Vite anonime di gente interessante: il sito di Vagnari, centro industriale della Puglia Imperiale

6 gennaio 2021.

Tenger è alla dacia di famiglia. Non c’è riscaldamento, sul tavolo il lavoro di ammucchia, fuori c’è mezzo metro di neve, negli Stati Uniti il Re dei Furries ha espugnato il Campidoglio.

Mi sento un po’ eroina russa, un po’ sentinella alla Fortezza Bastiani

Volevo cominciare questo anno con qualcosa di stimolante, ma visto come abbiamo ingranato ho optato per qualcosa di assolutamente rilassato e privo di implicazioni politiche. C’è tempo per la polemica e tempo per la distrazione, no?

Oggi andiamo in Puglia, nella Valle del Basentello, e parliamo di cose strane e interessanti!

Il posto

Il Basentello è un fiume che segna il confine tra Potenza e Bari. Nel 2000 Alastair Small, archeologo dell’università di Edinburgo, sta conducendo una survey nella zona e individua un sito di possibile interesse a Vagnari, comune di Gravina, provincia di Bari. Il posto si trova nei pressi del tracciato della via Appia.

Lo stesso anno un cantiere viene organizzato in collaborazione con le università di Bari, Edinburgo, McMaster, Foggia e Glasgow.

Presto viene individuata un’area di circa 3,5 ha, tagliata da est a ovest da un calanco. Sulla parte Nord si trovano tracce di un villaggio del I°-IV° secolo d. C., mentre sulla parte sud si stende il cimitero. Nei paraggi, nel sito di San Felice, salta fuori una magione di lusso, molto probabilmente la residenza del dirigente incaricato di gestire il vicus di Vagnari. D’acchito, l’intera faccenda promette bene: gli archeologi hanno scovato quello che ha tutta l’aria di essere un centro agricolo e industriale.

Tra le prime cose a essere individuate nella parte abitata, un mulino e quella che sembra essere una forgia. Nel cimitero invece, sotto uno strato di terra agricola, emergono numerose tombe “alla cappuccina”, tipiche per gli individui di estrazione modesta.

Vagnari è una trovaglia particolarmente interessante, perché le fonti scritte offrono davvero pochi dettagli sulla vita quotidiana della regione in questo periodo, e quei pochi dettagli tratteggiano una zona poco sviluppata e popolata. Ad esempio, Seneca cita la Puglia nell’epistola 87, parlandone come di una zona con poca gente e vasti latifondi.

Vagnari per contro è un villaggio popoloso, con una manifattura specializzata. Gli scavi sono l’inizio di una lunga ricerca che permetterà di avere uno sguardo più preciso sulla storia della regione, e che regalerà anche un paio di interessanti sorprese!

Il vicus

Come abbiamo accennato, il vicus di Vagnari era vicino alla via Appia. Nonostante questa sia stata una delle arterie principali nel periodo tardoantico, in epoca imperiale stava perdendo relativamente di importanza rispetto alla via Traiana. Secondo Small, questo fattore incoraggiò lo sviluppo di comunità cerealicole nella zona: nel primo e medio periodo imperiale, notiamo un moltiplicarsi dei siti, in particolare di piccole fattorie, che prima erano in declino. I vici del periodo non vivevano in autarchia, ma in una rete di scambi e contatti con gli altri centri della regione e del paese.

Nella parte nord del sito è emerso un insediamento databile al periodo tardo-repubblicano. Il villaggio declina bruscamente con la fine della Repubblica, ma rifiorisce alcune decadi dopo, con un picco di costruzioni intorno al I° secolo d. C.

Sul limite settentrionale è stato ritrovato un edificio imponente, in pietra. A sud di questo, una seconda costruzione per la lavorazione di metalli, attiva probabilmente durante il III° secolo. Altri indizi suggeriscono la lavorazione di cereali e la fabbricazione di tegole.

Insomma, si delinea come quello che doveva essere un centro industriale piuttosto importante in questa zona.

Secondo Carroll Maureen, in questo periodo l’Imperatore acquistò numerosi terreni nella regione. E’ possibile che Vagnari sia un’azienda di proprietà del sovrano.

Nel rapporto del 2015 Christopher Smith afferma che il posto pare lavorare diversi tipi di materiali, con una specializzazione nel lavoro del piombo. Sono stati estratti circa un centinaio di oggetti in piombo, tra cui pesetti a forma di conchiglia, placche rettangolari, frammenti.

L’industria del piombo è notoriamente tossica, e gli abitanti di Vagnari pativano senza dubbio dell’inquinamento che ne derivava.

Non bisogna però immaginarsi Vagnari come un posto miserabile, al contrario: frammenti di pannelli di marmo e altri segni di lusso indicano che gli edifici erano tutt’altro che tuguri di disperati. Nel corso del I° secolo il centro sembra crescere e le attività aumentare, al punto che viene perfino costruita una cella vinaria completa di dolia importati da Roma.

Dolium

Vagnari era anche un centro agricolo, dove si allevavano maiali, capre e pecore, e dove si coltivavano cereali: sono state trovate trace di grano duro, avena, avena selvatica, orzo e monococco. Questi cereali venivano stacciati, e la pula è stata ritrovata mischiata all’argilla che riveste le pareti interne dell’edificio settentrionale.

L’insediamento entra in crisi col finire del III° secolo. I segni di attività diminuiscono e gli edifici come la cava vinaria vengono abbandonati e gradualmente smantellati per recuperare i materiali.

La zona resterà comunque abitata anche dopo il collasso dell’Impero, ma il villaggio sarà trasferito sulla parte meridionale, dove i Vagnaresi continueranno a vivere e lavorare fino al VII° secolo.

La necropoli

Il cimitero è la parte più interessante della faccenda, perché a noi della Fortezza pacciono le cose morbose!

Cominciamo col dire che non saltano fuori epitaffi, quindi i morti di Vagnari restano anonimi. A fine 2012 lo scavo della necropoli copre un’area di 30m x 15m, ma la superficie totale è stimata a circa 2.100 metri quadrati.

Sono emerse un centinaio di tombe, suddivisibili in 4 tipi:

  • Inumazione semplice
  • Inumazione alla cappuccina
  • Tombe dotate di un canale per libazioni
  • Cremazioni

Non c’è bisogno di spiegare l’inumazione semplice: fai un buco, ci tiri il cadavere, copri il buco. Solo 8 sono inumazioni semplici.

La tomba “alla cappuccina” significa una fossa non troppo profonda dove il morto viene steso col proprio corredo funerario (se ne ha), coperto di tegole piatte (tegulae) a formare un V rovesciato, e sepolto. Esistono molte varianti sul tema: a volte il morto è steso direttamente in terra, a volte su uno strato di tegole; a volte ha delle tegole semi-cilindriche (imbrex) a mo’ di “colmo” sopra quelle piatte; a volte ha un imbrex sotto la nuca a mo’ di cuscino, ecc.

La stragrande maggioranza delle tombe sono “alla cappuccina”.

Le tombe con canale per libazioni sono simili a quelle “alla cappuccina”, ma in più hanno una sorta di canala che affiora dalla terra, talvolta realizzata con due imbrex. Questa “condotta” tra il morto e il mondo dei vivi permetteva di fare offerte e libazioni.

Le tombe con un morto cremato sono solo 2, risalenti al II° secolo, e in una le ceneri sono state poi coperte “alla cappuccina”. In effetti, col periodo imperiale si comincia a privilegiare l’inumazione, almeno in certe parti della penisola. Le tombe con morti cremati sono l’eccezione e hanno un corredo funebre più ricco della media, il che lascia supporre che gli individui inceneriti fossero di uno status sociale più alto degli altri.

Nell’insieme, le tombe di Vagnari sono modeste.

Solo 9 tombe non presentano nessun oggetto funerario.

Scordatevi però i sontuosi tesori dei giganteschi tumuli coreani: l’oggetto più comune ritrovato a Vagnari è l’umile e proletario vaso di terracotta, solitamente rotto prima dell’inumazione (la rottura del vaso prima della deposizione è ricorrente nella pratica funeraria romana). Nel 91% dei casi è l’unico tipo di bene funerario rinvenuto.

Tuttavia non abbiamo trovato solo quello: già dai primi scavi saltano fuori pezzi di ceramica sigillata, e più in particolare ARS (African Red Slip), prodotta per lo più nel nordafrica e molto apprezzata. Emergono anche lampade e frammenti di contenitori in vetro, monete, perfino alcuni contenitori in bronzo.

La concentrazione e la qualità degli oggetti è più alta rispetto ad altri cimiteri rurali dello stesso periodo, il che suggerisce da subito che la gente di Vagnari viveva un’esistenza modesta, fatta di duro lavoro, ma non miserabile.

In diverse tombe, peraltro, troviamo un chiodo, dritto o piegato, spesso associato a un vaso. Anche questa non è una novità nella pratica funeraria del periodo: il chiodo aveva senza dubbio una funzione magica, o come talismano o per tenere “inchiodate” sottoterra forze maligne. Il chiodo magico anti-fantasma è stato trovato in 43 delle 98 tombe studiate finora. In 35 di questi casi, era associato a un vaso.

Toynbee parla di questa pratica nel suo libro del 1971, Death and burial in the Roman World. Non l’ho consultato per questo articolo perché le biblioteche sono oltre i passi innevati e su Amazon costa un po’ caruccio, quindi sarà per il prossimo Natale.

In molti casi, il chiodo e il vaso sono accompagnati da una lampada: su 30 delle tombe indisturbate e contenenti un chiodo, 26 avevano anche lampade, il che lascia presupporre che la lampada, il chiodo e il vaso giocassero un ruolo magico sinergico nel separare il morto dai vivi e guidarlo nel suo percorso.

Scavo nella necropoli

Gli oggetti erano do solito deposti accanto ai piedi, le gambe o le mani del morto, raramente vicino alla testa. Questo è particolarmente vero per le lampade, solitamente posate accanto ai piedi, che erano probabilmente deposte accese e poi coperte con le tegole, allo scopo di rischiarare il percorso del defunto.

Monili modesti come collanine, anelli in bronzo, o perfino un paio di piccoli orecchini in oro, sono pure stati ritrovati. Dalla posizione, è probabile che il morto li indossasse al momento di essere seppellito. I defunti venivano quindi adornati prima di essere consegnati all’Oltretomba.

In alcuni casi il morto era accompagnato da utensili, senza dubbio i suoi strumenti di lavoro in vita.

In “Burial practices and patterns of distribution in the Vagnari cemetary”, Brent e Prowse notano che, generalizzando, gli infanti (0-6 anni) hanno meno doni funerari. I defunti di più di trent’anni hanno di media 5,6 oggetti, i giovani tra i 15 e i 30 ne hanno di media 6, mentre i pargoli di meno di 1 anno ne hanno di media 2,5.

E’ probabile che gli oggetti scelti per costituire il corredo fossero rappresentativi del ruolo, mestiere o posizione sociale della persona, tutte cose che un bambino non ha avuto il tempo di ottenere. Ad ogni modo anche i bimbi lattonzoli portano con loro collanine o spille, traccia dell’affetto, la cura e il dolore dei genitori di Vagnari.

Per quanto riguarda gli adulti, c’è una leggera differenza tra i sessi: le tombe maschili contengono una media di 6,1 oggetti, le tombe femminili una media di 5,4. Le donne sembrano quindi avere avuto un ruolo subalterno (SORPRESA!), ma non drammaticamente inferiore agli uomini.

Ovvio, non possiamo avere la certezza che lo status in morte sia davvero corrispondente allo status in vita.

Ci sono differenze secondo i sessi anche nella qualità degli oggetti trovati: alcuni oggetti, come monete o contenitori in vetro, si ritrovano in modo abbastanza uniforme nelle tombe, mentre 12 tombe maschili e solo 5 tombe femminili contenevano resti di scarpe. Di nuovo, constatiamo una probabile differenza nel rituale per uomini e donne.

Altri oggetti, come i braccialetti, si trovano solo nelle tombe di individui al di sopra di una certa età, il che mostra un cambiamento di status sociale legato all’età.

Sono saltati fuori anche dei contenitori in bronzo, ma solo in 6 tombe, all’occorrenza 6 delle tombe più ricche, con un bottino funebre di 15,3 oggetti di media! Di questi sei pezzi grossi, 4 erano maschi, 1 era femmina, e 1 un mucchietto di cenere.

Brent e Prowse notano che in altri cimiteri dello stesso periodo, come quello di Musarna vicino a Viterbo, uomini e donne hanno un corredo funebre abbastanza equivalente. Queste 6 tombe suggeriscono che a Vagnari, all’interno della comunità operaia e contadina, c’erano degli strati sociali distinti, e che questo status relativamente elevato rispetto agli altri abitanti era per lo più occupato da uomini.

Esempio di ceramica sigillata

Le ceramiche estratte dal cimitero hanno depositi notevoli di sali di calcio rispetto a quelli estratti fuori dal cimitero, il che lascia supporre a Small che la sepoltura includesse l’uso di calce viva, per accelerare la decomposizione.

Della serie “parti coi nostri regali, ma parti alla svelta!”.

Sometimes dead is better!

Prowse ha analizzato gli scheletri e determinato segni di usura interpretabili come danni inflitti dal lavoro pesante. Gli scheletri dei subadulti mostrano spesso lesioni al cranio di solito causate da mancanza di ferro, che può essere provocata da una malattia o da una dieta sbagliata. Infine, nonostante i denti siano mediamente in condizioni relativamente buone, Prowse rileva una ricorrente usura degli incisivi. Ciò può significare in alcuni casi che i denti erano usati come strumento per tagliare/spezzare qualcosa, o più in generale che il cibo consumato era particolarmente tosto.

