ai Soga, e in particolare al loro capo, Soga no Emishi (non un nome etnico, si tratta del suo nome personale), che riesce va farlo estromettere dalla discendenza imperiale.

Fun fact: Yamashiro era figlio della sorella di Soga no Emishi. Come si vedrà dall’albero genealogico: Yamashiro, Furuhito, Iruka e Kurayamada erano tutti cugini.

Al posto di Yamashiro i Soga spingono con successo la nomina del principe Tamura (poi sovrano Jōmei), che NON era legato a loro di parentela. Come per cui i legami di sangue non sempre fanno aggio.

Il problema si ripresenta nel 642, quando Jōmei stira le zampine. Chi deve succedergli?

I Soga favoriscono il principe Furuhito, figlio di Jōmei e di una donna Soga. Un altro contendente però è il principe Naka, figlio di Jōmei e della consorte Kōgyoku.

Furuhito è un uomo adulto e ha il sostegno dei Soga, ma Naka è sostenuto dai principi imperiali opposti al clan. Per evitare che la situazione degeneri, si opta quindi per far salire sul trono Kōgyoku. Una seconda volta, la disputa è solo rimandata.

Allo scopo di spianare la strada alla nomina di Furuhito e falciare il supporto a Naka, Soga no Iruka, figlio di Emishi e uomo dal carattere conciliante e compassato di una mina magnetica del ‘39, decide che, per prima cosa, bisogna eliminare Yamashiro. Yamashiro aveva ottime ragioni di odiare i cugini, era un vecchio candidato al trono, e rappresentava un avversario politico molto scomodo.

“Feeling cute, might kill your whole family idk” (cit. Iruka)

E’ il cuore dell’inverno del 643, è buio, il freddo è pungente. Soga dà ordine ai suoi uomini: andate alla residenza del principe Yamashiro, uccidete lui, i suoi figli e tutta la sua gente.

Gli sgherri avanzano nella notte, arrivano alla residenza. Tutto tace. Stanno per scavalcare la porta quando delle lanterne appaiono sopra il muro. Sono gli uomini di Yamashiro.

I fart in your general direction!- Tuona il capo incoccando una freccia. –Your mother was a hamster and your father smelled of elderberries!

Yamashiro non è uno scemo, si aspetta un agguato. La sua gente scarica sulle capocce dei Soga una grandinata di frecce.

Dopo il primo shock, i Soga riprendono animo. Sono di più, sono meglio armati. Contrattaccano.

Yamashiro sa di non poter tenere la posizione. Scaltramente, getta delle ossa di cavallo della propria camera, appicca fuoco alla residenza e scappa insieme alla moglie e ai figli.

Dopo che le fiamme si sono calmate, gli sgherri di Iruka avanzano nel macello fumante. Hanno una mezza idea di dove si trovano gli appartamenti di Yamashiro, ci si dirigono scavalcando cadaveri e travi carbonizzate. Trovano i frammenti di osso nelle rovine fumanti.

-Aha ! Questa era la camera di Yamashiro, questo è senza dubbio il suo scheletro!

-Dici? Mi pare un po’ strano.

-E’ Yamashiro.

-Guarda che gambe, oh ! E’ proprio vero che aveva le ossa grandi…

-Ti dico che è Yamashiro.

-Senti, ma questo teschio mi pare avere un mento u po’ troppo volitivo. E questi dentoni poi…

-SENTI COSO, SONO LE 3 DI NOTTE, FA UN FREDDO CANE E ABBIAMO PERSO UN TERZO DEI NOSTRI, IO DICO CHE E’ YAMASHIRO E CHE POSSIAMO TORNARE A CASA!

Frattanto, nelle montagne, il Principe Yamashiro e i suoi fanno il punto della situazione. E’ chiaro che il momento delle discussioni è finito: Iruka ha dimostrato che no ha paura di usare le armi. Non resta che la guerra. Yamashiro potrebbe fuggire nelle provincie orientali, levare un esercito, combattere Iruka.

Questo però significa guerra civile. In un periodo in cui le casse languono, gli alleati sono inaffidabili e un esercito colossale e ultramoderno potrebbe decidere di attaccare a ogni momento. Chissà, magari una guerra civile è proprio ciò che Silla o i Tang aspettano.

Yamashiro non è disposto a correre questo rischio.

Dal Nihon shoki :

«Se facciamo come dici [NdT leviamo un esercito nell’est] saremmo certamente vincitori. Ma sento di non poter infliggere dieci anni di sofferenza sul popolo. Io sono solo un uomo, come posso portare dolore ad altri diecimila ? In futuro, non voglio che la gente dica che hanno perso le loro madri o i loro padri a causa mia»

Yamashiro non può trattare col suo nemico, e non vuole combattere, ma non ha intenzione di farsi catturare. Insieme ai suoi, ritorna al mucchio di cenere che era un tempo la sua residenza. Il tempio di famiglia è ancora in piedi. Yamashiro e la sua famiglia si riuniscono al suo interno e si suicidano tutti quanti.

Non sono morti per mano dei Soga, non sono morti in un incendio, non c’è modo di fingere che si sia trattato di un increscioso incidente. Yamashiro ha deciso di morire per risparmiare al regno la catastrofe di una guerra civile, e tosto diventa un esempio di virtù confuciana e fedeltà allo Stato. Yamashiro e i suoi non sono mere vittime di intrighi politici: ora sono martiri.

E chi ha strappato allo Stato e alla corona un uomo così fedele, così virtuoso?

Oh beh. Soga no Iruka.

Politicamente è un disastro.

Non solo: ora il nemico principale di Iruka, il principe Naka, poco più che un bambino in questa data, sa di non avere scelta. Non c’è accordo possibile, è solo questione di chi colpirà per primo.

Empresses Regnant of Japan - Empress Kōgyoku/Saimei - History of Royal Women
La faccia che fai quando sei regina di Wa e ti informano che Soga no Iruka ha di nuovo sterminato una famiglia di oppositori politici

Naka non è l’unico a odiare Iruka. Anche perché, considerati i metodi, Iruka non è tipo da farsi molti amici.

Tra quelli che lo odiano c’è un tale Nakatomi no Komako no Muraji. Non un pesce particolarmente grosso, tutto considerato. Ma è un sostenitore fedelissimo del principe imperiale Karu. Secondo lui, Karu incarna le virtù del sovrano benevolo, ed è quindi un candidato molto migliore di Furuhito.

Ma come fare a spingere la nomina di Karu, quando Furuhito ha dalla sua un clan potente e aggressivo come i Soga?

Komako ha bisogno di un alleato.

Un giorno, durante una partita della versione giapponese del calcio tra aristocratici, Komako incontra il giovane principe Naka.

I due si vanno a genio e presto scoprono di essere entrambi cultori di Confucio e degli insegnamenti del Duca di Zhou. Con mille precauzioni, i due iniziano a complottare contro Iruka.

Per evitare di essere scoperti, nascondono la loro amicizia, o parlano a bassa voce solo in luoghi pubblici, dove il frastuono impedisce ad orecchie indiscrete di ficcanasare.

I due decidono che la cosa più conveniente non è prendersela coi Soga nel loro insieme, ma di sfruttare le divisioni interne della famiglia.

Il capostipite dei Soga, quello che fece sgozzare il povero Sushun, era Soga Umako. Soga Umako ebbe molti figli, tra cui Soga Emishi, padre di Iruka, e Soga Kuramaro. Il figlio di Kuramaro è Kurayamada, erede del ramo secondario della famiglia. C’è poco amore tra i due cugini, primo perché i cugini in Giappone hanno tendenza a odiarsi, secondo perché Iruka è uno pericoloso e impulsivo, e terzo perché Kurayamada è relegato al secondo posto nel clan rispetto a Iruka.

Naka approccia quindi Kurayamada, che offre il proprio supporto (e la propria figlia) con pronto entusiasmo.

Mentre i congiurati congiurano, Iruka e suo padre costruiscono residenze fortificate. A Komako e Naka pare evidente che non c’è modo di stanarli con le cattive. Bisogna zompare Iruka mentre non è i una delle sue basi.

E la possibilità si presenta nel 645.

E’ il sesto mese, l’Imperatrice terrà una grande udienza in cui le saranno presentati i doni da parte dei re coreani e le sarà letto il rapporto sullo stato geopolitico della penisola.

Naka nasconde una lancia nel padiglione e si prepara ad attaccare con un paio di alleati.

Il principe Furuhito è presente, e così Iruka, che arriva armato di spada. Komako riesce però a metterlo a proprio agio e a convincerlo a lasciare l’arma prima di prendere il proprio posto.

Tutto è pronto. Kurayamada deve leggere il rapporto dalla Corea alla regina. La lettura del rapporto è il segnale per gli amici di Naka che è ora di intervenire e uccidere Iruka!

Kurayamada si alza per leggere il documento. Naka passa ordine alle guardie di bloccare le uscite e non fare passare nessuno, per nessun motivo.

I due alleati di Naka intanto tremano all’idea di attaccare l’uomo più pericoloso e potente del Paese. Entrambi si sentono male, vomitano per la tensione, cercano di restare saldi.

Intanto Kurayamada sta leggendo. Linea dopo linea, recita i carateri cinesi a voce alta. Naka e i suoi dovrebbero attaccare, ma niente si muove. Kurayamada sente gli occhi di Iruka piantati addosso. Il rapporto è quasi finito.

Il suo corpo era fradicio di sudore, la sua voce vacillava e le sue mani tremavano.

Kuratsukuri no Omi [Iruka, NdT] si insospettì e chiese: «perché tremi così?»

[Kura]yamada no Maro rispose: «Sono in soggezione perché sono così vicino a Sua Maestà, e senza volere sto sudando.»

Vedendo il terrore e l’esitazione dei suoi, Naka afferra la lancia e si avventa per primo. Gli altri lo seguono, sguainano le spade, irrompono nel mezzo della sala, colpiscono Iruka alla base del collo e alla gamba.

Iruka si trascinò presso il seggio dell’Imperatrice, e chinando il capo disse:

«Coloro che succedono al soglio imperiale sono i figli del cielo. Non credo di aver alcuna colpa, ma se ve ne sono, che siano investigate!»

L’Imperatrice era sconvolta, e disse a Naka no Ōe:

«Non so di cosa si tratti. Cosa sta succedendo?»

Naka no Ōe si prosternò e disse:

«Kuratsukuri [Iruka, NdT] si adopera per rovesciare il trono, e metterà fine al lignaggio. Come accettare che i discendenti del cielo siano rovesciati in favore di Kuratsukuti?»

[…] L’Imperatrice si alzò e se ne andò nella sala, Allora Saeki no Muraji Komaro e Wakainukai no Muraji Amita uccisero Iruka no Omi.

Scapitozzamento di Iruka, dal Tōnomine engi emaki

Così moriva uno degli uomini più potenti del Paese, fatto a pezzi nella sala del trono, abbandonato dalla propria sovrana.

Il cadavere fu portato alla residenza di suo padre. Sapendo che era solo questione di tempo prima che i soldati venissero a finire il lavoro, Emishi incendiò la propria residenza e morì nel rogo, portando con sé i tesori e la biblioteca del clan.

Una settimana dopo, Kōgyoku abdicava in favore del principe Karu. Naka divenne principe ereditario alla tenera età di diciannove anni. Una ventina d’anni dopo sarebbe a sua volta salito al trono col nome di Tenji. Nakatomi Komako fu premiato col nome di Fujiwara e divenne Fujiwara no Kamatari, capostipite del potentissimo clan Fujiwara (che vedete comparire negli articoli su Masakado o sulla Guerra di Genpei). Quanto al principe Karu, divenne l’Imperatore Kōtoku, il grande riformatore.

Rogo della residenza di Emishi, dal Tōnomine engi emaki

Questo colpo di mano del principe Naka, principe Karu e Nakatomi Komako fu decisivo nella Storia della corte: I tre architetti del colpo di stato furono quelli che lanciarono la Grande Riforma di Taika, che, basandosi sui principi della Costituzione in 17 articoli, catapultò il regno di Wa dallo stadio di proto-stato clanico a quello di impero burocratico basato su leggi scritte e governato da un’aristocrazia civile costituita da funzionari.

Ma di Taika e del Codice amministrativo parleremo un’altra volta.

Per ora imparate dalla triste sorte di Iruka: la morte del tuo nemico non è necessariamente una buona notizia.

MUSICA


Bibliografia

Un articolo sugli scavi archeologici svolti alla residenza di Iruka in Nara

COHEN Ronald e SERVICE Elman R., Origins of the State : The Anthropology of Political Evolution, Institute for the Study of Human Issues, Philadelphia, 1978

GERNET Jacques, Le monde chinois, vol. 1, Pocket, Paris, 2008

GRAFF David A., HIGHAM Robin, A military History of China, University Press of Kentucky, Lexington, 2012

INOUE Mitsusada, dans HALL John Witney, JANSEN Marius B., KANAI Madoka, TWITCHETT Denis, éd. The Cambridge History of Japan vol. 1, Cambridge University Press, Cambridge, 1993

INOUE Mitsusada, SAKAMOTO Tarō, IENAGA Saburō, ŌNO Susumu, Nihon shoki (jō, ge), Tōkyō, Iwanami Shoten, 1968

KUJI Fujio, Nihonjin to uma no bunkashi, Tōkyō, Bushindō,  2016

LI Ogg, Recherche sur l’Antiquité Coréenne vol. I – Ethnie et Société de Koguryou, Collège de France, Paris, 1980

MORI Kimiyuki, Higashi Ajia no dōran to Wakoku, Tōkyō, Yoshikawakōbunkan, 2006

NAGASAKA Kaneo, Jūshichi-jō kenpō, Yūzankaku, Tōkyō, 1937

TAKAHASHI Takashi, Emishi, Chūkōshinsho, Tōkyō, 1989

La Paura, un romanzo coraggioso

La Prima Guerra Mondiale è stata senza dubbio una delle più colossali catastrofi che abbiano segnato la Storia europea. E’ un fenomeno di una vastità e di una complessità straordinarie, con ramificazioni sconfinate che continuano a riecheggiare tutt’oggi nel discorso politico, culturale e artistico. Ancora oggi leggo interventi di gente che cerca di rispulizzirla, di girarla in positivo, tipo “ha cimentato l’Italia come stato-nazione”. Che è un po’ come dire che il bombardamento di Tokyo ha risolto l’annoso problema del traffico, ma vabbé.

Oggi non intendo entrare troppo nella polemica della propaganda nazionalista e low key guerrafondaia, perché questo onore lo lascio tutto al protagonista della nostra storia: il soldato Jean Dartemont!

L’autore

Gabriel Chevallier (@gabrielchevall2) | Twitter

Chevallier is watching you

L’autore dietro le disavventure di Dartemont è Gabriel Chevallier. Chevallier nasce nel 1895 in una famiglia della borghesia Lionese. Ha 19 anni quando scoppia la guerra ed è chiamato alle armi. Appena finito l’addestramento, il nostro viene rimpinzato di schegge e finisce in ospedale. Ristabilito, viene rispedito al fronte, dove si fa il resto della guerra.

Chevallier torna tutto d’un pezzo e campa il resto della vita facendo una serie di lavori, dall’illustratore al giornalista al commesso viaggiatore… allo scrittore.

Chevallier comincia a scrivere nel 1925, basandosi sulla sua esperienza di veterano. Il suo primo romanzo, che ha come narratore il soldato Dartemont (l’autore sotto mentite spoglie), La Peur, è pubblicato nel 1930.

Il romanzo viene ricevuto malissimo.

Il genere

Nel suo saggio Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Rieuneau ha studiato l’immagine della Grande Guerra che emerge dai romanzi dell’epoca. Un migliaio di scrittori si sono trovati sotto le armi, e il loro contributo alla letteratura francese è ricco e variegato.

In particolare, a noi interessa quella che Rieuneau definisce “L’epoca dei testimoni”, ovvero testi scritti da reduci che parlano della loro esperienza diretta.

Il tipo di “romanzo-testimonianza” si diffonde a partire dal 1916. Un esempio emblematico è il famosissimo Le Feu di Henri Barbusse.

Nella ventina di romanzi rappresentativi di questa corrente, vediamo cicciar fuori spesso gli stessi posti, fatti, esperienze. Anche le motivazioni degli autori paiono simili: il bisogno di raccontare la propria storia, e il desiderio che questa storia sia ricordata.

Questo bisogno di parlare del proprio trauma, di vederlo riconosciuto dagli altri, è pressoché universale. E’ uno dei temi principali del documentario The Look of Silence, di Oppenheimer: l’impossibilità di parlare del proprio dolore, di vederlo riconosciuto dai nostri simili, è un ostacolo insormontabile nel processo di lutto che caratterizza, in modo più o meno intenso, il superamento di ogni trauma.

Il fatto che questi romanzi abbiano tutti temi e fatti in comune non significa però che siano libri simili. Come dice Sicard, possiamo distinguere quattro grandi categorie del genere:

  • La testimonianza pura, dritta dritta dalle pagine di diario del combattente
  • La letteratura della smobilitazione, dove non si parla più dell’esperienza diretta del combattimento ma della guerra in generale, come concetto, come fenomeno, la sua natura e ciò che fa agli uomini che ne sono coinvolti
  • Il culto dell’eroismo, ovvero storie che celebrano la guerra come una sorta di catalizzatore esplosivo che fa emergere le migliori virtù dell’uomo. Un caso celeberrimo in questo ambito è quel matto di Montherlant, con La Relève au Matin (1920) o Le Songe (1922)
  • La letteratura di protesta. Ovvero quelli che a Motherlant avrebbero cacciato volentieri uno stivale nel culo. Si tratta di opere diversissime tra loro (Sicard cita Les Drapeaux di Paul Reboux, Le Sel de la Terre di Raymond Escholier o Les Suppliciés di René Naegelen), ma accomunate da un rifiuto della guerra, un’attitudine disincantata o ostile alla prosopopea nazionalista, se non proprio uno slancio internazionalista

Rieuneau identifica questo tipo di romanzo come tipico del decennio 1919-1929. La Peur è un po’ più tardivo, essendo uscito nel 1930, ma si inserisce perfettamente in questo filone.

Nel romanzo, Chevallier rivisita le sue esperienze con lo pseudonimo Jean Dartemont. Attraverso le parole di Dartemont, il nostro racconta la follia della guerra, la paura onnipresente, l’assurdità della propaganda nazionalista, il senso di impotenza e ingiustizia del soldato semplice davanti alla colossale catastrofe del conflitto mondiale.

Il romanzo non è un resoconto pedissequo delle sue disavventure, ma è chiaramente una rielaborazione che mischia esperienze reali e riflessioni politico-filosofiche. Passaggi descrittivi crudi e sinceri si alternano a brani narrati con toni quasi caricaturali, a dialoghi che ricordano i dibattiti platonici, dove Dartemont dichiara le proprie convinzioni. La Peur non è semplicemente una testimonianza, La Peur è un romanzo dichiaratamente, violentemente politico. Ma di questo parleremo più in dettaglio.

Il libro

La Peur - Poche - Gabriel Chevallier - Achat Livre | fnac

Je vais vous dire la seule occupation qui compte à la guerre: J’AI EU PEUR

A 19 anni, Jean Dartemont parte soldato. Non è un convinto nazionalista, ma non è nemmeno un pacifista. E’ giovane e curioso, vuole vedere come una vera guerra è combattuta (perché si sa, a 19 anni siamo tutti immortali).

La curiosità di Dartemont sarà soddisfatta fin troppo alla svelta. Per quattro anni.

La storia, grosso modo, è questa. Non c’è una vicenda strutturata, un arco vero e proprio, se non una progressiva realizzazione dell’assurdità della guerra, la rabbia e la frustrazione all’idea che stai per morire a 19 anni senza nessuna buona ragione, e un’analisi penosa dell’effetto della paura estrema e cronica a cui il fante di linea viene sottoposto.

Chevallier non nega coraggio e l’eroismo, ma non celebra le grandi virtù guerriere, il romanticismo di morire per la Patria. Dartemont e i suoi compagni non sono esempi di eroismo classico. Quello che Chevallier pensa della narrativa romantica nazionalista e militarista è chiaro fin dalle prime pagine:

[NOTA: le citazioni sono prese dalla traduzione italiana, precisazioni in bibliografia]

Quando si è vista la guerra come l’ho vista io viene da chiedersi: «Perché mai si accetta una cosa simile? In nome di quale tracciato di confini, di quale onore nazionale la si può legittimare? Come si può travestire da ideale ciò che è pura delinquenza, e fare in modo che venga approvato?».

Ai tedeschi hanno detto: «Avanti con questa guerra nuova e lieta! Nach Paris e Dio è con noi, per una Germania più grande!». E quei bonaccioni dei tedeschi, che prendono tutto sul serio, si sono messi in marcia per la conquista trasformandosi in bestie feroci.

Ai francesi hanno detto: «Ci attaccano. È la guerra del Diritto e della Rivincita. Tutti a Berlino!». E i francesi pacifisti, i francesi che non prendono niente sul serio, hanno interrotto le loro fantasticherie di agiati borghesi per andare a combattere.

È successa la stessa cosa agli austriaci, ai belgi, agli inglesi, ai russi, ai turchi e poi agli italiani. Nel giro di una settimana venti milioni di uomini civilizzati, intenti a vivere, ad amare, a far soldi, a costruire il futuro, hanno ricevuto l’ordine di piantare tutto in asso per andare a uccidere altri uomini. E quei venti milioni di individui hanno obbedito perché li avevano convinti che quello era il loro dovere.

Venti milioni, tutti in buonafede, tutti d’accordo con Dio e con il loro sovrano… Venti milioni di idioti… Come me!

 

E ancora:

Dopo un anno di vita militare mi capita di pensare che sono un pessimo soldato e di rammaricarmene come una volta mi rammaricavo di essere un pessimo studente. È chiaro, non riesco a piegarmi ad alcuna regola. Devo biasimarmi? L’incapacità di accettare i princìpi che mi hanno insegnato è forse un vizio? In linea di massima credo che sia un bene, e che quei princìpi siano nefasti. Ma a volte, quando vedo tutti gli altri coalizzati contro di me e sicuri delle loro idee, inizio a dubitare: anch’io ho le mie debolezze, come chiunque, e mi arrendo all’opinione comune… Temo di non essere adatto a questa guerra che richiede solo passività e spirito di sopportazione. Non sarebbe meglio per la mia tranquillità se io fossi un combattente privo di incertezze, come ce ne sono tanti (ma io ne ho mai conosciuti?), che lotta con accanimento per la patria nella convinzione che la morte di ogni nemico ucciso gli valga un’indulgenza presso il suo dio? Ho la sfortuna di riuscire ad agire solo in virtù di un motivo approvato dalla mia ragione, e la mia ragione rifiuta certe costrizioni che le si vorrebbero imporre. Gli insegnanti, un tempo, mi rimproveravano di essere troppo indipendente; poi ho capito che temevano il mio giudizio, e che la mia logica di adolescente sollevava problemi che loro avevano deciso di accantonare. Ma oggi le costrizioni sono più forti, e chi le esercita forse mi farà ammazzare.

Le descrizioni offerte da Chevallier sono vivide, a tratti surreali. Quando il fronte si avvicina, l’impressione non è tanto quella di una lotta tra uomini, ma di un cataclisma. C’è un’ironia fatalista e orrida nell’idea di essere a un soffio dalla morte, e questo senza nessuna buona ragione, senza nessun modo di svincolarsi. E’ una situazione orrida, è una situazione assurda.

Una vampata che sembrava investire il mondo intero ci strappò al torpore. Avevamo appena superato una cresta, e il fronte, davanti a noi, ruggiva con tutte le sue bocche infuocate, fiammeggiando come una fucina infernale i cui mostruosi crogioli trasformavano in una lava di sangue la carne degli uomini. Ci veniva la pelle d’oca all’idea di essere solo una palata di carbone destinata ad alimentare quella fornace, al pensiero che dei soldati, laggiù, lottavano contro la tempesta di ferro, contro l’uragano di fuoco che faceva ardere il cielo e tremare le fondamenta della terra. Le esplosioni erano così ravvicinate da produrre l’impressione di un unico bagliore e di un boato ininterrotto. Sembrava che qualcuno avesse buttato un cerino sull’orizzonte zuppo di benzina, e che un genio malefico continuasse a versare del punch su quelle diaboliche fiammate e sghignazzasse lassù celebrando la nostra distruzione. E perché nulla mancasse a quella macabra festa, perché un contrasto ne accentuasse ulteriormente l’aspetto tragico, vedevamo razzi leggiadri innalzarsi verso la cima di quell’inferno e sbocciare come fiori di luce, per poi ricadere, moribondi, con uno strascico da cometa. Eravamo abbagliati da quello spettacolo, il cui angosciante significato era chiaro solo ai veterani. Fu la prima visione che ebbi della furia scatenata del fronte.

Come dice il titolo stesso del romanzo, un tema domina le pagine: la paura.

Chevallier racconta la paura con un candore spietato. La paura è una sorta di infezione, una febbre che aggredisce l’uomo fin dall’inizio e lo rode ogni giorno, senza dargli mai pace.

Quest’angoscia costante è mista a un complicato ventaglio di emozioni contraddittorie. Chevallier parla senza remore del risentimento, dell’incertezza, del disperato desiderio di vivere e del senso di colpa dell’essere ancora vivo. In quello che lui stesso descrive come uno dei ricordi peggiori che il fronte gli lascia, Chevallier racconta il suo primo incontro ravvicinato con dei cadaveri freschi:

A un tratto il soldato che mi precedeva si accovacciò e iniziò a trascinarsi sulle ginocchia per infilarsi sotto un ammasso di materiali che ostruivano il passaggio. Mi accovacciai anch’io e lo seguii. Quando si rialzò mi apparve davanti un uomo di cera, supino, che spalancava una bocca senza respiro e occhi senza espressione, un uomo freddo, irrigidito, che probabilmente si era rifugiato sotto quell’ingannevole riparo di assi e lì era morto. All’improvviso mi trovavo a tu per tu con il primo cadavere recente che avessi mai visto. Il mio volto passò a pochi centimetri dal suo, il mio sguardo incrociò il suo sguardo, spaventoso e vuoto, e la mia mano sfiorò la sua mano, ghiacciata e illividita dal sangue che gli si era gelato nelle vene. Durante il breve faccia a faccia che mi impose, ebbi la sensazione che il morto mi incolpasse della sua fine e minacciasse vendetta. È una delle impressioni più tremende che ho riportato dal fronte.

Ma quel morto era il custode di un regno di morti. Quel primo cadavere francese precedeva centinaia di altri cadaveri francesi: la trincea ne era piena.

[…]
Intravidi da lontano il profilo di un piccoletto barbuto e calvo, seduto sulla banchina di tiro, che sembrava ridere. Era il primo volto rilassato e rassicurante che incontravamo, e andai verso di lui spinto da un moto di gratitudine, chiedendomi: «Che avrà poi da ridere?». Rideva della propria morte! Aveva la testa tranciata perfettamente in due. Oltrepassandolo feci un balzo all’indietro nel rendermi conto che a quel viso allegro mancava l’altra metà.4 Il cranio era completamente vuoto. Il cervello, saltato via in blocco, si trovava proprio accanto al cadavere – come un pezzo di trippa sul banco di un venditore di frattaglie –, vicino alla mano, che lo indicava. Quel morto ci aveva giocato un macabro scherzo. Forse rideva per quello. Lo scherzo raggiunse il colmo dell’orrore quando uno dei nostri lanciò un grido strozzato e scappò via come un pazzo facendosi strada a spintoni.

«Che ti prende?».

«Credo che sia… mio fratello!».

«Guardalo da vicino, santo cielo!».

«Non ce la faccio…» bisbigliò il soldato mentre si allontanava.

Dartemont combatte e uccide per salvare la propria pelle. Dartemont prova simpatia per i prigionieri o i disertori tedeschi, perché si riconosce in loro più che non nei propri ufficiali.

A volte il nemico più terrificante è il cecchino, a volte è il tuo colonnello, a volte la cosa più pericolosa che puoi fare è andare a la latrina durante un bombardamento. Accucciato tra le rocce Dartemont deve valutare se vale la pena rischiare la pelle o cagarsi addosso. Sono episodi umilianti, che Chevallier racconta senza pudore.

Cadaveri di Verdun, scaraventati sulle chiome degli alberi da un’esplosione

In uno dei passaggi più celebri del romanzo, Dartemont è all’ospedale, pieno di schegge. A un’infermiera patriottica che gli chiede com’è il combattimento, Dartemont risponde:

Vi dirò la sola occupazione che conta in guerra: HO AVUTO PAURA.

La cosa che domina in prima linea non è il pensiero della Patria o l’onore o lo slancio guerriero, ma la paura. Miserabile, abbietta, oscena paura.

Entriamo in agonia.

L’attacco è sicuro. Ma siccome dobbiamo rinunciare agli assalti frontali, che non riescono a sfondare, avanzeremo lungo i camminamenti. Il mio battaglione deve attaccare gli sbarramenti tedeschi con le bombe a mano. Io, come granatiere, andrò tra i primi.

Non conosciamo ancora l’ora prevista per l’attacco. Verso mezzogiorno ci dicono: «Sarà stasera o stanotte».

Dalle latrine, che sono rialzate, si scorgono le linee nemiche. La pianura, leggermente in salita, è circondata in lontananza da quello che resta di un bosco martoriato, il Bois de la Folie, che, a quanto sembra, il comando si prefigge di occupare. Corre voce che abbiamo di fronte la guardia imperiale tedesca, pronta ad accoglierci con proiettili esplosivi.

Che fare fino a sera? Non conto granché sulle bombe a mano, che non so usare. Smonto il fucile, lo pulisco con cura, lo ingrasso e lo avvolgo in uno straccio. Controllo anche la baionetta. Non so come si combatte dentro un camminamento, avanzando in fila indiana. Ma dopotutto il fucile è un’arma, l’unica che conosco veramente, e devo pur prepararmi a lottare per la vita. Nemmeno sul coltello conto granché.

Soprattutto non devo pensare… E a cosa poi? A morire? Non posso pensarci. A uccidere? È un’incognita, e di uccidere non ho nessuna voglia. Alla gloria? La gloria non si conquista qui, ma standosene nelle retrovie. Ad avanzare di cento, duecento, trecento metri nelle linee tedesche? Ormai so fin troppo bene che questo non cambierebbe di una virgola l’andamento della guerra. Non sono mosso né dall’odio, né dall’ambizione, né da altri stimoli. Eppure devo andare all’attacco…

Ho un unico obiettivo: schivare i proiettili, le bombe a mano e le granate, salvare la pelle, che si vinca o si perda. D’altra parte: vinci se resti in vita. E questo è l’unico obiettivo di tutti, qui.

Il capitolo sulla permanenza in ospedale è una lunga sezione verso metà del libro, ed è una delle più “costruite”. Si perde completamente il sapore spontaneo e realistico degli aneddoti di trincea, per una specie di messa in scena dialettica tra Dartemont, giovane istruito e segnato dalla guerra, e le infermiere, incarnazioni della visione borghese e nazionalista, donnette con la testolina piena di propaganda che non sanno, non possono sapere ciò che succede al fronte.

Questa parte è insieme una delle più difficili e più interessanti da leggere. Dartemont non è sempre un narratore congeniale, e in queste pagine emerge tutto il suo classismo e il sessismo spicciolo che per il lettore attuale può risultare davvero stridente. Allo stesso tempo si tratta anche di un momento di quiete narrativa in cui Chevallier può elaborare il suo messaggio politico, il suo risentimento verso una società guerrafondaia e intellettualmente inetta.

Le infermiere si stupiscono nel constatare che al dovere così come lo intendono loro si possono opporre altri doveri, che esistono ideali sovversivi più elevati, di più ampio respiro e più proficui per l’umanità.

Comunque, la signorina Bergniol ha concluso:

«Non educherò i miei figli secondo le sue idee».

«Lo so, signorina. Voi, che potreste essere portatrici di fiaccole oltre che di creature, trasmetterete ai vostri figli solo la tremolante candela che avete ricevuto, da cui cola la cera che vi brucia le dita. Sono le candele che hanno incendiato il mondo invece di illuminarlo. Sono i ceri con cui domani, di nuovo, un’umanità cieca accenderà i bracieri sui quali si consumeranno i frutti delle vostre viscere. Il loro dolore a quel punto non sarà altro che cenere; e nel momento stesso in cui il sacrificio si compirà, lo sapranno e vi malediranno. Con i vostri princìpi, se se ne presenterà l’occasione, sarete a vostra volta delle madri disumane».

Come si può constatare, questi passaggi sanno più di comizio che di autobiografia. Come dicevo, La Peur è un romanzo politico, ma di nuovo, torneremo sull’argomento.

La parte in ospedale non è una mera parentesi educativa e polemica: anche in queste pagine l’esperienza diretta fa capolino. Qui possiamo vedere cosa succede agli “eroi”, l’impatto che ferite e trauma hanno sui combattenti. Un personaggio spicca tra gli altri: Charlet, un conoscente che Dartemont ritrova in ospedale, addetto a raccattare i pitali pieni di merda dei feriti.

Al soldato infermiere abbiamo affibbiato un soprannome impietoso: Popò. So che lui ne è amareggiato. Lo so perché ho conosciuto André Charlet prima della guerra, all’università, dove figurava tra gli studenti migliori, quelli pieni di curiosità e di idee. Pubblicava sulle riviste giovanili certi brillanti sonetti che rappresentavano la vita come un immenso campo di conquista, una foresta divina e stupefacente in cui si addentrano gli esploratori scelti per poi tornarne carichi di frutti meravigliosi dai sapori sconosciuti, di donne dalla bellezza esotica e di mille barbarici oggetti dal ricercato gusto primitivo. Durante la mobilitazione si era arruolato tra i primi ed era stato gravemente ferito nel corso dell’anno seguente.

L’ho ritrovato qui, abbattuto, senza energie e sporco. Pochi mesi di guerra lo hanno trasformato, gli hanno conferito questa aria irrequieta, questa magrezza e questa pelle giallastra. L’esperienza del fronte gli ha lasciato addosso un terrore folle, che gli si legge negli occhi. Pur di restare all’ospedale ha accettato un simile incarico, con le sue ripugnanti incombenze. Interpretando il ruolo di Popò, riesce a prolungare di tre mesi la sua permanenza qui, in virtù di non so quale ordinanza militare che autorizza gli ufficiali medici ad avvalersi temporaneamente di assistenti. D’altronde è molto probabile che in seguito venga assegnato alle truppe ausiliarie, se non addirittura riformato. Lui però preferisce evitare di sottoporsi a una commissione se non in ultima istanza, perché teme che il suo corpo non sia abbastanza malconcio da giustificare un’esenzione che gli eviti il ritorno al fronte. Ma è il solo ad avere questo timore; quanto a noi, lo riteniamo destinato alla morte per tubercolosi, più inesorabile delle granate.

[…]

Presto o tardi doveva succedere. Mi stupisco che le anomale trasformazioni avvenute in lui non me l’abbiano fatto intuire. Per quanto demoralizzato, un uomo giovane si riprende in fretta; Charlet invece si incupiva sempre più.

Prima, quando è entrato in corsia, le dita contratte, i tic che gli alteravano i lineamenti, l’andatura a scatti tradivano uno stato di forte tensione nervosa. Ha comunque iniziato il suo turno come al solito, ma senza nemmeno salutarmi.

Verso l’una mi è improvvisamente comparso davanti. Aveva una faccia spaventosa, terrea, con delle chiazze scure e gli occhi cerchiati di rosso. Mi ha messo il braccio sotto il naso:

«Annusa! Annusa, dài!».

«Be’, che c’è?».

Spingeva il braccio verso di me con violenza. Mi sono fatto indietro.

«Allora, lo senti? Lo senti l’odore?».

Mi fissava con occhi scintillanti, furibondi, da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Avvicinando il suo volto al mio fino a toccarlo, mi ha detto queste parole incredibili:

«Sono una merda».

«Via, Charlet, sei impazzito?».

«Insomma, annusa!».

Più ancora della sua rabbia, mi ha spaventato la bava che gli stava colando dalla bocca. Per fortuna lo hanno chiamato:

«Ehi, Popò!».

Si è lanciato in direzione di Peignard gesticolando in modo scomposto:

«Mi chiamo Merda, chiaro? E non sopporterò oltre i vostri volgari insulti!».

Ho capito che era andato fuori di testa e subito ho temuto per i feriti più malconci: Peignard con il suo piede, Diuré con i suoi tubi di drenaggio, il povero bretone. Ho chiamato gli altri, quelli più in forze, che lo hanno attorniato mentre qualcuno andava a cercare aiuto. Lui, in piena crisi, tentava di scappare e gridava:

«Vi tengo in pugno, farabutti! Tutti gli uomini sono miei sudditi! Io sono la verità, il padrone del mondo!».

Finalmente tre marcantoni sono saliti dagli scantinati e lo hanno trascinato via.

Ci riverremo, ma quando lessi questo passaggio pensai al periodo in cui il libro fu pubblicato: 1930.

Chi è un minimo familiare con la Storia del periodo conosce il colossale stigma sociale associato con il tracollo mentale dei combattenti. Lo stress post-traumatico, o shell shock com’era chiamato nel primo dopoguerra, era considerato più vergognoso della Sifilide. Basti pensare che a due riprese, nell’agosto del ’43, il Generale Patton prese a schiaffi due dei suoi soldati affetti da shell shock.

Nel 1930 Chevallier raccontava l’effetto della paura, lo rivendicava, lo esponeva.

Rieuneau definisce Chevallier come “l’anti-Montherlant”, qualcuno che non solo sfata i miti della propaganda, ma che odia con ogni fibra del suo corpo la glorificazione della guerra.

«Nègre, vorrei farti una domanda che continua a tormentarmi. Che ne pensi del coraggio?».

«Ancora! La questione è stata definitivamente archiviata. Gli specialisti se ne sono occupati nel silenzio dei loro laboratori. Te lo dico una volta per tutte: il francese è coraggioso per natura, ed è l’unico a esserlo. I tecnici hanno dimostrato che per mandare il tedesco in battaglia bisogna fargli inalare dell’etere. Questo coraggio artificiale non è coraggio. E tu che mi racconti?».

«Io? Detto tra noi: mi sono rotto i coglioni!».

Incastrato nelle trincee, Dartemont prova un incontenibile senso di ribellione. Uno slancio che però non ha nessuna speranza di sfogare: se non gli sparano i tedeschi, saranno i suoi a farlo. Costretto in un gioco truccato contro di lui, Dartemont può solo cercare di sopravvivere, per poter un giorno raccontare la sua esperienza.

Quella notte pensai al destino del soldato sconosciuto che avevamo appena importunato nella sua tomba, e che altri avrebbero nuovamente calpestato. Immaginavo un uomo simile a me, cioè giovane, pieno di progetti e di ambizioni, di amori ancora indefiniti, appena affrancatosi dall’infanzia e sul punto di sbocciare. La vita, per come la vedo io, assomiglia a una partita che inizia a vent’anni e la cui posta si chiama successo: i soldi per i più, la fama per qualcuno, la stima degli altri per pochissimi. Vivere, durare non è niente; realizzare è tutto. Chi muore giovane è paragonabile a un giocatore che abbia appena ricevuto le sue carte e a cui venga proibito di giocare. E per quel giocatore, forse, si trattava di una rivincita… Vent’anni di studi, di sottomissione, di desideri e di speranze, tutta la somma di sentimenti che un essere umano porta dentro di sé e che costituisce il suo valore avevano trovato in quell’angolo di trincea il loro punto di arrivo. Se dovessi morire adesso non direi: «è spaventoso» o «è terribile», ma: «è ingiusto e assurdo», poiché non ho ancora tentato niente, fatto niente se non aspettare la mia occasione e la mia ora, limitandomi a conservare le forze e a pazientare. La vita secondo la mia volontà e le mie inclinazioni è appena cominciata, o meglio deve ancora cominciare, visto che la guerra ne ha rinviato l’inizio. Se soccombo adesso, sarò stato solo dipendente e incolore. Quindi sconfitto.

Tutti i temi dei romanzi rivoluzionari e pacifisti si ritrovano mischiati e confusi nella storia caotica di Dartemont.

Chevaillier racconta gli orrori macabri del campo di battaglia, ma senza attardarcisi troppo. Dopotutto altri prima di lui avevano sviluppato quell’angolo: Barbusse, Dorgelès, Naegelen…

La parte che più parla di combattimenti è quella dedicata all’offensiva sul Chemin des Dames.

Per gli italiani, la faccenda è più nota come “Seconda battaglia dell’Aisne”, una massiccia offensiva avvenuta tra l’aprile e l’ottobre del 1917. Non entro nei dettagli perché si tratta di una roba degna di un intero saggio (se vi interessano i massacri sull’Aisne, ai tempi avevo raccontato dell’Affaire de Crouy). Qui basti sapere che le operazioni primaverili, dirette dal generale Nivelle, si conclusero in un sanguinosissimo disastro condito con ammutinamenti.

Chevallier partecipò all’offensiva.

Non conosco ripercussioni morali paragonabili a quelle provocate dal bombardamento su chi si è rintanato in un ricovero. La sicurezza si paga al prezzo di un crollo interiore, di un logorio dei nervi davvero tremendi. Non conosco niente di più angosciante di quel martellamento sordo che ti bracca sottoterra, tenendoti sepolto in una fetida galleria che può diventare la tua tomba. Per riemergere dall’abisso è necessario uno sforzo che, se non si è superato lo spavento fin dall’inizio, la volontà non è più in grado di compiere. Bisogna lottare contro la paura ai primi sintomi, altrimenti ti irretisce, e allora sei spacciato, trascinato in una catastrofe che l’immaginazione accelera con le sue spaventose invenzioni. Una volta scossi, i centri nervosi trasmettono comandi del tutto incongrui e, con le loro assurde decisioni, rischiano di contravvenire persino all’istinto di conservazione. Il colmo dell’orrore, che rende lo scoramento ancora più grave, è che la paura non toglie all’uomo la facoltà di giudicarsi. Egli vede se stesso sull’ultimo gradino dell’ignominia e non riesce a risollevarsi, a giustificarsi ai suoi stessi occhi.

Questo è lo stato in cui mi trovo…

Sono rotolato in fondo al baratro di me stesso, in fondo alle segrete dove si nasconde la parte più riposta dell’anima. Un’immonda cloaca, una tenebra vischiosa. Ecco cos’ero senza saperlo, ecco cosa sono: uno che ha paura, una paura incontrollabile, una paura da mettersi a piangere, che ti annienta… Per farmi uscire dovrebbero cacciarmi fuori a calci. Ma accetterei di morire qui, credo, pur di non essere costretto a salire quei gradini… Ho paura al punto da non tenere più alla vita. Del resto, per me provo solo disprezzo. Per resistere contavo sulla stima di me stesso, e ora l’ho persa. Come potrei ostentare ancora sicurezza adesso che so chi sono veramente? Come potrei mettermi in luce, brillare, dopo quello che ho scoperto? Forse riuscirò a ingannare gli altri, ma sarò sempre consapevole di mentire, e questa messinscena mi dà la nausea. Penso a Charlet, alla compassione che provavo per lui all’ospedale. Sono caduto in basso come lui.
[…]

Sotto i sacchi per la sabbia del mio giaciglio ho trovato una bottiglia vuota da un litro, con il tappo, e la mia vigliaccheria se n’è rallegrata. Ogni tanto mi giro su un fianco e piscio lì dentro, a piccoli getti, in modo che nessuno sorprenda questa inconfessabile manovra. Durante la giornata la mia principale preoccupazione è versare l’urina a terra un poco alla volta, in modo che sia assorbita dal suolo. Ah, sono proprio uno schifoso!

La morte sarebbe preferibile a questo supplizio avvilente… Sì, se deve durare ancora a lungo, preferisco morire.

Direi che è andata bene ^_^

Robert Nivelle — Wikipédia

Quando hai un vantaggio numerico di 2 a 1 e totalizzi un glorioso punteggio di 120.000 perdite e 0 vittorie

La verve rivoluzionaria del romanzo non si esaurisce in un ritratto spietato della vita del soldato semplice. Chevallier denuncia anche i propri ufficiali, gli attacchi inutili spinti per soddisfare i pruriti di gloria di questo o quello, le condanne a morte assolutamente ingiuste e crudeli. Nel romanzo si menziona, ad esempio, l’omicidio la condanna di Lucien Bersot.

Si tratta del famoso e infame incidente “del pantalone rosso”: Bersot era un soldato che fece richiesta per un nuovo paio di braghe. Gli furono date quelle di un morto, ancora lacere e sporche di sangue. Bersot si rifiutò di portarle e fu arrestato. Questo scatenò indignazione e rivolta tra i suoi compagni, al che fu deciso di fare di Bersot un esempio, e il soldato fu fucilato.

Crimini di questo genere purtroppo non sono stati rari. I lettori italiani sono probabilmente familiari con la storia di Alessandro Ruffini.

Sono episodi del genere che confermano per Chevallier il fatto che i suoi superiori non hanno nessun riguardo per la vita dei loro subordinati. Per i soldati semplici, questa gente è altrettanto pericolosa, altrettanto nemica del tedesco.

Shell_shock

Un reduce francese vittima di Shell shock si ritrae con terrore alla vista del berretto di un ufficiale

Ma Chevallier non ce l’ha solo con l’esercito. Dopotutto se quest’inutile massacro è stato possibile, ciò lo si deve anche al sostegno e alla partecipazione della società civile. E Chevaillier ne ha tante da dire sulla borghesia nazionalista. Già dalle prime pagine appare chiaro un ritratto di revanchisti che ancora non hanno ingollato la disfatta di Sédan, gente piena di mediocre risentimento che celebra una guerra che non saranno loro a combattere, gente pronta a sacrificar decine di migliaia di uomini per una catarsi emotiva.

In una scena del libro, un passante che non dà prova di un livello accettabile di fervore patriottico viene pestato sulla pubblica via. Quando Dartemont torna a casa in licenza, dopo essersi fatto l’ospedale, viene prima criticato da suo padre per non aver già scalato i ranghi, e poi portato in giro e mostrato ad amici e conoscenti. Avere un figlio che è per un pelo scampato a un combattimento è oggetto di vanto, una fonte d’orgoglio per ricchi borghesi che fanno la guerra seduti al bar con un bicchiere di kir.

La società borghese è conformista, ipocrita, benpensante, una società che si balocca con storie fasulle e caricaturali di una guerra eroica, romantica e giusta. E Chevallier non cela il proprio disprezzo per costoro.

Il tempo è sereno. Ogni notte, adesso, sentiamo dei ronzii. Le squadriglie tedesche che vanno a bombardare Parigi sorvolano le nostre linee. Non abbiamo i mezzi per sbarrargli la strada. Ma salutiamo il passaggio di quegli aerei invisibili dicendo:

«Mi sa che stavolta se la beccano i patrioti, la batosta!».

«Gli servirà di lezione. Ci vorrebbe proprio, per i civili, qualche ora di bombardamento sulla capoccia!».

«Così forse la smettono di gridare: “Avanti, fino alla morte!”».

«Peccato solo rovinare i monumenti».

«Ma sentitelo! E la nostra pelle, allora? Vale meno di un monumento? Mica gliene importa niente a nessuno se ci sbudellano!».

«Così quelli della capitale le assaggiano pure loro, le bombe!».

«Sai che risate se i crucchi mollano una bella scoreggia dritto dritto sul ministero della Guerra!».

«Sta’ zitto, disfattista!».

«Ma sentitelo, ’sto venduto, ’sto brocco, ’sto volontario di merda!».

«Tanto per cominciare,» dice Patard, il telefonista dell’artiglieria «in guerra bisogna distruggere. Così finisce prima».

Patard è uno dei numerosi personaggi irriverenti che costellano il romanzo. Canaglie costrette a marciare come tutti gli altri, ma che non si bevono la storia dell’etica eroica, della gloria francese. Questi personaggi non sono sviliti come disfattisti o traditori, sono celebrati. La loro insolenza è l’eroismo in questo contesto, le loro trasgressioni sono celebrate, piccole rivolte contro un sistema ingiusto. Sono eroi in quanto resilienti.

[Patard] È il più temibile ladruncolo che si sia mai visto, il terrore delle cucine, degli spacci e dei magazzini. La sua impresa più celebre è stata quando ha fregato i pantaloni e gli stivali al generale di divisione. Il fatto ha avuto luogo sullo Chemin des Dames. Patard, in fondo a un ricovero, confezionava bustine fuori ordinanza che pensava di vendere ai soldati del suo reggimento. Ma gli mancava il nastro per adornare quei berretti. Per procurarselo si è offerto di andare sotto le bombe fino al comando di divisione a sostituire un telefono guasto. Lì, curiosando in giro, ha trovato dei bei pantaloni di panno fine appesi a un chiodo, dei pantaloni rossi, proprio il colore che gli serviva. Visto che accanto c’erano degli stivali, ha preso anche quelli ed è ritornato in trincea. Il generale ha scatenato un pandemonio, ma non ha mai sospettato che i suoi pantaloni fossero finiti, ridotti in striscioline, sulle teste dei suoi uomini, né poteva immaginarsi di salutarli ogni volta che incrociava un artigliere.

Patard è un eroe perché riesce a sopravvivere senza impazzire nel costante terrore che perseguita il soldato.

E Dartemont?

Di certo non si racconta come un eroe. La guerra non è qualcosa che Dartemont fa, è qualcosa che Dartemont subisce. C’è un solo episodio in cui Dartemont appare sinceramente fiero del proprio valore: durante un bombardamento, Dartemont vede un altro portaordini arrivare di corsa sotto il tiro degli obici tedeschi.

Resta un unico portaordini, e non se ne manda mai uno da solo sotto le granate. Il maresciallo esita… In quel momento vediamo un soldato che attraversa il burrone di corsa e si arrampica su per il pendio. Poco dopo arriva, coperto di sudore, ansimante. È Aillod, dell’undicesima. Trae un sospiro che significa: «Sono salvo!». Ma il maresciallo sceglie proprio lui:

«Adesso vai alla nona con Julien».

«Però, sempre gli stessi!» risponde Aillod sommessamente, davanti a me.

Noto l’espressione del suo viso, in cui il terrore prende il posto della gioia, e incrocio il suo sguardo, che è quello di un cane che aspetta di essere preso a bastonate, di un uomo che è appena stato condannato a morte. Quello sguardo mi fa vergognare. È davvero un’ingiustizia. Allora grido senza riflettere:

«Ci vado io!».

Vedo gli occhi di Aillod ravvivarsi, pieni di riconoscenza. E vedo pure lo stupore del maresciallo:

«D’accordo, vai!».

Durante questa missione, per cui Dartemont si è portato volontario in uno slancio di solidarietà non proprio ragionato, il nostro riesce per la prima volta a conquistare la paura.

Più tardi, di nuovo al riparo, Dartemont ha la possibilità di pensare a ciò che gli è successo.

È ancora presto quando vado a stendermi sulla mia branda, al buio. Rifletto sui fatti di questa sera. Insomma, per essere coraggioso ho a disposizione un mezzo semplice ed efficace: accettare la morte. Ricordo che già una volta, nell’Artois, quando dovevamo affrontare in campo aperto le mitragliatrici, mi ero abituato a questa idea per qualche ora. Poi gli ordini erano cambiati.

Quelli che cercano di farsi coraggio dicendosi: «Non mi succederà niente» sono del tutto irrazionali (eppure sono la maggioranza). Una simile convinzione non può essermi di aiuto, perché so fin troppo bene che i cimiteri sono pieni di gente che aveva sperato di tornare a casa sana e salva, persuasa che le pallottole e le granate scegliessero i loro bersagli. Tutti i morti si erano affidati alla protezione di una provvidenza personale, intenta a vegliare su di loro e del tutto indifferente agli altri. In quanti, sennò, sarebbero venuti a farsi ammazzare?

Mi sento del tutto incapace di mostrare coraggio se non sono deciso a dare la vita. In alternativa a questa scelta c’è solo la fuga. Ma una decisione del genere la si può mantenere per un breve momento, non per settimane o mesi. Lo sforzo morale è troppo grande. Ecco perché il vero coraggio è così raro. Di solito accettiamo una specie di compromesso zoppicante fra il destino e la volontà, che non soddisfa la ragione.

Per ora ho fatto due volte l’esperienza del coraggio assoluto. Sarà stata questa, alla fin fine, la mia azione di guerra più gloriosa.

Poi penso alle parole di Baboin: «È meglio non fare tanto i gradassi…». Oggi ho fatto il gradasso, e se voglio «portare a casa la ghirba» mi converrà resistere a simili impulsi…

Rieuneau nota che nel romanzo Chevallier non se la prende coi “vigliacchi”. Non è da vigliacchi provare paura, è naturale. Il terrore abbietto e umiliante non è mancanza di carattere, non è frutto di un difetto, non è una colpa, è la normale reazione di un uomo a cui viene inflitta la guerra.

In questo Chevaillier rivendica la vulnerabilità degli uomini in faccia a una narrativa disumanizzante che li vuole gagliardi combattenti pronti al sacrificio.

 

La pubblicazione

Tutti gli articoli sulla WWI devono avere un riferimento a Black Adder Goes Forth, sorry

Come potrete immaginare, in un’Europa in pieno sussulto nazionalfascista come quella del 1930, un romanzo come La Peur non fu ricevuto proprio benissimo. Non è da escludere che il clima nazionalista e guerrafondaio e la salita al potere di movimenti fascisti siano stati tra i fattori che spinsero Chevallier à scrivere il suo libro, una visione della guerra che sputa in faccia alla prosopopea fascistoide.

I toni che usa sono tali che Olivier Cariguel commenta:

Se avesse confessato le sue riflessioni in piena guerra, Dartemont si sarebbe beccato senza dubbio un plotone d’esecuzione per aver attentato al morale dell’esercito e per antipatriottismo.

Dartemont è un antieroe che non ha vergogna a mettere a nudo il suo lato umano, quel lato che la narrativa cazzodurista disprezza.

Dartemont ha fame, ha freddo, ha paura.

Dartemont non è un eroe di guerra.

Dartemont definisce la Patria:

Né più né meno che una riunione di azionari, né più né meno che un aspetto della proprietà, dello spirito borghese e della vanità.

Non è una sorpresa se, nel 1930, solo giornali di sinistra come Le Canard Enchainé celebrarono La Peur come l’opera fondamentale e la testimonianza imperdibile che è.

Per citare Chevaillier stesso, nella prefazione all’edizione del 1951:

Il libro fu accolto da movimenti diversi, e l’autore non sempre fu trattato molto bene. Ma due cose sono da notare. Degli uomini che lo avevano ingiuriato sarebbero girati male in futuro, il loro valore s’era infatti sbagliato di campo. Quanto ai combattenti di fanteria, scrissero: “Vero! Ecco ciò che sentivamo e non potevamo esprimere”. La loro opinione contava molto.

Il pacifismo di Chevallier non è un puccioso mondo di “volemossebbene”. Nonostante la sua condanna della Grande Guerra sia inappellabile, Chevallier non esclude la guerra a priori. Nel 1939, ad esempio, si accordò col proprio editore per togliere il proprio romanzo dagli scaffali.

Per riprendere l’introduzione del 1951:

Quando la guerra ormai c’è, non è più il momento di avvertire la gente che si tratta di un’avventura sinistra dalle conseguenze imprevedibili. Bisognava capirlo prima e agire di conseguenza.

In altre parole, la guerra è una calamità che umilia, distrugge, degrada l’essere umano. Ma se la si vuole evitare occorre adottare politiche e attitudini appropriate: non ha senso voler fare i pacifisti quando la Divisione Fantasma trancia allegramente attraverso le Ardenne.

Nella stessa prefazione, Chevallier aggiunge:

Nella mia gioventù si insegnava – quando eravamo al fronte – che la guerra era moralizzatrice, purificatrice e redentrice. Abbiamo potuto constatare le implicazioni di questi slogan ripetuti in continuazione: smerciatori, trafficanti, mercato nero, delazioni, tradimenti, fucilazioni, torture, tubercolosi, tifo, terrore, sadismo e fame. E dell’eroismo, d’accordo. Ma la piccola, l’eccezionale proporzione di eroismo non riscatta l’immensità del male. D’altro canto pochi sono tagliati per l’eroismo. S’abbia la lealtà di convenirne, noi che ne siamo tornati.

La grande novità di questo libro, il cui titolo era una sfida, è ciò che dicevamo [al fronte]: ho paura.

Nei “libri di guerra” che avevo letto la paura era a volte menzionata, ma si trattava di quella degli altri. L’autore era un personaggio flemmatico, così occupato nel prendere appunti che se la rideva degli obici.

L’autore di questo libro considera che sarebbe improbo parlare della paura dei propri compagni senza parlare della propria. Ragion per cui ha deciso di prendersi la responsabilità della paura, prima tra tutte la propria. Quanto a parlare della Grande Guerra senza parlare della paura, senza metterla in primo piano, sarebbe stata fumisteria. Non si vive nei luoghi dove si può essere squartati in ogni istante senza provare una certa apprensione.

Bataille du Chemin des Dames | Site d'histoire | historyweb.fr

Capo, credo di star provando una certa apprensione

Al di là del messaggio politico di Chevallier, Dartemont è un personaggio notevole nell’orizzonte della narrativa maschile: lo era nel 1930 e lo è tutt’ora.

Come sa chi ha letto il mio commento a quella porcheria esilarante di Educazione Siberiana, spesso nei film di “Uominiveri per Uominiveri” il protagonista è uno tostissimo che fa cose tostissime per un’ore e mezza, e i romanzi non se la cavano granché meglio. Questo comporta due problemi: tanto per cominciare non può esserci vero coraggio se non c’è paura (sicché la storia raccontata è semplicemente inutile), e in secondo luogo questo tipo di storie, quando troppo pervasive, rinforzano un mito dannoso di forza e virilità, con conseguenze indirette negative sui lettori.

Dartemont è un personaggio che rivendica la propria vulnerabilità e la propria paura. E’ un personaggio che espone la propria fragilità umana senza pudore, con onestà e insolenza. E’ un personaggio che lotta per sopravvivere, ma che si mette a rischio quando riconosce la disperazione rassegnata negli occhi di un compagno.

Dartemont offre un modello dove la vera forza non è la violenza guerriera (che pure fa parte della vita in trincea), ma l’onestà di ammettere: ho freddo, ho fame, ho paura. Ed è accettando la propria paura e la legittimità del suo desiderio di restare in vita che Dartemont mantiene la propria sanità mentale e la propria vita.

Quella di Chevallier non è l’unica esperienza della Grande Guerra. Come accennato, altri reduci l’hanno vissuta in modo diverso. Ma allora come oggi La Peur resta un romanzo narrativamente e politicamente importante, che in troppo pochi hanno letto.

MUSICA!
P.S. nel 2015 i francesi hanno realizzato un film sul romanzo, ma non l’ho ancora visto quindi non so se consigliarvelo. Qui il trailer.


Bibliografia

CARIGUEL Olivier, Revue des Deux Mondes, 2008, p.182

CHEVALLIER Gabriel, La Peur, ed. Le Dilettante, Parigi, 2008

CHEVALLIER Gabriel, trad. CARRA Leopoldo, La Paura, Adelphi, 2011

RIEUNEAU Maurice, Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Klincksieck, Parigi, 1974

SICARD Claude, Revue d’Histoire Litttéraire de la France, vol. 76, n.3, 1976, p.500-507

Pagina Wiki su Chevallier (FR)

Pagina Wiki del romanzo (FR)

 

 

Tombe scoperchiate: un breve assaggio di preistoria coreana e il Cimitero di Daho-ri

Oggi tanto per cambiare vorrei parlare della Corea.

Quando iniziai a studiare Storia Giapponese, la Corea era quel posto nei dintorni che i Giapponesi invadevano ogni qualche secolo.

In realtà la Storia coreana, in particolare per quel che riguarda il periodo preistorico e protostorico, è assolutamente indispensabile per capire le rocambolesche vicende dell’Arcipelago.

Il piccolo problema è che la Storia coreana non gode manco da lontano della stessa mole divulgativa dedicata alla Storia cinese o giapponese, per lo meno non in lingua occidentale. In lingua giapponese già si trova di più, ma, dati i rapporti un tantinello disfunzionali che corrono tra i due paesi, farsi un’idea della Storia coreana basandosi su ricercatori giapponesi è un pochettino… hum… problematico.

Non so di preciso perché, ma la Corea sembra un po’ la sorella zitella dell’Estremo Oriente.

Fortunatamente per noi esiste gente come Gina Barnes e Mark Byington!

provincie

Mappa delle moderne provincie sudcoreane

La preistoria coreana è un soggetto vastissimo (DUH!). Oggi voglio limitarmi a offrire un’infarinatura generale di riferimento e, per rendere il tutto un pochino più gustoso, concludere con un saporito bocconcino archeologico. Giusto per avere quel dettaglio concreto che piace tanto a noi storici dei materiali (Storia dei Materiali, una branca che suona avvincente come il cemento che asciuga ma che in realtà è molto peggio del cemento che asciuga).

Masochist cat by Claire-Aurora on DeviantArt

Cominciamo con l’identificare un periodo: il Periodo Samhan, ovvero «dei tre Han». o «Proto-Tre Regni». Gli «Han» in questione non sono da confondersi con gli Han cinesi (漢): «Han» riferito alla Penisola coreana (韓) è un termine piuttosto vago usato per identificare tre polities, tre proto-stati che pendono forma da qualche parte tra il 300 a. C. e lo 0. Si tratta di grumi di polis legate tra loro da relazioni più o meno solide e gravitanti attorno ad alcuni centri più grandi e importanti.

I limiti del Periodo Samhan non fanno l’unanimità. Per Gina Barnes, questa fase si situa tra lo 0 e il III° secolo d. C., e corrisponde alla Tarda Età del Ferro. Per alcuni ricercatori coreani, il periodo comincia già dal 100 a. C., o dal 300 a. C., durante l’ultima fase dell’Età del Bronzo.

I sostenitori della tesi del 300 a. C. hanno dalla loroparte le fonti cinesi che, seppur posteriori, fanno riferimento alla situazione coreana del 300 a. C. parlando di «tre Han». Come vedremo, le foti cinesi sono state messe insieme secoli dopo questo periodo, quindi da sole provano poco. Tuttavia sono generalmente molto affidabili, e sembrano confermate da alcuni dati archeologici: a partire dal 300 a. C. si diffonde nella Penisola quella conosciuta come la Slender bronze dagger culture, un nuovo complesso culturale distinto dalla cultura dei dolmen precedente.

Questa innovazione sarebbe un inizio dell’incipiente processo di state formation che, secondo questa corrente storiografica, avrebbe portato alla nascita di Federazioni Han già nel II° a. C.

Secondo Lee Jaehyun, la Cultura del Bronzo coreana è divisibile in due categorie: una che segue lo stile della Slender bronze dagger culture tipica del Liaoning, e una in stile tipicamente coreano, entrambe esemplificate da forme distinte di daga.

Liaoning-type Bronze Dagger image

Daga in bronzo in stile Liaoning, l’oggetto-emblema della Slender bronze dagger culture. Questo reperto è stato trovato nella contea di Buyeo, nella provincia di Chungcheon, è conservato nel National Museum of Korea in Seul.

Bronze Artifacts from Daegok-ri, Hwasun (Korean-type Bronze Daggers) image

Daga in bronzo in stile coreano, ritrovate nella contea di Hwasun nella provincia del Jeolla meridionale. Reperti conservati nel National Museum of Korea in Seul.

La daga in stile Liaoning ha un’inconfondibile forma a liuto ed è diffusa dal nordest della Cina alla penisola, ma ne troviamo pochi esempi in Corea, quasi sicuramente beni importati.

Daghe_bronzo

In blu i ritrovamenti di daga in bronzo in stile Liaoning, in rosso i ritrovamenti di daghe in bronzo in stile coreano

La Korean-style slender bronze dagger culture presenta numerosi aspetti originali, il che spinge Lee Jaehyun a supporre che si tratti in realtà di una cultura indipendente. E’ caratterizzata da oggetti rituali in bronzo, tra cui spiccano specchi e armi, ma anche sonagli e strumenti. Nella sua fase formativa, notiamo diverse caratteristiche in comune con la cultura del bronzo in stile Liaoning. La fase successiva, detta «di espansione», è caratterizzata da uno sviluppo di oggetti più originali, tra cui ferri di lancia e alabarde.

Tra la fine del II° secolo a. C. e il II° secolo d. C., questa cultura declina, mentre in parallelo si sviluppa la Cultura del Ferro. Gli specchi decorati in linee sottili e i sonagli diventano progressivamente più rari, mentre si favoriscono oggetti rituali in bronzo sotto forma di armi, come punte di lancia decorative.