Insomma, a Vagnari si mangiava il pane da battaglia dei nani!

Antica specialità pugliese, Pane da Battaglia nanico

Più precisamente però: che tipo di gente abitava a Vagnari?

E’ qui che il sito ci riserva una sorpresa, ma una cosa alla volta!

Prowse nota che l’area di Vagnari era densamente popolate nel IV° secolo a. C., ma che la densità di popolazione declina tra il III° e il II° secolo a. C. In questo periodo troviamo solo un piccolo insediamento nella porzione nord del sito.

Come abbiamo visto, questo cambia in periodo imperiale, ma chi abitava e lavorava in questo centro agricolo e industriale?

L’unico documento scritto ritrovato è costituito da una tegola databile tra il 50 a. C. e il 50 d. C., su cui è stampigliato “ GRA[ti]…/CAES[aris]”, ovvero “Gratus, schiavo di Cesare”, il che supporta l’ipotesi che Vagnari fosse una tenuta di proprietà dell’Imperatore.

Bisogna però sottolineare che questa tegola è stata trovata vicino a un forno e non nella necropoli. Quindi non sappiamo se il buon Grato viveva e lavorava a Vagnari o se risiedeva altrove: dopotuto Vagnari produceva tegole, magari forniva tegole funerarie ai centri vicini. In effetti nella necropoli non sono saltate fuori tegole stampigliate.

L’ipotesi di una tenuta imperiale resta però valida: è possibile che il vicus fosse quindi popolato da schiavi, liberti e operai liberi che abitavano, lavoravano e morivano in situ.

Il punto è: ci nascevano pure?

Per rispondere a questa domanda Prowse ha usato due metodi:

L’analisi degli isotopi stabili: varianti di elementi (come carbonio, azoto o ossigeno) che vengono incorporati nei tessuti durante la vita e che non decadono dopo la morte. A seconda dell’elemento, quest’analisi può fornire indicazioni sulla dieta dell’individuo, o sulla sua provenienza geografica (in particolare determinando l’acqua che ha bevuto durante l’infanzia). Questi dati possono essere estratti dalle ossa o dai denti.

Un altro dato utile è il DNA mitocondriale (mtDNA), che sopravvive alla decomposizione ed è trasmesso per linea matrilineare.

Esistono delle variabili individuali di mtDNA, e quando determinate variabili sono presenti in determinate combinazioni, è possibile individuare degli aplogruppi. In pratica, questo permette di tracciare, attraverso il mtDNA, l’origine geografica del lignaggio materno della persona.

Stando a Prowse, la maggioranza degli individui di Vagnari appartengono agli aplogruppi H, J K e T, ovvero l’Eurasia occidentale. In altre parole, la maggioranza della gente era di varie origini, ma tutte definibili come “europee”. Alcuni dei gli abitanti condividono lo stesso aplogruppo, ergo il loro lignaggio è originario della stessa regione, ma non condividono lo stesso aplotipo, ovvero non sono imparentati per parte di madre!

Quella di Vagnari appare quindi come una comunità composta da gente di origini diverse. Quando analizziamo il mtDNa di scheletri sepolti vicini (clusters), notiamo che non solo non sono parenti per parte di madre, ma che talvolta non appartengono nemmeno allo stesso aplogruppo. Le origini materne non sembrano quindi giocare un ruolo determinante nella costruzione dell’identità dell’individuo in morte.

Per quanto riguarda l’analisi degli isotopi, indicano che la maggioranza degli abitanti, pur avendo ascendenze etniche variabili per parte di madre, è nata è cresciuta a Vagnari o nelle colline circostanti. Se vogliamo paragonare a un altra necropoli dello stesso periodo, Isola Sacra, 1/3 dei “residenti” era forestiera (non si sa bene da dove provenisse), ed è arrivata nella zona di Isola Sacra nell’infanzia.

Anche a Vagnari possiamo determinare che alcuni degli abitanti sono arrivati da bambini. Le fonti spesso parlano di migrazioni e spostamenti di uomini adulti, ma è chiaro che donne e bambini si spostavano (o erano spostati).

Ad ogni modo, circa 25% dei residenti non erano né di Vagnari né dei dintorni, ma venivano da altre regioni dell’Impero.

3 individui, 2 uomini e una donna, venivano da zone più distanti, probabilmente altre regioni affacciate sul Mediterraneo.

Infine, tra i vari aplogruppi esumati, troviamo 2 individui particolari.

Un uomo apparteneva all’aplogruppo L, ovvero la sua linea materna risaliva alla regione subsahariana. E’ stato peraltro possibile determinare che il signore non è nato e cresciuto a Vagnari né nei dintorni, ma che proveniva probabilmente da un’altra zona del Mediterraneo, forse il Nord Africa. Quest’uomo è stato seppellito accanto a un uomo e una ragazza di aplogruppo europeo e di origine locale, indicando che provenienza ed etnia non erano fattori rilevanti in questo contesto.

Ciò non è molto strano, visto che ci sono stati per secoli frequenti traffici tra Roma e varie regioni Africane (checché ne dicano quegli scoppiati degli identitari). E’ però indicativo della varietà di backround che accomunava gli abitanti di questo villaggio dell’entroterra pugliese.

Infine un’altra sepoltura presenta caratteristiche ben più bizzarre.

Si tratta della sepoltura F37. La donna appartiene all’aplogruppo D.

Ovvero l’aplogruppo dell’Asia Orientale.

F37, una donna adulta, è l’unico esempio conosciuto a oggi di individuo appartenente all’aplogruppo D e ritrovato sul territorio italiano per questo periodo.

Purtroppo non è stato possibile eseguire l’analisi degli isotopi, e non possiamo quindi sapere se F37 è arrivata dalla lontanissima Asia Orientale, o se la migrante era sua madre, sua nonna, sua bisnonna, ecc. Considerato il suo aplotipo,è stato possibile verificare cinque match compatibili, tutti e cinque in Giappone.

Questo ovviamente non significa che F37 fosse Giapponese: come accennato in questo articolo l’etnogenesi dei giapponesi è molto più complicata e variegata di quanto possa parere. Dopotutto l’aplogruppo ingloba tutta la regione. Ma è possibile che le origini di F37 siano da ricercare nelle popolazioni coreane o Malgal.

Sappiamo che aveva probabilmente 45-49 anni, che il suo scheletro mostra leggeri danni alle articolazioni degli arti inferiori e che aveva la scoliosi (come yours truly, yeeeee!). E’ vissuta tra il II° e il III° secolo. Il suo scheletro è relativamente ben conservato. E’ sepolta in una tomba “alla cappuccina” rinforzata da pietre e con un colmo di imbrex a coronare le tegulae. Il corpo non è deposto direttamente a terra, ma su tre tegulae piatte, una delle quali è stata piazzata ad un angolo deliberato. Le tre tegulae su cui è stesa F37 sono decorate: le due alle estremità con archi impressi con le dita, una con una linea ondulata.

Gli oggetti funerari sono stati deposti vicino ai suoi piedi: una ceramica africana a bordo annerito, rotta, e il fatidico chiodo magico.

La tomba di F37 non è delle più ricche, né delle più povere. E’ una sepoltura curata ma modesta, per una donna che svolse un lavoro pesante e che, chissà, magari nemmeno sapeva delle proprie remote origini. E’ sepolta con gli altri e come gli altri: la sua etnia era esotica, il suo status sociale a Vagnari sembra essere stato lo stesso delle altre donne.

Il mistero delle origini di F37 è complicato dal fatto che Roma non aveva rapporti diretti con la Cina, men che meno con Corea e Giappone.

Troviamo menzione della Cina (nota come Seres) negli scritti di Pausania.

Pausania visse tra il 120 e il 180 d. C., quindi allo stesso tempo di F37. Parla della Cina come di un paese estremamente remoto e lo nomina nel contesto della produzione della seta: secondo Pausania il nome di Seres viene dal baco da seta, in greco ser. Si tratta secondo lui di un coleottero che i nativi allevano per 4 anni prima di farlo crepare di indigestione. Il bacarozzo si ingozza tanto che letteralmente scoppia, rivelando una pancia piena di filo di seta.

Dopo questa perla di entomologia, Pausania indica che Seres è un’isola del Mar Rosso, o di un fiume chiamato pure Ser, e che gli abitanti sono tutti Etiopi, o di una razza imbastardita frutto di un miscuglio di Sciti e Indiani.

Insomma, ci siamo capiti: i romani non avevano la più pallida idea di come si allevava il baco da seta, di dove si trovasse la Cina, o di che faccia avessero i cinesi. Sapevano però dell’esistenza di un grosso stato a oriente.

Conoscevano la seta da secoli: già dal V° secolo a. C. Cos produceva un tipo di seta a base di bozzoli sfarfallati. Cruelty free!

A partire dal I° secolo a. C. però, Roma favorì la seta cinese, importata attraverso l’India e l’Asia Centrale. La Cina, origine del prodotto, restava un posto misterioso e irraggiungibile.

I cinesi per contro hanno una mezza idea dell’esistenza di Roma. Dopotutto nel II° secolo d. C. sono riusciti a sconfiggere i ferocissimi Xiongnu e si sono allungati a ovest includendo nel loro sistema tributario il bacino del Tarim. Per intendersi, le propaggini occidentali di questa zona toccano i confini orientali di quelli che sono oggi Kirgyzistan e Tajikistan. La loro influenza diplomatica si allungò fino al Golfo Persico.

Insomma, gli Han incocciano nei Parti. E lì si fermano.

Vaghe informazioni circolarono tra i due imperi, portate dai mercanti, ma non sembra che ci sia mai stato un contatto diplomatico diretto.

Dico “sembra” perché alcuni indizi suggeriscono il contrario: Floro (70/75-145 d. C.) afferma che la Cina avrebbe mandato degli ambasciatori al tempo di Augusto (Epitoma Libro II, Capitolo 34). La cosa però non compare nelle fonti cinesi e sembra molto poco probabile. Dopotutto circa due secoli dopo Pausania non sembra avere la minima idea di dove sia la Cina o che faccia abbia un cinese. E’ possibile che la gente “mezza Scita e mezza Indiana” indichi piuttosto i mercanti Yuezhi che facevano da tramite attraverso il Tibet.

C’è però una nota interessante nello Hou Han Shu: nel 166 d.C. L’Imperatore Huan riceve la visita di un gruppo di uomini che si presentano come ambasciatori del re Andun di Da Qin.

Da Qin è il nome che i cinesi davano a Roma.

Non somiglia manco per il cazzo a “Roma”?

Beh, i romani chiamavano la Cina “Seres”, quindi non si possono lamentare.

Tornando a noi, “Andun” è chiaramente una trascrizione fonetica. Noi in Italia conosciamo Andun come Marco Aurelio Antonio (121-180).

La cosa interessante è che questa visita avviene subito dopo una compagna di Lucio Vero contro i Parti. Che Marco Aurelio sia stato il primo ad allacciare un tenue contatto diretto con la leggendaria Seres?

I sedicenti ambasciatori sono arrivati a piedi dopo essere sbarcati a Rinan, commanderia Han piazzata sulla costa centrale del Vietnam. Portano con loro zanne di elefante, corno di rinoceronte e gusci di tartaruga, a loro dire doni da parte di Andun.

Huan degli Han riceve cortesemente il paniere di benvenuto, ma non è molto convinto.

-‘Sta roba non è esotica nè preziosa.- confida al Ministro. -Possibile che il re dall’altra parte del mondo mi mandi ‘ste quattro cazzate che trovo al mercato sotto casa? Secondo me sono mercanti, levameli di giro.

La nota di Pausania su Seres è del 174. E’ possibile che l’abbia scritta basandosi sulle storie riportate dal sedicente ambasciatore del 166. Ed è molto probabile che quel volpone di Huan ci avesse visto giusto: detto ambasciatore non era probabilmente altro che un mercante con la bocca piena di favole.

Quindi no, nessun contatto diretto ufficiale, solo contatti indiretti attraverso i mercanti.

Quindi è impossibile che F37 sia arrivata dalla remota Asia Orientale, si trattava senza dubbio di una straniera di seconda o terza generazione.

O FORSE NO!

Il fatto che non esistessero relazioni diplomatiche ufficiali non significa che contatti diretti tra cittadini romani e cittadini cinesi non siano avvenuti! Semplicemente, se non hanno coinvolto le autorità, non sono stati trascritti nelle fonti ufficiali.

“Ah, ma Tenger!- sento già obiettare qualcuno -Questa è pura speculazione! Non hai nessuna prova né indizio di un contatto diretto tra un cinese della Cina e un Romano de Roma!”

No, è vero.

Ho di meglio!

Le avventure di due Cinesi a Londra

Scheletro esumato a Lant Street

Londra, Lant Street, gli archeologi di Durham esaminano gli scheletri di un cimitero romano utilizzato tra il II° e il IV° secolo. E ben due di costoro sono originari della Cina Han.

A oggi, si conoscono 3 o 4 esempi del genere nell’Impero Romano. Tutti scoperti di recente. E’ possibile che scavi futuri cambino ancora la visione che abbiamo dei rapporti tra la lontana Seres e la fiera Da Qin.