La prima fase della Cultura del Ferro nel sud della Corea si sviluppa tra il IV° e il II° secolo a. C. e presenta molte similitudini con quella tipica del regno di Yan, da cui è stata probabilmente importata. In questa fase però la Cultura del Ferro resta molto limitata nelle regioni di Jeolla e Chungcheong.

East_Asia_map_blank

Prego ammirare la mia padronanza di Paint

E’ con la seconda fase, alla fine del II° secolo a. C., che la produzione di ferro si diffonde nella penisola. Questa nuova ondata presenta caratteristiche smaccatamente Han (Han nel senso degli Han della Cina). E’ in questa fase che si situa la Tomba n.1 del cimitero di Daho-ri, che andremo a studiare!

La diffusione del ferro come materiale di prestigio/mezzo di scambio e lo sviluppo delle miniere nella regione dello Yeongnam favorirono una vasta rete commerciale che legava le polities sudcoreane con le Comanderie cinesi di Lelang e Daifang, con Mahan, con le regioni degli Ye orientali e le isole giapponesi. Quest’industria è la base della crescita economica che favorirà il maturare delle polities di Saro e Guya negli staterelli di Gyeongju e Gimhae, con cui il regno di Wa avrà strettissimi legami diplomatici e commerciali nel suo periodo di formazione.

002

I Tre Han e le due comanderie

Tornando ai Tre Han, si tratta di Mahan (futuro regno di Baekje), Byeonhan (futura Confederazione di Gaya) e Jinhan (futuro regno di Silla, ovvero gente cattivissima se diamo spago alle fonti giapponesi dell’VIII° secolo).

A noi interessa in particolare Byeonhan e la futura Gaya, una delle entità politiche più importanti nello sviluppo del regno di Yamato in Giappone, e una delle meno conosciute.

Il problema è che mentre abbiamo una qualche forma di documentazione indigena per entità come Baekje, Silla o Goguryeo, gli annali di Gaya non sono sopravvissuti in nessuna forma, e quindi le uniche fonti storiche riguardo questa sfuggente Confederazione e la sua Storia sono tutte fonti straniere compilate dai paesi vicini.

Purtroppo anche l’aspetto archeologico è problematico, e vale la pena parlarne prima di tuffarci nel bellissimo sport della violazione di tombe: i primi studi archeologici legati a Gaya o alle polities che la precedettero risalgono agli anni ’20 e furono portati avanti dai giapponesi.

Da buona potenza coloniale e nazionalista, il Giappone non era proprio mosso da un sincero desiderio di conoscenza (anche perché il sincero desiderio di conoscenza raramente si presta a confermare l’ideologia nazionalista, ideologia storicamente molto recente). Insomma, i giapponesi hanno scoperchiato un botto di tombe, fatto manbassa della roba più bella che c’era e se la sono portata via senza documentare i siti. E considerato il volume di bombe che si son buscati vent’anni dopo, de facto una quantità ragguardevole di patrimonio di Gaya è finito in fumo.

(C’è anche un lunghissimo dibattito se Gaya fosse o non fosse una colonia Wa, ma questa lattina di vermi l’apriremo un’altra volta).

I primi scavi condotti nel bacino del Nakdong dai Sudcoreani risalgono gli anni ’70, ma il grosso dei siti di Gaya, come Daho-ri e la Tomba n.1, sono documentati a partire dagli anni ’90. Purtroppo, con l’eccezione della regione di Gimhae, i dati archeologici per Periodo Samhan di Gaya sono relativamente pochi.

Ovviamente anche il dato archeologico va trattato con cautela: la maggioranza dei siti a nostra disposizione sono siti funerari. E l’arte funeraria è importantissima, sia chiaro, dato che spesso le pratiche mortuarie consistono in una sorta di ricostruzione essenziale dell’identità del morto (la sua appartenenza a una certa classe, clan, professione, ecc), ma la morte è solo uno degli aspetti della vita degli esseri umani. Alla fine, l’arte mortuaria è una storia che i vivi raccontano su loro stessi e sul defunto, e non abbiamo molti elementi da comparare a detta storia.

funny-pictures-bored-cat | MediaLIRTs

Concluso questo preambolo interessantissimo che, son certa, vi avrà tenuto col fiato sospeso, tuffiamoci nella parte divertente: violare tombe!

Tomba n.1 del cimitero di Daho-ri

Il sito archeologico di Daho-ri (茶戸里) si trova nella zona di Changwon, capoluogo della regione sudcoreana del Gyeongsang meridionale, ovvero la parte sudorientale della penisola coreana.

001

Vista aerea del sito di Daho-ri

Il sito è stato scavato tra il 1988 e il 1998 e oggi gode dello status ufficiale di Sito Nazionale Storico n.327. Non solo ha fornito un considerevole numero di artefatti, ma si tratta di un sito usato per un lasso di tempo considerevole: durante i 10 anni di scavi abbiamo trovato 69 tombe con sarcofago in legno, 4 con sarcofago a giara, e perfino una tomba con camera in pietra del Periodo di Gaya, il che significa un lasso di tempo che va dal II° secolo a. C. al VI° secolo d. C..

Daho-ri è a una decina di chilometri dal fiume Nakdong, un’importantissima arteria di scambi che scorre fino a Gimhae e Busan, il che lascia supporre che questa zona avesse contatti frequenti col resto della regione via il fiume.

Daho-ri stesso è nelle vicinanze di altri siti, tra cui insediamenti fortificati e cimiteri.

Purtroppo una delle prime cose rilevate all’inizio dello scavo nel 1988 è che il sito era stato saccheggiato. Ma è stato comunque possibile estrarre informazioni preziose.

Oggi voglio parlare in particolare di quella che è chiamata Tomba n.1.

003

La Tomba n.1 scoperchiata

Come buona parte del sito, la Tomba n.1 è stata trovata saccheggiata e stravolta, ma il sarcofago di legno era ancora in buono stato. Trattandosi di un mostro monossilo, probabilmente era troppo pesante e solido per i ladri. Sotto di esso abbiamo potuto recuperare un certo numero di oggetti funerari, a conferma che nascondere la roba sotto il letto è una grande idea.

002

Esistono due tipi di sarcofago in legno, in Corea: il sarcofago monossilo realizzato da un singolo tronco scavato, e il sarcofago di assi, una sorta di «bara», simile in stile ai sarcofaghi Han.

La maggioranza dei sarcofaghi in legno coreani sono a «bara». E’ possibile che i sarcofaghi monossili siano una forma più arcaica e che l’uso della «bara» sia invalso più tardi, a seguito dell’influenza delle Comanderie.

La Comanderia di Lelang, probabilmente la più importante nel traffico tra Byeonhan e gli Han cinesi, venne fondata nel 108 a. C., dopo che l’Imperatore Wu rase al suolo la polity di Gojoseon (Vecchia Joseon), polity situata nel nordovest della Penisola. Questa guerra avrebbe portato un afflusso notevole di esuli al sud, provocando un’evoluzione nella cultura e nei costumi funerari.

Le tombe con sarcofago in legno, dette mokkwanmyo (木館墓), cominciano a manifestarsi nel sito di Daho-ri nel I° secolo. Secondo Kim Daesik, dell’Università di Hongik, questa evoluzione nei costumi segna l’apparire di una classe dirigente (tombe di questo genere ovviamente necessitano un investimento non indifferente di risorse, tempo e lavoro) diversa da quella indigena precedente.

Poesse che il misterioso defunto della Tomba n.1 fosse un immigrato Gojoseon?

In realtà per le fonti cinesi la stretta relazione tra Gojoseo e gli staterelli coreani predata il I° secolo: il primo riferimento in tal senso viene da quello che è anche il primo testo a riferirsi alle polities della Penisola col termine «Han», il Sanguozhi (Storia dei Tre Regni). Il Sanguozhi, iniziato da Chen Shou del regno di Jin (233-297) e completato e annotato da Pei Songzhi del regno dei Song (372-451), è un testo importantissimo, nonostante sia stato completato secoli dopo i fatti narrati.

Nel libro, re Jun di Gojoseon avrebbe perso una guerra contro il generale Wei Man del regno di Yan (che gli succede sul trono di Gojoseon) e sarebbe quindi fuggito a sud, diventando «Re di Han».

Alcuni hanno situato questi fatti tra il 194 e il 180 a. C. Potrebbe darsi che il II° secolo sia il periodo in cui il termine Han riferito alla Corea entra in uso.

Altri hanno criticato questo approccio fiducioso alle fonti cinesi, notando che potrebbe benissimo trattarsi di un termine usato anacronisticamente.

Per altri ancora, si può iniziare a parlare di «Han» con l’apparizione archeologica di un nuovo indicatore culturale, la ceramica con bordo aggiunto (粘土帯土器), che ha origine nella penisola del Liaodong e si diffonde nel resto della Corea verso il 300 a. C.

粘土帯土器 image
Esempio di vaso degli inizi dell’Età del Ferro, ritrovato in Seo-gu, distretto di Incheon, conservato nel National Museum of Korea

Avvincenti discussioni filologiche a parte, già dal III° secolo a. C. il sud della Corea è caratterizzato da polities che intrattengono scambi regolari col Nord della Cina e Gojoseon. Byeonhan, la polity che interessa a noi, si sviluppa a partire dal II°-I° secolo a. C.

Quando parliamo di polities per Byeonhan, parliamo davvero di entità politiche di taglia ridotta: secondo Yi Hyunhae gli staterelli più grandi di Byeonhan contavano 2-3.000 famiglie, e quelli minori appena 6-700. Si trattava con ogni probabilità di costellazioni di città semi-indipendenti che agivano di concerto in materia di diplomazia e politica estera.

Dalla fine del II° sec a. C., spuntano cimiteri di gruppo attraverso tutta la provincia del Gyeongsang. Questo è accompagnato da una diffusione senza precedenti del sarcofago in legno e da un aumento sensibile degli artefatti nel corredo funebre. Compaiono tombe come la Tomba n.1, palesemente erette per capi. La varietà nella struttura e nel corredo suggerisce peraltro una certa diversità culturale in seno alla classe dirigente, il che presuppone una società più complessa e stratificata. Yi Hyunhae si accorda col dire che questo è dovuto a un massiccio influsso di migranti, i buona parte provenienti da Gojoseon.

Questo sembra confermato dal fatto che in Daho-ri continuiamo a trovare oggetti in continuità con il passato, come le ceramiche «non decorate» (Mumun) nere e marroni. Ma notiamo anche un influsso crescente di oggetti in metallo o in lacca simili in stile e in qualità a quelli fabbricati dagli artigiani di Gojoseon.

Secondo Kim Daesik, possiamo interpretare questi dati come segue:

  • gente portatrice di conoscenze e tecniche nuove arriva e viene assimilata in una nuova classe dirigente (come direbbe uno degli spauracchi della “Destra Razionale”, Foucault, potere e sapere sono spesso strettamente correlati).
  • Questo apporto tecnologico però non provoca stravolgimenti traumatici nella struttura sociale locale, che mantiene molta continuità col passato
  • Ne deriva che le società agricole indigene erano stabili e sviluppate.

L’arrivo di gente nuova sembra riecheggiare nel mito fondatore di Gaya raccontato nel Samguk Yusa: Un uomo di nome Suro discende dal cielo sul picco del monte Kuji, e vi stabilisce il suo regno. I nove capi (kan, 干) della regione di Gimhae lo scelgono quindi come capo.

Per Kim, il mito suggerisce la fusione tra culture locali e una cultura straniera, aliena.

Spessissimo la classe dirigente è descritta come aliena o celeste in origine, questa interpretazione ha valore in quanto supportata da elementi archeologici.

Per quel che riguarda Daho-ri in particolare, troviamo 3 tipi di tomba con sarcofago, classificati in base alla taglia e alla profondità della fossa: le tombe grandi (con sarcofagi di 240-278 cm per 100-136 cm e una profondità di 120-205 cm), che spesso hanno una buca di taglia ridotta al centro del pavimento, poi sigillata dal sarcofago; le tombe piccole (160-200 cm per 55-64 cm e una profondità di 20-40 cm); e le tombe così così (200-270 cm per 80-125 cm e una profondità di 90-168 cm, sono di poco più piccole delle tombe di tipo 1 ma, come le tombe di tipo 3, sono sprovviste di buca supplementare).

004

Il sarcofago monossilo della Tomba n.1

La Tomba n.1 data del I° secolo a. C. La sua posizione in seno al cimitero non presenta particolarità degne di nota, ma dalla quantità e qualità del corredo funebre possiamo dedurre che si tratta della tomba di qualcuno relativamente importante.

La fossa ha una pianta rettangolare con gli angoli arrotondati e misura circa 278cm in lunghezza, 136 cm in larghezza e 205 cm in profondità, orientata lungo un asse sudest-nordovest. Presenta una buca realizzata al centro del pavimento, poi coperta dal sarcofago.

Il sarcofago stesso è imponente: ricavato scavando e aprendo in due un tronco di quercia di 350 anni, per un risultato che misura 240 cm per 85 cm, riempiendo di fatto quasi la totalità della fossa con la sua massa.

Il sarcofago è ancora più impressionante se si considera che le seghe da legno non erano ancora state inventate e che l’intera faccenda è stata realizzata con accette e fuoco.

La tecnica ricorda quella per realizzare le canoe monossili. Yi Young Hoon nota che la tradizione della canoa-sarcofago si ritrova anche nella tradizione funeraria del Sichuan del periodo dei Regni Combattenti (V°-III° secolo a. C.) e nella cultura Dong Son vietnmita (1.000 a. C. – 100 d. C.).

Parte del coperchio è stata rovinata dai ladri, ma all’interno abbiamo comunque trovato una daga laccata, una collana di perle di vetro, una coppa di legno e una lama di scure a testa piatta. Si tratta probabilmente degli effetti personali del morto, di cui purtroppo non ci resta niente.

Sotto il sarcofago, c’è la buca di cui sopra, che misura 65cm per 55 cm per una profondità di appena 12 cm. Qui abbiamo trovato asce con manico in legno ancora intatto (usate probabilmente per scavare la fossa, oggetti laccati tra cui una coppa a piede, fasci di spago, castagne e foglie. Abbiamo anche recuperato pezzi di una spessa corda, usata senza dubbio per calare il sarcofago nella fossa.

Nella buca secoondaria si trovava una cesta di bambù piena di oggetti: due daghe in bronzo laccate (che hanno permesso di ricostruire finalmente la daga bronzea coreana del periodo), una daga in ferro laccata, una daga in ferro con impugnatura in legno, due frammenti di daga in ferro, un coltello in ferro laccato con una guardia ad anello, una punta di lancia in bronzo e quattro punte di lancia in ferro.

005

Daga in bronzo con fodero, conservata al National Museum of Korea

La cesta conteneva anche strumenti, come cinque ferri di ascia in ferro colato e due falcetti con manico in legno, o ornamenti e oggetti di prestigio, come uno specchio decorato, una fibbia da cintura in bronzo, cinque anelli in bronzo di cui uno decorato con un motivo seghettato.

Abbiamo anche trovato delle monete wuzhu (che ritroviamo anche in altri siti contemporanei, siano essi sepolture o siti fortificati), una campanella di bronzo per cavalli e cinque pennelli di foggia particolare (dotati di setole a entrambe le estremità). La presenza dei pennelli è uno dei più antichi esempi di cultura della scrittura nella regione. I pennelli sono peraltro accompagnati da un coltello apposito la cui funzione era grattar via i caratteri errati dalle tavolette di legno (uno dei supporti di scrittura più comuni anche in Giappone, dove vengono chiamate mokkan).

La campana per cavalli e la fibbia in bronzo sono in chiaro stile Han, arrivati in Daho-ri senza dubbio a seguito di scambi con Lelang.

007

Specchio in bronzo decorato con motivi di stelle e nuvole stilizzate, conservato nel National Museum of Korea

Yi Young Hoon ipotizza che la cerimonia funeraria si svolgesse nelle tappe seguenti :

  • Il cadavere e parte del corredo erano deposti nel sarcofago, che era quindi chiuso. Il sarcofago era trascinato per i «piedi» al luogo di inumazione, dove venivano realizzate la fossa e la buca della cesta.
  • La cesta era deposta nella buca e il pavimento era ricoperto da contenitori quadrati e circolari contenenti offerte di cibo e bevande, insieme ad altri doni funerari come asce e mazze. Castagne erano quindi gettate nella fossa.
  • Il sarcofago era calato nella buca e le corde erano tagliate.
  • Uno strato di terra era zeppato tra il sarcofago e le pareti, e su di esso venivano poste altre offerte funerarie, probabilmente oggetti preziosi in ferro e in lacca.
  • Altra terra era zeppata nella fossa, fino ad arrivare a livello del coperchio del sarcofago. A questo punto altri oggetti in lacca erano posti sul coperchio, il resto della fossa veniva riempito e la terra veniva accumulata fino a formare un basso tumulo.

Yi Young Hoon cita come esempio simile la Tomba n.11 sempre in Daho-ri, dove possiamo individuare almeno tra strati cerimoniali con offerte di punte di freccia, contenitori in lacca e un arco laccato trovati in differenti livelli.

E’ anche importante notare che gli oggetti laccati estratti dalla Tomba n.1 presentino una tecnica raffinata e nettamente diversa dal metodo di laccatura usato in Lelang. Il che mostra come l’industria della lacca fosse a questo punto non solo sviluppata, ma originale in questa regione.

I ferri d’ascia presenti nel canestro non erano adatti a essere montati su un manico e usati: si tratta in realtà più di una forma di lingotto, un’unità base di ferro. La Corea del Sud e in particolare questa zona, era un grosso produttore che esportava un volume considerevole di questi lingotti verso le Comanderie Han e le Isole Wa. I Wa in particolare erano dipendenti dalla produzione coreana, ma di questo riparleremo magari quando racconteremo della fine di Gaya.

006

Asce-lingotto estratte dalla Tomba n.1, conservate nel National Museum of Korea

E’ da notare che nei siti funerari di Chinhan e Byeonhan troviamo oggetti indigeni o oggetti cinesi, con poca roba importata da altri posti. Per fare un confronto, nella polity di Mahan gli oggetti di importazione Han sono molto più rari. Questo a dimostrazione che nel Periodo Samhan le Comanderie avevano legami diversi con le varie polities presenti nella penisola.

La sovrabbondanza di ferro lascia supporre che il morto della Tomba n.1 fosse coinvolto nel commercio del ferro con Lelang.

I cimiteri sono associati con centri di potere. Il numero di sepolture e la taglia di tombe, come anche la ricchezza dei corredi, lasciano presupporre che verso il I° secolo a. C. nei pressi di Daho-ri si trovasse un centro amministrativo ed economico di prima importanza.

you made it how ya feel now - Condescending Wonka | Make a Meme

Toh, qualcuno è arrivato a fine articolo!

E’ un fatto indiscutibile che la Corea sia servita da ponte tra il Continente e le Isole giapponesi, portando con il suo flusso di mercanti e immigrati tecniche, idee, materiali. Per ricercatori come Takesue Jun’ichi, i toraijin, gli immigrati coreani, furono fondamentali nella rivoluzione tecnica e culturale che segna la fine del periodo Jōmon e l’inizio del Periodo Yayoi. L’apparizione in siti archeologici giapponesi di daghe in bronzo coreane preannuncia l’incipiente processo di state-formation che portò all’emergere del Regno di Yamato e, eventualmente, alla nascita dell’Impero Giapponese.

E’ impossibile studiare la preistoria e la protostoria giapponese senza tener conto di ciò che succedeva sul Continente, e in particolar modo in Corea.

Sicché oggi ho voluto offrire un assaggio del complicato e affascinante mondo della preistoria sudcoreana.

MUSICA!


Bibliografia

BARNES Gina, The Rise of Civilization in East-Asia – The Archaeology of China, Korea and Japan, Thomas and Hutson, Londra, 1999

Center for Historical Studies -East Eurasia, Kodai higashi Yuurasia kenkyuu senta- nenpou, Senshu University, Kawasaki, Marzo 2018

JU Bo Don, “Problems Concerning the Basic Historical Documents Related to the Samhan”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 2, Harvard University, Cambridge, 2009, p. 95-124

KIM Taesik, “Sources for the Study of Kaya History”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 3, Harvard University, Cambridge, 2012, p. 17-48

LEE Jaehyun, “The Interregional Relations and Developmental Processes of Samhan Culture”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 2, Harvard University, Cambridge, 2009, p. 61-94

LEE Ki-baik, A New History of Korea, trad. WAGNER Edward W., Harvard University Press, Cambridge, 1984

PARK Hae Woon, “Archaeological Research on Kaya: Past, Present, and Future”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 3, Harvard University, Cambridge, 2012, p. 105-170

RHEE Song-nai et al. “Korean Contributions to Agriculture, Technology, and State Formation in Japan: Archaeology and History of an Epochal Thousand Years, 400 B.C.–A.D. 600.” Asian Perspectives, vol. 46, no. 2, 2007, pp. 404–459

SHIN Michael D., Korean History in Maps, Cambridge University Press, 2014

YI Hyunhae, “The Formation and Developement of the Samhan”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 2, Harvard University, Cambridge, 2009, p. 17-60

YI Young Hoon, “Tomb 1 at the Taho-ri Site in Ch’angwon”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 2, Harvard University, Cambridge, 2009, p. 155-178

 

Pagina del National Museum of Korea

 

 

 

 

Genpei 2.2: più dell’onore poté il digiuno

E’ ora di riprendere dopo lungo oblio la nostra saga sulla sanguinosa Guerra di Genpei, il lungo conflitto che mise fine al potere dell’aristocrazia civile e portò alla nascita del Bakufu di Kamakura, il «Governo della Tenda», noto in occidente come «shogunato».

Rapido riassunto: uno scazzo dinastico degenera in lotta armata nel 1180 e catalizza conflitti e ostilità latenti che si scatenano uno dopo l’altro effetto-domino fino a scatenarsi in un tripudio di sangue e merda generalizzato.

Siamo agli inizi del 1183, la guerra dura da tre anni, la carestia infuria, il paese è roso da rivolte e faide. Kyūshū è in fiamme, e perfino lo Shikoku, il Molise del Giappone, è un vespaio.

Tre contendenti emergono dalla bolgia di sberle e legnate nei denti:

  • I Taira, sotto la guida del nuovo capo Munemori (il patriarca Kiyomori è morto da poco), padroni della Capitale e padroni del traffico marittimo. Nella loro base di Rokuhara, sono ufficialmente il clan più potente del Paese e controllano l’Imperatore.
  • Minamoto Yoritomo, basato in Sagami, erede del ramo principale del clan e alla testa di una vasta coalizione di bande della piana del Bandō. Tra costoro spiccano gli Hōjō, i Miura, i Sasaki, i Chiba, i Takeda di Kai.
  • Minamoto Yoshinaka, il più giovane del mazzo, abile tattico la cui base principale è in Shinano ma che si trova ormai comodamente installato nel governo provinciale di Echigo, a sua volta a capo di una sostanziosa coalizione di bande dell’Hokuriku. Per ora, Yoshinaka non ha ancora perso una battaglia (a differenza di Yoritomo, che salvo un colpo di culo formidabile, sta prendendo un fracco di legnate).

Considerato lo stato disastroso del paese, Yoritomo tenta di trovare un compromesso coi Taira. E’ una buona proposta, e tutti ne convengono. Ma Munemori ha daddy issues e rifiuta per principio. Ciliegina sulla torta, la missione Taira di «pacificazione» (termine tecnico giapponese per indicare brutale repressione di ogni qualsivoglia dissenso), inviata in Hokuriku per stanare Yoshinaka, fallisce miseramente.

E qui ci ritroviamo. In un paese incendiato da siccità, carestia e odio.

005

I tre centri di potere: Heian per i Taira, Kamakura per Yoritomo, la capitale provinciale di Echigo per Yoshinaka

I Taira sono cinti dal casino: Kyūshū, Shikoku, e ora anche i monaci di Kumano, nel Kii, rilanciano la rivolta. Questi ultimi ce l’hanno coi Taira per via della distruzione dei templi di Nara.

Alla fine del nono mese dell’anno precedente, i rivoltosi di Kumano avevano occupato Shishigaseyama e dichiarato il loro aperto supporto a Yoritomo.

004

In rosso, nel centro, la provincia dove si trova la Capitale, tenuta dai Taira;
Contrornate in arancione, le provincie toccate da disordini e rivolte;

In verde barrato nel nord, il territorio controllato da Kiso Yoshinaka;
In aranciano barrato nell’est, il territorio controllato (più o meno bene) da Minamoto Yoritomo

Tra i sostenitori di Yoritomo in Kumano spicca un certo Tanabe Tanzō. Il suo nome non è nuovo nelle fonti: in molti sospettano che sia lui il delatore che ha avvertito i Taira della lettera del Principe Mochihito, all’origine della guerra. Questo dato non è confermato in tutte le fonti, quindi prendetelo con le molle.

Quello che sappiamo con relativa sicurezza è che è nato nel 1130 e che a questo punto riveste una funzione importante nell’amministrazione monacale di Kumano. Suo padre si chiamava Tankai, ma il Sonpi bunmyaku suggerisce che Tanzō fosse in realtà un figlio naturale di nientemeno che Minamoto no Tameyoshi (il nonno di Yoritomo, e ve lo dico perché questa faccenda è peggio di Beautiful e mi diverte incasinarvi le idee).

Tanzō è legato ai Taira e si occupa della marina militare nella provincia di Kii. Come altri in Kumano, il rogo dei templi di Nara è un momento di rottura critico, e Tanzō si ribella.

Questo tradimento gli viene perdonato, ma la frattura è insanabile: nel nono mese, Tanzō raggiunge Yoritomo e diventa de facto il nuovo ammiraglio dei Minamoto. Di certo i ribelli si rendono conto che, se vogliono sconfiggere i Taira, clan padrone del mare, hanno bisogno di una flotta un minimo decente.

Nel frattempo anche Yoshinaka sta consolidando la propria posizione, espandendo la sua sfera di influenza fino in Ecchū.

Munemori si ritrova quindi con rivolte ad ovest e due poteri ostili che dall’Est strisciano con lentezza inesorabile verso la provincia di Yamashiro e la Capitale Fiorita. Si può consolare con l’ida che Yoshinaka e Yoritomo si odiano, e hanno altrettanta probabilità di attaccare i Taira che di sbranarsi tra loro.

Minamoto no Yoshinaka (il tizio più in alto), attorniato da altri tostissimi guerrieri, dal pennello di Utagawa Kuniyoshi (1848)

Il 1182 e 1183 sono contraddistinti da lavori politici più che fati d’arme: la carestia infuria e senza cibo e foraggio gli eserciti non vanno da nessuna parte.

Secondo Kamo no Chōmei (1155-1216), nulla cresce per due anni. Vi riporto il brano in intero per dare un’idea dell’orrore che regnava in Giappone in questo periodo.

Alcuni disertarono le loro terre e se ne andarono in altre provincie, e altri lasciarono le loro case e si accamparono sulle colline. Vari tipi di preghiere furono recitate, ma le cose non migliorarono. E poiché la gente della Capitale dipendeva in tutto dalle terre d’attorno, quando nessun contadino veniva più con il cibo, come potevano costoro continuare la loro solita esistenza? Anche se gli abitanti portavano i loro beni sulla via e supplicavano la gente di comprarli come mendicanti senza vergogna, nessuno li degnava di uno sguardo, e se mai c’era qualcuno disposto a barattare il denaro era tenuto a poco, ma non c’era modo di convincerli a separarsi dai cereali. Gli accattoni riempivano le strade e il loro clamore era assordante.

Così il primo anno passò, e fu già difficile da vivere, sperammo in un miglioramento in quello seguente, ma fu peggio, dacché si scatenò una pestilenza, e le preghiere della gente non servirono a nulla. Man mano che i giorni passavano, gli abitanti si sentivano come pesci quando l’acqua gocciola via, e cittadini rispettabili che di solito indossavano cappelli e scarpe ora andavano scalzi a mendicare casa per casa. E mentre guardavi sconvolto tali scene, costoro si accasciavano e morivano sulla strada. E contro i muri e lungo le vie potevi vedere ovunque i corpi di coloro che erano morti di fame. E non c’era nessuno per portarli via, un fetore terribile colmava le strade, e la gente passava distogliendo lo sguardo. Le strade normali erano già in terribile stato, ma nei bassifondi presso il fiume non c’era nemmeno spazio per far passare carri o cavalli.

I manovali poveri e taglialegna e gente così, quando non poterono più tagliare legna da ardere e nessuno li aiutava, presero a distruggere le loro capanne e a portarne i pezzi in città per venderli. E ciò che un uomo poteva trasportare non era abbastanza da procurargli il cibo per sopravvivere un giorno.

Ed era sconvolgente vedere frammenti con lacca rossa o foglia d’oro e d’argento ancora attaccati spuntare in questi mucchi di legna. E questo è perché quelli che non potevano procurarsi nient’altro facevano irruzione nei templi di montagna e rubavano immagini e utensili e li facevano a pezzi per venderli come legna da ardere. Squallidi e degenerati sono i tempi in cui si compiono simili azioni.

Un’altra cosa molto triste era che coloro che avevano figli che amavano molto invariabilmente morivano prima di loro, perché si privavano di tutto per dare ai loro figli e figlie ciò di cui avevano bisogno. E così i figli sopravvivevano sempre ai genitori. E c’erano infanti che continuavano a succhiare il seno della madre, non capendo che era già morta.

Testimonianze come questa sono ciò che a mio parere restituisce alla Storia lo spessore e la nitidezza che il tempo tende a offuscare. Spesso quando studiamo eventi remoti, i protagonisti appaiono impersonali, personaggi di un racconto più che non persone in carne ed ossa.

Testimonianze come questa riportano a galla l’umanità delle persone. Oggi come allora, i genitori amano i figli. Oggi come allora, quando una situazione terribile si protrae, legami e strutture si sfaldano, e gente che aveva famiglia, vita, lavoro, si trova sola, per la strada, a crepare in solitudine. Oggi come allora, catastrofi climatiche possono privare qualcuno di tutto, e non c’è niente che puoi fare se non pregare dei che non ascoltano e cercare di sopravvivere un giorno in più, perché magari domani pioverà, magari domani arriveranno dei viveri, magari domani sarà diverso.

Gaki, spettri dominati da una fama atroce e insaziabile. Le loro pance sono dilatate come quelle dei morituri, le loro bocche sono sproporzionatamente grandi, ma il loro collo è troppo stretto per inghiottire anche un sorso d’acqua, e il cibo si muta in fuoco non appena tocca le loro labbra. Il Gaki è la personificazione del tormento di qualcuo che sta morendo di fame.
La simpatica scenetta in questione è ripresa dal Gaki sōshi, del Museo di Nara

Uno potrebbe pensare che una situazione del genere ponga necessariamente fine a una guerra che è cominciata come scazzo dinastico tra alti dignitari. Ma nonostante le grandi campagne militari siano per la maggior parte fuori questione, il fermento continua, in particolare a Kamakura, dove la Rivoluzione non dorme mai!

-Siamo praticamente padroni del Bandō.- Dice Yoritomo, durante una riunione. -E’ ora di regolare i conti con mio cugino Yoshinaka.

-”Praticamente” padroni.- Nota qualcuno. -Un sacco di bande di Hitachi non hanno risposto all’appello. Se ci spingiamo a nord, ci scopriamo ad est.

-Non ho cugini famosi in Hitachi, possiamo prendere il rischio. Invece ho un cugino famoso in Hokuriku.

-Per ora Yoshinaka non si è mostrato ostile.

-E’ nella natura stessa dei cugini di uccidersi a vicenda prima o poi.

-Giusto.

-Quindi, se non ci sono altri parenti problematici da fare a pezzettini, io direi di mettere su una spedizione di taglia ridotta e-

-Capo!- Un piantona arriva di corsa. -Capo, hai mica uno zio in Hitachi?

-Oh no.

Pin by Heather Nolin on Just Because | Family quotes, Monday ...

Vi presento Minamoto no Yoshihiro, che chiameremo il Sire di Shida per evitare confusione tra tutti gli Yori e gli Yoshi del clan Minamoto.

Il Sire di Shida è terzo figlio di Minamoto no Tameyoshi e fratello minore del padre di Yoritomo. «Shida» altro non è che il nome della sua base principale, nella provincia di Hitachi.

003

La provincia di Hitachi, nel sud potete notare il distretto di Shida

Il Sire di Shida non era mai stato amico del padre di Yoritomo. Fin da ragazzo, il suo fratello preferito era il secondogenito, Yoshitaka. I due sembrano inseparabili sin dall’infanzia: servono insieme alla Capitale e si trasferiscono insieme in Hitachi a fine turno. In questa remota provincia orientale, i due restano uniti, uno il supporto dell’altro. Cosa che non piace per nulla al padre di Yoritomo: Hitachi è nel cuore del Bandō, una provincia produttrice di cavalli e una zona strategica importantissima. Il nostro teme che i due fratelli possano unire le loro forze per rovesciarlo.

Che belle le famiglie disfunzionali, non trovate?

Nel 1155, il figlio maggiore di Yoshitomo (e fratello maggiore di Yoritomo) risolve la situazione spacciando suo zio Yoshitaka.

Annientato dalla perdita del fratello, il Sire di Shida si ritira nel suo territorio e resta fuori dalla guerra. Per più di 20 anni, si occupa della sua terra, senza mai cercare il conflitto con il governatore Taira della provincia. Perché dovrebbe, dopotutto? Non sono stati i Taira ad assassinare suo fratello.

Anche dopo l’inizio della ribellione, il Sire di Shida resta fuori dai giochi.

Ma nel 1183, con la guerra in stallo e il mondo in fiamme, il Sire di Shida decide di agire.

Forse teme il crescente potere di suo nipote Yoritomo, un uomo per cui non può avere che diffidenza e ostilità. Forse teme che Yoritomo trascini il clan nell’ennesima guerra persa, dannandoli tutti. Forse è irato col nipote che mostra scarsissima considerazione a suo riguardo. Forse vuole unirsi alle forze di Yoshinaka. Non lo sappiamo.

Toujours est-il, il Sire di Shida decide di agire.

Il 20 del secondo mese del 1183, il Sire di Shida lascia la propria base nel sud di Hitachi e comincia la lunga marcia passando via Shimotsuke verso Kamakura, dove conta sorprendere e spacciare suo nipote Yoritomo.

La congiura viene però scoperta: Yoritomo raccatta i suoi e va incontro a suo zio, incontrandolo a Nogi no miya. E proprio mentre il Sire di Shida si prepara a dare battaglia, uno dei suoi tradisce e prende le parti di Yoritomo.

001

Il teatro delle operazioni

Segue una battaglia ferocissima. Così feroce che la memoria del macello è sopravvissuta nei toponimi del luogo, noto come Jigokuzawa (la palude dell’inferno) o Todorokizawa (la palude del fracasso).

Nonostante gli sforzi, il Sire di Shida perde: sconfitto, può solo ritirarsi precipitosamente e rifugiarsi sotto la protezione di Kiso Yoshinaka.

La Battaglia di Nogi no miya può sembrare aneddotica: ok, sono due parenti che si scannano tra di loro provocando la morte di centinaia di poveri stronzi che non c’entrano niente. Che c’è di nuovo?

Da un punto di vista politico questa battaglia segna un cambiamento importante nell’equilibrio del Bandō: fino a questo punto Hitachi era rimasta potenzialmente ostile a Yoritomo. Alcune bande della provincia si erano unite alla causa di Yoritomo, ma la loro lealtà era condizionata. Con la sconfitta del Sire di Shida, Yoritomo non solo ha eliminato un grosso notabile locale e possibile competitore, ma ha messo le mani su un ricco patrimonio. Per 30 anni il Sire di Shida è stato fuori dalle beghe politiche e si è dedicato solo a curare le proprie terre. Ora il frutto di tanto lavoro finisce dritto nelle rapaci zampine di Yoritomo, che usa subito il nuovo capitale per ricompensare i suoi e assicurarsi la fedeltà dei capetti di Hitachi. Con Nogi no miya, Yoritomo mette al sicuro la propria retroguardia.

Non solo, ma Yoritomo si assicura una vittoria di cui ha davvero bisogno. Con il nuovo lustro e i nuovi mezzi, può sperare di fare i conti con Yoshinaka.

Stando allo Heike monogatari, Yoritomo non riesce a strappare a suo cugino una vera e propria sottomissione, ma riesce a confinarlo nell’Hokuriku, sloggiandolo dalla provincia di Kōzuke, e a fargli inviare suo figlio come ostaggio a Kamakura.

Il primo round tra i due si conclude così con un netto vantaggio per Yoritomo.

Yoritomo

Yoritomo mentre medita nuove infamie

Mentre i Minamoto regolano conti tra di loro, i Taira ritentano di pacificare l’Hokuriku. Con minacce e pedate rimettono insieme un esercito, e il 17 Koremori riparte.

Dallo Heike monogatari:

Avendo ricevuto l’autorizzazione di esigere rifornimenti, una volta passata la barriera di Ōsaka saccheggiarono lungo la strada tutti gli uffici e le magioni, senza rispettare i prodotti delle tasse né i beni pubblici, e dacché al loro passaggio portavano via tutto ciò che trovavano, in Shiga, Karasaki, Mitsukawajiri, Mano, Takashima, Shihotsu e Kahizu, la popolazione non poteva resister loro e fuggì per monti e valli.

L’esercito messo insieme è un mostro mastodontico di migliaia e migliaia di uomini, Uesugi ipotizza anche 40.000! Si tratta di un miscuglio mal accozzato di vassalli dei Taira e coscritti strappati alle provincie obtorto collo. La coesione è bassa e il morale ancora più basso.

Koremori divide l’armata in due parti : una deve avanzare attraverso Tsuruga, a nord del lago Biwa, via il passo Konome. L’altra attraversa il passo Tochinoki, da Ōmi a Echizen. Il 26 fanno giunzione in Echizen senza troppi intoppi.

Intoppi che cominciano il giorno dopo, quando i Taira incocciano nel castello di Hiuchi, protetto da 6.000 cavalieri secondo lo Heike monogatari, tenuto da un ramo filo-Minamoto dei Fujiwara settentrionali e dal superiore monastico Saimei del tempio Heizen (pure pro-Minamoto).

La montagna è dietro, la montagna è davanti. Davanti alla fortezza scorrevano i fiumi Nōmi e Shindō. Alla confluenza dei due, [i difensori] avevano stabilito una diga di enormi alberi abbattuti, rinforzata da una prodigiosa quantità di graticci, così che a est come a ovest l’acqua era salita fino ai piedi dei monti e si sarebbe detto un lago.

Insomma, i grandi eserciti difficilmente possono scorrazzare in giro inosservati: i difensori sapevano che sarebbero arrivati e hanno creato un troiaio paludoso che Alberto I del Belgio levati.

L’acqua è un’ottima difesa, ma non bisogna mai fidarsi dei preti: nottetempo Saimei sgattaiola fuori e scocca ai Taira una freccia. E’ cava. Al suo interno i nemici trovano un messaggio arrotolato. E’ una lettera di Saimei in persona.

“Questo lago non è sempre stato qui. E’ solo l’acqua dei torrenti di montagna ostruiti da un po’. Al calar della notte, inviate i vostri valletti d’arme e fate loro distruggere i graticci. Le acque scenderanno in poco tempo. Appena i vostri cavalli potranno toccare, attraverserete. Quanto a me, li colpirò alle spalle.”

George Washington Treason - Laughshop.com

“People gather, scatter, they go left and right following their interests. That is not surprising.” (Masakage Yamagata ci insegna la politica, dal film Kagemusha)

Il giorno dopo, fangosi ma invitti, i Taira avanzano su Hiuchi, che viene prontamente abbandonato dai difensori.

Sembra che la pacificazione dell’Hokuriku, a questo giro, sia partita proprio bene.

Ma i Taira non hanno contato su Yoshinaka, che dopo l’umiliazione politica impartitagli da Yoritomo ha un sacco bisogno di ripulire il proprio onore col sangue di qualcuno.

Nella prossima puntata, la Battaglia di Kurikara!

MUSICA!

Puntate precedenti:

Genpei 0.1

Genpei 0.2

Genpei 1.0

Genpei 1.1

Genpei 1.2

Genpei 1.3

Genpei 2.0

Genpei 2.1


Bibliografia

FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Harvard University Press, 1995, Cambridge

FRIDAY Karl, Samurai, warfare and the state, Routledge, 2004, New York

FUKUDA Toyohiko, SEKI Yukihiko, Genpei kassen jiten, Yoshikawa kobunkan, 2006, Tokyo

KAMO NO CHOMEI, Trad. Sadler A. L., Ten foot square hut, Charles E. Tuttle Company, 1993, Sidney

ROYALL Tyler, The tale of the Heike, Viking, 2013, New York

SIEFFERT René, Le dit des Heiké, Verdier, 2012, Lonrai

SOUYRI Pierre-François, Histoire du Japon Médiéval – Le monde à l’envers, Tempus, 2013, Paris

UESUGI Kazuhiko, Genpei no sōran, Yoshikawa Kōbunkan, 2007, Tōkyō

 

 

1917, un film quasi perfetto

Questo film è bellissimo e se avete la possibilità di andare a vederlo quando il mondo non sta bruciando, fatelo.

Fine della recensione.

1917

No, vabbé, parliamone.

Piccola parentesi. Come accennavo nell’articolo di riapertura, sono stata male peso per mesi e mesi, ho trovato delle medicine che mi funzionavano, sono stata meglio, e 3 settimane dopo il mondo è esploso.

Sono uscita a vedere questo film con un’amica, ed è stata forse l’unica cosa « normale » che sono riuscita a fare da settembre. Tre giorni dopo eravamo tutti barricati in casa.

Sono davvero contenta di avercela fatta, perché, al di là del fatto che è spettacolare, sono riuscita a sentirmi « normale » per un po’ prima che tutto questo casino ci cascasse tra capo e collo e cancellasse la parola « normale » dal dizionario.

Sicché non vi nego che ho un debole per questo film. Ma cercherò comunque di essere il più oggettiva e fastidiosa possibile.

La Trama

1917 – Movie Loon

“Tommen, Rob Stark è tuo fratello e sta per essere ucciso dal Doctor Strange!”

La trama di 1917 è davvero semplicissima.

I tedeschi si sono ritirati sulla Linea Hindenburg, e gli inglesi di preparano a incalzarli per assicurare una vittoria significativa.

O, come direbbe Lieutenant George : Up and over to glory, last one in Berlin is a rotten egg !

The Black Adder — Lieutenant George + asking permission

In questa recensione ci saranno molte citazioni da Blackadder goes Forth

Si tratta però di una trappola: gli inglesi stanno caricando a testa bassa, e i crucchi stanno aspettando con l’artiglieria pronta, leccandosi i prussiani baffoni.

La linea telefonica è tagliata, e tocca quindi a un paio di Lance Corporals farsi a piedi (possibilmente di corsa) tutta la no-man’s-land per fermare l’attacco suicida.

La scelta dei due cade su Lance corporal Thomas Blake, il cui fratello è destinato ad attaccare al mattino, dritto nella trappola, e William Schofield, veterano della Battaglia della Somme.

Subito all’inizio, appena mettono il naso fuori dalla trincea, Schofield si buca una mano sul filo spinato. Poi casca in una buca e la ficca nelle budella marce di un cadavere. E poi niente, va sempre peggio a partire da qui.

La tecnica

Behind the scenes of 1917 : Moviesinthemaking

“Ora guida dritto nel mucchio di comparse, mi raccomando non sbandare, e, se puoi, cerca di non investire nerruno”

Non si può parlare di questo film senza parlare del fatto che è stato realizzato simulando una ripresa continua.

Ovviamente si tratta di un trucco : i personaggi soffrono molto intensamente per due giorni, e il film dura solo due ore.

E’ chiaro che il tempo è in qualche modo “compresso”, ma onestamente sono riuscita a vedere solo due tagli. E stavo facendo attenzione. Niente, mi hanno fregata!

Sia chiaro: questo non è il primo film a giocare con l’idea di un’unica, continua scena. Rope, realizzato da Hitchcock nel 1948, è forse il primo esempio di questa tecnica. Ovviamente non era possibile per il paffuto Alfred filmare di continuo, visto che i limiti della pellicola erano molto stringenti. Ovviò quindi con lunghissime riprese (fino a 10 minuti!) e tagli mascherati, che dessero l’impressione di un take continuo.

Un altro celeberrimo esempio di long take è lo spezzone iconico di Children of men, che però non applica la tecnica all’intero film.

In effetti, era un po’ che non vedevo questo tipo di ripresa sul grande schermo, di certo non per l’itera durata della storia. E non sono stata l’unica a trovare la cosa curiosa: questo famoso “single shot” è stato oggetto di chiacchiere e discussioni per mesi!

Di solito sono molto scettica quando i film saltano fuori con qualche gimmick innovativo che fa tanto clamore. Non che questo genere di cose non mi interessi : mi interessa ! E chiunque sia stato su questo blog più di una volta sa a che punto sono capace di sfrangiare la minchia sulla narrativa. Il modo in cui le storie sono raccontate è un argomento che mi appassiona tantissimo, con gran dolore delle coinquiline che sono chiuse con me in questa quarantena e che devono sentirmi rantare sull’elemento extradiegetico di The Conqueror (perché ovviamente l’elemento extradiegetico è il problema più grande di quel film !).

Tornando a noi, il fatto è che spesso il gimmick è usato come sostituto alla sostanza.

Un esempio tristemente famoso è quella puttanata di Unfriended, un horror realizzato in tempo reale e filmato solo dalla prospettiva del desktop della protagonista (non vi linko il trailer perché il fim fa schifo). L’idea è interessante, ma, a parte la tecnica nuova, i personaggi sono il solito mazzo trito e ritrito di gente insopportabile, la trama non ha molto senso, e si conclude con un glorioso non sequitur.

In altre parole, spesso ci si aspetta che il modo di raccontare una storia sia sufficiente a se stesso, e spesso non lo è: una storia ha bisogno di sostanza (tema e personaggi per cominciare). Il modo di raccontare serve a mettere in valore la sostanza di una storia, non a sostituirla.

1917 è un ottimo esempio di come una tecnica innovativa può dare un risalto inedito a una buona storia. La vicenda di 1917, come detto, è semplice. Ma non è superficiale. 1917 è la storia più primitiva che si possa avere: l’uomo confrontato con un disastro più grande di lui (la guerra in questo caso). Non può vincere, non può scappare, può solo cercare di sopravvivere.

Il fatto che la trama sia estremamente semplice non vuol dire che sia raffazzonata. Non lo è : è scritta con estrema cura, i personaggi sono verosimili e ben delineati nonostante ci sia molto poco dialogo.

“Come ben sai, Tom, io e te siamo buoni amici”

Il regista è Sam Mendes, già conosciuto per American Beauty, Skyfall e Spectre. Oibò, Mendes ha fatto strada dal tempo dei sacchetti di plastica trascinati dal vento!

La tecnica che ha scelto per realizzare il film funziona perfettamente e cala lo spettatore nei panni del soldato inglese.

Realizzarla è stata un’impresa logistica non indifferente: siccome si tratta di lunghe, ininterrotte riprese (anche 7 minuti continui), doveva esserci una corrispondenza precisa tra la durata di una scena e l’estensione del set attraverso cui la scena si svolgeva, dato che il movimento è rivolto sempre verso l’avanti e non è possibile tagliare o passare al grandangolo.

Non solo: le necessità di movimento delle telecamere hanno spinto Mendes e i suoi ad adottare una serie di soluzioni tecniche degne del periodo d’oro di Hollywood, come una finestra che si smonta e si apre al passaggio della macchina per permettere la continuità della ripresa oltre il davanzale.

Un altro ostacolo è stato il clima: con poche eccezioni, la luce del film è soprattutto naturale, dato che l’uso dei riflettori non era pratico. Il che vuol dire che le riprese dovevano avvenire, di preferenza, in giornate nuvolose, per evitare ombre nette che rendessero evidenti le discrepanze temporali.

E’ stata infine necessaria una sincronia perfetta tra attore e camera crew. In una scena particolarmente drammatica, Schofield si arrampica fuori da una trincea e poi corre lungo il tracciato. Per poterlo riprendere, la telecamera è stata prima attaccata a una gru, che lo ha seguito mentre camminava dentro la trincea, poi mentre si arrampicava fuori dalla trincea. A questo punto i grips dovevano acchiappare la telecamera, staccarla dalla gru e attaccarla a una seconda gru, fissata su un furgone che, per non rompere il movimento della ripresa, era già in movimento prima ancora che la telecamera fosse agganciata. Nel film, Schofield esita un istante sull’orlo sulla trincea. Il personaggio esita per l’estremo pericolo in cui si trova, l’attore esita per dare ai grips il tempo di sganciare e riagganciare la telecamera.

Ah, e i due grips che maneggiano la telecamera ? Sono in costume, perché sarebbero finiti necessariamente nell’inquadratura e dovevano quindi unirsi immediatamente al resto delle comparse.

Per realizzare queste complicate operazioni, Mendes ha arruolato Roger Deakins, già conosciuto per Sicario, Hail, Caesar ! e Blade Runner 2049, per cui vinse il BAFTA.

Coautrice della sceneggiatura è Krysty Wilson-Cairns, relativamente nuova nell’ambiente: 1917 è il suo primo progetto famoso, e holy smokes, se questo non è irrompere sulla scena con un gran botto !

1917 Featurette - Behind the Scenes (2019)

“Seguite in perfetta coordinazione i due attori senza perdere di vista il filmato e senza inciampare su questo terreno accidentato storicamente corretto”

La qualità della sceneggiatura è evidente già dalle prime scene.

Consideriamo che si tratta di un film storico basato su un periodo con cui molti spettatori non sono familiari. E’ quindi necessario fornire loro tutta una serie di informazioni.

Per avere un’idea di quanto questo possa essere complicato, voglio infliggervi un aneddoto personale, perché fanculo, ho ripreso il blog dopo mesi, e qualcuno deve pagare per questo.

Una volta ho provato a guardare Blackadder goes Forth con una coinquilina, che chiameremo Prosdocima per ragioni di privacy (una ragazza dotata di tutte le facoltà intellettuali e di un diploma universitario, quindi suppongo che abbia finito con successo il liceo).

La storia comincia in una trincea inglese.

Prosdocima: « Ma questi chi sono ? »

Tenger : « Inglesi. »

Prosdocima : « E dove si trovano ? »

Tenger : « Hum… non so di preciso onestamente, da qualche parte in Francia. »

Prosdocima : « Oh, ci sono state battaglie in Francia ? »

Mi sono raccattata la mascella. Anche perché ciò accadeva durante le celebrazioni del centenario di Verdun e Parigi era praticamente incartata con manifesti a tema.

Prosdocima : « E contro chi combattevano ? »

Tenger : « INDOVINA. »

Prosdocima : « Ma aspetta, il personaggio è appena andato dal generale… come ha fatto ? »

Tenger : « Non so, magari a cavallo, o è saltato su un camion o qualcosa del genere… »

Prosdocima : « No, intendo, era nella trincea, com’è uscito ? »

Tenger : « Coi piedi…? »

Insomma, non abbiamo finito di guardare l’episodio. E va bene, Prosdocima era particolarmente capra sull’argomento « Grande Guerra » (e « piedi »), ma è abbastanza rappresentativa dello spettatore medio.

Come fare allora a fornire allo spettatore tutte le informazioni necessarie ad apprezzare la gravità e urgenza della situazione senza fargli esplodere le palle nei primi 5 minuti?

Ebbene, i nostri due protagonisti sono convocati. Viene detto loro che il Generale Erinmone vuole vederli. Blake si volta verso l’amico Schofield e mormora : « Se il generale è qui, allora è una faccenda seria ».

E’ solo ua frase, è qualcosa di verosimile da dire per il personaggio, e serve perfettamente a informare lo spettatore che il conflitto è iniziato, che la situazione è già grave, e che le informazioni che stanno per essere discusse sono vitali per la storia.

Erinmore spiega a grandi linee la situazione a Blake, e lo informa che suo fratello finirà nel tritacarne teutonico se lui non riesce a portare il messaggio in tempo.

Ha senso che il generale riassuma la situazione per Blake, perché è importante che il nostro realizzi l’importanza della propria missione. E ha senso che Erinmore scelga Blake, dato che la vita del fratello è una motivazione supplementare per spronare Blake. E questa scelta del generale paga subito nella storia: appena usciti dal rifugio Schofield cerca di convincere Blake che è più prudente aspettare la notte, ma Blake non ne vuole nemmeno sapere.

Non abbiamo bisogno di preamboli riassuntivi, o di retrolampi, o di spiegoni. Anche qualcuno che non si è guardato 2-3 volte tutti i video di quel gran figo di Indy Neidell può seguire la vicenda (anche se la visione dei video di Indy Neidell è comunque consigliata).

Indy_Neidell

“Io divulgo forte, una volta la settimana.”

Per l’intero film, dialoghi e personaggi principali sono trattati con lo stesso grado di cura e umanità. E’ facile calarsi nei panni di questi due, e non abbiamo bisogno di conoscere tutta la loro storia per sentirci partecipi.

Quando una giornata comincia male e continua peggio

Il personaggio di Schofield è recitato da George McKay, vincitore di numerosi premi già dal 2013, tra cui un BAFTA per il suo ruolo in For Those in Peril e il Trophée Chopard nel 2017, nonché Virtuoso Award e Best Breakthrough Performance per 1917 nel 2020.

Blake è interpretato da Dean-Charles Chapman, ovvero Tommen Baratheon, per cui ricevette ai tempi la nomina per Screen Actor Guild Award for Outstanding Performance. Chapman è ancora giovanissimo e la sua performance in 1917 è eccellente !

“Cosa fai nella vita?”
“Interpreto gente a cui capita roba orribile.”

Altri attori celeberrimi compaiono nel film, tra cui Colin Firth e Benedict Cumberbatch, ma sono MacKay e Chapman a reggere la storia.

Tutti questi grandi pregi (la cura, i personaggi ben delineati, l’ottimo dialogo) fanno purtroppo spiccare un modo particolare quello che a parer mio è l’unico difetto: per quanto gli inglesi siano ben scritti e umani, i tedeschi sono caricature degne del peggior film di propaganda.

Tutti i tedeschi che incrociamo sono belve assetate di sangue, macchine per uccidere senza un’anima che cercheranno di accoltellarti anche dopo che gli hai dato fuoco.

#Edmund Blackadder from Blackadder screenshots

Questo contrasto probabilmente è dovuto al fatto che la storia vuole essere strettamente dal punto di vista degli inglesi. Per il soldato inglese, il soldato tedesco è un mostro disumano che continuerà a darti addosso fino alla fine.

Il guaio è che telecamera non è abbastanza « nella testa » di un personaggio particolare per giustificare questa distorsione della realtà. La storia è raccontata in modo molto realistico, e la realtà è che i soldati tedeschi, generalizzando, non erano poi così diversi dagli inglesi o dai francesi.

E se leggiamo le testimonianze dei reduci, ci rendiamo conto che spesso i soldati ne erano coscienti. Nel suo libro, La Peur, Gabriel Chevaillie racconta diversi episodi di solidarietà col nemico. In un passaggio in particolare, il nostro e i suoi si trovano in una trincea gelata a poche decine di metri da una trincea tedesca. I soldati decidono tacitamente di evitare sparatorie a meno che la presenza di un ufficiale non renda una dimostrazione di Valoroso Spirito Patriottico assolutamente necessaria. In entrambi i casi, se un ufficiale è nei paraggi, i soldati urlano Officier ! o Offizier !, come avvertimento a quelli dell’altra trincea.

Ovvio, questo non significa che soldati inglesi e tedeschi fossero affratellati da un comune senso di umanità. Ma i tedeschi erano esserim umani, inglesi e francesi ne erano spesso coscienti, e disumanizzare del tutto i crucchi è molto stridente in un film che si vuole il più realistico possibile.

Flo di The Great War – The Online Video Series (se non li seguite già, fatelo, sono bravi bravi esagerati!) nota peraltro che un film con questo budget sulla Prima Guerra mondiale è per forza un film realizzato dagli americani. Non ci sarà mai un film altrettanto opulento che rappresenta il punto di vista tedesco. Pertanto, è particolarmente deludente quando un aspetto fondamentale della guerra è trattato in modo così caricaturale.

Germans

Un film simile per certi versi è Dunkirk (di cui parlai qui, anche questo molto raccomandato !). I due film sono realizzati con tecniche diametralmente opposte (Nolan usa panoramiche, tagli, ecc., mentre Mendes segue fedelmente due personaggi), ma in entrambi i casi abbiamo film strettamente ancorati al punto dei vista dei personaggi principali, e in entrambi i film si mette in scena quello che Jeremy Mathai di Slashfilm chiama “un eroismo sottile, anonimo e sminuito”.

In entrambi i film, i personaggi principali si trovano di fronte alla titanica catastrofe della guera, che rischia di privarli della vita e di ogni bandello di umana decenza. Nell’inferno dello scontro, non devono semplicemente salvare la pelle, ma la loro umanità. L’eroismo celebrato in queste due storie non è quello del guerriero che si copre di gloria sul campo, è quello del soldato comune che riesce a sopravvivere e a restare umano.

Cito Dunkirk perché la tecnica non è la sola differenza notevole: un’altra à il modo in cui il nemico è rappresentato. In Dunkirk, i tedeschi sono invisibili. Vediamo i loro aerei, le loro bombe, le fucilate che fischiano vicino ai protagonisti, ma gli uomini sono quasi del tutto assenti. In Dunkirk i tedeschi non sono umani, nel senso che sono una sorta di catastrofe naturale che si abbatte sui personaggi, un cataclisma senza faccia, che è probabilmente come erano in effetti percepiti la maggioranza delle volte.

Il problema di 1917 è che i tedeschi qui la faccia ce l’hanno. Non sono « il nemico », sono oggettivamente mostri che cercheranno ti mangiarti vivo anche se stai tentando di aiutarli a uscire da un rottame in fiamme. Questo dà al film un bizzarro sapore di propaganda: gli inglesi sono umani, bravi, compassionevoli o per lo meno relatable, mentre i tedeschi sono sbavanti orchi capaci solo di uccidere e distruggere alberi in fiore (lol).

Non che i tedeschi non abbiano commesso atrocità durante la guerra (basti pensare allo Stupro del Belgio), ma mostrare solo questo aspetto mi pare un po’ caricaturale. I tedeschi del 1917 non sono i Nazisti del 1941, c’è davvero bisogno di farceli odiare così tanto? Mah.

L’attinenza storica

Bello esagerato, vi dico!

A parte la totale disumanizzazione dei tedeschi, l’aspetto storico di 1917 è curatissimo.

La Prima Guerra Mondiale non è la mia specialità, quindi ci sta che questa mia impressione sia data dalla mia superficiale conoscenza del periodo. Tuttavia non ho notato nessuna imprecisione. I costumi sono fatti benissimo, la ricostruzione delle trincee è fedele, con tanto di una smaccata differenza tra quelle inglesi e quelle tedesche. Il tracciato a zig-zag non solo è rispettato, ma sfruttato : quando i due protagonisti entrano nella trincea tedesca, ogni angolo potrebbe nascondere un crucco incazzato, e la tensione è palpabile. La cittadina francese sventrata dai bombardamenti è spettacolare, la campagna, che a tratti pare intatta e a tratti mostra i chiari segni del conflitto, sono tutti set realizzati con grande cura.

I personaggi sono realistici per il contesto in cui si trovano, dal generale ossessionato dalla « battaglia decisiva », al capitano che sta avendo una crisi nervosa al momento di guidare i suoi in battaglia, al veterano svuotato ed esausto.

Il film mostra anche notevole equilibrio negli aspetti più macabri. Potevano tranquillamente sbizzarrirsi con scene di macello, sarebbero state giustificate (sempre Chevallie descrive cose che i film splatter di quarta categoria se le sognano!), ma non indulge sul macabro. I cadaveri e l’orrore esistono, ma non sono calcati. I personaggi ci sono abituati ormai, a stento li notano, e la loro familiarità con cose che non dovrebbero essere familiari contribuisce alla brutalità dell’ambientazione. Il punto non è tanto l’esplosione della violenza, ma l’effetto usurante e traumatizante della violenza costantemente incombente.

Ho anche molto apprezzato il fatto che, a differenza di Dunkirk, questo film abbia mostrato gente delle colonie. In molti film, l’impressione è che gli eserciti Alleati fossero composti solo da bianchi europei. Non era il caso. Un sacco di gente delle colonie si è trovata a combattere in Europa, ed è giusto che siano rappresentati.

Può sembrare una cazzata, ma vi assicuro che ho incontrato un sacco di gente straconvinta che l’esercito francese fosse composto solo da bianchi e altre assurdità simili.

War Hero - Personology and Relational Science

“Sono lieto di essere qui a morire ammazzato per gente che vuole tassarci il sale!”

Parentesi politica a parte, nel panorama dei film storici, 1917 brilla per correttezza ed equilibrio.

Schofield corre felice dopo aver saputo della scoperta del vaccino contro la poliomelite

Conclusione

Ma siete ancora qui a leggere ? Con un solo elemento che secondo me poteva essere gestito meglio, 1917 entra diritto tra i miei film preferiti. E’ fatto benissimo, è bellissimo, e la prima volta che l’ho visto volevo restare seduta e riguardarmelo subito una seconda volta.

Attinenza storica e costumi Good_Grumpy
Tecnica di regia Good_Grumpy
Cast Good_Grumpy
Sceneggiatura Good_Grumpy
Effetti Good_Grumpy
Scenografie Good_Grumpy
I crucchi Bad_grumpy

Andatelo a vedere, o meglio, visto i tempi, procuratevelo e guardatevelo a casa. State al sicuro e non esponetevi a rischi inutili.

MUSICA


APPROFONDIMENTI

Il canale di The Great War

Articolo del New York Times su 1917

Articolo di Slashfilm

Pagina Imdb del film

 

Emishi, gli eterni sconosciuti

Non si può studiare la storia giapponese pre-XIII° senza incappare in questo strano termine.

Emishi.

Fin dalle prime fonti storiografiche autoctone, nell’VIII° secolo, questo nome compare, e quasi sempre in circostanze drammatiche. Gli emishi si sono ribellati, gli emishi hanno bruciato i fortini di frontiera, gli emishi hanno teso un agguato al governatore e se lo sono mangiato con le fave e un buon chianti…

Bruciare fortini in particolare sembra essere stato un gran passatempo.

Person Who Speaks A Language Other Than Geek Is This A Barbarian ...

Nonostante gli emishi abbiano bruciato fortini imperiali per secoli, le informazioni al loro riguardo sono paradossalmente poche e confuse. Anche perché non scrivevano, che è una cosa che mi rende sempre molto triste.

La prima domanda che sorge spontanea a questo punto è: chi erano questi piromani impenitenti?

Chi erano gli emishi?

Emishi - Wikiwand

Emishi rendono omaggio al Principe di Sangue Shōtoku (il tizio a cavallo che sembra dire “‘sto frustino po’ esse’ de piuma o po’ esse’ de fero”), dallo Shōtoku taishi eden emaki, XI° secolo

La parola “emishi” (蝦夷 in un delle sue grafie più correnti) compare per la prima volta nel Nihon shoki, in riferimento al secondo mese del ventisettesimo anno del regno dell’Imperatore Keikō (98 d.C.). Un tale Takeshiuchi no Sukune torna da un viaggio delle regioni orientali e riferisce:

Tra i barbari orientali, c’è il pese (国) di Hitakami (日高見). In quel paese, uomini e donne legano i propri capelli in forma di martello, si tatuano e la gente è valorosa. Sono chiamati emishi. La terra è fertile e vasta, può essere presa con un attacco.

“Ho scoperto questo nuovo paese.”

“Figo, ma lo possiamo saccheggiare o no?”

Tutto il mondo è paese.

Ad ogni modo è importante sottolineare che Keikō è un sovrano semi-leggendario che secondo la tradizione avrebbe regnato tra il 71 e il 130 d.C. Non solo a quell’epoca non esisteva nessun “impero”, ma è relativamente certo che le isole giapponesi fossero un coacervo di tribù agrarie che si aggregavano e si disgregavano. In altre parole, non solo non esisteva l’impero, non esisteva nemmeno lo stato. Quella qui riportata è una leggenda trascritta agli inizi dell’VIII°, e non può essere assolutamente presa in parola.