E sì, se due cinesi sono riusciti a venire a morire a Londra, è possibile che F37 abbia seguito lo stesso percorso, e sia morta di mal di schiena, dopo una vita faticosa ma onesta, nella valle del Basentello, in Puglia.

THE END

Vi ricordate quando ho detto che in questi giorni di terribili tensioni volevo dedicarmi a qualcosa di totalmente apolitico?

Ho mentito.

Prima che a qualcuno vadano a fuoco le mutande: certo, due ritrovamenti archeologici non sono politici. Gli scambi tra la Cina e Roma non sono politici. Sono fatti.

Il problema è che troppo spesso le civiltà del passato sono raccontate come omogenee, unite e coerenti. Isole che coesistono, ogni tanto combattono, ma che in generale possono essere descritte come fenotipi alla D&D.

La ridicola diatriba scoppiata quando la BBC osò disegnare un legionario nero, o le minacce subite dalla ricercatrice Sarah Bond quando ebbe l’ardire di notare che i Romani non erano tutti bianchi né possedevano il concetto di “razza bianca” dimostrano a che punto la società consuma un’idea distorta della realtà Storica.

In particolare Roma e la Scandinavia sono due miti fondatori dell’odierno suprematismo bianco, che da un punto di vista storico fa un sacco ridere, ma poi ‘sta gente tenta un colpo di stato e di botto è molto meno divertente.

La ragione principale per cui ho voluto parlare di Vagnari è perché lo trovo un sito interessante, e una buona maniera di familiarizzarmi con tecniche archeologiche contemporanee.

La seconda ragione è perché trovo assolutamente affascinante e uberganzissimo rilevare un collegamento seppur tangenziale tra un’operaia della campagna pugliese e la Cina degli Han, forse perfino il Giappone.

Per ultimo, senza fretta né affanno, per ricordare che la gente si è sempre spostata, le società non sono mai state omogenee, né conformi, né impermeabili. Il nostro concetto di identità etnica è contingente al nostro periodo storico e non è necessariamente applicabile al modo di vedere e di sentire del passato.

E’ importante conoscere il proprio passato, ma è ancora più importante non farsene un ritratto stereotipato, superficiale e falso. E’ importante usare la Storia per capire, non per dimostrare a posteriori. E questo a prescindere dal credo politico che ognuno di noi detiene: la realtà sarà sempre più complicata degli slogan.

MUSICA!


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SOMPER James, “‘Phenomenal’ ancient Chinese skeleton discovery in London graveyard casts new light on Roman society”, Independent, 26/09/2016

CARROLL Maureen, “Investigation at the Roman Imperial estate at Vagnari”, Papers of the British School at Rome, 2019, pag. 345-348

Fonti antiche:

Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, Lettera 87, trad. Sanasi Patrizio, Edizioni Acrobat, pag. 87

Publio Annio Floro, Epitoma, Libro II, Cap. 34

Storie che precorrono i tempi: Gaslight

Contrariamente a quanto si possa pensare, la Tenger non è stata arrestata per traffico illecito di foto di gatti, si è solo trovata imburbata in un ginepraio di grane di cui 65% legate all’Obsolescenza Programmata degli anziani del clan.

Per celebrare le fine di questo intervallo di grane, ho deciso di parlare di un argomento leggero e piacevole: la tortura psicologica.

Oggi parliamo di Gaslight.

gaslight!

Public Service Announcement: gaslighting

In molti avrete sentito questo termine buttato in giro: gaslighting. La American Dialect Society lo aveva selezionato come “Most Useful/Likely to Succeed” come parola dell’anno per il 2016.

In fin dei conti vinse “dumpster fire” (lol), ma è vero che gaslighting è diventato molto popolare da quando Trump è al governo (incredibile, lo so).

Trumpismo a parte, gaslighting è comunemente usato per descrivere situazioni di maltrattamento coniugale, sette religiose e propaganda politica per mentecatti.

Il termine gaslighting indica una serie di comportamenti che mirano a invalidare e demolire la percezione della realtà dell’interlocutore, i suoi sentimenti e i suoi limiti.

In un articolo del 22 gennaio di quest’anno, Psychology Today elenca 11 segni allarmanti associabili con il galighting: tra questi spicca mentire in modo sfacciato, negare l’evidenza, l’uso del ricatto affettivo come arma, una discrepanza marcata tra le parole e le azioni…

“Lo sai che ti amo tantissimo e voglio solo proteggerti, non ho mai detto che non mi fido di te, e non è vero che ti ho dato della puttana, pensa a come ci resterebbero i bambini se dovesse succederti qualcosa, e hai considerato come mi sento io quando vai fuori vestita così? TORNA QUI, MALEDETTA PUTTANA!”

Insomma, ci siamo capiti.

A tutti è successo di essere vittime di una o più di queste tecniche, nell’intimità della propria famiglia, in ufficio o in pubblico. Chi si ricorda quel momento magico in cui Kellyann Conway, consigliere della Casa Bianca, coniò il termine alternative facts?

Il termine comincia a essere usato in Psicologia negli anni ’60: nel 1969 Barton e Whitehead lo usano per descrivere dei casi in cui tecniche del genere sono state impiegate per ottenere che un parente molesto fosse diagnosticato matto e rinchiuso.

In realtà già negli anni ’50 questo tipo di rapporto patologico interessava i ricercatori. Nel 1954 Revitch parla di “paranoia coniugale”, ovvero un fenomeno in cui nella coppia l’individuo con sintomi ansiosi è quello sano e il vero malato è quello che pare del tutto asintomatico.

Nel1955 Arieti si preoccupò di studiare i meccanismi perversi attraverso cui un soggetto patologico riesce a “far impazzire il partner”, in particolare creando situazioni tali da scatenare stati psicotici in qualcuno di sano mentre la persona veramente malata (all’origine della situazione) non mostra alcun segno di psicosi.

Il gaslighting richiede 2 soggetti: chi lo pratica, e una vittima suscettibile (per qualsivoglia ragione) di interiorizzare ciò che il gaslighter proietta su di loro. In “The Gaslighting Syndrome”, comparso nel Canadian Journal of Psychiatry nel 1982, Kutcher afferma che caratteristiche essenziali per questo fenomeno in seno a una coppia sono: una relazione sadomasochistica tra i coniugi, gelosie sessuali e un tentativo deliberato, da parte del partner aggressivo, di porre fine alla relazione facendo ricoverare il congiunto.

Come sottolineato da Sweet in “The Sociology of Gaslighting”, uscito l’anno scorso nell’American Sociological Review, il gaslighting non ha solo una dimensione psicologica, ma sfrutta il contesto culturale e sociale contingente, come ad esempio un’associazione culturalmente radicata tra femminilità e irrazionalità. Certi contesti si prestano più di altri a questo tipo di tortura psicologica.

E’ però interessante notare che il termine non nasce nel contesto della medicina psichiatrica.

“Gaslight” o “Gaslighting treatment” era un’espressione gergale in America già negli anni ’50, comparendo per la prima volta in televisione in un episodio di The Burns Allen Show del 1952

Ma da dove viene il termine?

La risposta più succinta è: da un teatro londinese. Ma andiamo con ordine.

Gaslighting: What You Need to Know – HAWC

E’ il 1944, e sul grande schermo esce Gaslight, un film gotico di ambientazione vittoriana, protagonista la giovane Paula (Ingrid Bergman) e il suo esotico e misterioso marito Gregory (Charles Boyer).

Il gotico è un genere che nasce nel romanzo nel XVIII° e resta particolarmente popolare per più di duecento anni, specie tra le donne. E’ generalmente caratterizzato da una protagonista femminile che si trova confinata in una magione, attorniata da minacce misteriose, di solito associate in qualche modo alla sfera sessuale.

Tra 1940 e 1948 il cinema americano produce una notevole sventagliata di filmoni gotici, da Rebecca (1940) a Sleep My Love (1948). Le storie di questo tipo hanno spesso elementi ricorrenti: una protagonista giovane e innocente incontra un uomo affascinante, misterioso (spesso più anziano), per cui prova attrazione e timore. Dopo un breve ed appassionato corteggiamento, la pollastra sposta il Bello Misterioso e i due rifluiscono in una Casa Gigante e Antica legata in qualche modo al passato o al lignaggio di uno dei due. Lei si trova quindi smarrita e imprigionata nel palazzo, dove si manifestano fatti sempre più strani e inquietanti, che la portano prima a dubitare dell’amore del Bello Misterioso, e poi a chiedersi se il tizio non voglia farla fuori.

Rebecca (1940) | Rhyme and Reason
-In che storia siamo?
-Una dove la fanciulla giovane e naive sposa il bello ricco e misterioso. incontrato ieri

-Voglio scendere!

Il fatto che gli anni ’40 conoscano un revival di questo genere di esplorazione freudiana del sesso non deve sorprendere: questi film tendono a essere popolari presso le donne, e durante la guerra le donne diventano un pubblico pagante moto importante per l’industria.

Non solo: il gotico ha spesso un potenziale sovversivo non indifferente. Il genere è stato spesso interpretato come un’allegoria della donna che, trovandosi stretta nel suo ruolo tradizionale di mogliettina ingenua e obbediente, cerca di liberarsi dal controllo del marito-padrone (letteralmente la donna imprigionata in una casa antica e cadente).

Negli anni ’40, molte donne si trovano a dover abbandonare quello che era considerato il loro ruolo tradizionale di casalinghe, finiscono in fabbrica, finiscono nell’esercito. Come era già accaduto durante la Prima Guerra Mondiale, si apre un periodo di transizione in cui i ruoli sociali sono rimessi in discussione e molte si ritrovano a svolgere mestieri considerati fino ad allora prettamente maschili.

A questo proposito consiglio un video del mio divulgatore preferito, Indy Neidell.

La situazione evolve bruscamente quando, finita la guerra, centinaia di migliaia di donne si trovano ricacciate a pedate nei loro vecchi ruoli, cosa che lascia molte confuse, insoddisfatte, e con la netta sensazione di essersi fatte fregare.

Non solo: subito prima dell’entrata in guerra gli Stati Uniti avevano registrato un boom senza precedenti di matrimoni affrettati. E ora che Johnny torna dalla guerra bello spettinato dallo shellshock e pieno di malattie veneree fino agli occhi, arriva il boom dei divorzi e delle separazioni. Pure questo ha contribuito al successo del motivo dello “sposare uno sconosciuto e trovarsi imprigionata in una situazione orribile” così comune nel gotico.

In generale, il gotico parla di una donna che si trova in una situazione nuova e potenzialmente pericolosa che non sa bene come interpretare. La sua percezione del mondo è valida? I suoi sospetti sono giustificati? O è solo una fanciulla confusa (e un po’ frigida) che semplicemente non capisce?

Il famoso ma sono io che sbaglio?

Un sentimento che doveva accomunare molte donne in quel decennio.

Nei film gotici di inizio decennio, i sospetti di lei si avverano di solito errati, come in Rebecca (1940) o in Suspicion (1941). No, il marito non la odia/non sta cercando di ucciderla, è lei che ha frainteso. Il lieto fine viene quindi concesso a un prezzo: l’invalidazione dell’esperienza della protagonista. Il nemico non è mai stato il marito (anche se magari questi compie atti oggettivamente aberranti durante il film): il nemico sono le insicurezze che offuscano la testolina innocente di lei. Il film è visto dal punto di vista di lei, ma, per nostra fortuna, c’è un personaggio maschile (il marito), che ha la capacità di correggere i vizi nella percezione di lei e svelare l’inghippo.

La cosa interessante è che nel contesto culturale dell’America del 1941, non proprio il picco del femminismo, molti spettatori non apprezzano questo tipo di twist. Probabilmente essendo stati portati a vedere il mondo dal punto di vista di lei, la facile risposta “no, va tutto bene, sei tu che sei insicura e non capisci” non poteva essere soddisfacente. In altre parole, gli sceneggiatori facevano del gaslighting nei confronti del pubblico, e ciò non è mai soddisfacente.

Nel 1941 ancora non esisteva una parola per descrivere questo ribaltamento arbitrario della realtà, ma Hollywood percepisce presto che una fetta del pubblico pagante non è contento. Nei film di durante e dopo la guerra, la struttura del film cambia, si risolve con una validazione dell’esperienza di lei. Sia in Shadow of a Doubt (1943) che in Sleep, My Love (1948) i sospetti di lei sono più che fondati.

Fino a Rebecca il Bello Misterioso, l’Eroe “Byroniano”, è qualcuno che sotto gli spigoli ama teneramente l’eroina (lei è troppo immatura per rendersene conto, poverella). Ma con la guerra la musica cambia.

Il comportamento rude e paternalistico, segno di affetto e di mascolinità fino al 1941, cessa di essere considerato tale. Non è un tratto mascolino, è un campanello di allarme che suggerisce gravi turbe nel personaggio maschile.

In questa seconda fase i mariti sono predatori che stanno deliberatamente demolendo la sanità mentale delle mogli, distruggendo la loro fiducia in loro stesse e nel proprio giudizio. Non solo: spesso in questi film il marito sfrutta il vantaggio sociale ed economico offertogli dal contesto per imprigionare e maltrattare la moglie, aggiungendo una sottile critica politica.

Hitchock Pitches 'Curve Balls' During Film Festival | WGLT
-Credimi, sono una brava persona!
-Uh oh, nice guy alert…

Ma non crediate: questi film sono comunque tirati fuori da Hollywood, e il messaggio potenzialmente sovversivo del gotico viene ovviamente stemperato e smorzato: è sempre un personaggio maschile a confermare l’esperienza dell’eroina, a confermare che i suoi sospetti sono legittimi. Come si accennava in questo articolo, alla fine la narrativa dominante è comunque la narrativa della classe dominante.

Nei film americani spesso questo deuteragonista positivo è giovane e figo e con un interesse romantico più o meno credibile verso la protagonista. Il messaggio implicito è che il sistema patriarcale in cui si svolge la storia (che pure ha permesso al cattivo di angariare la protagonista per due ore di film) non ha niente che non va, è lei che ha scelto male il marito. Al secondo giro andrà tutto certamente meglio. Si capisce che questo nuovo arrivato è più gentile, che sarà comunque il partner dominante (ovvio!), ma che sarà meno tirannico e autoritario dell’altro.

Ti senti oppressa da una società patriarcale? Prova il Patriarcato-light!

La versione americana di Gaslight si situa perfettamente in questa vena.

Le origini

Gas Light - Wikipedia

Gas Light nasce il 5 dicembre 1938 nel Richmond Theater di Londra: si tratta di un thriller in tre atti ambientato nel 1880, frutto della penna di Patrick Hamilton.

Hamilton, commediografo e romanziere, è anche l’autore della pièce originale Rope (1929), adattata da Alfred Hitchcock nel 1948 e già citata da questo blog in riferimento alla tecnica della finta scena-continua, perfezionata in modo straordinario nel recente 1917.

Nella pièce, Bella è la moglie infelice e nervosa di Jack Manningham, un marito tirannico, distante e infedele che non perde mai occasione di bistrattare la moglie e i suoi bizzarri comportamenti. Comportamenti di cui Bella non ha assolutamente memoria, ma che Jack insiste essere frequenti e molesti.

Ogni notte, Jack esce senza offrire troppe spiegazioni. Bella nota che durante l’assenza del marito, le luci a gas della casa baluginano in modo inconsueto, ma Jack è categorico: non c’è nessuna anomalia nell’impianto, Bella vede roba che non esiste, Bella sta diventando pazza ed è ormai una un fardello senza valore sulle sue spalle.

La crudeltà di Jack è resa efficace non solo dal contesto storico e sociale in cui si svolge il dramma (in quanto moglie, Bella è letteralmente alla mercé di suo marito), ma fa leva sulle debolezze e il trauma pregresso di Bella: la madre di lei è impazzita, e Bella teme di finire nella stessa maniera. Un timore che Jack conosce e sfrutta senza ritegno.

Gas Lighting in the Victorian Age | Ringling House Bed and Breakfast
Luce a gas in casa: in miglior modo per leggere la sera o morire avvelenati nella notte!

Bella comincia a credere di star davvero impazzendo, quando si presenta alla porta un poliziotto: Rough, lo sbirro, le racconta che la casa dove abita era una volta la residenza di una ricca donna di nome Barlow, assassinata da qualcuno che certamente cercava i suoi famosi e preziosi gioielli. Né l’assassino né i gioielli sono mai stati trovati, ma Rough ha il forte sospetto che Jack sia legato a questo vecchio crimine.

La pièce ha successo, e arriva trionfante in America col nome di Angel Street, dove per 3 anni di fila è ripetuta a Broadway, recitata da niente meno di Judith Evelyn (Rear window, 1954; Giant, 1956) e il leggendario Vincent Price (A Royal Scandal, 1945, Abbott and Costello Meet Frankenstein, 1948, House of Wax, 1953, House of Usher, 1960… insomma, una frana di film, molti horror, è Vincent Price, Rattigan in The Great Mouse Detective, sapete chi è!).

Making the Unbelievable Believable: Vincent Price on Playing the Villain,  Elizabethtown, KY, 1980 | Seeker of Truth
Vincent Price e Judith Evelyn

Visto che era andata così bene a teatro, gli inglesi decidono di adattarla per il cinema.

Il primo film

Gaslight (1940) - IMDb

Nel 1940 Gaslight esce in sala sotto la direzione del prominente regista Thorold Dickinson (alcuni lo conosceranno per The Queen of Spades, 1948). Nel ruolo dei due personaggi principali abbiamo Anton Walbrook (Victor and Victoria, 1933, The Life and Death of Colonel Blimp, 1943, The Queen of Spades, 1948, I Accuse!, 1958) e Diana Wynyard (On the Night of the Fire, 1939, Kipps, 1941).

Entrambi sono già attori famosi nel 1940. Walbrook è di origini austriache, e questo viene inserito nel film, dove il marito, ora chiamato Paul Mallen, parla con un indefinibile accento e ha misteriose origini forestiere. E’ ormai cominciata la Seconda Guerra Mondiale, e sia nel film originale che nel remake americano il cattivo diventa uno straniero, un continentale.

Gaslight (1940 and 1944) | Movie classics
“I fart in your general direction!”

L’originale inglese segue molto da vicino la pièce teatrale. Ms. Boyer è una ricca zitella. Tra i suoi vari beni, un pugno di rubini che da soli valgono migliaia e migliaia di sterline.

Una notte, un ladro aggredisce Ms. Boyer e la uccide, ma, pur mettendo a soqquadro la casa, è chiaro che non riesce a trovare i rubini. Sconfitto, l’assassino strappa al cadavere un medaglione e fugge.

Anni dopo, il detective Rough esce di messa in Angel Street, accanto alla casa del crimine, e nota che la villa è di nuovo abitata. I nuovi inquilini sono un uomo dall’aria familiare e la moglie, una donna dallo sguardo nervoso, infelice e sfuggente. Rough era nella squadra che per prima investigò l’omicidio in Angel Street, e il delitto irrisolto gli è sempre rimasto di traverso, anche perché Rough aveva un sospetto: il nipote della vittima. Purtroppo l’indagine si era conclusa in un nulla di fatto.

I nuovi arrivati però risvegliano la vecchia ossessione di Rough, che decide di ficcanasare con discrezione.

Viene presto a sapere che si tratta effettivamente di una coppia sposata: Bella e Paul Mallen, e che lei, a detta della serva, è un po’ pazza. Si dimentica cose, è cleptomane, nasconde oggetti a caso per poi scordarsi dove li ha messi…

Molto presto scopriamo che in realtà Paul Mallen sta attivamente minando la salute mentale di sua moglie. E’ Paul che nasconde gli oggetti, ed è Paul che alza la voce, si mostra ferito e offeso quando lei protesta la propria innocenza, è Paul che relega la moglie in casa e la isola dalla famiglia, perfino dal cagnolino di lei, l’unica creatura che le è rimasta come compagnia.

Nel suo pezzo “Two or three things I know about Gaslight”, Sarris afferma che i personaggi della pièce e del film non sono veri e propri personaggi quanto “tipi”: la mogliettina virtuosa e vittima, il marito malvagio, la cameriera zoccola…

In realtà i profili psicologici di Bella e Paul sono estremamente raffinati, e corrispondono alle caratteristiche descritte dalla psicologia 30 anni dopo il film.

Bella è cresciuta in un contesto estremamente patriarcale. Capiamo che è orfana e che è cresciuta con dei cugini, cosa che può averla resa particolarmente vulnerabile al love-bombing di un abile manipolatore. Sappiamo che ha sposato Paul nonostante i suoi cugini disapprovassero, e che si è trovata gradualmente isolata e allontanata da amici e parenti. Sola e lontana da ogni altro contatto umano che non sia il marito, Bella esita perfino a comparire a una finestra, per paura di indispettire Paul, da cui ormai è del tutto dipendente (economicamente ma anche emotivamente). L’unico suo affetto è ormai un cagnolino, ma pure questo non va bene, e Paul le vieta di tenerlo in carte stanze, spesso con la velata minaccia di sbarazzarsene proprio.

Bella non crede di essere pazza, Bella sa di non aver nascosto oggetti, ma non ha altri riferimenti che Paul. Rinchiusa in casa, privata di ogni possibile contatto umano, Bella gradualmente deperisce.

Il personaggio di Paul è uno dei migliori antagonisti che mi sia capitato di vedere in un melodramma.

Paul è freddo e calcolatore, ma assolutamente capace di apparire affezionato e gioviale. Paul alterna la tortura psicologica a momenti di apparente tenerezza e attenzioni. Paul scherza, sorride, suona il pianoforte per sua moglie, e per un attimo possiamo capire come Bella si sia innamorata di lui. E’ bello, sicuro di sé, protettivo, sagace.

Ma non è che una strategia, volta a rinforzare la dipendenza psicologica di sua moglie. Da un momento all’altro, Paul cambia. Umilia Bella flirtando apertamente con la cameriera, la accusa di essere una cleptomane, mente spudoratamente e nega di aver mentito anche davanti all’evidenza, torreggia su Bella, la minaccia, ma soprattutto la incolpa. E’ colpa di Bella se il loro matrimonio non funziona, è colpa di Bella se lui si arrabbia, è Bella che lo costringe a prendere certi provvedimenti.

In un passaggio particolarmente angoscioso, Bella supplica il marito di permetterle di andare a trovare i cugini. Paul ovviamente è irremovibile, ma per consolarla le propone di uscire. E’ qualcosa che non fanno da tantissimo tempo, e che riempie Bella di gioia. Ma è subito chiaro che Paul non ha un momento di compassione, e che si tratta dell’ennesimo trucco.

Lo scopo di Paul è presto chiaro: far ricoverare Bella.

Come accennato, il contesto storico e culturale entra in gioco: quando il cugino di Bella si presenta alla porta, preoccupato per lei, Paul ha ogni diritto di impedire l’incontro, ed è precisamente ciò che fa. Bella sembra non avere scampo.

Il titolo del film, come quello della pièce originale, deriva dal baluginio dei lumi a gas. Nottetempo, Paul sgattaiola nell’attico della casa, dove è ammucchiata la roba della morta, e cerca i rubini. Questo provoca rumori di passi e una fluttuazione nella fiamma dei lumi, che Bella nota subito. Quando Bella prova a parlarne con Paul, Paul semplicemente nega e la tratta come una pazza.

Fuori dalla casa, Rough e la famiglia di Bella si organizzano per soccorrerla prima che il marito provochi troppi danni e prima che la faccia rinchiudere in un grullocomio.

Come si intuisce presto, Rough scopre che Paul è molto probabilmente il nipote e l’assassino di Ms Boyer e che è tornato con un nuovo nome per cercare i rubini.

In un’ultima scena, Bella ha l’occasione di prendere la sua rivalsa sul marito, ed è alla fine di questo momento culmine che i ruoli si ribaltano completamente. Appare finalmente chiaro che Paul non è solo una carogna, Paul è malato. E’ pazzo da legare. E’ sempre stato pazzo da legare, lo era quando ha strangolato Ms Boyer e lo era mentre torturava sua moglie.

Un pazzo che pur avendo sposato una bella donna innamorata, obbediente e ricca, è rimasto fissato in modo maniacale sui famosi rubini. Quando riesce a liberarsi, Paul non cerca di scappare o di aggredire Bella: Paul si getta sui rubini. La recitazione di Walbrook è eccellente in questo frangente e veicola in modo efficace la profonda malattia di Paul.

Il remake

Gaslight (1944) Official Trailer - Charles Boyer, Ingrid Bergman Movie HD -  YouTube

Il film non fu preso molto sul serio dalla critica, ma al pubblico piacque. Dopo il discreto successo della pièce a Broadway, i diritti per il film furono comprati dalla Metro-Golwyn-Mayer, che pretese la distruzione di tutte le copie esistenti dell’originale inglese. Altro che cancel culture!

Per nostra fortuna, la MGM non riuscì ad annientare l’originale, che restò praticamente introvabile fino agli anni ’70.

Nella versione americana, proiettata nel 1944, i personaggi sono ribattezzati Paula (Ingrid Bergman) e Gregory Anton (Charles Boyer). Ah, e la cameriera zoccola è interpretata da una giovane Angela Lansbury!

A Penchant for the Master: Angela Lansbury in Gaslight – Pale Writer
“Da grande voglio fare l’assassina seriale la romanziera di gialli”

Il regista a questo giro è il leggendario George Cukor, conosciuto in particolar modo per la maestria con cui riusciva a mettere in scena i personaggi femminili. Per molti si tratta di un vero e proprio “regista delle donne” (che non era un complimento ai tempi e lui non era proprio entusiasta di questo appellativo).

Di sicuro molti conosceranno almeno alcuni dei film di Cukor: Little Women (1933), fu il primo regista di Gone With the Wind (1939, poi rimpiazzato da Victor Fleming), My Fair Lady (1964), Love Among the Ruins (1975)…

Charles Boyer aveva già avuto una carriera degna di nota, tra cui alcuni classici come Break of Hearts (1935) o Hold Back the Dawn (1941), spesso nei panni dell’amante sensuale e vagamente esotico. Quanto a Ingrid Bergman, la nostra aveva pure all’attivo una serie di film notevoli, tra cui Dr Jekyll and Mr. Hyde (1941), Casablanca (1942) e For Whom the Bell Tolls (1943), per il quale era stata anche nominata come Miglior Attrice. Niente Oscar per la Bergman nel 1943, ma niente paura, arrivò nel 1944 proprio per il suo ruolo in Gaslight!

Il remake resta molto simile al film originale, ma cambia numerosi elementi di contorno che conferiscono un carattere molto diverso alla storia. Tanto per cominciare il film americano è più lungo di ben 30 minuti rispetto all’originale inglese. Nell’originale la storia comincia a un punto in cui Paul ha iniziato a maltrattare e isolare la moglie già da un po’. La manipolazione e il love-bombing sono insinuati, intuibili.