L’idea che i fantomatici abitanti dell’est avessero costituito uno stato, Hitakami, è pure molto improbabile. L’esistenza di questo “paese” è propugnata anche da fonti cinesi, in particolare il Tongdian (通典), completato agli inizi del IX° secolo. E’ però più che probabile che i Cinesi tenessero queste informazioni dagli inviati Giapponesi, quindi la fonte cinese non “conferma” l’informazione, piuttosto “ripete per sentito dire”

Una cosa però è sicura: gli emishi vivono nella parte orientale e nordorientale di Honshū.

E’ anche importante notare che “emishi” non è l’unico termine usato per parlare della gente del nordest: ebisu, emisu, ezo, ecc. Sono pure termini usati in diversi contesti e periodi, ma non è chiaro in base a cosa e una discussione filologica esaustiva sull’argomento rischia di essere complicata (vorrei tenere questo articolo sotto le 3.500 parole, possibilmente!) [Edit: ho miseramente fallito]

Quotes about Boring book (45 quotes)

Il Tongdian non è la sola fonte cinese che fa riferimento a delle popolazioni insediate nel nordest del regno di Yamato. Lo Xin Tangshu (新唐書) o Nuovo Libro dei Tang, scritto nell’XI° secolo, descrive un’ambasciata del 668 dove l’inviato Wa è accompagnato da gente orientale. Costoro sarebbero dotati di una gloriosa barba di quattro piedi (120 cm!) e di un’incredibile abilità con arco e frecce.

Una delle teorie sulle origini del termine “emishi” è appunto che sia una distorsione della parola yumishi, (弓人 o弓師), “arciere” o “maestro d’arco”. Il secondo kanji di emishi è dopotutto “夷”, che può essere interpretato come una fusione del kanji di “arco” (弓) e “grande” (大).

Un’altra spiegazione attribuisce invece l’origine alla parola che gli Ainu usavano per riferirsi a loro stessi, ovvero emchu o enchu. E’ verosimile che questa parola, all’orecchio dei Wa della regione centromeridionale, suonasse qualcosa come emisu o emishi.

Quale di queste sarà la spiegazione corretta?

A dire il vero una non esclude l’altra, dacché i kanji possono essere stati usati per trascrivere una parola fonetica e scelti in base al loro significato implicito. In parole povere, può darsi che dovendo scegliere quali ideogrammi usare per trascrivere “enchu” i Giapponesi abbiano optato per i segni che indicavano le abilità di arcieri degli emishi.

Quindi voilà, la prova che gli emishi erano Ainu, giusto?

Terminator Wrong GIF - Terminator Wrong - Discover & Share GIFs

Diciamo pure che “emishi” viene proprio da una parola Ainu e indicava gli Ainu.

Se Ainu = emishi, non è affatto detto che tutti gli emishi = Ainu.

Un altro passaggio del Nihon shoki, un po’ più affidabile stavolta, viene dal capitolo sul regno dell’Imperatrice Saimei (655-661). Il settimo mese del quinto anno (670) del regno dell’imperatrice, la corte spedì un’ambasciata alla corte dei Tang in Cina (al potere dal 618). Il brano è molto più vicino alla data di compilazione del Nihon shoki e si basa sui diari lasciati da due membri della spedizione.

Stando alla fonte, i Giapponesi portano al Figlio del Cielo un uomo e una donna emishi.

L’ambasciata è avvenuta davvero, dacché è confermata dalle fonti cinesi. Queste però non menzionano buffi primitivi a seguito dell’ambasciatore Wa, quindi non siamo proprio sicurissimi di come si sia svolta davvero l’udienza con Gaozong [Edit: erroneamente chiamato Gaozong nella versione precedente].

Stando al Nihon shoki, l’imperatore Gaozong li riceve il decimo mese intercalare. Dopo aver chiesto come sta Saimei, bene grazie, e i nipoti, bene anche loro, mi raccomando salutamela e tante buone cose, Gaozong s’interessa finalmente dei due emishi.

L’Imperatore quindi chiese: -Questo paese degli emishi, dove si trova?

Risposero rispettosamente: -E’ nel nordest.

L’Imperatore quindi chiese: Quanti tipi di emishi esistono?

Come nel primo passaggio, gli emishi sono gente nordorientale. Considerato che lo stato di Yamato è ancora giovane nel 670, può darsi che con “nordest” si intendesse il nord di quella che è oggi la prefettura di Miyagi.

Miyagi Prefecture - Wikipedia

La prefettura di Miyagi, anticamente parte della Privincia di Mutsu

E’ chiaro che Gaozong interpreta il termine “emishi” non come il nome di un popolo particolare (come gli Ye o gli Han o i Wa), ma come un termine generico per indicare gente non meglio specificata che vive in una certa regione (e chiede quindi “quanti tipi di emishi esistono”).

Dalla risposta degli ambasciatori giapponesi capiamo che questo è esattamente il modo in cui il termine viene usato:

Risposero rispettosamente: -Ce ne sono di tre tipi. Quelli che sono molto lontani sono chiamati Tsugaru (都加留), quelli dopo Ara-emishi (粗蝦夷) e i più vicini sono i Nigi-emishi (熟蝦夷). Questi emishi sono Nigi-emishi. Ogni anno inviano un tributo alla corte.

Tsugaru, normalmente scritto “津軽”, è una penisola nell’estremo nord dell’isola di Honshū. Quanto agli altri due, non è offerta nessuna indicazione geografica particolare. Gli Ara sono lontani, i Nigi sono vicini e portano un tributo. Secondo Hanihara, gli Ara (termine che evoca l’idea di violenza e riottosità) sono gli stronzi che non si piegano all’auto-evidente superiorità degli Yamato, mentre i Nigi sono bravi e mandano un tributo.

In altre parole, Ara e Nigi indicano due gruppi politici, non etnici.

Nel 1960, Inoue presentò l’ipotesi che i Nigi fossero gruppi stanziati nelle regioni più prossime al territorio controllato da Yamato, ovvero quelli che sono oggi i dipartimenti di Miyagi, Yamagata o Fukushima.

La discussione con Gaozong continua.

L’Imperatore chiese: -Questo paese conosce i cinque cereali?

Risposero rispettosamente: No. Mangiano carne.

L’Imperatore chiese: -Questo paese ha abitazioni?

Risposero rispettosamente: -No. Vivono nel cuore delle montagne sotto gli alberi

Per citare il Barbagli “ gente che andava nuda a caccia di marmotte quando noi già s’accoltellava un Giulio Cesare.”

Sappiamo grazie a dati archeologici che queste informazioni sono fake news: la risicoltura arriva nel nordest con uno o due secoli di ritardo rispetto a Kyūshū, ma era già ampiamente diffusa dal I° secolo d.C. almeno. Dato l’ambiente montuoso e il clima rigido, è probabile che la gente del nordest abbia comunque dato più spazio a caccia e pesca rispetto ai burrosi contadini del Kinai, ma dire che non coltivavano è falso. Stesso vale per le case: abbiamo ritrovato case seminterrate molto simili al tipo di tugurio senza finestre in cui dormivano i glebani delle ricche regioni occidentali.

Insomma, da un punto di vista archeologico, i poracci dei barbari campavano più o meno allo stesso modo dei poracci dell’Impero (male e poco). Sai che sorpresa.

International Workers’ Day

Poracci of the world UNITE!

Lo scopo di questo passaggio nel Nihon shoki non è quello di descrivere con accuratezza etnografica gli emishi, ma di distinguerli dai sudditi di Yamato. Yamato è un regno, è civilizzato, usa la scrittura, coltiva, costruisce capitali, proprio come i cinesi!

Quindi gli emishi sono barbari, scimmie che dondolano dagli alberi e non sono capaci di coltivare! Uomini e donne si pettinano alla stessa maniera, perfino. Cioè. Bah. Sai che si è arrivati al picco della bestialità quando va di moda il gender neutral.

Tirando le somme, emishi è un termine vago che indica popolazioni del nordest di Honshū che non riconoscono appieno l’autorità del clan Yamato (che è disceso dalla Dea del Sole, quindi devi proprio essere scemo per non capire che bisogna fare come dicono loro!).

La domanda che spesso sorge a questo punto è: ma gli emishi saranno mica gli Ainu?

Famiglia Ainu di Hokkaidō

Per chi non ha pratica, gli Ainu sono una popolazione etnicamente diversa dai giapponesi e che occupa principalmente l’isola settentrionale di Hokkaidō. Hanno una lingua diversa, costumi e riti completamente differenti, e un aspetto distinto rispetto al resto dei cittadini giapponesi.

Per un lungo periodo si è supposto che gli Ainu fossero gli aborigeni del Giappone, ricacciati gradualmente sempre più a nord via via che popolazioni di ceppo mongoloide arrivavano dalla Corea con la loro agricoltura figa, i loro cavalli e le loro belle armi di ferro.

Queste teorie non sono più attuali, ma ad ogni modo, gli emishi erano Ainu?

La risposta veloce è

Fact Check: Was there an increase in Violent Crime in Colorado ...

La risposta lunga è, comunque no, ma facciamo un minimo di chiarezza.

E’ importante notare che la cultura Ainu ha ricevuto riconoscimento e tutela solo molto di recente. Gli Ainu di oggi sono i sopravvissuti della feroce politica di assimilazione attuata a partire dal governo Meiji. E con “assimilazione” intendo un tentativo pianificato e sostenuto di cancellare del tutto la popolazione, via soppressione della cultura, distruzione dei luoghi di culto, violenza omicida e stupri sistematici.

Gli Ainu di oggi portano l’eredità delle atrocità commesse contro di loro e queste sono ormai parte integrante del loro attivismo culturale, politico e sociale. L’argomento è davvero interessante e merita uno spazio a sé: in questo articolo voglio parlare della popolazione Ainu prima che questo tentato genocidio impattasse in modo così drammatico la loro esistenza. Ci tenevo però a segnalarlo perché se mai vi incuriosisce la cultura promossa dalla comunità Ainu dovete essere coscienti di questo terribile capitolo nella loro storia.

Com’era la situazione prima che il governo giapponese decidesse di uniformare la popolazione?

Cominciamo col dire che differenze tra il sudovest e il nordest del Giappone sono sempre esistite: la ceramica di tipo Jōmon, ad esempio, compare circa 12.500 anni fa in Kyūshū, e procede lentamente arrivando in Hokkaidō solo 8.500 anni fa.

Tradizionalmente il lungo periodo Jōmon è considerato finito quando l’agricoltura (in particolare la risicoltura) diventa un’attività economica centrale, intorno al III° secolo a.C. Questa progressione è accettata per le isole di Kyūshū, Shikoku, e per buona parte di Honshū, ma non per il resto del paese. Più o meno nello stesso periodo in cui avviene la transizione Yayoi, in Hokkaidō e nel nordest di Honshū si passa nel Periodo Zoku-Jōmon (o Epi-Jōmon), ovvero un periodo in cui troviamo un nuovo tipo di ceramica ma che presenta una grande continuità col periodo precedente.

Nusamai type pottery

Ceramica Nusamai datata 2.700-2.400 anni fa e ritrovata nello scavo dell’Abitazione 13 nel sito di Sakaeura II, nel nord di Hokkaidō (dalla collezione di materiali archeologici del bacino inferiore del fiume Tokoro). Il sito di Sakaeura II appatiene alla Cultura di Okhotsk, distintamente non Giapponesi.

Da un punto di vista archeologico, abbiamo quindi una Cultura che si generalizza in quasi tutto l’arcipelago, fino al III° secolo a.C., quando inizia una sorta di “speciazione”, tra la cultura del sudovest e del centro, e quella del nordest e di Hokkaidō. Mentre nel sudovest e nel centro si sviluppa una società stratificata e un primo embrione di stato, in Hokkaidō e nel nordest troviamo tracce di differenziazione sociale (piccoli tumuli con ceramiche Sue e spade di ferro, ecc.), ma nulla che lasci supporre una stratificazione vera e propria.

SakuraeII_House1

Abitazione 1 in Sakurae II, esempio di cultura Satsumon

House3_Hiraide

Abitazione 3 del sito di Hiraide nella prefettura di Nagano (Honshu centrale), esempio di cultura Haji (dal tipo di ceramica del periodo, diffusasi dal IV° secolo d.C.). P1,2,3,4 indicano i buchi lasciati dai pilastri del tetto.

La fase successiva nella storia di Hokkaidō, chiamata Cultura Satsumon (VIII°-XIII° secolo), comprende agricoltura e utensili in ferro, ma anche una spiccata influenza della cultura Okhotsk, smaccatamente marittima. Sia siti Satsumon che siti Okhotsk coesistono per secoli sulle coste settentrionali dell’Isola di Hokkaidō.

Tokoro_chashi

Abitazione 1 dal sito di Tokoro Chashi in Hokkaidō, uno degli esempi meglio documentati di Cultura Okhotsk

Si tratta di Ainu?

In realtà non possiamo davvero parlare di Ainu prima del XIII° secolo.

Ancora negli anni ’70 era oggetto di dibattito se gli Ainu fossero gente Jōmon rintuzzata a Hokkaidō dai Wa meridionali, o gente arrivata nel XIII° dal nord. Aikens e Higuchi ipotizzano che gli Ainu siano diretti discendenti della cultura Satsumon.

Ad ogni modo l’archeologia conferma una divergenza culturale sud-sudovest-centro VS nordest-Hokkaidō, con i due estremi geografici che presentano la più grande diversità.

L’archeologia non è l’unico approccio alla questione: come accennavo nel mio articolo sullo stato, il concetto di “razza” è ormai riconosciuto come il pasticcio pseudoscientifico che è, ma checché ne dicano i “race realists” e altra feccia simile, questo non significa assolutamente che le differenze somatiche tra gruppi vengano ignorate o negate. In altre parole, le differenze somatiche esistono (dato oggettivo), la razza (concetto intellettuale che interpreta tale dato) è stato superato in favore di un approccio nettamente migliore e più scientifico (e che quindi si presta meno a bizzarre interpretazioni politiche).

A questo proposito, Hanihara sostiene che morfologicamente non c’è nessuna differenza tra gli scheletri del periodo Satsumon e i moderni scheletri degli Ainu. In altre parole, la gente di Satsumon aveva già l’aspetto dell’Ainu moderno. In contrasto, il sud-ovest del Giappone mostra, a partire dalla fine del periodo Jōmon, una somiglianza crescente con altre popolazioni del Nord-est Asiatico. Questa somiglianza è particolarmente evidente in Kyūshū e diminuisce progressivamente che ci si sposta verso il nordest dell’isola di Honshū.

In altre parole, la gente del nordest e di Hokkaidō mantiene le caratteristiche somatiche della popolazione Jōmon molto più a lungo rispetto ai gruppi che vivevano in altre regioni.

E che ne è della lingua?

La lingua Giapponese e quella Ainu sono diverse, ma hanno anche similitudini strutturali e lessicali importanti. Secondo Aikens e Higuchi, si tratta in entrambi i casi di lingue Altaiche, e secondo il metodo glottocronologico avrebbero cominciato a separarsi tra i 5.000 e gli 8.000 anni fa (più o meno quando il Giapponese iniziò a distinguersi dal Peninsulare da cui deriva anche il Coreano). I dialetti regionali odierni sono pure separabili in due ceppi distinti, che spaccano il paese in Nordest e Sudovest.

The best dialects memes :) Memedroid

Non sembra, ma Americano e Australiano sono lingue molto vicine

In realtà Robbets fa notare che non c’è per niente consenso sulla parentela genealogica del Giapponese, Coreano e altre lingue Trans-Eurasiatiche. Cioé, è apparente che Giapponese e Coreano sono legati, e pare che le lingue Tungusiche delle regioni vicine siano il parente prossimo più probabile, ma queste similitudini sono genealogiche (queste lingue hanno un antenato in comune) o semplicemente frutto della vicinanza geografica e dell’inevitabile meccanismo di appropriazione?

Nota rilevante: quando si parla di “lingue Altaiche” non si intende che gli Altai furono effettivamente la regione di origine di questa comunità linguistica. Già negli anni ’20 il linguista Ramstedt, un colosso della linguistica altaica, situa la possibile zona di origine  più a est, sui monti Da Hinggan.

Nel 1996 Juha Janhunen ipotizzò che, nonostante Mongolo, Tunguso, Coreano e Giapponese non fossero geneticamente legate, le comunità linguistiche rispettive avevano probabilmente origine nella stessa zona geografica che va dalla Corea alla Manciuria Meridionale. Da un punto di vista culturale, queste comunità sarebbero legate a quella che è definita oggi la Cultura di Hongshan.

Hongshan

Zona della Cultura di Hongshan

La comunità linguistica del proto-Giapponese e proto-Coreano sarebbe situata nel nord della Penisola Coreana.

Secondo Robbets esiste bel et bien una relazione genealogica tra il Giapponese, il Coreano e altre lingue Trans-Eurasiatiche (chiamate anche Altaiche). In altre parole, la lingua dei Wa e quella dei coreani sono strette parenti.

Pin on Owls and Pussycats

 

Quindi, che conclusioni possiamo trarre?

Già dagli inizi del periodo Jōmon notiamo delle differenze economiche e culturali tra la gente che viveva nel nordest di Honshū e Hokkaidō, e quella che viveva nel sudovest di Honshū e Kyūshū (Shikoku compare sempre pochissimo perché, per qualche oscura ragione, non se la fila mai nessuno!). Somaticamente la popolazione sembra molto uniforme nell’Arcipelago. E’ molto probabile che, oltre alle differenze culturali, economiche e religiose, i vari gruppi parlassero lingue diverse ma vicine tra loro.

Dalla fine del Periodo Jōmon iniziamo a notare una distanza progressiva sia a livello culturale che economico che politico che somatico.

Secondo Hanihara, gli isolani del periodo Jōmon, gli Ainu e gli abitanti delle isole Ryūkyū sarebbero geneticamente distinti dalla popolazione agricola del Periodo Yayoi e dai giapponesi moderni. In particolare, i geni della gente Jōmon e Ainu mostrano spiccate similitudini col genoma degli abitanti del Sudest Asiatico, mentre la gente Yayoi e i moderni giapponesi sono geneticamente simili a popolazioni del Nordest Asiatico.

Esistono anche nette differenze morfologiche tra la popolazione Yayoi e quella Jōmon. Stando agli scheletri, possiamo ipotizzare che la gente Jōmon fosse probabilmente alta di media 1,50m, con spalle larghe e una struttura robusta, nasi pronunciati e denti piccoli. La gente Yayoi pare avesse un’altezza media di 1,60m, fosse più slanciata, con nasi più piccoli e denti più grandi.

Questo supporta la teoria di ondate di immigrazione che si intensificano agli inizi del Periodo Yayoi e che avrebbero spinto la gente Jōmon verso la periferia.

Occhio però: c’è stata anche tanta mescolanza, e Hanihara non suggerisce assolutamente che Giapponesi e Ainu siano due popolazioni perfettamente distinte. Al contrario, i Giapponesi moderni hanno, chi più chi meno, similitudini con gli Ainu. In altre parole, gli Ainu derivano dai Jōmonesi, mentre i Giapponesi derivereddero da una commistione (più o meno importante) di Jōmonesi e immigrati continentali del Periodo Yayoi. Le similitudini tra Giapponesi e Ainu aumentano nelle regioni nordorientali di Honshū, dividento il paese in due regioni etniche tra Kyūshū e Hokkaidō, con una vasta zona grigia nel mezzo. La regione del nordest di Honshū e Hokkaidō mantengono una maggiore continuità col Periodo Jōmon per un lasso di tempo più lungo che non la regione del sudovest, che aveva frequenti e vivaci contatti con la penisola coreana e la Cina.

Un’ulteriore divisione avviene a partire dall’VIII° secolo: in Hokkaidō appare la cultura Satsumon, mentre il nordest di Honshū è progressivamente colonizzato da gente della regione centrale e meridionale. Come accennato a inizio articolo, questo si è accompagnato a migrazioni, deportazioni e guerre. Ciò nonostante, come abbiamo visto, la popolazione del nordest di Honshū non viene del tutto assimilata dai Wa: mantengono tratti linguistici, somatici e culturali nettamente distinti da quelli della regione centrale. Allo stesso tempo, adottano caratteristiche delle popolazioni centromeridionali, differenziandosi dagli Ainu di Hokkaidō ma sensa essere del tutto assorbiti dai Giapponesi meridionali.

Almost.. there. - Cheezburger - Funny Memes | Funny Pictures

Quindi, tornando alla nostra domanda: gli emishi  sono Ainu?

No, gli emishi vengono prima degli Ainu.

Gli emishi e gli Ainu hanno origini comuni?

Sì. In realtà pare proprio che tutti gli abitanti delle isole giapponesi siano discendenti dei Jōmonesi, e che si siano sviluppati in modo diverso a seconda delle correnti culturali e migratorie a cui erano soggetti.

Quindi con emishi si intende un qualche tipo di gruppo proto-Ainu, in opposizione coi Wa della regione centro-meridionale?

No.

Possiamo affermare con relativa sicurezza che il nordest era abitato da gente diversa dal sudovest.

Ma è importante ricordare che emishi è un termine politico, non etnografico.

Come abbiamo visto, esistono varie tradizioni culturali, somatiche e linguistiche nell’arcipelago giapponese. Il termine “emishi” non indica un gruppo particolare, ma una regione. In principio, indicava “quelli che non sono sudditi del re di Yamato”, con gli anni lo troviamo affibbiato anche a funzionari del governo, che magari erano “discendenti di quelli che non sono sudditi del re di Yamato”.

In altre parole, gli “emishi” sono i “barbari orientali”.

Da un punto di vista etnico, la sola cosa che possiamo dire di loro è che i futuri Ainu discendono da (alcuni degli) emishi, ma non tutti gli emishi erano proto-Ainu.

Emishi comprende proto-Ainu, ma anche immigrati coreani provenienti dalla federazione di Gaya, o dal regno di Silla, o addirittura dal temuto regno di Goguryeo, comprende sudditi di Yamato che si sono dati alla macchia, gente che ha vissuto nel nordest per millenni, e gente che è arrivata dal Kantō per non dover sottostare al nuovo governo centralizzato.

REBEL SCUM Memegeneratornet Rebel Scum - Star Wars Emperor | Meme ...

Non abbiamo modo di definire gli emishi con certezza. Le uniche fonti che ne parlano sono quelle di Yamato, che usano la parola “emishi” con lo stesso vago razzismo inconsistente con cui certi mentecatti italiani usano la parola “rifugiato”. Sembra che si stiano riferendo a qualcosa di specifico, ma nei fatti il significato assegnato alla parola è “quell’orda di gente aliena in contrasto con noi, società civile ed evoluta”.

E’ probabile che gli Yamato abbiano adottato questo tipo di tono e narrativa dai Cinesi. Nello Shan Hai Ching (山海経), il Classico delle montagne e dei mari, opera già in circolazione al tempo degli Han Occidentali (206 a.C.-9d.C.), compare il termine “毛民”, letteralmente “popolo peloso”, riferito a un popolo barbarico del nordest, che abita in delle isole del Pacifico ed è descritto come basso, peloso, primitivo, che vive in case scavate nel terreno.

Sounds familiar?

Uno dei termini che i Giapponesi usarono per riferirsi ai “barbari orientali” o emishi è ebisu “毛人”, “gente pelosa”, o mōteki “毛狄”, “nemici pelosi”.

Familiar yet?

In realtà i termini giapponesi si distinguono in senso ed uso da quelli cinesi, ma è possibile che lo Shan Hai Ching o la tradizione cinese in generale siano la fonte d’ispirazione per la scelta di detti termini.

Questo non significa che Ainu ed emishi non avessero nulla a che fare. Al contrario, hanno molto a che fare ed esistono importanti continuità culturali, linguistiche e somatiche tra gli abitanti del nordest e gli Ainu.

Il punto è che la realtà culturale ed etnografica dell’Arcipelago Giapponese è molto più complessa di un semplice Giapponesi VS Ainu.

Tra VIII° e XIII° secolo, periodo della “pacificazione” della regione nel nordest di Honshū, possiamo stabilire che gli emishi avevano sì tratti comuni con gli Ainu, ma pure tratti comuni con i Wa della regione centrale, e benché non si fossero coalizzati in una società stratificata di tipo statale come la corte di Yamato, il loro livello tecnologico era più o meno lo stesso di quello delle truppe imperiali.

Quanto alla loro organizzazione economica, c’erano ovvie differenze con le attività delle regioni più calde, ma gli emishi praticavano l’agricoltura, estraevano il ferro e allevavano cavalli proprio come i loro antipatici vicini colonizzatori (probabilmente allevavano più cavalli perfino, ma questa è un’altra storia).

Da quello che possiamo estrapolare, gli emishi erano stanziati in vari territori che gli imperiali chiamano mura, e organizzati su base clanica o tribale, in gruppi che potevano federarsi o dissolversi a seconda delle necessità, e che non di rado erano in guerra tra loro. In altre parole, un’organizzazione non troppo diversa da quella che si suppone aver caratterizzato il resto del Giappone prima del processo del secondary state formation che ha portato al regno di Wa.

Re_Yamato

Il re di Wa secondo le haniwa funerarie

E’ più che probabile che questo discorso sugli emishi non sia più attuale di qui a qualche anno. Le uniche fonti scritte di cui disponiamo sono estremamente parziali e povere in dettagli. Non solo: a differenza della Cina, la corte giapponese non ci ha lasciato nessuna opera “etnografica” degna di questo nome. Non solo non abbiamo testimonianze dirette, ma non abbiamo nemmeno un punto di vista esterno che sia ragionevolmente neutrale: la letteratura di questo periodo è estremamente politica.

Con il progresso della scienza, delle tecniche archeologiche e delle metodologie sociologiche ed etnografiche, è molto possibile che il nostro punto di vista su questa strana gente nordorientale cambi ancora, come già è avvenuto in passato.

Ora, volevo concludere col caveat che questo si tratta di un articolo molto superficiale sull’argomento, e che siete invitati ad approfondire, e che il dibattito storiografico non si conclude mai.

Ma ho di recente visto l’ennesimo video di un Tuttologo cianciare di Neomarxismo Postmodernista (se vi sembra una contraddizione in termini, non siete i soli), di come nelle Università sia praticamente IMPOSSIBILE dibattere di cose e di come tutti, studenti e ricercatori, DEBBANO confermarsi all’immutabile e definitiva sentenza dell’”accademia”.

E sapete che? Mi garba questo fantasioso mondo alternativo.

Quindi scordate gli ultimi paragrafi: Io sono il vostro profeta, ogni singola parola da me scritta è assolutamente corretta perché l’ho detto io, chiunque non sia d’accordo è Nazista e, per citare Karl Marx: “be gay, do crime!”.

MUSICA


BIBLIOGRAFIA

AIKENS Melvin C., HIGUCHI Takayasu, Prehistory of Japan, Academic Press, Londra, 1982

CRESCENTE Nadia. “Il Nord del Giappone verso la conversione agraria. Le più recenti indicazioni archeologiche.” Il Giappone, vol. 40, 2000, pp. 5–36

FRIDAY Karl F. “Pushing beyond the Pale: The Yamato Conquest of the Emishi and Northern Japan.” Journal of Japanese Studies, vol. 23, no. 1, 1997, pp. 1–24

HANIHARA Kazuro. “Emishi, Ezo and Ainu: An Anthropological Perspective.” Japan Review, no. 1, 1990, pp. 35–48

INOUE Mitsusada, SAKAMOTO Tarō, IENAGA Saburō, ŌNO Susumu, Nihon shoki (jō, ge), Iwanami Shoten, Tōkyō, 1968, Keiko 27/2; Saimei 5/10 int.

ROBBETS Martine, “The historical comparison of Japanese, Korean and the Trans-Eurasian Languages”, in Rivista degli Studi Orientali, vol. 81, n.1/4, 2008, p.261-287

SASAKI Kaoru, Ainu to « Nihon », Yamakawashuppansha, Tōkyō, 2001

TAKAHASHI Takashi, Emishi, Chūkō shinsho, Tōkyō, 1989

YAGI Mitsunori, Kodai emishi shakai no seiritsu, Dōseisha, Tōkyō, 2010

La collezione di materiali archeologici del bacino inferiore del fiume Tokoro

 

 

 

Curiosità pseudostoriche e paranoia estemporanea: lo strano caso del signor Ciapanna

E’ l’autunno, qui a Lutezia piove e fa freddo ed è momento perfetto per arrotolarsi in una calda coperta con una tazza di cioccolata calda e leggere disagio al computer.

Questa storia mi è stata segnalata dall’utente Aristarchus in giugno. Purtroppo per mesi non mi sono potuta occupare del blog, quindi solo ora posso condividere questa piccola perla di delirio, trolling e/o demenza precoce!

faccia

Il 22 marzo del 2014 usciva su Riviera Oggi questo articolo sulla morte di un fotografo noto per aver inventato un tipo di astuccio subacqueo e per aver fondato Fotografare, popolare rivista a tema fotografia.

E’ la sentita commemorazione di quello che pare un professionista competente del settore. Innocente, no?

No.

Questa non è una semplice commemorazione, è un esempio di maligno e indegno occultamento della realtà (senza dubbio per conto di loro!).

Quello che Riviera Oggi tace e cela con proditoria malizia è che il fotografo in questione, tale Cesco Ciapanna, è anche un personaggio di spicco del complottismo e revisionismo storico italiano. Che bizzarra dimenticanza, no?

Ma noi della Fortezza non ce ne staremo in silenzio mentre la voce di questo prode pensatore viene silenziata, mentre la sua fulgida eredità di enigmistica e numerologia viene sotterrata!

Qui potete leggere una commemorazione molto più sincera e sentita, che racconta come il Ciapanna non era solo un fotografo, ma una sorta di tuttologo determinato a svelare come gli affari dell’Intero Pianeta siano in realtà diretti a bacchetta da una cabbala di giudei massoni malvagi.

grumpy

Originale…

Il signor Ciapanna annovera diverse posizioni caricaturalmente tipiche dello scoppiato complottaro: il complotto mondiale, il finto allunaggio, l’idea che l’AIDS non sia una vera malattia ma una sorta di peste creata a tavolino dalle eminenze grigie per sterminare gente…

E io sono qui, a dirmi che i complottisti sono inguaribili ottimisti. A me pare che il sistema occidentale abbia selezionato classi dirigenti inette che si comportano con totale irresponsabilità senza considerare le conseguenze.

Per i complottari invece siamo nelle mani di gente che ha tutto sotto controllo. Beati loro.

C’è anche da dire che questi massorettilianinasuti cercano sempre di sterminare la popolazione e questa aumenta in modo esponenziale, ma bon, sono di certo io che non capisco.

kroqr

Tornando al signor Ciapanna, mi piacerebbe introdurlo usando le sue parole, ma la bio presente sul suo blog devolve presto in un totale delirio di anagrammi e fesserie assortite.

Gli onomanti degli anagrammi la diaspora = parola AIDS e la Valdesia = alleva AIDS avevano scelto i due scopritori del virus dell’AIDS in base a questo anagramma: Gallo o Montagnier = Golem asino Londra. Il Golem è la stessa puzza di donna. Il monumento di questa verità sta nel suo tempio a Praga = capra.

Ah, la “puzza di donna”! Perché nel delirante universo di complottismo e paranoia, la misoginia è il gadget che va sempre con tutto.

E ancora

Poi  ho avuto il pallino delle bibbie e, dopo –nta anni, ho scoperto che i libri Bibbia e I King portano la storia di quello che è successo negli ultimi due secoli, che comprende l’invenzione graduale di ciò che sarebbe esistito prima, invenzione che è cominciata con il buio Medio Evo, oggi scomparso.

AHA!

Quali testi scegliere per iniziare lo studio della Storia se non Bibbia e I King?

E lo sentite questo profumino appetitoso di revisionismo?

Ma con ordine!

Buzz-aldrin-3

Stretta di mano massonica

Come potete constatare, dalla bio del blog non è chiaro se il signor Ciapanna fosse un burlone dal criptico senso dell’umorismo o un complottista scoppiato.

Sappiamo però che il nostro è preso relativamente sul serio sul forum Luogocomune.net.

Cos’è Luogocomune.net?

Nelle info del sito leggiamo:

Luogocomune è un sito aperto a tutti, e qui tutte le idee godono dello stesso diritto di asilo, indipendentemente dalla posizione politica o da pregiudizi altrui. Lo spazio di espressione è garantito a tutti: sta poi a ciascun utente difendere le proprie idee, all’interno delle noste regole e nel pieno rispetto delle idee altrui.

download

Perché tutte le idee sono uguali e tutte le opinioni valgono uguale, no? Te pensi che la Storia sia una materia importante, io penso che dovremmo fucilare tutti quelli di nome Carlo, a ognuno le sue idee!