Il remake mostra invece l’inizio della relazione. Se da un lato non si sente la mancanza di questo preambolo nel film inglese, dall’altra questa parte del film americano è narrata in modo sottile ed elegante. Rispetto a quello inglese, il film americano ritarda moltissimo la rivelazione che Gregory non è una così brava persona. Allo stesso tempo gli indizi sono presenti sin dalle primissime scene.

All’inizio della loro relazione, Paula ha dei dubbi: tutti sta andando troppo velocemente. Decide quindi di prendersi una settimana di solitudine per riflettere a mente fredda se vuole davvero posare un uomo incontrato 15 giorni prima oppure no. Gregory sembra accettare questa pausa senza fare una piega, ma quando Paula arriva alla stazione di Como lui è già lì ad aspettarla. Un gesto apparentemente romantico, che Paula prende benissimo, ma che chiaramente viola un limite che lei aveva posto.

Anche dopo il matrimonio diventa presto chiaro che sotto la patina di premura e protezione, Gregory infantilizza e isola sua moglie. Presto, Gregory crea situazioni che causano grande ansia a Paula, ma da cui lei non può districarsi senza contravvenire alle norme sociali del contesto. E alla fine, manipola la conversazione finché non è Paula a chiedere scusa a lui.

L’originale inglese è estremamente circoscritto: a parte pochissime scene al commissariato, in una villa o in un cabaret, la quasi totalità della storia si svolge nella casa o nella piazzetta antistante. Il film americano invece si sbraca su numerose location diverse, da Venezia, alla Torre di Londra.

Uno dei cambiamenti più radicali è però il personaggio del detective: nell’originale Rough è un panciuto sbirro determinato a intervenire per una questione di giustizia e per soccorrere una donna che non conosce (e che non ha particolare intenzione di conoscere) ma che si trova nei guai fino al collo. Rough è disinteressato e umano.

Ma in America, per citare Hellzapoppin’!, ci vuole una storia d’amore eterosessuale e monogama, sennò Gesù piange. Quindi il vecchio Rough viene tosto sostituito dal giovane e cavalleresco Brian Cameron, detective anche lui, con una cotta molto improbabile per Paula (che ha visto di sfuggita una volta per la strada e con cui non ha mai parlato, ma bon, è la Bergman, un po’ si capisce).

La fine

Il film inglese si chiude a chiasmo con l’inizio: in una delle prime scene, Bella appare da dietro una finestra chiusa, per fare timidamente segno a un venditore di muffins. Alla fine, solo lei, suo cugino e Rough restano a casa. Rimasta sola con chi la ama e la rispetta, Bella apre le tende ed esce sul balcone, lasciando entrare la luce del giorno, sul suo viso un misto di sgomento e sollievo. Il suo matrimonio è finito, ma Bella non è sola, è libera di ricostruirsi.

Il film americano si chiude con Brian e Paula sul tetto della casa. Il cielo è buio e nuvoloso, ma Brian le assicura che l’alba si avvicina. Le chiede di poterle fare visita in futuro, e Paula accetta di buon grado. Il film si chiude con un bit comico da parte dell’impicciona del posto, che reagisce alla scena con pettegola sorpresa.

Come interpretare questo cambio radicale di fine?

Come nota Hagberg in Stanley Cavell on Aesthetic Understanding, la fine del film di Cukor può essere interpretata come positiva… o anche no. Hagberg nota che la scena ricorda moltissimo quella in cui Paula incontra Gregory alla stazione (anche in quel caso troviamo il personaggio comico dell’impicciona), e sottolinea che Brian, come Gregory, non conosce davvero Paula: sta proiettando su di lei una fantasia romantica del tutto infondata. L’implicazione sarebbe quindi che il pattern è destinato a ripetersi, perché la cultura e la società in seno a cui si è svolta la vicenda non sono cambiate, e si prestano quindi a una ripetizione del fenomeno. Paula non può davvero liberarsi dell’influenza di uomini che non la conoscono davvero: in un sistema ingiusto possono esistere solo cattive scelte.

A mio modesto parere si tratta invece di un finale positivo, almeno in principio. Paula si trova sì in un posto buio e solitario, ma Brian le promette la luce: compagnia, un nuovo inizio. L’apparire dell’impicciona potrebbe essere semplicemente un elemento comico che alleggerisce il tono drammatico delle ultime scene. La reazione positiva di Paula e la musica celebrativa che segue con i titoli di coda suggeriscono che Brian sarà un buon partner, il patriarca-light di cui si è parlato prima.

Personalmente preferisco la fine inglese per due ragioni:

1-E’ palese che l’ossessione di Gregory per i gioielli è morbosa e irrazionale. Si capisce che, tra lui e Paula, quello patologico è sempre stato lui. Ma Gregory resta comunque padrone di sé fino alla fine, al punto da razionalizzare la propria situazione fino all’ultimo: “tra noi due ci sono sempre stati qui gioielli”. Gregory non perde mai la sua compostezza.

Al contrario, nel finale inglese Paul si rivela essere un vero e proprio squilibrato. Appena rimasto solo con sua moglie, Paul non le chiede subito di liberarlo: le prime parole che pronuncia sono “i rubini”. Paul non è un delinquente affetto da una malsana ossessione: Paul è del tutto disconnesso dalla realtà.

La Psicanalisi ci dice in effetti che spesso, in casi di gaslighting, quando la vittima smette di essere ricettiva al trattamento, è il gaslighter (la persona davvero patologica nella coppia) che sviluppa sintomi. Uno di questi casi è proprio citato da Calef e Winshel nel loro articolo del 1981.

E’ straordinario constatare che la risoluzione di un film del 1940 sia così vicina alla teoria ufficiale della Psicoanalisi di 30 anni dopo!

2-Mentre l’intervento di Rough è disinteressato e motivato da uno slancio puramente altruistico, quello di Brian non lo è. Brian ha una cotta per Paula, ergo un interesse personale non indifferente. Non che ci sia niente di male con un personaggio che fa la cosa giusta per interesse personale, ma è una storia che ciccia fuori troppo spesso per i miei gusti, Preferisco di gran lunga una storia in cui il personaggio fa la cosa giusta perché è la cosa giusta.

Fine spoiler

Resta il fatto che i due film restano eccellenti e consiglio la visione di entrambi. Si tratta di storie che letteralmente precorrevano i tempi: questo tipo di manipolazione, così studiata a partire dagli anni ’60, viene perfettamente analizzata e mostrata.

Gaslight 1940

Recitazione Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.pngQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png
Analisi psicologica dei personaggiQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png 
SceneggiaturaQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png 
Narrazione densa e concisaQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png 
FinaleQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png 

Gaslight 1944

RecitazioneQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png 
Analisi psicologica dei personaggi Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png
Descrizione elegante della fase iniziale della relazione Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png
Sceneggiatura Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png
Narrazione più elaborata e dettagliata Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png
Brian Bad_grumpy
Scena clou subito prima del finale Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png

MUSICA!


Bibliografia e letture aggiuntive

Il fenomeno del gaslighting

BARTON Russell, WHITEHEAD J. A., « The gas-light phenomenon », The Lancet, 1969

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Il film

Gaslight 1940

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La pagina wiki della pièce originale

La pagina wiki di Patrick Hamilton

La pagina wiki del primo film

La pagina wiki del remake

La pagina wiki di Thorold Dickinson

La pagina wiki di Anton Walbrook

La pagina wiki di Diana Wynyard

La pagina wiki di George Cukor

La pagina wiki di Charles Boyer

La pagina wiki di Ingrid Bergman

Abe-naishinnō, l’imperatrice che regnò due volte

In questo blog parliamo spesso di fatti e persone appartenenti a quella che viene definita l’Epoca di Heian (784-1185). Il nome viene dalla città Heian, la Capitale della Pace e della Tranquillità, oggi nota come Kyōto. Heian è stata particolarmente importante in quanto è stata Capitale per tantissimo tempo. Ufficialmente, è rimasta tale anche dopo la nascita dello shōgunato.

Una capitale fissa è in contrasto con gli albori della dinastia imperiale: per generazioni la sede del Governo centrale è stata itinerante.

La morte era considerata come la più ripugnante delle contaminazioni, e nessuna morte era impura come quella del Figlio del Cielo. Defunto un sovrano, era uso spostare la residenza del successore e, di conseguenza, l’intera città. Nuova era, nuovo palazzo, nuova capitale!

La vecchia sede veniva proprio smontata: i pilastri divelti, le magioni fatte a pezzi, gli archivi, le botteghe, gli atelier, gli uffici, tutto veniva sradicato e spostato.

Questo aveva, ovvio, un costo mostruoso, e divenne sempre meno sostenibile.

La prima “capitale” fissa fu costruita nel nord-ovest di quella che è oggi la città di Nara. Il nome di questa nuova città era Heijō-kyō, Bastione di Pace. La corte resterà qui per tre intere generazioni: dal 710 al 784.

La regione delle Capitali

Oggi parleremo di una porzione sostanziale e curiosa del Periodo Nara: i regni della principessa Abe, un personaggio tanto importante quanto elusivo.

Come al solito, si tratta di un articolo che non vuole (non può) essere esaustivo: libri interi sono stati dedicati alla misteriosa imperatrice e al suo tempo. E non è escluso che in futuro non ritorni sull’argomento per sviscerare più in dettaglio certi aspetti. Questo è, se vogliamo, una sorta di “articolo-base” per familiarizzarci con lei e col periodo.

Quindi allacciate le cinture, perché oggi parliamo di una donna che gli uomini del suo tempo fecero l’errore di sottovalutare: Abe fu l’ultima imperatrice per secoli a venire, ma compensa ciò col fatto che regnò due volte. Abe è due imperatori al prezzo di uno!

Un necessario preambolo: la nascita di Heijō-kyō

La capitale Heijō-kyō

E’ il 707, e l’imperatore Monmu (r.697-707) muore all’improvviso a soli 25 anni. Nelle fonti la notizia non è preceduta da nessuna avvisaglia, nessuna malattia o indisposizione. Il che è leggermente sospetto. Ancora oggi si specula se si sia trattato di una sventurata sciagura, o se qualcuno non gli abbia servito uno sciroppo risolutivo.

Sta di fatto che il nostro lascia due possibili eredi: uno figlio avuto di una principessa imperiale e uno avuto da una donna Fujiwara.

I Fujiwara sono una famiglia relativamente nuova, fondata circa cinquant’anni prima da un uomo di nome Kamatari.

Abbiamo parlato di Kamatari in questo articolo: in breve, si tratta di uno del magico trio che rovesciò l’egemonia Soga e spianò la strada alle Grandi Riforme dell’era Taika, uno dei Magnifici Tre che trasformarono il Regno di Yamato nell’Impero del Giappone.

Tornando a noi, in questo periodo la dinastia regnante si trova legata ai Fujiwara, che hanno ormai occupato la nicchia ecologica dei Soga e forniscono consorti ai sovrani. Questo crea una “alleanza competitiva” col clan Imperiale. Per tutto l’VIII° secolo si alternano governi dominati dai principi e governi dominati dai Fujiwara.

Tornando a Monmu, per evitare che scoppi un casino sulla successione, la Corte decide di far subentrare sul trono la madre del defunto sovrano, che diventa Imperatrice col nome di Genmei (r. 707-715).

Nel 707 la Capitale si trova ancora a Fujiwara-kyō. Seguendo la tradizione, Genmei abbandona il sito e si sposta a nord-ovest, dove fa costruire Heijō-kyō (d’ora in poi chiamata Nara).

Nara è meglio collegata rispetto a Fujiwara-kyō e può accedere più facilmente al grande porto di Naniwa (oggi Osaka).

E’ costruita sul modello delle capitali Tang, una bella grata di strade perpendicolari mappate in parallelo con quelle di Fujiwara-kyō, per rimarcare la continuità simbolica tra il regno di Monmu e quello di Genmei.

Ricostruzione dell’avenue principale e della porta meridionale del Palazzo: quella che vedere non è una piazza, è la larghezza originale della strada principale nell’VIII° secolo, l’avenue correva da nord a sud collegando la porta meridionale del Palazzo alla porta meridionale della città

La popolazione di Nara nel 710 è stimata a 200.000 abitanti. La nuova capitale è 3 volte più grande di quella vecchia. Siamo all’alba del periodo di massimo potere della Famiglia Imperiale.

Abbiamo accennato in altri articoli di come i re di Wa abbiano affermato la propria legittimità con la costruzione di colossali tombe, i famosi kofun. Genmei però è una donna al passo coi tempi, una sovrana moderna, non una sciamana primitiva alla testa di un guazzabuglio di clan! Nell’VIII° secolo i tumuli sono passé, out, uncool, il nuovo simbolo di legittimità imperiale è il tempio buddhista, e ne vengono costruiti. Oh, se ne vengono costruiti! Nara diventa la città dei templi.

Flash-forward: la principessa Abe e la sua famiglia

La porta del Grande Tempio Orientale a Nara

Vi ricordate il figlio di Monmu, quello di madre Fujiwara? Diventa finalmente imperatore nel 724 col nome di Shōmu (r. 724-749). Una delle sue consorti è dama Asukabe, nipote diretta di Kamatari (per chi stesse prendendo appunti, Shōmu è sposato con sua zia materna).

Come suo padre vent’anni prima, Shōmu si trova con due figli: il principe Asaka, figlio di una principessa imperiale, e la principessa Abe, figlia di dama Asukabe. Abe è quindi per 2/3 Fujiwara.

Il Padiglione principale ricostruito nella zona archeologica

E’ il 729, i nostri sono sistemati in Nara da quasi vent’anni, e la corte è dominata dal Principe Nagaya. Sembrerebbe che la Famiglia Imperiale abbia ormai il sopravvento e che la nomina di Asaka a Principe di Sangue sia inevitabile.

Ma la Famiglia non ha fatto i conti con dama Asukabe. Nel 729 Nagaya incappa in incresciose accuse di sedizione e, prima che possa difendersi, la sua residenza è attaccata dai guerrieri dell’Imperatore. Il fatto che il generale in capo fosse fratello di dama Asukabe è certamente del tutto casuale.

Sta di fatto che Nagaya non viene mai condannato, perché non viene catturato: si suicida. Si “suicida”. Sì, insomma, probabilmente lo spaccia il comandante Fujiwara…

Quando si gioca il gioco del trono, am I right?

Vi ricordate quando GoT era un bello show? Che nostalgia…

Con Nagaya defunto e i suoi collaboratori opportunamente esiliati, i Fujiwara sono più che disponibili a riempire le più alte cariche dello Stato, ora vacanti.

I quattro fratelli alla testa del clan, zii materni della principessa Abe, dominano tra il 729 e il 737, periodo anche noto come il Regime dei Quattro.

Dama Asukabe diventa l’Imperatrice Kōmyō. Lei e Shōmu sono ferventi buddhisti, sponsorizzano largamente la religione, che ritengono vitale per il benessere del Paese. La principessa Abe è quindi cresciuta da due genitori politicamente aggressivi e autocratici, ma anche sinceramente devoti.

Non sono i soli: è un periodo di grande fermento religioso. Un esempio tra tutti è il monaco Gyōki (668-749), che raccatta un seguito tale da attirare l’attenzione della corte. Interi villaggi si spopolano al suo passaggio, migliaia di contadini si accodano al predicatore, abbandonano campi e distretti.

Shōmu cerca di limitare l’abilità di Gyōki di seminare scompiglio spirituale, ma il nostro risponde organizzando un gigantesco rave del Risveglio alla Capitale, con migliaia e migliaia di fedeli, al punto che il governo è costretto a cambiar musica.

Tutto questo scorrazzare e riunirsi in preghiera però finisce per avverarsi un problema: nel 735 scoppia una devastante epidemia di vaiolo.

E quando dico “devastante” non esagero: nel 737 il morbo ha spazzato via più di un terzo dell’intera popolazione dell’Arcipelago. In certe provincie il bilancio dei morti è del 70%, senza contare la gente lasciata per sempre inferma dalla malattia.

Il vaiolo non solo ha un’alta mortalità, ma può lasciare la persona sfigurata, causare deformazioni permanenti, danni agli organi interni o cecità. Quando la gente chiede “eh, ma come facevano le persone prima dei vaccini?”
Facevano così. Subivano e pregavano.

Interi villaggi spariscono, valli restano deserte, cadaveri abbandonati si ammucchiano ai lati delle strade, giacciono nelle case, i resti umani vengono sparpagliati da cani randagi e corvi.

Il vaiolo si abbatte sulla Capitale come un maglio, allunga i suoi tentacoli attraverso le belle strade perpendicolari, nelle residenze dei nobili, negli uffici del governo, nel Palazzo Imperiale.

Shōmu e Kōmyō sopravvivono, e così la principessa Abe.

I Quattro Fujiwara invece si ammalano. In meno di un mese finiscono tutti sottoterra. Kōmyō perde i propri fratelli, il clan resta decimato, decapitato di netto.

Il peggio dell’epidemia si scatena in agosto. Il cielo è rovente, le mosche riempiono le vie, i cadaveri gonfiano, esplodono sotto il sole, i liquami colano nei canali e nei pozzi.

Pensate a quello che sta capitando a noi ora, e provate a mettervi nei panni di qualcuno all’epoca, o anche della giovane Abe. Di certo doveva sembrare la fine del Mondo.

Segnaposti trovati negli scavi di Nara

Ma il mondo non era finito. L’epidemia rallenta. Nella Capitale dei morti, emerge un nuovo governo, controllato dalla Famiglia Imperiale nella persona di Tachibana no Moroe (684-757).

E la Famiglia Imperiale vuole che sia nominato come erede il principe Asaka.

Ma non va così. Shōmu e Kōmyō hanno preso una decisione: sarà la principessa Abe a ereditare.

Questa tensione porta a scontri anche violenti, e costringe Shōmu e la sua famiglia a spostare la residenza un sacco di volte negli anni a seguire.

La disputa dinastica si allevia però nel 744, quando il giovane principe Asaka defunge di colpo. Un altro membro della Famiglia Imperiale che si busca un brutto caso di Morte Improvvisa e Conveniente!

Sotterrato il figlio, Shōmu torna a Nara, dove si ammala a sua volta. Non muore, ma resta infermo. Nel 749 abdica in favore della principessa Abe, che all’età di 31 anni diventa l’Imperatrice Kōken. Da notare che Kōken non ha né figli né consorti, nonostante molti nel suo milieu tendessero ad accompagnarsi giovani.

La moderna città di Nara vista dalle colline orientali

Dopo tanta sfiga, il 749 è un anno propizio, più che propizio!

La Capitale torna a essere stabile.

Viene scoperto l’oro nella provincia di Mutsu

Il bodhisattva Hachiman viene installato a Nara

Al Grande Tempio dell’Est (il Tōdai-ji) viene ultimata la colossale statua di Vairocana. L’inaugurazione avviene nel 752 (tre secoli dopo gli scioglieranno la testa durante un massacro).

Il Grande Buddha

Ma le difficoltà per Kōken non sono finite: la sua autorità sarà messa in dubbio a più riprese, prima dagli uomini, e poi dagli dei!

Kōken

Kōken regna dal 749 al 758.

I suoi genitori sono ancora in vita e continuano ad esercitare la loro influenza sulla politica, Shōmu in quanto Imperatore ritirato, e Kōmyō in quanto Imperatrice madre. L’uomo più influente di corte, a questo punto, è Fujiwara Nakamaro, parente stretto di Kōmyō.

Nakamaro non solo è parente e protetto di Kōmyō, ma per anni riveste un ruolo di rilievo nell’amministrazione centrale, la gestione della casa dell’Imperatrice e gli affari militari.

Il regno di Kōken non si discosta molto da quello precedente di Shōmu: i nostri mantengono contatti diplomatici coi Tang e sponsorizzano il Buddhismo. Nell’est, continuano a incentivare la colonizzazione, ma mantengono rapporti cordiali con gli emishi, gente di cui abbiamo parlato qui e che non riconosceva l’autorità della corte di Yamato.

Emishi, da una rappresentazione del XIV° secolo

La situazione politica però è lungi dall’essere stabile: nel 757 il figlio di Moroe, Tachibana Naramaro, tenta un colpo di stato.

Naramaro ha molte ragioni per essere scontento: non ha potuto succedere al padre alla guida del governo, Nakamaro è un tiranno violento, e il candidato alla successione imperiale è imparentato con Nakamaro via matrimonio.

Peccato che Naramaro non sia proprio il migliore complottatore là fuori, e il piano viene presto spiattellato alla corte. Nakamaro salta sull’occasione e fa spacciare il rivale con tutti i suoi avversari.

Nel 758 Kōken abdica in favore di un parente, che diventa l’Imperatore Junnin. Junnin è imparentato per matrimonio con Nakamaro, che Junnin rispetta come un secondo padre.

Sembra proprio che Nakamaro e il suo figlioccio Junnin abbiano fatto cappotto, ma non è così. La realtà è che la situazione è molto instabile, e Kōken ha probabilmente calcolato che le conviene effettuare una ritirata strategica se vuole restare rilevante a corte senza rischiare di restare coinvolta in congiure dilettantesche.

E difatti il regno di Junnin è molto bizzarro. Il nostro non sembra mai diventare un vero e proprio sovrano, al punto che la corte non si prende nemmeno la briga di cambiare il nome di era com’era costume all’inaugurazione di un nuovo regno.

Sotto una superficie di baciabbracci e volemosebbene, sta gradualmente montando l’antagonismo tra la volitiva Kōken e l’autoritario Nakamaro.

Il Padiglione principale del Palazzo

Nel primo paio d’anni tutto sembra filare liscio. Kōken e Junnin si trasferiscono perfino alla residenza di Nakamaro. Tre amiconi!

Sembra un pelino strano che Kōken si premuri di riprendere il controllo delle Guardie della Cinta, prima tenuto da Nakamaro, ma a parte questo la nostra sembra più occupata con la propria vita spirituale che con gli affari di stato.

Il Tempio del Grande Buddha

Kōmyō muore nel 760. A 42 anni, Kōken è de facto il membro più anziano e prominente della famiglia. Il che la mette in una posizione delicata rispetto a Junnin. Peraltro, ora che Kōmyō è defunta, Kōken diventa l’Imperatrice ritirata, il nuovo polo di autorità a corte, come suo padre e sua madre erano stati prima di lei.

Questo la mette in competizione con Nakamaro, che stava facendo una carriera stellare e teneva Junnin in palmo di mano.

Le cose prendono però una svolta imprevista quando Kōken si ammala. E’ il 761, e la nostra si trova allettata. Medici e santoni cercano di portarle sollievo, senza risultato. Kōken sta morendo.

E un giorno si presenta a lei un monaco. Il suo nome è Dōkyō, Specchio della Via.

Dōkyō intento in uno dei suoi loschi riti, particolare dalla stampa di Utagawa Kunisada, 1819

Dōkyō ha fama di essere un seguace di pratiche esoteriche e poco ortodosse. Non è proprio il genere di persona adatta alla cerchia di un’Imperatrice ritirata. Ma Kōken è determinata a non stirare le zampine, e lo lascia avvicinare.

Non è chiaro cosa succeda a questo punto. Dōkyō stregoneggia qualcosa, e par funzionare, perché Kōken migliora. La malattia svanisce, il suo corpo si fortifica. A 43 anni Kōken rifiorisce.

E i nodi che si erano accumulati tra lei, Junnin e Nakamaro vengono tutti al pettine tutti insieme.

Mesi dopo la miracolosa guarigione, nel 762, Kōken rompe i piatti coi due, raccatta la propria gente e il suo nuovo consigliere spirituale e torna a Nara, dove fa emettere un Ordine solenne in cui spoglia Junnin delle proprie prerogative e si riappropria del potere decisionale.

Ovvio, questo rende Junnin molto infelice, ma Nakamaro la prende ancora peggio. Il nostro ha impestato la corte e l’amministrazione coi propri amici e parenti, ma con Junnin relegato a ragazza pon-pon e addetto agli addobbi floreali, la sua posizione è minacciata.

Per due anni l’Imperatrice ritirata e il Ministro dei Ministri si prendono a cornate in un braccio di ferro sempre più feroce.

Finché nel 764 Nakamaro non decide di agire.

Come accennato, il nostro aveva piazzato figli e alleati in numerose posizioni militari.

Nel 9° mese decide di passare all’azione e inscatolare la fastidiosa carampana con le cattive: ordina a uno dei suoi di inviare messaggeri ai guerrieri delle provincie e di radunare 6.000 soldati alla Capitale. Di certo le Guardie della Cinta non possono misurarsi contro 6.000 gagliardi combattenti a cavallo!
Per poter convocare i summenzionati 6.000 però Nakamaro deve dimostrare di agire in nome e per conto del Governo. In altre parole, li deve convocare via dei messaggeri ufficiali.

A questo punto il Giappone ha un sistema di strade e di cavalli postali ben sviluppato: le stazioni coi cavalli, disseminate a tappe di una trentina di chilometri le une dalle altre, permettono ai messaggeri ufficiali di spostarsi tra la Capitale e le capitali provinciali.

Per poter usare questi cavalli e provare quindi di essere un messaggero legittimo, il funzionario riceve dal governo dei sonagli speciali, ekirei. Il portatore di ekirei è un messo legittimo.

Ed è su questo banale ma vitale dettaglio che Nakamaro si rompe il muso.

Nakamaro ha preparato il suo colpo di stato, messo in allerta le truppe provinciali, infiltrato i suoi ovunque e accaparrato i governatorati delle provincia chiave.

Kōken non fa niente di tutto ciò: Kōken (avvertita che si stavano aprendo le danze), manda uno dei suoi a far manbassa delle ekirei. Requisisce i sonagli.

E paralizza all’istante l’intero apparato ribelle.

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Rappresentazione grafica del complotto di Nakamaro

Nakamaro si aspetta di vedere arrivare da un momento all’altro migliaia di guerrieri ai suoi ordini. Invece è incastrato alla Capitale, incapace di chiedere aiuto, solo con Kōken, che, ricordiamolo, controlla le Guardie.

Nakamaro è un tacchino che si è barricato nella tana di un dingo affamato.

Per sette giorni le Guardie della Cinta assediano Nakamaro nella sua residenza, come anni prima era toccato al Principe Nagaya. Solo che questa volta Nakamaro non viene “suicidato”. Non ce n’è bisogno. Kōken lo fa trascinare sulle rive del lago Biwa, dove viene scapitozzato.

Junnin non viene ucciso, ma solo deposto ed esiliato. Per chi segue questo blog, non ammazzare il cugino è un’altra scelta che fa di Kōken una figura molto atipica nel panorama storico giapponese.