Il sito Luogocomune.net è di proprietà di Massimo Mazzucco, complottaro di spicco che offre spazio a gente perbene come negazionisti dell’11 Settembre o gentaglia che afferma di poter curare il cancro col bicarbonato. Ovviamente sul sito sono venduti i DVD del nostro, ed esiste l’opzione PayPal, nel caso uno avesse qualche spiccio d’avanzo.

Bref, il tempio del pensatore Ciapanna è ospitato nel sito di Acchiappacitrulli.

Sia chiaro: io non sono in principio contraria all’idea di sfilare un po’ di quattrini a chi è troppo stupido per tenerseli. Però evitiamo di andare a mettere le mani in tasca a gente che ha il cancro, no? Una diagnosi di cancro è spesso una condanna a morte che sprofonda la persona nel buio e nell’angoscia, il minimo sarebbe non approfittare della gente disperata.

Ma torniamo a noi!

Come ci si può aspettare, il signor Ciapanna aveva idee originali anche sulla Storia!

A differenza di Fomenko, che almeno basa la sua balorda teoria sulla meccanica celeste, il Ciapanna a quanto pare basa tutto su nomi e parole: giocando con anagrammi trova connessioni tra cose scollegate tra loro. E il fatto che ogni parola possa essere anagrammata in modi differenti è ovviamente trascurato.

Si tratta di un ragionamento talmente campato per aria che perfino gli utenti del forum Luogocomune sollevano qualche dubbio, a cui viene prontamente risposto:

Le teorie dei singoli vanno prese come parte dell’intelligenza collettiva, non vanno seguite o rifiutate in toto.

HAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH Sì, e io sono re Nulji di Silla in sottana, prendete per buona questa cosa perché l’ho detta e ora è parte dell’”intelligenza collettiva”!

Se secondo Fomenko la Storia comincia nell’800, per il signor Ciapanna fino a 150 anni fa eravamo tutti contadini che campavano in armonia tra loro.

Contadini che campano in armonia tra loro.

Il signor Ciapanna non ha mai incontrato un contadino in vita sua. Nel nostro villaggio siamo 15, 3 famiglie, 2 delle quali non si parlano tra loro.

Risultati immagini per hillbillies barbera cartoon shooting gif

Alla Warner Bros. conoscevano i contadini veri

E’ dura trovare fonti dirette, ovvero pezzi scritti direttamente da Ciapanna. Da quel che ho capito, molta della sua produzione compariva sulla rivista cartacea Fotografare. Certo, potrei comprarmi le riviste o i libri in questione, ma:

  1. il mio tempo è molto limitato
  2. Manfred von Richthofen die zweite è appena stato malato al pancino e la fattura del veterinario è stata una mazzata , sicché niente shopping per Tenger fino al mese prossimo.

Alcuni pezzi mi sono stati riportati dal buon Aristarchus o sono citati in Luogocomune.

In teoria questo non risponde agli standard minimi di ricerca della fonte richiesti nel mio campo, ma questo è un articolo per il lulz, quindi finché qualcuno non mi regala l’opera omnia di Ciapanna la mia posizione è chissenefotte!

Prendendo in buona fede le citazioni suddette, ci si rende presto conto che il Ciapanna non è leggibile. Parte da un’idea balorda ma espressa in frasi sensate e devolve in una specie di insalata verbale scollegata (“criptico” dicono i suoi fan, “clinicamente preoccupante” dico io).

Alcuni esempi: l’Italiano e l’arabo!

L’italiano si scriveva… in arabo?
È confermato nella Treccani che l’italiano volgare, diverso dal latino, si scriveva prima con i caratteri arabi, una lingua che non è nata per farci i vocabolari.

Lots to unpack here. L’italiano scritto con caratteri arabi: eh?! Forse Ciapanna intende gli arabismi, ovvero parole arabe assorbite in Italia e scritte in caratteri latini (ergo l’esatto contrario di ciò che ha appena descritto).

Ma poi che vuol dire che una lingua “non è fatta per il vocabolario”? Nessuna lingua è fatta per il vocabolario! I vocabolari sono fatti in funzione della lingua! E’ come dire “questo culo non è fatto per la carta igienica”!

Questo spiega l’esistenza di una letteratura colta in lingua italiana, dai cosiddetti Trecentisti fino all’Ottocento, mentre contemporaneamente non esistevano i vocabolari di volgare come lo conosciamo adesso. La lingua c’era, solo che si scriveva con l’alfabeto arabo. I poemi di Ariosto, del Tasso, le novelle di Boccaccio e soprattutto i cosiddetti Trecentisti non nascono dal nulla, ma seguono poeti che usavano la grafia araba per scrivere il loro italiano e l’italiano di quei tempi funzionava « a orecchio» perché l’arabo non scrive le vocali. Quando si dice «ci sono stati gli arabi in Sicilia» si pensa ad una occupazione straniera, ma è più semplice pensare che in Sicilia la gente usasse l’alfabeto arabo. La cancellazione di questo periodo della nostra cultura è stato semplificato sotto i simboli del Gran Saladino e di Federico II di Svevia.

Vedete cosa intendo con insalata verbale?

Non esistevano vocabolari di lingua volgare italiana, poiché l’italiano era scritto in arabo.

Eh?

Mi duole il cervello.

Prima di tutto: uno tra i primi dizionari conosciuti è il Kitab al-‘Ayn, dell’VIII° secolo che, guarda te i casi della vita, è proprio un dizionario di arabo!

E questo senza entrare nel merito della bizzarra accozzaglia tra la dominazione araba in Sicilia (IX°- inizi X° secolo) e il Saladino, che scorrazzava felice quasi tre secoli dopo (1174-1193).

Un altro nugget:

Roma, anno 1520— Nel programma del Vaticano, immortalato da Raffaello per incarico delle nuove autorità, la scienza moderna, che è la scienza delle misurazioni, è rappresentata da Euclide […] Standard di partenza per valutare il mondo, secondo il Vaticano di quattro secoli fa, era la stella di Davide, la stessa che oggi campeggia sulla bandiera dello stato di Israele. Questo significa semplicemente che l’incarico a Raffaello fu dato quando le due religioni erano ancora una religione sola, e credere oppure non credere che Gesù fosse davvero il Messia di cui parlava la Bibbia non era una condizione discriminante per chi viveva a Roma. Lo diventerà in seguito, quando Vaticano & Co. avranno abbastanza potere per imporlo in giro, e nella storia questa imposizione è nota come Pace di Augsburg, Augusta, nel 1555.

Tutto ovvio no? E quale ricercatore non scriverebbe “Vaticano & Co.”?

Nessuno perché non vuol dire nulla. Chi sono i “Co.”? “& Co.” chi? Gli illuminati massoni rettiliani? E perché dovrebbero aver preso le parti del Vaticano?

E ancora:

La Roma Imperiale è un’invenzione così come è un’invenzione tutto il passato guerresco degli Antichi Romani e di Annibale e dei suoi elefanti. Tutti i reperti a parte le illustrazioni murali indicano che si trattava e si tratta di popolazioni testarde ma tranquille, che non amavano né i viaggi propri né quelli altrui.

La cosa affascinante non tanto di Ciapanna quanto della gente che lo prende sul serio (e pare che esista davvero gente che lo prende sul serio) è che può semplicemente dire una minchiata ed è presa per buona. Un po’ come Fomenko.

Nella realtà è più probabile che la Civitas (come probabilmente si chiamava prima l’Urbe) avesse generato un modello di cultura che si era diffuso dovunque arrivassero le comunicazioni, e la cultura dell’Umbria era legata a quella dell’Urbe per via fluviale. Non bisogna dimenticare che Roma era una città portuale esattamente come Londra, fatte le debite proporzioni, ossia un porto fluviale.

Questo il paragrafo subito sotto quello del “la gente non viaggiava”.

Più passa il tempo più questo delirio fiorisce!

Sulla scoperta dell’America:

Nella storia l’anno 1492 è quello delle peggiori disgra-zie per gli indigeni d’America e oltre, simboleggiato dall’arrivo in .America di Cristoforo Colombo con la Ninia, che è il disordine demografico, la Pinta che è la droga, lecita e illecita, e la Santa Maria che è la forza militare (Mary = army e anche l’aeroporto di San José).
L’anno 1492. secondo lo storico Guicciardini (=qui giardini), e il più funesto nella storia d’italia perche in quell’anno Lorenzo il Magnifico morì e con lui morì l’indipendenza degli italiani. Ma le storie di Lorenzo il Magnifico escono dopo metà Ottocento da biblioteche che sono dichiaratamente (in celanese) false.

Voglio dire, da che parte cominciamo? E’ così stupido che mi colano le sinapsi dalle orecchie.

La caccia e il 492
In Italia la caccia in aperta campagna è il passatempo più sano che ci sia, specialmente se è praticata da chi ha buone gambe e cattiva mira. La caccia è stata segretamente condannata già nel 1953 mediante una legge numero 492 che si legge in un angolo nei manifesti dei cacciatori. È il D.P.R. 25-6-53/492 che esenta da bollo i manifesti dei cacciatori purché rechi-no la iettatura 492.
Adesso, visto il recente fallimento del referendum contro i cacciatori, gli stessi enti che dovrebbero rappresentare i loro interessi, propongono «finalmente una legge che serva a regolamentare caccia”, in forca lo-gica col fallito referendum, per ottenere comunque una ulteriore limitazione della libertà di andare in giro per la campagna con una doppietta in mano. E questo seguiteranno stolidamente a farlo finché
leggeranno la ci-fra 492 sui manifesti dei cacciatori.

Avete capito? Siccome alle popolazioni americane il 1492 ha portato sculo, allora il 492 (senza 1) è una cifra infausta per il Sor Nanni che con 2 diottrie vuole andare in giro per la campagna a impallinare fringuelli.

Oibò, ma mi pare ovvio!

Stando a Luca Rodaro, Ciapanna aveva cominciato a perdere il mirinvengo già dall”87, ma è con il numero 92 di Fotografare che il Buonsenso fa le valigie e parte per Pattaya.

Il 92 per Ciapanna ha un valore magico, perché i ciliati hanno 9 ciglia e 2 flagelli o qualcosa del genere. Non solo! Secondo lui il 92 contraddistingue coloro che sono al corrente del complotto mondiale, ma tacciono. Citando da una delle pubblicazioni che sono effettivamente riuscita a trovare, Le carte dell’AIDS, spiega:

Ciapanna1

HAHAHAHAHAHAHAH Ah beh, cacchio, se lo dice la Cabbala!

Insomma, il 92 è una specie di asterisco messo da Dyo per segnalare a chiunque lo scopra che c’è un complotto giudaico massonico.

Risultati immagini per wat meme

Questa cosa mi ha per un istante lasciata perplessa: come membro del complotto mondiale, non riuscivo a individuare il 92 nella mia vita. Poi mi sono ricordata: è la mia taglia di petto! Vedete che tutto torna!

Ovviamente gli ebrei sono tipici esponenti del 92 e membri infidi e malvagi del complotto. Il delirio raggiunge picchi tali che una persona seria come Rabbi Toaff si prese la briga di invitare al boicottaggio di Fotografare. Farebbe ridere se non fosse che l’antisemitismo e il complottismo portano gente innocente a farsi ammazzare o menare per davvero.

Il boicottaggio dei giudei di Roma spinge Ciapanna a paragonarsi a Salman Rushdie.

Questo è un tipico meccanismo psicologico dei complottisti e dell’estrema destra in generale: la falsa equivalenza.

“Oh no, gli ebrei italiani non compreranno la mia rivista, sono perseguitato proprio come quello scrittore che ha effettivamente i sicari alle calcagna!”

Risultati immagini per so much for the tolerant left meme

Tornando alle fantasiose teorie storiche: tutta la Storia è inventata!

Sì, di sana pianta.

Quando?

A metà del XIX° secolo. Tolkien e il suo worldbuilding possono andare a baldracche in tangenziale, qui c’è gente che si è inventata personaggi dai nomi assurdi come Tarassicodissa e Sumitomo!

Immagino la task force:

Scantinato semibuio, uomini in redingote scribacchiano su fogli alla luce di lampade a olio. Un rabbino ortodosso batte le mani.

-Forza forza, sbrighiamoci con queste Guerre Giugurtine e con la grammatica del Mapuche! Dai che domani è sabato e tocca stare al buio!

Uno alza una mano. Il rabbino accenna col mento.

-Sì?

-Sì, ecco, io sarei nella commissione Giappone…

-E?

-Vorrei metterci uno spin off dove il più potente esercito del paese, tipo migliaia e migliaia di uomini, sono messi in fuga da delle papere.

-Cosa?

-Papere!

-Ma perché?

-Perché lol.

-Massì, tanto già che stiamo a raccontar cazzate… Mettici però che sono 92 papere, così quelli più svegli colgono la citazione e rosicano!

-Rabbi, ma perché dovremmo mettere l’indizio che sono tutte cazzate con questa cosa del 92? Non bastano le amebe e gli spermatozoi? Non è controproducente?

Silenzio nella sala. Il rabbino fa un gesto. Il furbetto sfacciato viene acciuffato e trasformato in cibo per gatto (kosher).

Ma perché gli ebrei rettliani massoni del ’92 dovrebbero fare tutto ciò?

Come molte teorie de complotto, non c’è un perché e non c’è un fine.

Questa misteriosa lobby ha già il potere di disegnare stati, creare Storia e inventare lingue. Ergo sono già onnipotenti. Questo enorme lavoro di worldbuilding che scopo avrebbe?

Mistero.

Concludo con un’ultima chicca:

l’iliade è la storia dell’osso sacro il quale è sacro perché assiste alla messa,
il cavallo di Troia è il pene, gli Achei sono gli spermatozoi (da acheiros, senza mani- ).
A gamennone è agamos, senza nozze , mentre Menelao.., le mani.
Omero è il cieco, ossia non ha la luce. Anchise anchilosato e deve essere portato a spalla,
e Didone si chiama così perché a forza di star sola..

download

E qui mi dico: Ciapanna è un Poe! Deve essere un Poe!

Posso constatare che certi complottari lo prendono assolutamente sul serio, ma non posso credere che chi ha scritto certa roba ci credesse.

Che fosse demenza o fine umorismo, resta comunque un dilettevole rabbit hole in cui tuffarsi!

MUSICA!

P.S. Mazzucco, padrone del forum su cui si parla di Ciapanna, ha collaborato a volte con Alan Altieri, l’autore di uno dei romanzi più detestati dalla Tenger.

Un caso? Io non credo! La mia teoria del complotto è che Altieri e Ciapanna fossero due invenzioni di Mazzucco, che a sua volta è un robot operato da tre nutrie! L’ho detto e ora è parte dell’intelligenza collettiva!

Dello Stato: dotti bisticci su uova e galline

Sono passati mesi dal mio ultimo articolo. La ragione principale è una full immersion nella mia tesi dottorale, che dovrò ben finire un giorno o l’altro. Oh my, non vedo l’ora di raggiungere la crescente schiera di disoccupati ultraqualificati sotto i ponti di Parigi!

Per questo articolo, l’idea in principio era di scrivere una lungagnata mostruosa sullo stato di Yan o sul misterioso regno di Buyeo, dove i morti sono accompagnati da maschere di bronzo che urlano per sempre nel buio.

Buyeo-mask.jpg

Maschere mortuarie dal sito di Maoershan, National Museum of Korea, Seoul

Tutta roba molto figa, però mi sono resa conto che per una comprensione migliore era necessario un verboso e noioso preambolo sui termini impiegati dalla storiografia e dall’archeologia. Uno dei concetti che cicciano fuori sempre quando si parla di Buyeo (o anche di Wa) è quello di stato.

Quando una società primitiva si trasforma in Stato, perché, come?

Tutti impieghiamo il termine “stato”, di rado ci poniamo la questione del significato. Quindi oggi parleremo di questo: cosa chiamiamo stato? Come nasce e perché?

Risultati immagini per dramatic cat gif

Questions!

Lo stato: un appassionante dibattito sui termini

Prima d’impelagarci sulla natura dello stato è necessario introdurre prima il concetto di polity.

Polity viene definita da Yale Ferguson e Mansbach Richard come una qualsiasi entità politica o gruppo di persone aventi un’identità collettiva, che siano in grado di smuovere risorse e che siano organizzati in una qualche forma di gerarchia istituzionalizzata.

Spesso il termine polity viene impiegato per indicare gruppi umani organizzati senza sbilanciarsi troppo attribuendo loro caratteristiche anacronistiche o scorrette.

Anche il termine polity può però essere anacronistico, dacché presuppone un senso di identità collettiva. A che punto possiamo dire che un gruppo mostra segni di identità collettiva e cosa vuol dire “identità”?

Il principale problema quando si studiano gli esser umani è che non sono animali: non agiscono in base a condizioni oggettive, ma si comportano in buona parte sulla base di percezioni e sentimenti. E le percezioni e sentimenti non lasciano chiare tracce archeologiche.

Da un punto di vista meramente materiale, la razza umana è un continuum: possiamo riconoscere tratti etnici o culturali comuni, ma non possiamo identificare netti confini o usare detti tratti per isolare scientificamente una popolazione dall’altra. In altre parole, la realtà non è un Fantasy per adolescenti: le razze non esistono.

Quella che però esiste è l’identità. Esistono gruppi che si identificano come separati da altri. Questa distinzione non ha necessariamente base su dati oggettivi, ma ha effetti sulla realtà oggettiva, il che la rende reale.

In Storia si cerca di aggirare questo spinoso problema basandoci sul concetto di culture piuttosto che su quello di etnie.

Abbiamo “la gente della ceramica Mumun”, “quelli che fanno i tumuli a forma di buco di serratura” o “quelli che coltivano il riso in risaie allagate”. Il vantaggio è che ci possiamo basare su cose che la gente fa, che è il meglio che si possa sperare in contesti dove gli uomini non hanno lasciato documenti scritti in cui parlano della propria identità.

Ovvio, questo approccio porta con sé il suo ballino di problemi: una cultura archeologica è una convenzione diagnostica che riguarda particolari set di cultura materiale (come detto, il tipo di ceramica, o di arma, ecc.).

In archeologia occidentale c’è stata in passato la tendenza a dare per scontato che la gente all’origine di una determinata cultura archeologica in una determinata regione appartenesse anche a una determinata etnia.

Risultati immagini per mumun pottery

Ceramica Mumun, esempio di cultura archeologica coreana

In altre parole, se nella valle dell’Arno venivano trovati piselli di terracotta fabbricati nella stessa maniera e associati alla stessa forma di capanna di fango, si supponeva che la Gente dei Piselli fosse tutta della stessa etnia (il Popolo dei Glebani, per esempio).

Questo approccio cultura dei piselli = popolo dei piselli è ancora vero per certi archeologi cinesi. E si capisce: è comodo. Ho dei dati oggettivi che mi dicono che questa gente faceva la stessa roba (per lo meno in certi ambiti), magari i resti umani che ho si somigliano pure, ne deriva che sono la stessa gente!

E’ qui che la percezione e l’identità entrano in gioco.

Per restare in toscana, Fiorentini e Pisani hanno più o meno lo stesso aspetto, mangiano roba simile, costruiscono case simili e parlano lingue molto affini (ho sentito che ogni tanto si accoppiano pure tra di loro). Resta però il fatto inoppugnabile che Pisa merda.

Risultati immagini per pisa merda

Scherzi a parte, non ha davvero importanza se ‘sta gente cucina, costruisce muore allo stesso modo: se si considerano di gruppi diversi questo avrà un effetto sulle loro azioni e sulla loro storia. Non solo: molti elementi culturali lasciano poche tracce archeologiche (musica, filosofia, credenze, dialetti, ecc).

Più etnie possono condividere la stessa cultura archeologica, o una sola etnia può manifestare numerose culture archeologiche. Insomma, questa corrispondenza cultura/etnia non può essere data per scontata.

Ma cosa si intende per etnia?

Nel 1969 Barth Fredrik propose che per delimitare un gruppo sociale l’accento non doveva essere messo sui tratti culturali, ma sugli ethnic boundaries, le delimitazioni etniche. Queste delimitazioni, questa identità etnica, sarebbe secondo Barth qualcosa che persiste attraverso diverse culture e sopravvive a fenomeni come le migrazioni.

La caratteristica dell’identità etnica è che non nasce da sé. Non esiste da sola: è qualcosa che viene sempre elaborato in funzione di qualcos’altro.

L’identità si costruisce in opposizione a qualcosa o a qualcuno. Si conviene che il nostro gruppo ha determinati attributi che gli altri non hanno (o hanno in modo diverso), e questo a prescindere dalla forma dei pitali o delle tombe.

Nel 1986 Smith Anthony ha offerto una definizione utile di etnia: si tratta di una comunità accomunata da un senso di unicità culturale e comunione storica:

A named human population with shared ancestry and myths, histories and cultures, having an association with a specific territory and a sense of solidarity. (The Ethnic Origins of Nations)

Una determinata popolazione umana che condivida ascendenze e miti, storie e culture, che abbia un’associazione con un territorio specifico e un senso di solidarietà.

Notare il miti e le storie: la narrativa è il modo con cui le società umane costruiscono il proprio mondo (o per lo meno la visione che ne hanno, che nella pratica è la stessa cosa).

Che conseguenze ci sono quindi per gli archeologi?

Gli esseri umani esprimono la propria identità attraverso la propria cultura materiale. Deve esserci un modo di raccattare indizi basandosi sui resti!

Dagli anni ’70 l’archeologia occidentale ha cercato di correggere il tiro individuando non tanto elementi culturali, ma insiemi significativi di elementi culturali e lo stile (stile inteso come la forma e non la sostanza di un oggetto) di detti elementi.

Lo stile diventa particolarmente riconoscibile quando si ha a che fare con società-stato, o per usare un anglicismo state-lever societies.

Risultati immagini per keyhole kofun

Il tumulo attribuito all’Imperatore Nintoku. La forma, la taglia delle tombe e la ricchezza e qualità del corredo funerario sono indicatori molto usati per elaborare ipotesi sulla società Wa di prima dei Codici

Lo stato non è sempre stato un termine ben definito in Scienze Sociali.

Cohen ha individuato 3 tipi di definizione di stato, che optano per porre l’accento su 3 caratteristiche diverse:

  • Le definizioni basate sulla stratificazione sociale: mettono l’accento sulla correlazione tra l’emergere dello stato e la nascita di una società a classi stabili. Una stratificazione in classi presuppone che gruppi diversi godano di un diverso accesso alle risorse.
    Il primo ad articolare un discorso moderno sull’argomento è Rousseau, ma è il magico duo Marx-Engels ad avere l’impatto maggiore. Per quelli che sposano questo tipo di definizione, lo stato è il frutto di una società stratificata in cui la classe dirigente ottiene il controllo dei mezzi di produzione. Lo stato è elaborato per mantenere questo controllo e difendere i privilegi dell’élite.
    Fried Morton sposa questa posizione: per lui lo stato è un sistema di governo centralizzato che emerge inevitabilmente da un sistema di ineguaglianze istituzionalizzate in cui i capi hanno un accesso privilegiato alle risorse.

  • Le definizioni basate sulle strutture dello stato stesso: questo approccio si rifà a pensatori del XIX° come Herbert Spencer, Lewis Henry Morgan e Henry Maine. E’ stato ripreso a inizio XX° da gente come Hobhouse, Wheeler e Ginsburg, che definiscono lo stato come un sistema di relazioni di autorità gerarchiche in cui le unità politiche locali perdono autonomia e finiscono subordinate a un’autorità centrale.
    Cohen schiaffa nella stessa categoria le definizioni offerte da Wright e Johnson, che si focalizzano sul mezzi attraverso cui l’informazione è processata in uno stato. Adams invece mette l’accento su come l’energia è ottenuta e usata dal governo centrale. Per costoro le interazioni sociali sono transazioni o flussi di informazioni in cui strati più alti decidono e influenzano strati più bassi. Questo approccio è particolarmente usato dagli archeologi per trovare indicatori e poi catalogare le società sulla base di come trasferiscono informazioni o su come ottengono e distribuiscono l’energia.

  • Infine ci sono definizioni a posteriori che si concentrano su tratti diagnostici: quali sono gli elementi che accomunano i primi stati centralizzati? Il problema di questo approccio è che non si può ottenere un set standard di caratteristiche che sia applicabile a più di un pugno di società. Alcune fanno sacrifici umani altri no, alcuni chiedono totale fedeltà altri lasciano spazio alla semi-subordinazione, ecc.

Ma come si arriva allo stato?

In generale gli studiosi convengono che c’è una progressione da una società più semplice verso una società più complessa.

In antropologia occidentale, i modelli tassonomici principali sono quelli di Service e Fried.

Tra parentesi, questi due non erano d’accordo su un sacco di cose ma scrivevano comunque libri insieme. E’ uno spasso!

(Vabé, mi diverto male, ma se non mi divertivo male col cazzo che finivo in dottorato).

masochismo.jpg

Il modello di Service ipotizza un’evoluzione dalla banda, alla tribù, al chiefdom (il livello sopra quello puramente tribale, con un territorio controllato da un capo principale) e infine lo stato.

Per Fried, che riprende le teorie di Engels di lotta tra classi, si passa da un contesto primitivo con una società relativamente egalitaria e si procede verso società sempre più complesse: società a ranghi, società stratificata e società statale.

Personalmente non amo troppo il termine “egalitario” quando si parla di società umane, che sono sempre gerarchiche in una qualche misura. Quello che però si intende qui non è tanto che i Cromagnon fossero una democrazia, quanto che c’è una differenza sostanziale tra un anziano nel gruppo di cacciatori raccoglitori che funge da memoria storica del gruppo, e un re Yamato che può smuovere decine di migliaia di operai per costruire la sua tomba monumentale.

C’è anche da notare che la differenza tra una società complessa non statale e una statale non è netta.

Per Cohen il tratto che distingue lo stato da altri tipi di organizzazioni è la capacità della società statale di restare unita.

I non-stati tendono a spaccarsi in unità simili tra loro: una banda cresce fino a un certo punto, oltre il quale un gruppo decide di staccarsi e allontanarsi, costituendo una nuova banda simile alla prima. Stesso vale per le tribù e i chiefdoms. Lo stato è l’unica struttura che invece è costruita per resistere a questa tendenza centrifuga. Lo stato si può espandere senza dividersi, fagocitare altre polities, diventare eterogeneo e crescere senza i limiti stringenti di strutture meno complesse.

Questo perché lo stato ha la capacità di coordinare lo sforzo umano in azioni collettive di portata generale. Per ciò fare, lo stato evolve una classe dirigente o burocrazia governativa. I burocrati, come gerarchia ufficiale, fungono da collante tra i non-funzionari e il regime.

Nei chiefdoms la situazione è differente: anche loro possono avere funzionari e centri di organizzazione del potere, ma ogni nodo della rete è una replica dell’ufficio al centro del sistema. Quando la pressione è troppa, i nodi possono spezzarsi e sono già strutturati per essere repliche indipendenti capaci di eseguire funzioni governative.
Al contrario, negli stati antichi i funzionari al centro hanno funzioni uniche che non vengono svolte da nessun altro nel sistema. I centri di potere locali sono costruiti sul modello di quello centrale ma non ne sono una replica.

Byington cerca di offrire una definizione complessiva di stato: è una polity complessa, caratterizzata da una significativa stratificazione sociale, con almeno 2 classi (i governanti e i governati), un governo centralizzato con una burocrazia professionale, un corpus di leggi e un monopolio dell’uso legittimo della forza.

Ma viene prima la società stratificata, o la stratificazione è un effetto dello Stato?

Nasce prima l’uovo o la gallina?

Risultati immagini per tuatara egg hatching

Nasce prima il Tuatara

Ci sono due modelli principali su come lo stato nasce: il modello di Service mette avanti l’integrazione e la cooperazione organizzata tra diverse parti della società; Fried d’altro canto mette avanti il conflitto, la lotta e la forza coercitiva dello stato.

Per chi spinge la teoria del conflitto, la centralizzazione deriva dalla competizione: gruppi lottano per il controllo di risorse limitate e alla fine uno dei contendenti vince stabilendo il controllo (almeno per un periodo) sulle risorse. Il punto è l’ineguale accesso alle risorse.

Per Fried l’ineguale accesso alle risorse è ESSENZIALE per la formazione di uno stato: un gruppo conquista l’accesso privilegiato a una risorsa e si trova quindi nella necessità di difendere detto accesso. La centralizzazione e il potere repressivo che mantiene la stratificazione sociale sono elaborati a questo scopo.

Fried distingue inoltre tra primary (pristine) states, ovvero stati che si sono spontaneamente evoluti, e secondary states, ovvero stati che si sono evoluti sotto l’influenza di stati vicini preesistenti.

Va da sé, i secondary states sono la forma più comune di state formation.

Service d’altro canto focalizza invece sull’aspetto di integrazione. Sì, lo stato ha conflitti, ma lo stato ha anche una capacità straordinaria di organizzare e coordinare grandi numeri di persone, spesso di diversi background etnici o ecologici. L’idea che lo stato sia tenuto insieme solo o soprattutto dalla minaccia della forza coercitiva da parte dell’autorità centrale è riduttiva: la gente in uno stato spesso supporta lo stato. Per Service quello che tiene insieme lo stato non è la violenza, ma la reciprocità e la legittimità.

Si può argomentare che non esiste legittimità senza una qualche forma di reciprocità, ma questo è un ginepraio per un altro articolo!

Da un punto di vista pratico, Service nota che un governo centralizzato offre protezione e sicurezza, strumenti per gestire le dispute, accesso a risorse in cambio di accettazione dell’autorità.

La principale opposizione tra Service e Fried sembra filosofica e porta sullo stato stesso, visto come un’entità benefica che richiede un prezzo per un vantaggio sociale generale (Service) o una struttura oppressiva nelle mani delle classi dirigenti volta a mantenere le classi subalterne nella loro condizione di sfruttamento (Fried).

Dall’alto della mia inesistente esperienza di ricercatrice io dico che entrambe sono vere. Ormai si considera che entrambi i punti di vista hanno limiti e meriti, e una posizione non esclude necessariamente l’altra.

Han Fei (?-233 a.C.), fondatore del Legismo e grande fan dell’uso della forza repressiva da parte dello Stato, perché gli uomini sono belve e solo uno Stato autocratico e severo può impedire ai glebani di sbranarsi tra di loro. Odiava la plebe e morì suicida.

Ma parliamo della storia, di come mai certe società diventano stati altre no.

Come per ogni fenomeno storico, è necessario un contesto che lo renda possibile, ed è necessaria l’interazione di un certo numero di fattori.

Fino agli anni ’70, il discorso accademico ha cercato di individuare i “fattori decisivi”, i prime movers all’origine della statalizzazione. Tradizionalmente questi si dividono in fattori sociali e fattori ambientali. Alcuni esempi di ipotetici prime movers possono essere l’aumento demografico, la circoscrizione di una società in un ambiente definito, una guerra di conquista, lo sviluppo di un complesso sistema di irrigazione, il commercio su lunga distanza, ecc.

Nel 1972 L’archeologo Flannery Kent intervenne nel dibattito su questo miracoloso “fattore catalizzante” criticando l’approccio semplicista alla questione e auspicando una visione più “multi-variabile” che tenesse conto di numerosi fattori contemporaneamente, inseriti in un contesto socio-ambientale.

L’intervento di Flannery fu preso sul serio e nel 1978 Cohen propose un nuovo modello che vede la formazione dello stato come un processo sistemico (ovvero avente un effetto su tutto il sistema/organizzazione) e multi-causale.

sloth.jpg

Sta geremiade è quasi finita, tenete duro!

Come accennato prima, Fried ha introdotto la distinzione tra pristine states e secondary states. Nel 1992 Rhee Song Nai propone una nuova categoria, ovvero quella si stato autoctono.

Se il pristine state è un’evoluzione spontanea e il secondary state è l’effetto di una diretta influenza subita da parte di uno stato vicino, come spiegare la formazione di stati in regioni che non erano in diretto contatto con stati preesistenti?

Nella penisola coreana, ad esempio, possiamo constatare che polities si “statalizzano” sotto l’influenza di enti come la Cina dei Wei, pur non subendo una diretta minaccia o un contatto continuo.

Per Rhee, che parlava nello specifico del regno di Goguryeo, lo stato autoctono si forma sotto l’influenza di stati distanti. Alcuni dei fattori in gioco in questo caso sono il commercio su lunga distanza e la circoscrizione.