Shōtoku

La nostra risale sul trono: nuova carriera, nuovo nome, Shōtoku!

Il governo viene riformato, zeppato con i capiclan che hanno avuto il buonsenso di restarle fedeli. La nostra è ormai autocrate indiscusso dell’Impero, e questo mette a disagio molti dignitari.

Cosa combinerà mai questa volitiva quarantenne? Questa strana donna che non ammazza il cugino, non si sceglie un marito, questa che si autoproclama Imperatrice per la seconda volta così, senza nemmeno appellarsi a un precedente dignitoso?

Il suo più fidato consigliere resta Dōkyō, e le chiacchiere subito si scatenano.

Come minimo questa carampana dalla menopausa incipiente è la sua amante, è senza dubbio manipolata da questo carismatico e misterioso stregone.

E’ fuori di dubbio che Shōtoku fosse una credente fervente, che si considerasse “al di fuori del mondo”. E’ anche fuori di dubbio che favorì il clero buddhista più dell’aristocrazia laica.

Il Grande Tempio Occidentale, costruito nel 764

Ma questo può essere anche spiegato col fatto che il clero le era sempre stato fedele, mentre gli aristocratici laici avevano cercato di silurarla due volte. Uno diventa un po’ diffidente, a lungo andare…

E’ anche innegabile che Dōkyō fosse una delle persone a lei più vicine, che lei lo definisse il suo “maestro” e che, grazie al favore di lei, Dōkyō abbia fatto una carriera mai vista prima. Addirittura Shōtoku lo fa nominare “Re della Legge” (法王), una carica che non era mai stata concessa prima né mai lo sarà dopo.

Però

C’è sempre un però

Il problema delle fonti scritte è che spesso non sono neutrali, ma molto parziali. Scremata la paranoia dell’autore confuciano, se esaminiamo i fatti ci rendiamo conto che Dōkyō non si vide mai concedere nessun incarico temporale. La carriera di Dōkyō è strettamente spirituale ed ecclesiastica. Quando viene nominato Ministro e poi Re, Shōtoku specifica sempre che si tratta di Ministro e Re del culto buddhista. Dōkyō non ottenne mai nessun potere effettivo.

Quello è nelle mani di Shōtoku, che non lo condivide.

Scorcio del tempio orientale

Shōtoku è quindi padrona indiscussa della corte. La sua autorità però viene messa di nuovo in discussione, non più dagli uomini, ma dagli dei.

E’ l’ultimo round, e questa volta è Shōtoku contro le Potenze Iperuranie!

E’ il 769, un oracolo arriva da parte del Gran Bodhisattva Hachiman: se si vuole che le carestie cessino, che il regno sia pacificato, che la prosperità ritorni, Shōtoku deve nominare il monaco Dōkyō come suo successore.

Questo messaggio da parte di Hachiman in persona ha sulla corte e la Capitale l’effetto di una granata a frammentazione tirata in una cristalleria. Per molti è un segno inequivocabile della fine imminente della dinastia. Lo hanno detto per anni: Shōtoku è una poveretta tenuta al guinzaglio da un mago senza scrupoli. Ora gli consegnerà il trono e la dinastia che si protrae indietro nel tempo fino alla Dea del Sole giungerà a fine!

Solo che Shōtoku, fervente credente, reagisce a questo messaggio divino con sorprendente (e onestamente sospetta) cautela.

-Che oracolo bizzarro.- Commenta -Certo, se questo è ciò che gli dei vogliono, non posso che obbedire. Solo che… metti che abbiamo capito male? Per essere proprio sicuri, chiediamo cosa ne pensa il mio personale indovino. Per conferma, sai.

Da notare che l’oracolo viene dal santuario di Usa Hachimangū, in Kyūshū, e il governatore del momento è il fratello minore di Dōkyō. Coincidenze, senza dubbio.

Ad ogni modo meno male che Shōtoku controlla perché, INCREDIBILMENTE, il secondo indovino trae dal dio un messaggio del tutto diverso!

Secondo il nuovo responso, non solo Shōtoku è la legittima e indiscussa sovrana, ma chiunque provi a mettere in dubbio la legittimità della Famiglia Imperiale è una minaccia per il Paese e deve essere annientato.

Che dire, per essere una con una fede cieca nel suo mago, Shōtoku sapeva dar prova di notevole scetticismo.

Fontana presso il padiglione della luna, nel Tempio Orientale

Ci sono ovviamente conseguenze per questo tiro furbino da parte dei parenti di Dōkyō, ma Dōkyō stesso non viene punito. Forse Shōtoku decise che era innocente, o che non ci avrebbe riprovato.

E’ anche possibile che la nostra abbia avuto pietà: la sua salute si stava di nuovo deteriorando, e nessuna formula magica aveva più effetto. Shōtoku stava morendo, ci sta che non abbia avuto il cuore di far uccidere quello che senz’altro era un uomo importantissimo per lei.

Un anno dopo l’incidente, Shōtoku muore senza eredi. Dopo di lei viene scelto come successore il principe Shirakabe, che discende non dal ramo di Tenmu (ramo che era stato dominante sin dal 673), ma dal ramo di Tenji (r. 668-671).

Tenmu aveva usurpato il trono alla morte di Tenji, e 100 anni dopo il suo lignaggio si esaurisce, permettendo al ramo più antico di riemergere. Ah, i corsi e i ricorsi…

光仁天皇
L’Imperatore Kōnin, precedentemente noto come Principe Shirakabe

In molti si sono interpellati sulla mancanza di consorti e di eredi di Kōken/Shōtoku.

A parte il pettegolezzo maligno su Dōkyō, pare proprio che l’Imperatrice non avesse amanti o compagni. E’ possibile che semplicemente non le piacessero gli uomini: checché ne pensino certi gamers, i diversamente eterosessuali non sono un’invenzione dei SJW per rovinare i videogiochi.

E’ anche possibile che Kōken/Shōtoku abbia deciso di non correre il rischio di una gravidanza, visto che di parto si moriva male e con una certa frequenza.

C’è però qualcosa di deliberato nel fatto che non si sia nemmeno presa la briga di designare un successore, magari un parente (come era avvenuto con Junnin). Magari aveva rotto i piatti con tutti i parenti e non si fidava di nessuno di loro. Magari la sua sincera fede nel potere del Buddhismo la portò a credere che il karma positivo maturato con le sue numerose opere pie avrebbe portato al trono un successore degno.

Con la nuova interpretazione dell’oracolo di Hachiman, Kōken/Shōtoku assicura l’intoccabilità della Famiglia Imperiale, sancisce in modo inequivocabile che il trono può andare solo a un membro del suo clan. Forse questo le bastava.

Non si premurò nemmeno di proteggere di Dōkyō, che fu prontamente pensionato in un monastero di Shimotsuke non appena lei morì. Il fatto che non l’abbiano fatto fuori conferma che nemmeno i successori di lei lo ritenevano una minaccia.

Il mondo che Shōtoku lascia al suo successore Kōnin (r. 770-781) non è dei migliori.

Tanto per cominciare la nomina del principe Shirakabe scatena la virulenta opposizione del ramo imperiale di Tenmu e del clero di Nara, tanto che dopo pochi anni il nuovo ramo regnante decide di abbandonare la Capitale e spostarsi. Da un punto di vista economico, la situazione aveva cominciato a languire sotto il regno di Shōmu e non era migliorata nei decenni. Per di più, non appena la vecchia stira le zampe, gli emishi decidono che è ora di riprendere le ostilità: sotto il regno di Kōnin comincia la Guerra dei 38 anni nelle provincie orientali.

Il regno di Kōken/Shōtoku non è rivoluzionario o particolarmente innovativo: l’Imperatrice si situa in perfetta continuità con le politiche economiche, amministrative e religiose portate avanti da suo padre e suo nonno. Tolte le paranoie, il giudizio e le fisime dei suoi contemporanei, Kōken/Shōtoku non fu una sovrana particolarmente migliore o peggiore dei suoi predecessori. Fu di certo molto abile, audace e scaltra, ma come governante fu straordinariamente normale per il suo tempo.

E’ solo che dovette far molta fatica per poter governare nello stesso modo in cui suo padre aveva governato.

La morale della favola è sempre la stessa: mai fidarsi dei cugini!

MUSICA!


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La gloriosa rivoluzione di Croda

E’ il 1916, un giovane operaio e un giovane contadino sono costretti a penare sotto l’oppressiva dittatura dell’Imperatore. Afflitti dal bieco capofabbrica, stanchi, affamati, sono però ispirati dal misterioso Spirito Guida del Socialismo.

Se oggi Croda è un paradiso socialista esemplare per il mondo intero, lo deve prima di tutto all’indefesso lavoro dei suoi due padri fondatori.

Questa è la Storia di Croda.

E’ il 1982, e a Bologna un gruppetto di artisti di strada e animatori di centri estivi mette insieme il Gran Pavese Varietà. Nel gruppo troviamo quelle che diventeranno facce note della televisione degli anni ’80 e ’90: Patrizio Ruggeri, Susy Blady o Stefano Bicocchi.

E troviamo Luciano Manzalini ed Eraldo Turra, in arte Gemelli Ruggeri.

Il gruppo intraprende una buona carriera televisiva, partecipando a programmi di varietà come Drive In o Il Lupo Solitario. Si occupano anche di cinema, in particolare con La voce della luna, di Fellini.

E’ il 1987 quando i Gemelli Ruggeri esordiscono in televisione con dei nuovi personaggi: dei corrispondenti di Croda, un improbabile staterello dell’est Europa. Tema ricorrente: la generale pezzenteria di Croda, caricatura del degrado post-sovietico.

Finora niente di particolarmente notevole: sono comici di varietà che fanno i comici di varietà.

E poi arriva il 1988.

Ruggeri e soci si imbarcano con il regista Cammarota e girano Storia di Croda, un film in 9 puntate.

Il risveglio del proletariato rurale

Storia di Croda è pensato come un film di propaganda bolscevica girato negli anni ’20 e tradotto in un italiano maccheronico per diffondere il messaggio socialista nell’Italia ancora preda dell’artiglio monarchico e capitalista.

In questo somiglia molto a Fascisti su Marte, pure pensato come finto film d’epoca.

L’ispirazione principale è senza dubbio La corazzata Potyomkin di Sergei Eisenstein.

Per chi non avesse visto Fantozzi, si tratta di un film di propaganda bolscevica del 1925 che narra dell’ammutinamento sulla Potyomkin e delle proteste di Odessa, represse nel sangue.

Al di là della vena propagandistica un pelino pesante, il film è giustamente considerato un caposaldo dell’arte, con uno stile drammatico molto riconoscibile. I primi piani, lo zoom su dettagli simbolici, l’uso innovativo del montaggio e la scelta dei piani, lo stile di Eisenstein è tanto memorabile quanto parodiabile.

Storia di Croda pure narra di come lo spirito rivoluzionario si accese nel cuore del popolo.

La trama

Croda è sotto il controllo del bieco Imperatore (Stefano Bicocchi): stupido, crudele, ingordo, è un ritratto quasi accurato di Nicola II.

L’infame Imperatore

[Prima che qualcuno venga ad agitare il ditino nei commenti dicendo che sto esagerando, dirò UNA cosa buona su Nicola, così possiamo passare ad altro: è stato uno dei pochi leader a essere davvero, davvero opposto all’idea di una guerra nel 1914. E se un fesso come Nicola aveva fiutato il disastro, immaginate il livello di ubriacatura pazzoide su cui viaggiavano Tedeschi, Francesi o Austriaci.

Per il resto, sono prontissima a credere che Nicola fosse troppo stupido per essere volutamente crudele, ma era un tiranno, un inetto che -nella migliore delle ipotesi- non ha protetto i suoi sudditi, e in generale una pessima persona. Per queste ragioni dichiaro il blog una Nicholas II Free dunking zone. Ogni battuta o lazzo sarà condonata con materno pat-pat sul capino. Sua moglie è inclusa nella dunking zone]

Relegati ai bassifondi della città vivono un giovane operaio e un contadino a cui i malvagi Cosacchi hanno rubato l’unico pollo. Il film non dà loro nomi, ma per semplicità li chiameremo rispettivamente Lebin e Stalimb.

Un giorno, dopo l’ennesima prepotenza subita dal capofabbrica, Lebin ha una visione: gli appare Karl Marx con una cuccuma di caffé fumante.

kaffeeeee?

Ispirato dal letterale Fantasma del Comunismo, Lebin inizia a organizzare riunioni e sobillare rivolta, aiutato dall’amico Stalimb, che non è proprio un uomo di pensiero quanto d’azione, ma sa adattarsi.

Le cose precipitano quando, dopo una soffiata del malvagio capofabbrica, i nostri sono denunciati ai Cosacchi. Davanti ai fucili spianati, un rivoluzionari chiede loro se sono davvero pronti a uccidere un fratello, in una scena molto reminescente della mancata fucilazione ne La corazzata Potyomkin.

Davanti ai moschetti dei soldati! (Potyomkin)
Davanti ai moschetti dei Cosacchi! (Croda)

A Croda la risposta è “sì”.

E come ne La corazzata, il sangue del martire scatena la rivoluzione.

I nostri sequestrano un treno per poter portare il messaggio di ribellione nel resto del paese. Ma come fare? Nessuno sa guidare la locomotiva.