Il commercio è spesso un elemento importante nella nascita degli stati o nell’evoluzione delle società in generale: il commercio può introdurre una nuova tecnologia che stravolge del tutto le abitudini, può consolidare il potere dell’élite o può provocare uno slittamento del potere (per esempio la nascita di una prospera classe mercantile).

C’è un nesso tra la differenziazione organizzativa di una società e la sua abilità di mantenere reti di scambi commerciali: per esistere, il commercio necessita surplus, concentrazione dei beni, logistica, ecc.

Per quanto riguarda la circoscrizione, il termine indica un limite al territorio o all’accesso alle risorse. Se queste limitazioni portano a urti coi vicini, questo può incoraggiare il senso di identità di cui parlavamo a inizio articolo o anche a una centralizzazione dell’autorità (un’autorità centralizzata semplifica l’organizzazione della difesa).

Le pressioni esterne possono controbilanciare le tensioni interne a una società, spingerla a stratificarsi e statalizzarsi. Niente di meglio di un nemico per stimolare il senso di identità. Come dice Byington, the clear notion of “us” depends largely on a “them” to which draw contrast.

La pressione esterna, la scarsità di risorse, la necessità di organizzare e gestire strutture complesse come commercio o irrigazione sono tutti fattori capitali nella creazione di uno stato, pristine, secondary o autoctono. Nessuno di questi elementi è però sufficiente, preso da solo.

Come tutto ciò che riguarda le società umane, non esiste una formula matematica sempre applicabile.

Esistono mille tipi di autorità e strutture sociali, e le loro forme sono determinate da innumerevoli fattori (ambiente, storia, cultura, livello tecnologico, mezzi di produzione, ecc.). La natura delle società fa sì che di solito è impossibile determinare con certezza cosa sta influenzando cosa: se è il commercio a incoraggiare la stratificazione sociale e la specializzazione o se il commercio si sviluppa perché c’è stratificazione e specializzazione.

Personalmente trovo che la discussione sull’uovo e la gallina abbia un interesse relativo: questi fattori si influenzano l’un l’altro, evolvono e cambiano insieme.

A parer mio la costante che caratterizza ogni forma gerarchica umana non è tanto il potere coercitivo o l’accesso privilegiato a risorse strategiche (che, to be fair, sono spesso fattori), quanto la legittimità del potere politico.

Le società sono adattamenti evolutivi e hanno determinato la nostra sopravvivenza in un mondo dove quasi tutto cercava di ucciderci. Ma le società si basano principalmente su una serie di convenzioni. Anche il sentimento identitario, alla fine, non è che un accordo su un certo numero di convenzioni.

Il fatto che siano convenzioni non le rende meno importanti: una convenzione può essere inventata di sana pianta e basata sul nulla assoluto, ma il fatto che sia condivisa da un certo numero di individui fa sì che abbia un effetto, e quindi sia reale.

La legittimità è pure una convenzione, a mio modesto parere tra le più arcaiche e radicate nella nostra psiche.

La legittimità può essere costruita, manipolata o minata, ma nessuna classe dirigente ha mai avuto un controllo totale e duraturo su di essa. La legittimità del potere politico è la chiave di volta necessaria a tenere insieme e una qualsiasi gerarchia, e abbiamo numerosi esempi di classi dirigenti che, pur avendo il monopolio del potere coercitivo, non sono riuscite ad evitare lo sgretolamento della loro società. La legittimità è quella cosa che i cinesi chiamavano il Mandato del Cielo.

Ma questo è argomento per un altro verboso articolo!

Per ora mi limito a parlare di stato, che ritengo di aver punito a sufficienza i miei lettori (per ora!).

WE ARE BACK IN BUSINESS BITCHES!

MUSICA!


Bibliografia

BYINGTON Mark E., The Ancient State of Puyo in Northeast Asia, Harvard University Press, Cambridge, 2016, p.279-306

COHEN Ronald et SERVICE Elman R., Origins of the State : The Anthropology of Political Evolution, Institute for the Study of Human Issues, Philadelphia, 1978

WEBSTER David, “Warfare and the Evolution of a State: A Reconsideration”, in American Antiquity, vol.40, n° 4, Cambridge University Press, Cambridge, 1975, p.464-470

Letture aggiuntive

BARTH Fredrik, Ethnic Groups and Boundaries, 1969

FLANNERY Kent, “The Cultural Evolution of Civilization”, in Annual Review of Ecology and Systematics 3, 1972

FRIED Morton, The Evolution of Political Society: an Essay in Political Anthropology, 1967

RHEE Song Nai, “Secondary State Formation: The Case of Kuguryo State”, in Pacific Northeast Asia in Prehistory: Hunter-Fisher-Gatherers, Farmers, and Sociopolitical Elites, 1992

SERVICE Elman, Primitive Social Organization: An Evolutionary Perspective, 1962

VERMEULEN Hans e GOVERS Cora, The Anthropology of Ethnicity: Beyond “Ethnic Groups and Boundaries”, 2000

Chi sono i samurai?

Chi frequenta la Fortezza avrà intuito che la sottoscritta ha una fastidiosa tendenza alla pignoleria. Negli Studi Umanistici ci fanno una testa così sul lessico e la scelta dei termini, e hanno ragione: a seconda il contesto la stessa parola può voler dire cose molto diverse. Se lo scopo del linguaggio è comunicare informazioni e concetti, è indispensabile chiarire fin da subito cosa si intende con cosa e in che contesto.

Potete immaginare quanto soffro ogni volta che apro un articolo di giornale e vengo assalita da valanghe di buzzwords tirate dentro ad glandus segugi.

Il punto è che usare le parole a cazzo è una pestilenza che, a mio modesto parere, sta facendo danni reali al nostro cervello. Invece di scambiare argomenti articolati, le discussioni si limitano a un palleggio di termini impropri che arrivano accompagnati dal loro bel pacchetto di concetti associati d’ufficio. Per usare un linguaggio meno tecnico, non è un confronto di punti di vista, quanto una sassaiola fatta a pallate di fango.

Oggi, nel mio piccolo, ho deciso di prendermela con una parola che mi provoca regolare ulcera: samurai ().

Priorità nella vita!
Arte dello straordinario artista contemporaneo Noguchi Tetsuya

Cosa vuol dire “samurai”?

Cominciamo col fare un distinguo importante: esistono termini usati dai contemporanei ed esistono termini usati dagli storiografi per descrivere a posteriori un fenomeno passato.

In diversi periodi della Storia giapponese samurai è stato usato per descrivere cose diverse.

Oggigiorno viene spesso impiegato in modo più o meno appropriato per descrivere il “guerriero giapponese”.

Tre problemi qui:

-Il termine originariamente non ha nessuna connotazione militare;

-per secoli non c’è stata nessuna definizione legale di “guerriero” come categoria sociale;

-cos’è un “guerriero”?

Cominciamo dall’ultima. Che cos’è un guerriero?

Tecnicamente, qualcuno che fa la guerra. L’immagine che la parola evoca è spesso quella del cavaliere pesante o del vichingo feroce, del combattente professionista formato dalla gioventù al mestiere delle armi. Ma “fare la guerra” comprende molto più del caricare lancia in resta o partecipare di persona a un combattimento. Peraltro gran parte dei “guerrieri” antichi praticavano altre attività economiche a parte il farsi ammazzare.

Non solo, ma che dire di tutti quelli che non sono combattenti d’élite? Se guerriero è “chi fa la guerra”, questo include fanti, esploratori, ingegneri, facchini…

Non voglio dilungarmi in questo articolo sul concetto di guerriero: il punto è che spesso la gente butta in giro la parola “guerriero” senza davvero porsi il problema del suo significato.

Passiamo al secondo punto: le definizioni contemporanee e quelle a posteriori.

C’è stato un periodo della Storia giapponese in cui i guerrieri erano in effetti una categoria sociale chiaramente e legalmente definita. Tuttavia la guerra e il mestiere delle armi (anche come professione esclusiva e vocazione) sono molto più antichi.

Il “guerriero” inteso come militare di professione la cui vocazione principale è la via delle armi esiste da prima della parola samurai.

Di recente abbiamo concluso una lunga serie di articoli su Taira Masakado e le ribellioni che squassarono l’Impero giapponese verso la metà del X° secolo. Taira Masakado era senza dubbio un guerriero e qualcuno che considerava la “via dell’arco e della freccia” come parte essenziale della propria identità. Non si sarebbe mai definito un samurai, tanto che l’appellazione gli viene appioppata da Friday come provocazione (vedi Taira no Masakado: the first samurai, di Karl Friday).

Usare samurai prima della nascita del Bakufu è problematico, ed è per questo che molti storiografi preferiscono il termine meno controverso di bushi (武士).

Ma cos’è un bushi?

Secondo il Progressive waeichū jiten, il dizionario giapponese-inglese di default sul mio Ex-word, il bushi è un guerriero. Questo ci lascia col problema accennato più in alto: tutti i bushi sono guerrieri, ma non tutti i guerrieri sono bushi. Cos’è davvero un bushi?

Secondo il dizionari giapponese-giapponese Kōjiten, il bushi è un guerriero professionista che si campa la vita col mestiere delle armi. Definisce questi individui come appartenenti a una specifica classe sociale che sarebbe esistita dall’epoca di Heian (794-1185) a quella di Edo (1603-1867).

Minamoto Tametomo separa due lupi, dal pennello di Utagawa Kuniyoshi (1798-1861)

Per non zavorrarci troppo, diciamo che con “guerriero” si intende in questo contesto l’arciere pesante a cavallo, antenato diretto dei samurai.

Questo tipo di combattente è necessariamente un professionista e predata l’epoca di Heian: nel 701 la Corte pubblicò un vastissimo corpus di leggi penali e civili (i famosi Codici, Ritsuryō), in cui si parla di unità di cavalleria e arcieri pesanti a cavallo.

Possiamo quindi dire che il bushi esisteva di certo già dal 701?

Hum…. dipende.

Se anche prendiamo Heian come riferimento, i militari dell’VIII° secolo non usavano la parola bushi per parlare di loro stessi. Il termine corrente all’epoca era mononofu o tsuwamono (), il cui kanji è lo stesso usato nei Codici per indicare i soldati di leva (quindi gente che non pratica le armi come professione, ma coscritti contadini) o musha (武者) (che indica più specificatamente “persona di guerra”).

Nello stesso periodo troviamo spesso il termine samurai come sostantivo del verbo saburau, ovvero “servire”. Come accennato, non ha nessunissima connotazione militare e indica semplicemente il servitore al servizio di un nobile.

Ricordiamo che prima del 1185 l’Impero giapponese è governato da un’aristocrazia strettamente civile che esercita la propria autorità tramite istituzioni burocratiche o legami personali di clientelismo. La carriera militare era considerata come molto inferiore rispetto a quella civile e riservata a gente che non poteva diventare letterato.

Secondo Okuda il significato di samurai sarebbe cambiato dopo la salita al potere dei militari alla fine della Guerra di Genpei (1180-1185): i bushi impiegavano guerrieri di basso rango come servitori, ergo il samurai passa da “servitore di un nobile” a “servitore di un nobile guerriero” a “servitore guerriero” e “guerriero/vassallo”.

Il samurai nel senso di guerriero non esiste prima del XIII° secolo. Ora lo sapete. Se volete riferirvi a chiunque prima di questa data, usate bushi o vi vengo a tirare le orecchie.

Fuoco e legnate durante i disordini di Heiji, propdromi della grande guerra civile tra Taira e Minamoto

Quindi per parlare di gente come Masakado basta usare bushi e son tutti contenti, no?

Sì, ma con cautela.

In storiografia contemporanea bushi è spesso usato per descrivere il guerriero feudale, ovvero qualcuno che andava in giro a scapitozzare dopo il XII° secolo, durante e dopo la Guerra di Genpei.

La Guerra di Genpei è un avvenimento cardinale della Storia giapponese: lo è a posteriori per gli storiografi e lo è stato per i contemporanei. La Guerra di Genpei ha cancellato il mondo di prima e ne ha creato uno nuovo.

Abbiamo una testimonianza interessantissima di questo evento grazie a Jien (1155-1225), un monaco poeta e storiografo che poté godersi lo sgretolamento del potere aristocratico, il collasso della dittatura Taira, la guerra civile e la nascita dello shōgunato sotto Minamoto Yoritomo e sua moglie Hōjō Masako. Il nostro ha parlato delle sue impressioni nel Gukanshō, dove descrive gli avvenimenti in questi esatti termini: il vecchio mondo è morto si entra ormai nel “mondo dei guerrieri” (musha no yo).

E’ molto comodo avere un evento storico così chiaro e distinto per orientarsi e con cui definire un “prima” e un “dopo”.

In realtà i bushi che hanno rivoluzionato il Giappone nel 1185 non sono apparsi nel 1180 ma sono il frutto di un’evoluzione graduale. E questo ci porta al secondo contenzioso del termine bushi!

Il bushi è il guerriero feudale, e costituisce la nuova classe dirigente dal 1185. Ok, ma da quando possiamo trovarli?

E soprattutto: cosa si intende con “guerriero feudale”?

Come accennato prima, il termine “feudale” è stato coniato a posteriori dagli storiografi. Si tratta di una parola usata per descrivere la Storia europea che è stata poi estesa alla Storia giapponese.

Verso la fine del Periodo Meiji (1868-1912), gli storiografi giapponesi avevano assorbito le nuove idee politiche e metodologiche dei ricercatori occidentali. Il Giappone stava furiosamente riacchiappando il ritardo tecnologico e occidentalizzando il Paese, e questo influenzò anche il modo di raccontare la Storia: si cerca di trovare similitudini e parallelismi con la vicenda europea e il punto comune tra le due realtà sembra essere il periodo feudale. Il sottinteso politico era che il Giappone era essenzialmente diverso dal resto dell’Asia, aveva una società più civilizzata e più vicina a quella occidentale, e per questo era riuscito a sfuggire alla brutale colonizzazione.

Il bushi doveva diventare l’equivalente del cavaliere medievale, nella storiografia e nell’immaginario nazionale.

Uno dei nomi più significativi agli inizi del XIX° secolo è quello di Asakawa Kan’ichi, uno strenuo difensore del parallelismo bushi-cavaliere. Secondo lui i bushi avevano origine nello sviluppo di una classe di proprietari terrieri nell’VIII°-IX° secolo. Col X° secolo questi notabili avrebbero cominciato ad armarsi e offrire i propri servigi a i più prominenti tra loro in cambio di protezione, per sopperire al vuoto delle istituzioni di Corte. Costoro sarebbero presto maturati in una vera e propria classe sociale, sottomessa a una Corte di aristocratici civili che si vuotava poco a poco del proprio potere reale.

Secondo Asakawa (ripreso anche da Samson), la classe guerriera si sarebbe evoluta per sopperire ai buchi di un sistema militare inefficace che non riusciva a proteggere i notabili locali e l loro famiglie (interpretazione molto vicina a quella offerta per lo sviluppo del Feudalesimo in Europa, nato dal crollo dell’Impero Romano).

I due fattori chiave dietro questo fenomeno sarebbero quindi da una parte un sistema militare scassato e il proliferare degli shōen, latifondi privati esenti da tasse e spesso immuni dalla legislazione ordinaria, che avrebbero minato in modo irreparabile l’autorità pubblica nelle provincie.

Okuda condivide questo punto di vista: i guerrieri del Bandō avrebbero creato una rete di legami personali parallela a quelli istituzionali per difendersi dall’inettitudine dell’autorità pubblica e dalla rapacità degli interessi privati.

Per chi ha seguito la rocambolesca vicenda di Masakado, è innegabile che i guerrieri orientali erano spesso piccoli proprietari terrieri e allevatori, e spesso si mettevano sotto la protezione di un notabile locale più importante: Taira Masakado interviene ad esempio per difendere gli interessi del suo gregario Fujiwara Haruaki, che sta avendo problemi con i funzionari provinciali inviati dalla Corte.

E’ anche innegabile che nelle provincie, specie quelle orientali, la legge ufficiale era applicata fino a un certo punto.

Allo stesso tempo è anche chiaro che i Codici hanno giocato un ruolo importante nella vicenda di Masakado: come sottolinea Hall, i Codici restarono in vigore e furono applicati (con più o meno zelo) fino almeno al X° secolo (quando furono affiancati ai Regolamenti dell’era Engi, i celeberrimi Engishiki).

Ishimoda Shō è quello che meglio ha elaborato la teoria secondo cui i bushi sarebbero stati un’evoluzione necessaria all’indebolimento delle istituzioni e avrebbero sviluppato la propria influenza fino a sbocciare, verso la fine di Heian, in una situazione in cui questa classe militare provinciale esercitava il proprio controllo su una vasta massa contadina ridotta, de facto, in servitù.

L’interpretazione di Ishimoda sottintende che questo processo di feudalizzazione sarebbe particolare al Giappone e distinguerebbe il popolo giapponese dal resto dei popoli orientali, facendone uno tradizionalmente capace di evolvere e superare vecchie istituzioni in nome della praticità.

Prima di progredire con questo appassionante discorso, i più svegli si saranno detti:

Spetta un secondo, ma hai sfrangiato le gonadi finora con la definizione di “guerriero”, e mo’ butti in giro il termine “feudale” così, a crudo?”

Right-oh!

Secondo il ponderoso tomo di storiografia comparata Les féodalités, Bournazel e Poly ripropongono la definizione di Sirinelli:

[FR]

Il s’agit de l’ensemble des institutions et des relations – juridiques ou autres – permettant la dévolution et l’exercice de ce que l’on appelle le pouvoir ou l’autorité, mais replacées de surcroit au sein des sociétés, des valeurs et des cultures qui les sous-tendent. Les systèmes politiques ainsi entendus incluent donc l’analyse des grandes constructions institutionnelles, mais également l’étude de leur soubassement social et culturel : le socle économique ou les rapports sociaux, assurément, mais aussi […] les idéologies, les cultures politiques, les représentations et les valeurs.

[IT]

Si tratta di un insieme di istituzioni e relazioni – giuridiche o meno – che permettono la devoluzione e l’esercizio di ciò che chiamiamo il potere o l’autorità, e collocate inoltre in seno alle società, ai valori e alle culture che le sottintendono. Il sistema politico così inteso include quindi l’analisi delle grandi costruzioni istituzionali, ma anche lo studio della loro base sociale e culturale : le fondamenta economiche o i rapporti sociali, di certo, ma anche […] le ideologie, le culture politiche, le rappresentazioni e i valori.

In altre parole il “feudalesimo” è caratterizzato da un certo tipo di istituzioni e relazioni, ma anche da cultura, rappresentazioni, strutture economiche ecc.

Ora, qualche sventurato a cui sia capitato di assistere a una “dotta discussione” di certi “appassionati” sulla storiografia avrà sentito buttare in giro termini come “marxismo” o “marxismo culturale”. Si tratta di un certo modo di studiare e interpretare la Storia che pone particolare accento sulla struttura economica di una società (per dirla in termini molto banali, tutto il resto è “sovrastruttura” e dipende direttamente dal sistema economico). L’”ossatura” della società è determinata essenzialmente dai rapporti di produzione.

Questo modo di vedere la Storia, che gli “appassionati” di cui sopra tirano fuori come se fosse una qualche recente moda appena sfornata dalle femministe della terza ondata, data in realtà degli anni ’50 e ’60 specie per ciò che riguarda la storiografia giapponese (e, a chiosa, l’ondata corrente del femminismo è la quarta e non la terza, ma quando si parla a vanvera capita di sbagliarsi).

Già negli anni ’60 lo storico francese Georges Duby aveva fortemente criticato questo approccio. Uno dei problemi era che la corrente marxista tentava di porsi in una maniera realista e pragmatica, ma gli uomini, gli esseri umani che costituiscono le società, non sono né realisti né pragmatici. I sentimenti (e i conseguenti comportamenti) degli individui e dei gruppi sociali rispetto al loro ruolo nella società non sono dettati dalla realtà economica, ma dall’idea che detti individui e gruppi sociali hanno della realtà economica!

Gli esseri umani non vivono nella realtà, vivono in un’idea, un racconto di realtà.

Che certamente ha a che fare con la realtà oggettiva, ma è comunque filtrata, interpretata e influenzata. La struttura economica è certamente fondamentale nell’evoluzione di una società nelle sue mille declinazioni (cultura, politica, guerra, arte, ecc.), ma è solo uno dei vari fattori in gioco.

In altre parole, una società è feudale non solo se la sua struttura economica è feudale, ma se le sue idee, se la sua visione è feudale.

Cosa si intende con “feudalesimo” in questo contesto?

A differenza degli europei, i giapponesi non hanno un termine indigeno che descriva la struttura feudale. “Feudalesimo”, hōken, è un termine tradotto e preso alla storiografia occidentale. E’ la traduzione dei concetti di feudalism o Lehnwessen. Come in Europa questi concetti sono associati al cavaliere, in Giappone sono stati legati al bushi.

Maki Kenji propone una lettura più “orientale” di hōken, proponendolo come traduzione di fengjiang, “fondare un feudo”, impiegato in Cina quando l’Imperatore concedeva delle terre a dei potenti, delegando loro l’autorità imperiale su quei territori. Per Kenji, il tratto determinante dell’hōken non è molto la sua relazione con una classe guerriera, ma la decentralizzazione del potere: hōken è da concepire in opposizione alla società centralizzata prevista dei Codici, gunken.

Se però torniamo un attimo a Jien, possiamo notare che ciò che più ha sconvolto i contemporanei durante il cambio di regime nel 1185 non è stata la decentralizzazione, quanto il carattere essenzialmente militare di questa nuova aristocrazia (soldati al potere? Pofferbacco, che cosa eterodossa!).

Ad ogni modo e quale che sia la declinazione che si dà al termine, è chiaro che il bushi è parte essenziale della faccenda. In altre parole, il feudalesimo giapponese non è necessariamente definito dal ruolo che il bushi gioca in esso, ma il bushi è una creatura feudale.

Chiedo scusa, ma DOVEVO USARE ‘STA STRONZATA o il pensiero mi avrebbe perseguitata fin nella tomba!

Negli anni ’50 gli storiografi cominciarono a rimettere in dubbio la centralità del guerriero nella società feudale. Questa nuova corrente toglieva il focus dai guerrieri per metterlo sul potere distante esercitato dai signori assenteisti sui loro latifundia nella provincia. Secondo Shimizu Mitsuo, i guerrieri locali non sarebbero la forza innovatrice descritta da Ishimoda Shō, ma un elemento classico, strumenti del potere che mantenevano il controllo dell’aristocrazia sui mezzi di produzione.

Tornando alla rivolta di Masakado come esempio, è innegabile che i vari capi e capetti armati esercitavano la loro autorità in nome e per conto della Corte.

Insomma, mentre in Europa il feudalesimo è accompagnato da un indebolimento dell’autorità centrale, in Giappone la Corte rimase saldamente in sella fino al disastro della Guerra di Genpei. In altre parole, il cavaliere feudale europeo sarebbe figlio dell’anarchia (o della debolezza istituzionale), mentre il bushi giapponese sarebbe l’evoluzione continua di un governo a modo suo forte e stabile.

E’ fuor di dubbio che la Corte mantenne il monopolio sulla legittimità del potere ben dopo la creazione del Bakufu di Minamoto Yoritomo.

L’interpretazione corrente della storiografia giapponese è una sorta di compromesso tra la visione frammentata di una provincia ingovernabile e quella di un Governo forte e continuo che esercitava la sua autorità attraverso i guerrieri. Secondo la versione più accreditata oggigiorno, ci sarebbe stata sì una spaccatura netta tra Capitale e provincia, ma la Corte avrebbe mantenuto il monopolio sulla legittimità e i guerrieri avrebbero esercitato il controllo sui provinciali ma senza porsi in opposizione diretta al potere aristocratico. Insomma, per un paio di secoli guerrieri locali e aristocratici civili avrebbero governato insieme in una struttura di potere comparabile a un leviatano sociale a due teste.

D’altro canto si è presentato un altro problema alla storiografia giapponese: quella delle particolarità regionali.

Per lunghissimo tempo intere popolazioni sono state del tutto scordate dagli storici (gli Ainu, gli Hayato, la gente delle Ryūkyū, ecc.). Ma se anche uno decidesse di sbattersene allegramente, i Wa stessi avevano strutture sociali, tratti culturali e caratteristiche linguistiche marcatamente differenti anche all’interno della sola isola di Honshū.

La creazione del Bakufu, di cui parleremo con calma in articoli appositi, potrebbe essere interpretata, ad esempio, come l’esportazione verso le regioni occidentali di forme di controllo e amministrazioni tipiche della società guerriera orientale.

Insomma, possiamo stabilire che in Giappone si sono verificate contingenze in cui la società ha tratti “feudali”, ma il termine “feudale” stesso è talmente problematico che oggigiorno viene spesso evitato. Gli si preferiscono altre formulazioni, come “società guerriera” o “rapporti di dipendenza”.

Tornando a noi, chi sono i bushi?

Il bushi è un individuo che può combattere come arciere montato a cavallo e che esiste in una rete sociale fatta di rapporti di dipendenza definibili come “feudali”.

In altre parole: l’arciere pesante a cavallo esiste almeno dal VII° secolo, il bushi si sviluppa a partire dal IX°-X° secolo. E ancora nemmeno l’ombra di un samurai!

Sia chiaro, a questo stadio non esiste ancora nessuna “classe guerriera”.

Nella sua accezione più banale, una classe sociale è un insieme relativamente omogeneo di individui che condividono la stessa situazione socioeconomica.

Da un punto di vista generale dell’Impero, per buona parte dell’epoca di Heian i bushi non hanno omogeneità culturale e non condividono la stessa posizione socioeconomica. I Codici delineano una società in cui non esiste una classe guerriera: i militari professionisti (gli arcieri pesanti a cavallo, soprattutto) sono individui della classe dei magistrati di distretto, della classe piccola aristocrazia o cadetti della classe nobiliare senza reali prospettive nella carriera civile.

Possiamo semmai parlare di “proto-classe” per quello che riguarda alcune regioni (vedi le particolarità regionali succitate). Ma in generale il Giappone non ha, nel X° secolo, una classe guerriera.

Questa si evolve nei secoli come sottocultura parallela alla cultura civile della burocrazia di Corte. Alcuni dei primi esempi di legami di dipendenza tipici della “società guerriera” possono essere trovati nel X° secolo, ma non abbastanza da poter parlare di classe.

In parole povere: dati questi presupposti, fino alla Guerra di Genpei, non si può davvero parlare di samurai.

A posteriori, possiamo vedere nei disordini del X° secolo le remote origini di quello che sarà un giorno il samurai. Come accennato nella conclusione della Rivolta di Masakado, il X° segna l’inizio, il primissimo embrione della società guerriera. Si parla in questo caso dell’evoluzione dei bushi.

La distinzione è importante perché gli uomini che si ribellarono nel Bandō, quelli che servirono nelle guerre di Hōgen e di Heiji e quelli che si ammazzarono nella guerra di Ōnin non sono gli stessi ed è bene esserne coscienti se si è interessati a capire le loro storie e i loro percorsi.

E dopo questa appassionante lungagnata ci do un taglio, che prevedo una lunga diatriba ricca di suspence su cosa significa il termine “feudale” e non voglio rovinarvi l’hype!

MUSICA!

(Non è metal, ma nell’attesa che i Sabaton si svitino i pollici dal culo vi cuccate questa, perché Gatsu daze! piace per forza, try try try!)


Approfondimenti

La banda di guerra

L’evoluzione del sistema militare dai Codici al X° secolo

La rivolta di Masakado (puntata 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10)

La guerra di Hōgen

La guerra di Heiji

La guerra di Genpei (puntata 1, 2, 3, 4, 5, 6, ongoing)

 

Bibliografia

FRIDAY Karl, The first samurai, Hoboken, John Wiley & Sons, 2008

FUKUDA Toyohiko, Taira Masakado no ran, Tōkyō, Iwanami shōten, 1981

KAWAJIRI Akio, Taira Masakado no ran, Tōkyō, YoshikawaKōbunkan, 2007

RABINOVITCH Judith N., Shōmonki, The story of Masakado’s Rebellion, Tōkyō, MonumentaNipponica, Sophia University, 1986

YANASE Kiyoshi, YASHIRO Kazuo, MATSUBAYASHI Yasuaki, SHIDA Itaru, INUI Yoshihira, Shōmonki, Mutsuwaki, Hōgenmonogatari, Heijimonogatari, Tōkyō, Shōgakukan, 2002

AMINO Yoshihiko, Shōen no kōzō, Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2003

HALL John Whitney, Government and Local Power in Japan, 500 to 1700, Center for Japanese Studies Univesity of Michigan, 1999

HERAIL Francine, Gouverneurs de provinces et guerriers dans Les Histoire qui sont maintenant du passé, Paris, Institut des Hautes Etudes Japonaises, 2004

FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Cambridge, Harvard University Press, 1995

FRIDAY Karl, Hired swords, Stanford, Stanford University press, 1992

FRIDAY Karl, Samurai, warfare and the state, New York, Routledge, 2004

KASAYA Kasuhiko, Samurai no shisō, Tōkyō, Nihon KeizaiShinbun, 1993

KAWAJIRI Akio, Yuregoku kizoku shakai, Tōkyō, Shōgakukan, 2008

KITAYAMA Shigeo, Ōchi seijishiron, Tōkyō, Iwanami shōten, 1970

MOTOKI Yasuo, Bushi no seiritsu, Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 1994

MURAI Yasuhiko, Heian Ōchō no bushi,Tōkyō,Daiichi Hōki Shuppan, 1988

SOUYRI Pierre-François, Nouvelle histoire du Japon, Paris, Librairie Académique Perrin, 2010

SOURY Pierre-François, Le monde à l’envers, Paris, Maisonneuve &Larose, 1999

BARTHELEMY Dominique, La chevalerie : De la Germanie antique à la France du XIIe siècle, Paris, Librairie Académique Perrin, 2012

BLOCH Marc, La société féodale, Paris, Albin Michel, 1994

BOURNAZEL Eric, POLY Jean-Pierre (sous la direction de), Les féodalités, Paris, PUF, 1998, (cf. p. 715-750, Pierre Souyri, « La féodalité japonaise »)

BOUTRUCHE Robert, Seigneurie et féodalité, Paris, Aubier, 1968

LOT Ferdinand, La fin du Monde Antique et le début du Moyen Age, Paris, Albin Michel, 1989

 

 

Illustri Sconosciuti: Taira Masakado (3.3): I vincitori e gli immortali

Sono tempi di migragna qui alla Fortezza, ma il bello di essere in dottorato in Sotria è che, quale che sia il merdaio in cui ti trovi, sei costretto a leggere di gente messa peggio e mortamale.

Case in point: siamo finalmente giunti al gran finale della rocambolesca avventura di Masakado, il Ribelle del Bandō!

Per chi si fosse perso le puntate precedenti (recuperatevele, sono obbligatorie, poi vi ci interrogo), la grande rivolta delle ere Jōhei e Tengyō (935-940) parte come scazzo familiare tra Masakado, notabile locale senza funzione o rango, e i suoi zii e cugini, gente con funzioni amministrative e appigli politici.

Per anni questi ultimi tentano di cancellare Masakado della faccia della Terra, e per anni Masakado li riempie di calci nel culo, senza però prendersela con i rappresentanti della Corte. Masakado bada bene a non compiere azioni che possano essere percepite come aperta ribellione nei confronti dello Stato.

Dopo anni di guerriglia e un numero imprecisato di villaggi rasi al suolo, il nostro è riuscito a eliminare i suoi avversarsi, tranne l’infingardo cugino Sadamori.

Il teatro del dramma

Taira Sadamori, funzionario alla Corte e abile oratore, è alla fine riuscito a farsi dare ragione dal Governo (che ha voltato gabbana già varie volte, riguardo alla faccenda) e, in compagnia del cugino Tamenori e del brigante rispulizzito Fujiwara Hidesato, è di ritorno nel Bandō per la resa dei conti.

Per la precisione, siamo in questa zona qui

Dopo questo ennesimo tira e molla della Corte, Masakado decide di prendere l’iniziativa: in meno di niente conquista l’intera fetta nordorientale di Honshū con l’intenzione di costringere il Governo a scendere a patti.

Governo che, ricordiamocelo, si trovava alle prese con una cruentissima piaga occidentale: il pirata e pazzoide piromane Fujiwara Sumitomo.

Dopo deliberazione, la Corte decide di scendere a patti con quel manico omicida di Sumitomo e di spedire un esercito contro Masakado.

E oggi riprendiamo le fila di questo disastro noto come i Disordini delle ere Jōhei e Tengyō!

Masakado distribuisce labbrate, dal pennello di Tsukioka Yoshitoshi (1839-1892)

Come accennato, la Corte decide di scendere in guerra contro Masakado.

Di certo vi sarà capitato migliaia di volte di vedere film o leggere libri in cui gli eserciti semplicemente appaiono in giro, di solito direttamente sotto il balcone dei protagonisti. Gli eroi stanno discutendo di come difendersi dal cattivo di turno e puf, una sentinella arriva di corsa urlando “siamo sotto attacco!”.

E’ un cliché che io odio con la rovente passione di mille bombe atomiche. E’ una cosa stupida da morire e una totale mancanza di rispetto per l’intelligenza dello spettatore/lettore.

Senza nemmeno entrare nel merito di trasporti, tempo di percorso, vettovaglie e terreno da attraversare, poche società pre-industriali hanno potuto contare su un vero e proprio esercito permanente. Non solo, anche concedendo che tale esercito esista, una spedizione non è qualcosa che si organizza in due ore.

Secondo i Codici, il corpus di leggi ultimato nel 701 e ancora in vigore nel X° secolo, per mobilitare una banda di gente armata superiore a 20 individui era necessario un Editto Imperiale.

La faccenda doveva essere prima sottoposta al Consiglio di Stato, che creava una commissione deliberativa. La commissione studiava la situazione e sottometteva un rapporto al Consiglio. Dopo aver letto il rapporto e se non c’erano ulteriori questioni da ponderare, il Consiglio scriveva un Editto che veniva poi sottoposto al Figlio del Cielo (era rarissimo che il Figlio del Cielo non ratificasse subito le decisioni del Consiglio).

A questo punto l’affare passava al Ministero degli Affari Militari, che valutava l’investimento in armi, uomini e fondi, nonché quali unità impiegare e quando. Si trattava più di un preventivo che di un piano strategico vero e proprio.

Il rapporto dettagliato del Ministero veniva poi rigirato di nuovo al Consiglio di Stato, che doveva quindi decidere se agire e in che modo.

In altre parole, ci volevano mesi solo per decidere se lanciare una spedizione, quali mezzi impiegare e quali uomini incaricare delle operazioni. E questo presupponendo che i membri del Consiglio o del Ministero fossero inclini a darsi una mossa: come si evince dai vari diari degli alti dignitari di Heian, la burocrazia dell’epoca era ulteriormente rallentata da un fanatismo nevrotico per il protocollo e dall’assenteismo dilagante.

Sì, perché oltre a tutte le normali pastoie che un sistema burocratico porta con sé, la Corte di Heian era piagata anche da millemila dettami magico-religiosi.

E’ morto qualcuno nella tua famiglia o nei dintorni? Non puoi recarti alla cittadella perché sei impuro.

E’ l’anniversario della morte di un imperatore? Gli affari di stato sono sospesi per scaramanzia.

Non solo: certe direzioni erano considerate nefaste in certi giorni, sicché talora roba importante e urgente (come la nomina dei governatori delle provincie) era rallentata di giorni e settimane perché il Ministro della Destra non poteva andare verso l’ufficio, o perché il Ministro della Sinistra aveva un oroscopo deludente.

Insomma, una qualsiasi decisione del Governo centrale richiedeva tempo, tanto tempo.

Che fare quindi se, ad esempio, nello scorso mese hai perso ogni controllo su un terzo del Paese?

C’erano loopholes grazie a cui la Corte poteva muoversi con un pochettino più di celerità.

Intanto c’era una grande tolleranza per la regola dei “20 uomini”. Nella pratica, se smuovevi 100 uomini per uccidere un ribelle e garantire l’arrivo regolare delle carovane di tributi, eri pressoché impunito.

C’è anche il fatto che in questo periodo è ormai sviluppata la banda di guerra come unità tattica. Questo offre un’interessante zona grigia per quel che riguarda la regola dei 20 uomini. Se ad esempio io mobilito 15 dei miei gregari, sono all’interno della regola. Poi magari ognuno di quei gregari si porta dietro 3 fratelli, 6 cugini e 8 gregari armati. Ma quelli sono i loro uomini, no? E magari ognuno di quegli uomini è accompagnato da altri guerrieri a piedi o a cavallo, e via di questo passo.

Se però il lassismo non dovesse bastare, la Corte disponeva di Ordini di Persecuzione e Cattura, che davano via libera al ricevente di tale documento di mobilitare ogni mezzo disponibile per poter perseguire e catturare (o uccidere) la persona oggetto dell’Ordine stesso.

Chi viene investito di questo Ordine non solo può smuovere ogni mezzo a sua disposizione per eseguirlo, ma può anche esercitare punizioni e ricompense sugli uomini a lui sottoposti e può pretendere appoggio e rifornimenti da parte dei funzionari delle provincie specificate nell’Ordine.

Masakado aveva ricevuto un ordine del genere, ma i funzionari provinciali avevano fatto resistenza passiva e non avevano offerto alcun aiuto (anzi) nella caccia al gaglioffo Sadamori.

A questo giro l’Ordine viene conferito a Sadamori e a Fujiwara Hidesato.

Mentre quindi la Corte prende il tempo di mettere insieme un esercito ufficiale, nella provincia Hidesato riceve la benedizione imperiale per prendersela con Masakado.

Masakado che, pur avendo preso un terzo del paese in meno di niente, non ha avuto il tempo (né probabilmente l’intenzione) di unire i guerrieri locali sotto il proprio controllo o creare una struttura amministrativa alternativa. La propria fama di ottimo guerriero e capo benevolente è l’unica cosa che tiene insieme il suo esercito, composto da un’accozzaglia di bande eterogenee e spesso nemiche tra loro.

E’ il terzo anno dell’era Tengyō (940), la fine del primo mese, che per noi corrisponde agli inizi di marzo. Masakado ha dovuto congedare il grosso del suo esercito (è la stagione dei lavori agricoli) e si è ritirato in Shimōsa, dove si trovano le sue basi, con un migliaio di armati.

Appostati in Shimotsuke, Hidesato e Sadamori decidono di agire: radunano un esercito di 4000 uomini e partono contro il ribelle.

I cerchietti segnano la posizione delle capitali provinciali, ormai disertate dai funzionari salvo scribi, segretari e altri sbalterni

Come accennato a inizio articolo, gli eserciti non compaiono in giro a cazzo di cane, e il primo giorno del secondo mese Masakado viene avvertito che bande nemiche stanno marciando contro di lui. Masakado raduna i suoi e si dirige a sua volta verso Shimotsuke. L’avanguardia del suo esercito viene affidata a due dei suoi capibanda più importanti, tali Tsuneakira e Katsutaka.

Sono questi due matti a incocciare in Hidesato e Sadamori per primi. Dallo Shōmonki:

Qui Tsuneakaira, che si era guadagnato nomea di essere un uomo che da solo ne valeva mille, non deve far altro che osservare i nemici. Ora, senza informare il Nuovo Imperatore [Masakado, sulla diatriba riguardo al “nuovo imperatore”, vedere la settima puntata], avvicina la banda dell’ōryoshi Hidesato e l’attacca. Hidesato, che da lungo tempo ha esperienza della guerra, con facilità sconfigge e incalza l’esercito di Harumochi [Fujiwara Harumochi, alleato e generale in seconda di Masakado]. Il generale in seconda [Harumochi] e i soldati sono presi alla sprovvista dai tre guerrieri [Hidesato, Sadamori e Tamenori] e sono dispersi nella landa nelle quattro direzioni. Coloro che conoscono la via fuggono dritti come frecce scoccate. Coloro che non conoscono la via girano in tondo come ruote di carro. Solo pochi sopravvivono, molti sono quelli che muoiono.

E’ la prima sconfitta che Hidesato infligge a Masakado.

Perché Tsuneakira decide di attaccare senza prima chiedere al suo capo?

Ci sono molti fattori in gioco.

Tanto per cominciare Friday dice che probabilmente la superiorità numerica della gente di Hidesato rispetto all’avanguardia sotto Harumochi non era poi così schiacciante come lo Shōmonki vorrebbe farci credere. Dopotutto Masakado è all’apice del suo potere e, con tutto l’Ordine imperiale, Hidesato non ha ancora provato di essere all’altezza della situazione. Da come la faccenda è presentata nel Fusō ryakki, sembrerebbe in effetti che il grosso della truppaglia di Hidesato fosse composta da gente a piedi, mentre Tsuneakira era alla testa di arcieri pesanti a cavallo. Questo potrebbe avergli dato un’immeritata impressione di superiorità. Il che sarebbe ironico visto che il suo capo Masakado ottenne una delle sue più famose vittorie proprio con l’uso intelligente di arcieri a piedi contro gonzi a cavallo.

Un altro fattore è l’indipendenza di cui godevano i capibanda. Senza telefoni o radio, era impossibile chiedere il parere del capoccia per ogni decisione. La strategia generale e la tattica globale erano decise in anticipo, ma la guerra resta un affare imprevedibile e i capibanda dovevano poter prendere decisioni sul momento per evitare un disastro o sfruttare una ghiotta opportunità.

A difesa di Tsuneakira, se fosse riuscito subito a gettare scompiglio nella banda di Hidesato, avrebbe inflitto un danno di immagine gravissimo al partito lealista.

Purtroppo per lui, Hidesato non era una pera cotta come Sadamori, e il vecchio brigante riempie di legnate Tsuneakira, Harumochi e tutto il resto dell’avanguardia.

Quello che resta della gente di Harumochi ripiega precipitosamente, inseguita da Hidesato.

Verso le tre del pomeriggio, i fuggiaschi riescono a raggiungere il villaggio di Kawaguchi, dove si trova Masakado con il grosso dell’esercito ribelle.

Il più famoso guerriero del Bandō riveste le proprie armi e, sciabola in pugno, cavalca incontro a Hidesato alla testa dei propri uomini.

Il Nuovo Imperatore lancia un grido e tosto va, spada alla mano, si batte di persona. Sadamori leva gli occhi al cielo e dice:

“La banda privata è tale il fulmine sopra le nubi. I soldati del governo sono come gli insetti sul fondo della latrina. Eppure, se io non ho dalla mia parte la legge, il governo ha dalla sua parte il Cielo. I tremila soldati [ai nostri ordini] non saranno codardi, non diserteranno.”

L’esercito di Hidesato ha la superiorità numerica a questo punto, ma Masakado li prende a capocciate nei denti con furia inaspettata. La battaglia dura fino a notte, ed è solo ad altissimo prezzo che Hidesato riesce a prevalere. Al calar del buio, i ribelli si ritirano e i lealisti possono piantare il campo e leccarsi le ferite.

Tira una brutta aria. Quella che doveva essere una vittoria folgorante è stata strappata a stento. Masakado è in ritirata e in svantaggio, ma il suo onore resta intatto. Gli uomini sono stanchi e preoccupati e gli alleati che si sono uniti a Hidesato possono da un momento all’altro mollarlo e cambiar campo.

Hidesato non è felice della situazione. E’ un volpone e un buon tattico, ma non un mago, non può fare miracoli.

-Non preoccuparti.- fa Sadamori.-Sarò una pera cotta sul campo, ma ho un’arma che finora non mi ha mai deluso.

-E sarebbe?

-Le chiacchiere!

Così Sadamori riunisce gli astanti e li alletta con dolci parole [amaki], organizza i ranghi e raddoppia i loro numeri, e il tredicesimo giorno del secondo mese la potente banda giunge al confine di Shimōsa.

Mai sottovalutare il potere delle chiacchiere.

A me Sadamori sta sulle scatole (credo si sia inteso), ma resta un uomo assolutamente interessante. Non è un buon tattico, e nello Shōmonki non ci fa nemmeno una bella figura come essere umano, ma è un uomo intelligente. Non è un buon arciere, le sue armi sono le parole. Con la sola forza del proprio ingegno è riuscito a sopravvivere e restare in cresta in un mondo crudele fatto di violenza e sopraffazione. E’ riuscito a non farsi macinare né da suo cugino (un guerriero mille volte migliore di lui) né dall’indifferente e opportunista Corte di Heian. E ora, là dove l’astuzia e l’abilità bellica di Hidesato non bastano, l’arguzia e le capacità retoriche di Sadamori salvano la spedizione. E’ un momento degno del miglior Martin (vi ricordate quando Game of Thrones era ben scritto e ricco di dialoghi ben costruiti? Sì, lo rimpiango anche io).

Dal canto suo, Masakado decide di aspettare riposato un nemico stanco e costringe Hidesato e Sadamori a inseguirlo nel proprio territorio, mentre lui aspetta accampato sul lago Hiroe, nel distretto di Sashima. Ormai gli resta una banda di appena 400 fedeli. Harumochi e il Principe Okiyo, i suoi alleati più importanti, non compaiono nelle fonti a questo punto. Forse hanno preferito scappare.

E’ una brutta situazione per tutti in realtà: ogni giorno che passa le diserzioni dall’esercito di Masakado aumentano. Allo stesso tempo Sadamori e Hidesato non sono messi molto meglio: l’8 l’esercito ufficiale si è messo in marcia dalla Capitale. Il generale Tadabumi ha ordine di reclutare uomini in diverse provincie. Se Hidesato e Sadamori si fanno sorprendere da Tadabumi, saranno costretti a cedergli i propri uomini e la propria fetta di merito. Non solo: con ogni giorno che passa il rischio di diserzioni aumenta anche per loro! I loro alleati o sottoposti possono decidere di tornare a casa ai loro campi, o unirsi direttamente all’esercito di Tadabumi.

Hidesato ha scommesso tanto sulla testa di Masakado, se Tadabumi gli soffia la gloria non avrà di che ricompensare i propri uomini e la sua carriera di capo guerriero sarà conclusa in un gran mucchio di niente.

Il nostro ha bisogno di provocare uno scontro. Cerca di attirare Masakado in campo aperto appiccando fuoco alle sue residenze.

Funziona: Masakado decide di rischiare il tutto per tutto sulle pendici del monte Kita, nel distretto di Sashima.

In alto a sinistra, il Monte Kita

Il 14 del secondo mese del terzo anno dell’era Tengyō (aprile 940), alle tre del pomeriggio, Masakado viene raggiunto da Hidesato e Sadamori.

E’ piovuto poco, la terra è arida. Il vento soffia forte sulle pendici dell’altura, trascina nugoli di polvere smossa dagli zoccoli dei cavalli, dai sandali dei guerrieri a piedi. Masakado ha scelto di piazzarsi spalle al vento per dare un vantaggio ai propri arcieri, come nella prima battaglia dei Disordini, l’agguato di Nomoto.

Fa piazzare i mantelletti per riparare le sue linee, ma le folate glieli scuotono. Alcuni vengono rovesciati dalla bufera. A sud, gli uomini di Hidesato lottano per piazzare i loro, ma il vento e la polvere rendono l’impresa difficile. L’esercito lealista decide di non accanirsi sulle difese e avanzare verso i ribelli. Dopotutto i nemici sono in terribile svantaggio numerico, cosa può andare storto?

Fedele alla tradizione di pessime scelte tattiche, Sadamori, al comando del corpo centrale, tenta una manovra furba cambiando l’angolo di attacco. Questo crea disordine nella formazione, e Masakado ne approfitta.

Carica a capofitto nel cuore dell’esercito nemico, taglia attraverso la truppa di Sadamori come una palla di cannone. Sadamori cerca di difendersi, ma le sue frecce sono deviate dal vento. 80 dei suoi guerrieri di spicco mordono la polvere in pochissimo tempo, ridotti a puntaspilli dalla banda ribelle. Gli alleati, i soldati provinciali, gli amici del bel tempo e gli avventurieri sono presi dal panico. Davanti alla carica furibonda del più celebre guerriero del Bandō, quasi tremila guerrieri rompono in una fuga a rotta di collo. L’esercito di Sadamori e Hidesato si disintegra.

Hidesato, Sadamori e Tamenori battono in ritirata. Delle migliaia di uomini che si erano uniti a loro dietro lo stendardo imperiale, ne restano solo 300. Il vantaggio numerico è andato, il morale è annientato, Masakado è alle loro calcagna ed ha vinto di nuovo.

Ma in guerra tutto l’ingegno e il valore non valgono quanto una buona botta di culo.

I tre compari raggiungono una posizione dove il vento gira. Ora è Masakado a trovarsi col vento contrario. Hidesato coglie immediatamente l’occasione, l’ultima, e dà battaglia.

La collera del Cielo […] coglie [Masakado] […]. Il Nuovo Imperatore è colpito da una freccia guidata dal Cielo, tale Chiyō che solo crollò al suolo combattendo sul campo di Zhoulu. [Chiyō è un eroe mitico cinese, capo delle Nove Tribù Li, morì combattendo contro Huangdi, l’Imperatore Giallo, nel 2500 a.C., NdTenger].

Una freccia.

Una freccia fortunata che prende il capo nemico in faccia e lo stende secco sul campo di battaglia.

Quando il corpo di Masakado schianta nella polvere, i suoi sono presi dal panico e dalla disperazione, e fuggono. Sul colle polveroso restano poche centinaia di lealisti stremati e il cadavere del più celebre guerriero orientale.

La Storia non si fa coi se e coi ma, e qualsiasi what if è pura speculazione e fantasia. Tuttavia è indubbio che Masakado era a un soffio dal vincere anche quella battaglia, e uno non può che pensare: cosa sarebbe successo in quel caso?

Forse sarebbe riuscito finalmente a uccidere Sadamori, forse no. Di certo Hidesato e Sadamori non sarebbero riusciti a rimettere insieme una banda armata degna di questo nome. Che avrebbe fatto allora Tadabumi, il generale inviato dalla Corte?

Si sarebbe impantanato in una serie di operazioni militari o avrebbe cercato un compromesso?

Per averlo studiato, posso dire con relativa sicurezza che, a mio modesto parere, Masakado non aveva alcuna intenzione di creare un regno indipendente. Masakado, per quel che ho potuto capire, voleva costringere la Corte a reintegrarlo nella società. Voleva essere lasciato in pace coi suoi cavalli, i suoi gregari e la sua famiglia.

Forse avrebbe trattato con Tadabumi, forse no. Quel che è certo è che la Storia avrebbe avuto un decorso molto diverso se Masakado avesse vinto.

E’ impressionante pensare che, in quell’istante, il futuro dell’Impero fosse legato a una sola freccia, a un solo tiro di un solo arciere.

Quale arciere?

Non lo sapremo mai.

La testa del Nuovo Imperatore fu spedita alla Capitale il 25 del quarto mese (probabilmente conservata nel sale). 197 alleati di Masakado morirono sulle pendici del Monte Kita. I vincitori recuperarono dal campo di battaglia 300 mantelletti, 199 faretre, 51 sciabole e dei “documenti di tradimento” di misteriosa natura.

La testa di Masakado esposta alla folla

Nel decreto di Persecuzione e Cattura contro Masakado l’Imperatore aveva offerto l’immunità ai ribelli che si sarebbero arresi senza combattere, e in diversi lo fecero. Quanto ai capi della rivolta (Harumochi, il principe Okiyo, i fratelli di Masakado), furono uccisi alla spicciolata nei mesi che seguirono.

E’ la fine della rivolta, è il tempo dei castighi e delle ricompense.

I tre a ricevere maggiore beneficio furono Fujiwara Hidesato, Taira Sadamori e Minamoto Tsunemoto (il primo a dare l’allarme sulla ribellione).

Minamoto Tsunemoto fu promosso al quinto rango inferiore minore, entrando così a far parte della chiusissima casta dell’alta aristocrazia. Fu nominato keigoshi (ufficiale di persecuzione e cattura nelle regioni occidentali) e poi aggiunto minore del Governo Militare di Kyūshū. Poco tempo dopo, fu uno degli ufficiali che servirono sotto Ono no Yoshifuru nella repressione della rivolta del pirata Sumitomo. Fu lui a inaugurare una tradizione militare che doveva contraddistinguere la famiglia: Tsunemoto è l’antenato dei Seiwa-Genji, il ramo principale coinvolto nella Guerra di Genpei e che produsse il primo grande shōgun Minamoto Yoritomo.

Taira Sadamori era stato quello che più aveva sofferto della guerra. Suo padre era stato ucciso, sua moglie brutalizzata, le sue basi messe a ferro e fuoco, i suoi contadini sterminati, i suoi gregari decimati. Come compensazione ricevette il quinto rango superiore maggiore e fu nominato vicedirettore dell’Ufficio dei Cavalli. Qualche anno dopo fu nominato chinjufu shōgun nell’Est e, in vecchiaia, governatore di Tanba e Mutsu. Da lui discendono due lignaggi illustri:

  • gli Hōjō, tra cui Hōjō Masako, moglie di Yoritomo e una delle personalità politiche più importanti della Storia del Giappone

  • i Taira di Ise, ovvero il ramo di Taira no Kiyomori in persona, il Religioso Ministro che portò per la prima volta i guerrieri all’apice della gerarchia di Corte.

Ad ultimo, Fujiwara Hidesato è quello che raccolse i premi più gustosi, un po’ perché si era dimostrato il guerriero migliore e un po’ perché era un delinquente pericoloso ed era bene tenerselo buono. Il nostro fu elevato da bandito dell’est a niente meno che quarto rango di corte, con allegato un bel pacchetto di terre “ereditabili per sempre”. Divenne poi governatore di Shimōsa. La sua stirpe di pendagli da forca rimase radicata nel Bandō, e a sua volta risalta fuori nella Guerra di Genpei.

In altre parole, ritroviamo nei Disordini di Jōhei e Tengyō non solo il primo grande esempio di ribellione orientale, ma le origini dei 2 lignaggi guerrieri più importanti della Storia Giapponese. La Guerra di Genpei, su cui abbiamo una serie ongoing, fu una rivoluzione, un cambiamento epocale che trasformò profondamente e per sempre il Giappone, la sua cultura, la sua Storia, la sua struttura più profonda. La Guerra di Genpei è ciò che catapulta il Paese sotto il “Governo della tenda” dopo sei secoli continui di dominio incontrastato dell’aristocrazia civile.

E questo evento epocale ha origine sulle pendici del Monte Kita, sulle sponde del lago Hiroe, sulle rive del Mare Katori. La Rivolta di Masakado è la fornace in cui i Taira e i Minamoto furono forgiati.

Epilogo: l’immortalità dei perdenti

Forse l’eredità più duratura fu lasciata da Masakado stesso.

Dopo che la sua testa arrivò alla Capitale Heian (odierna Kyoto) fu esposta (primo caso documentato di esposizione di teste, a chiosa).

Stando a una leggenda, gli abitanti del quartiere furono colpiti da una serie di terribili sventure, presto attribuite allo spettro irato di Masakado. Per cercare di calmarlo, il ribelle fu elevato a divinità col nome di Kanda Myōjin. Kūya stesso, un celebre monaco del X° secolo, avrebbe eretto una stele a memoria del guerriero sconfitto. La nicchia in questione è ancora visibile.

Secondo un’altra leggenda narrata nel Zen-Taiheiki, la testa era stata appesa ai rami di un albero a un incrocio di Kyoto. I giorni passavano, ma la testa non si decomponeva: lo spirito irato del guerriero non poteva abbandonarla. I suoi occhi erano aperti, i suoi denti digrignati, e la notte la si poteva sentir ringhiare: “dove sono le mie membra, dov’è il mio corpo? Che mi raggiungano, per continuare a combattere!”

Un giorno la testa si scosse dall’albero e volò verso i resti del proprio corpo, abbandonato nell’Est, schiantandosi sul bordo di una risaia nel villaggio orientale di Shibazaki, che è oggi il quartiere di Ōtemachi in Tokyo. Terrorizzati, gli abitanti del luogo gli costruirono un cenotafio e fecero di Masakado il loro nuovo “dio delle risaie” (Kanda Myōjin).

Nel 1307 il monaco Shinkei avrebbe costruito un tumulo per la testa di Masakado, per proteggere gli abitanti della zona dalla vendetta dello spettro.

Masakado/Kanda continuò a essere trattato con riguardo, tanto che nel 1603 Tokugawa Ieyasu in persona fece spostare il santuario presso al castello di Edo per ottenere la protezione del terribile spettro. Ieyasu era un uomo di rara intelligenza e si guardò dal toccare il tumulo della testa, che restò ad Ōtemachi.

Nel 1923 degli archeologi ritrovarono il tumulo, con al suo interno una camera funeraria vuota.

Stiamo parlando del Giappone Moderno, il Giappone Potenza Mondiale, libero da superstizioni e arcaismi ridicoli. Il primo ministro dell’epoca autorizzò la distruzione del tumulo: al suo posto sorse il Ministero delle Finanze.

Nei due anni che seguirono il ministro delle finanze e 14 impiegati morirono di subitanee e strane malattie o in incidenti bizzarri. Decine di altri impiegati finirono feriti o si ammalarono.

Lo spettro di Masakado era tornato.

Guerrieri combattono contro Masakado e il suo esercito di spettri, dal pennello di Yoshikazu (attivo tra il 1850 e il 1870)

In realtà il tumulo distrutto era una tomba del 7° secolo che nulla aveva a che fare col noto guerriero, ma non ha importanza, perché la leggenda del Nuovo Imperatore era riaffiorata nella memoria degli abitanti di Tokyo.

I fantasmi non sono cose che esistono a prescindere, sono creati dai vivi. La cosa bella dei fantasmi è che, una volta che i vivi li hanno evocati, esistono. No, non ci sono anime con le catene che vanno in giro. Ma c’è il pensiero fisso, il timore, l’ossessione paranoica, il senso di colpa e vulnerabilità che avvelenano ogni ora della giornata. Di fatto, l’effetto degli spettri è reale, ed era molto reale per gli impiegati del ministero delle finanze di Tokyo.

La situazione divenne talmente drammatica che il governo decise di trasferire il ministero nel 1927, ricostruire il tumulo e fare una grande cerimonia per calmare lo spirito.

Sì, sul serio.

Nel 1927.

E non è finita.

Nel 1940 una folgore colpì il nuovo ministero delle finanze, bruciando quello e altri 9 ministeri adiacenti.

1940, ovvero 1000 anni esatti dalla morte di Masakado.

A quanto pare il Nuovo Imperatore non era ancora contento. Una nuova cerimonia fu eseguita per cercare di calmarlo, ma Masakado non è un uomo, Masakado è lo spettro che si annida nella cuore di un Paese in guerra.

Nel 1945 Tokyo fu bombardata, ma il tumulo di Masakado rimase intatto, un monumento beffardo ritto nelle rovine fumanti dell’Impero del Giappone.

Gli americani si installarono nel quartiere e decisero di spianare tutto per farci un bel parcheggio.

Di certo uno spettro del lontano passato giapponese non può tener testa al moderno bulldozer di un calvinista occidentale, giusto?

Sbagliato.

Il bulldozer urtò il tumulo e si rovesciò, uccidendo il conducente sul colpo.

Pensa te l’ironia: sei sopravvissuto alla guerra, sei nell’esercito d’occupazione di un paese che odi, e proprio quando stai per goderti un po’ di sana demolizione vieni assassinato dal fantasma di un guerriero morto più di mille anni prima.

I residenti spiegarono della leggenda e della maledizione di Masakado agli americani, che decisero che erano tutte cazzate superstiziose ma che ad ogni buon conto non valeva la pena verificare. Il monumento è sempre lì.

I’M STILL HERE BITCHES!

Sono andata a trovare Masakado due volte durante il mio soggiorno a Tokyo, con un mazzo di fiori. Entrambe le volte ho dovuto aspettare il mio turno, perché la fila dei fedeli con offerte è sempre lì.

Tutto intorno si costruisce, ma la stele non sarà toccata: è un cubo alberato nel mezzo dei cantieri

Tutto attorno sorgono grattacieli di grandi firme, e i loro impiegati sono tenuti a presentare doni a Masakado ogni tanto, per evitare di attirare la vendetta dello spettro sull’azienda. Chi non lo fa rischia di essere additato o mutato in capro espiatorio se gli affari vanno male. Quindi, in modo tipicamente giapponese, nessuno ammette di crederci davvero, ma tutti continuano a tenersi buono l’iroso guerriero che non si sa mai.

Trovarmi davanti al suo cenotafio mi ha fatto un grande effetto.

Ho studiato a lungo la vita di Masakado, al punto che ho quasi l’impressione di conoscerlo. Negli anni dei miei studi mi sono trovata davanti a ostacoli molto tosti. Poter portare dei fuori al monumento del ribelle è stato un traguardo.

Mi dispiace che sia morto in quel modo. I personaggi storici sono sempre così lontani per noi che talvolta ci appaiono come personaggi inventati, protagonisti di favole. Ma erano esseri umani, volevano bene e odiavano, temevano e speravano, prevaricavano e cercavano di sopravvivere.

Se solo Masakado potesse vedere, dopo mille anni e più, la fila di gente che continua a rendergli omaggio…

Chissà se questo lo avrebbe consolato. Non posso saperlo perché alla fine è impossibile conoscere davvero i morti (o i vivi, se è per questo).

Ma mi fa piacere aver visitato il monumento, e mi fa piacere vedere i grandi capitalisti che continuano a portare doni a Taira Masakado, il Nuovo Imperatore, la cui memoria continua a infestare la vita dei vivi con molto più vigore della memoria di mille imperatori legittimi prima e dopo di lui.

E’ ironico e un po’ tragico: un uomo che voleva solo vivere in pace è diventato un Immortale suo malgrado.

MUSICA!


Puntate precedenti

Prima puntata

Seconda puntata

Terza puntata

Quarta puntata

Quinta puntata

Interludio

Sesta puntata

Settima puntata

Ottava puntata


Approfondimenti

Il pirata Sumitomo

Breve storia del sistema militare giapponese, dalle origini a Masakado

La banda di guerra


Bibliografia

YANASE Kiyoshi, YASHIRO Kazuo, MATSUBAYASHI Yasuaki, SHIDA Itaru, INUI Yoshihira,Shōmonki, Mutsu waki, Hōgen monogatari, Heiji monogatari, Shōgakukan, Tōkyō, 2002, p.7-130

FUJIWARA Tadahira, Teishin kōki (Notes journalières de l’ère Teishin), Iwanami shōten, Tōkyō, 1956

KAWAJIRI Akio, Shōmonki wo yomu (Lire le Shōmonki), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2009

KAWAJIRI Akio, Taira Masakado no ran (La révolte de Taira Masakado), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2007

KAWAJIRI Akio, Yuregoku kizoku shakai (Une société aristocratique tremblante), Shōgakukan, Tōkyō, 2008; L’ère des zuryō

KITAYAMA Shigeo, Ōchi seiji shiron (Essai historique sur la politique de la Cour), Iwanami shōten, Tōkyō, 1970

In lingua occidentale

HERAIL Francine, La Cour et l’administration du Japon à l’époque de Heian, Genève, DROZ, 2006

HERAIL Francine, La Cour du Japon à l’époque de Heian, Hacette, Paris, 1995

HERAIL Francine, Gouverneurs de provinces et guerriers dans Les Histoire qui sont maintenant du passé, Institut des Hautes Etudes Japonaises, Paris, 2004

HERAIL, Francine, Aide-mémoire pour servir à l’étude de l’Histoire du Japon des origines à 1854, lieu de publication inconnu, date de publication inconnue

HALL John Whitney , Government and Local Power in Japan, 500 to 1700, Center for Japanese Studies Univesity of Michigan, 1999,

RABINOVITCH Judith N., Shōmonki, The story of Masakado’s Rebellion, Tōkyō, Monumenta Nipponica, Sophia University, 1986

PIGGOT Joan R., YOSHIDA Sanae, Teishin kōki, what did a Heian Regent do?, East Asia Program, Cornell University, Itacha, New York, 2008

FRIDAY Karl, Hired swords, Stanford University press, Stanford, 1992

FRIDAY Karl, The first samurai, John Wiley & Sons, Hoboken, 2008

FRIDAY Karl, Samurai, warfare and the state, Routledge, New York, 2004

FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Harvard University Press, Cambridge

BRYANT Anthony et MCBRIDE Angus, Early samurai, AD200-1500, n.35, Osprey publishing, Oxford, 1991

PIGEOT Jacqueline, Femmes galantes et femmes artistes dans le Japon ancien, Gallimard, 2003, Paris

FAURE Eric, Histoires japonaises de moines, de maîtres du Yin-Yang et de guerriers, L’Harmattan, Paris, 2003