Si presenta il capofabbrica pentito, e viene accolto a braccia aperte, perché:

“La rivoluzione sa anche perdonare. Chi sa manovrare la locomotiva.”

Michail Nikolaevič Tuchačevskij - Wikipedia
Well, la rivoluzione non perdona proprio TUTTI quelli che sanno manovrare la locomotiva… vero Mikhail?

Come accennato, i riferimenti ad Eisenstein sono tantissimi. I primi piani sulle espressioni e sugli occhi. Il simbolismo smaccato, come quando i protagonisti consumano il magro pasto e ombre di catene ondeggiano sui loro visi. Il malvagio oppressore che, braccato dai rivoluzionari, si arrampica sul pianoforte per scappare. Numerose scene sembrano dirette citazioni.

“Bing, bang!” fa il revolver
del bieco servo del potere!

Per molti versi Storia di Croda sembra progettato per apparire come la versione più povera e raffazzonata de La corazzata. Una sorta di “imitazione crodese” del cinema russo.

Il malvagio Imperatore
Il crudele comandante della Potyomkin
L’ombra delle catene a Croda
Il sottile simbolismo di Eisenstien

Non si tratta però di una semplice parodia di Eisenstein. Storia di Croda fa anche numerosi riferimenti a fatti storici, come la prigionia di Gramsci o il ritorno di Lenin nel 1917.

Peraltro lo stesso anno uscì una miniserie proprio su Lenin, prodotta dalla Rai e ispirata al romanzo Lenin’s mistress: The life of Inessa Armand, di Micheal Pearson. La serie si intitola, guarda caso, Il treno di Lenin. Nei panni di Lenin troviamo nientemeno che Ben Kingsley, mentre dietro la cinepresa c’era Damiano Damiani.

I più colti lettori lo riconosceranno certamente come il regista di perle del cinema italiano come El Chuncho quien sabe, Il giorno della civetta o l’immortale capolavoro Alex l’Ariete.

La faccia del pubblico quando Alberto Tomba prova a recitare

Altre aggiunte sono macchiette caricaturali anni ’20: Susy Blady è “La Piccola Anarchica”, che arringa la folla e sparge propaganda rivoluzionaria travestita da uomo.

Patrizio Ruggeri è invece il poeta futurista, uno dei miei personaggi preferiti, che viene tosto pestato dagli operai:

“Pim, pum, pam, pam! Rullano i pugni educativi del realismo proletario!”

E questo ci porta a uno degli aspetti migliori: come anche Fascisti su Marte, Storia di Croda conta su una voce narrante in stile ventennio assolutamente deliziosa.

L’accento russo e l’italiano aleatorio sono sufficientemente marcati da essere spassosi, senza essere troppo caricati. E la sceneggiatura è pure curata nei dettagli. Ogni puntata, seppur durando pochi minuti, ha almeno una battuta memorabile, a cominciare dalla prima, quando Lebin deve affrettarsi ad andare a lavoro perché “non c’è tempo per il lamento, la fabbrica non esige ritardi”.

E il finale è pure interessante.

Dico solo che quando l’ho visto con Nursie, il suo commento è stato: “Io me la ricordavo diversa, la storia…”

Beh Nursie, te la ricordavi diversa perché sei stata a sentire la calunniosa propaganda del grasso occidente capitalista!

Foto di Tenger che rieduca le coinquiline, contaminate dall’infame menzogna capitalista

Storia di Croda dura sì e no 40 minuti. E’ particolarmente divertente se avete una qualche pratica dei film di Eisenstein o se siete vagamente familiari con la propaganda russa del periodo, ma non è indispensabile.

Si trova per intero su YouTube.

Anche La corazzata Potyomkin si trova per intero su YouTube, è un’ora e dieci ed è un film storicamente rilevante, quindi se siete in vena di farvi randellare la capoccia da sfacciata propaganda, guardatevi anche quello. Ma Storia di Croda è più corto e, tutto sommato, fa più ridere.

MUSICA!

(Non è metal, ma è appropriata!)


Links

Pagina wiki dei Gemelli Ruggeri

Pagina wiki del film Battleship Potyomkin

Articolo dello Smithsonian sul viaggio di Lenin

L’ammutinamento della Potyomkin

Il pogrom di Odessa del 1905

Prima delle grandi riforme: diplomazia, suicidi, e l’Incidente di Isshi

Uno degli eventi fondamentali nella Storia del Giappone è la cosiddetta Riforma di Taika: una serie di riforme radicali enunciate dall’Imperatore Kōtoku nel 646 che trasformarono profondamente il Paese. Prima di Kōtoku c’era il regno di Wa, 50 anni dopo c’era l’Impero del Giappone. Prima di Kōtoku c’era una coalizione di capi-clan, 50 anni dopo c’era uno stato burocratico basato su un Codice di leggi alla cinese.

La Riforma è un soggetto interessantissimo se si vuole capire il meccanismo di state formation giapponese. Ma altrettanto interessante è il mezzo secolo che precede Kōtoku. Come è stato possibile passare da una situazione all’altra? Cos’è successo, cosa ha spianato la via alla modernizzazione?

Si tratta di una combinazione tra il tracollo dell’equilibrio geopolitico nella regione (Cina-Corea-Giappone) e l’esplodere di irrisolvibili tensioni politiche nel regno di Wa stesso.

Una dinastia sparisce, generali si ribellano, e un uomo viene fatto a pezzi nella sala del trono: oggi parliamo dell’Incidente di Isshi!

Contesto politico e diplomatico

Il sipario si alza agli inizi del VII° secolo. Nella Penisola coreana troviamo il regno di Goguryeo nel nord, il regno di Baekje nel sud-ovest, e il regno di Silla a est. I più assidui lettori potrebbero chiedersi: «hey, ma non c’era una Confederazione di Gaya incuneata tra Baekje e Silla?»

E la risposta è sì, c’era. Il letterale vaso di coccio tra i due vasi di bronzo. Nel 562 è stata cannibalizzata da Baekje e, soprattutto, da Silla, lasciando i giapponesi senza uno dei loro partner commerciali e diplomatici principali.

Nelle isole, il regno di Wa controlla il grosso di Kyūshū, la parte occidentale e centrale di Honshū, e ha una forte influenza sulla piana del Kantō, anche se tracciare confini veri e propri è una questione complicata. A questo punto il re di Wa è una sorta di «capo tra i capi» che si appoggia su una classe di capi-clan suoi alleati. La sua influenza non è stabilita direttamente sul territorio, ma «irradia», diventando sempre più debole verso est e nordest, fino a svanire nel nulla nelle regioni dominate dagli emishi, simpatici piromani a cavallo di cui abbiamo parlato qui.

Tra la fine del VI° e gli inizi del VII°, il regno di Wa sta subendo quella che Fried definisce secondary state formation, ovvero un’evoluzione da stato “tribale” verso uno stato burocratico a seguito dell’influenza di stati vicini più avanzati.

[Nota: il termine “stato tribale” è oggetto di un sacco di polemica pallosissime discussioni dibattito, è usato qui solo per intendersi, non sminuzzatemi le scatole a riguardo che vi sculaccio]

Nel 604 viene stilata una lista di 17 principi che avrebbero dovuto reggere il governo del domani, la famosa “Costituzione in 17 articoli”. Non si tratta di una vera e propria Costituzione, ovviamente, quanto di un elenco di principi sulle virtù e il ruolo del governo. Un punto però, il 12, è molto chiaro:

[…] Un paese non ha due signori. Il popolo non ha due sovrani. Il sovrano è il solo signore del Paese e dei sudditi. […]

All’atto pratico si tratta di una dichiarazione di intenti di muoversi da un sistema basato sul paradigma Re di Wa -> Capi-clan -> sudditi a uno in cui Re di Wa -> sudditi.

Fino a questo punto i capi clan di gran parte delle isole, chiamati in giapponese kuni no miyatsuko, “capi di territorio”, hanno sostenuto il re di Wa, ma continuano a incarnare il potere politico, militare e religioso nella loro zona. La corte di Yamato (di cui fanno parte i capi dei clan più importanti) ha la ferma intenzione di eliminare questo anello intermedio in favore di un sistema più centralizzato e moderno. Per fare questo, i nostri partecipano attivamente a scambi di tecniche e idee con la Cina dei Sui e i regni coreani (soprattutto Baekje).

Un fatto viene però a stravolgere l’equilibrio dell’intera regione: 618, i Tang rovesciano i Sui e prendono il controllo della Cina.

Goguryeo è il primo regno a saltare nel letto coi Tang, anche perché si erano appena fatti un guerrone colossale coi Sui (vincendolo!).

Il secondo regno a legarsi ai Tang è Silla, acerrimo nemico di Baekje e di Wa.

Le cose si mettono male per il regno di Wa, e peggiorano quando una spedizione militare contro Silla, datata 623, si conclude in un colossale buco nell’acqua.

Lo stravolgimento geopolitico del Continente non è l’unica grana del regno: la corte era dominata da decenni ormai dal clan dei Soga. Costoro erano gente tanto potente quanto pericolosa, il sovrano stesso doveva trattarli coi guantini se ci teneva alla pelle.

Non è un’iperbole: il sovrano Sushun cercò di liberarsi di loro e finì sgozzato come un cinghiale.

La Corea

E le cose continuano a peggiorare: in pochi anni, i Tang pacificano le proprie frontiere e iniziano ad accarezzare l’idea di una bella espansione. I primi a preoccuparsi sono i regnanti di Goguryeo. E hanno ragione di sentirsela sdrucciolare: secondo Gernet a partire dal 627 i Tang lanciano quella che definisce «una delle più grandi espansioni militari della storia della Cina».

I Wa legano rapporti diplomatici coi Tang, interessati in particolar modo al loro sistema politico e militare. Wa deve modernizzarsi e i Tang sono un ottimo modello da seguire.

Un modello che però va applicato alla svelta: con lo scoccare del 641 è chiaro che i Tang hanno gli occhi sulla Penisola coreana.

Uno potrebbe pensare che, confrontati alla minaccia Tang, i regni coreani abbiano cercato di far fronte comune, magari tentando di rompere la stretta alleanza tra Silla e la nuova dinastia cinese.

Ma no: il re di Baekje decide che ora è il momento perfetto per attaccare Silla, primo alleato dei Tang in Corea.  Spoiler: nonostante iniziali successi militari, l’Imperatore Tang fa la voce grossa e il re di Baekje deve ritirarsi con un nulla di fatto.

E la classe dirigente di Goguryeo non se la cava molto meglio. Invece di fare fronte unito contro la minaccia straniera, il re e i ministri decidono che il pericolo più imminente per la corona è uno dei loro: Yeon Gaesomun, un militare molto influente. Troppo influente. Si decide che è meglio farlo fuori (perché assassinare i tuoi generali all’alba di una guerra è un’idea grandiosa!).

Il piano viene sospeso quando Gaesomun li invita tutti a un sontuoso banchetto.

Per nulla sospetto, vero?

Oh beh. Re e ministri accettano l’invito, Gaesomun fa sbarrare le porte e li fa uccidere tutti.

Surprised Pikachu is a Meme About Knowing Better

Gaesomun non usurpa il trono, ma mette in carica re Bojang, che, spoiler sarà l’ultimo re di Goguryeo.

E i Wa?

Anche dai Wa c’è poco da essere allegri: il regno è nella morsa di una crisi economica, il clan Soga è sempre più impopolare a Corte, e gli emishi hanno cominciato a risentire la pressione coloniale nel loro territorio (e un emishi risentito è un emishi che brucia villaggi).

Quindi tirando le somme:

  • sul piano estero l’alleato principale di Wa, Baekje, è impegnato a cercare rogne coi Tang e con Silla
  • un altro alleato potenziale, Goguryeo, è ora controllato da un generale poco socievole
  • la frontiera nordorientale è a fuoco
  • alla Capitale i vari capifamiglia stanno arrotando i coltelli.

Il regno ha disperato bisogno di riforme, ma invece che costruttivi progetti si tessono intrighi, tutto va male e le cose stanno per prendere una piega ancora peggiore.

La corte di Wa e il gran botto del 645

Alla morte della regina Suiko (628) l’erede al trono è il principe Yamashiro, figlio del Principe Shōtoku, una delle figure più influenti del periodo nonché autore putativo della Costituzione in 17 articoli. Yamashiro però è inviso ai Soga, e in particolare al loro capo, Soga no Emishi (non un nome etnico, si tratta del suo nome personale), che riesce va farlo estromettere dalla discendenza imperiale.

Fun fact: Yamashiro era figlio della sorella di Soga no Emishi. Come si vedrà dall’albero genealogico: Yamashiro, Furuhito, Iruka e Kurayamada erano tutti cugini.

Al posto di Yamashiro i Soga spingono con successo la nomina del principe Tamura (poi sovrano Jōmei), che NON era legato a loro di parentela. Come per cui i legami di sangue non sempre fanno aggio.

Il problema si ripresenta nel 642, quando Jōmei stira le zampine. Chi deve succedergli?

I Soga favoriscono il principe Furuhito, figlio di Jōmei e di una donna Soga. Un altro contendente però è il principe Naka, figlio di Jōmei e della consorte Kōgyoku.

Furuhito è un uomo adulto e ha il sostegno dei Soga, ma Naka è sostenuto dai principi imperiali opposti al clan. Per evitare che la situazione degeneri, si opta quindi per far salire sul trono Kōgyoku. Una seconda volta, la disputa è solo rimandata.

Allo scopo di spianare la strada alla nomina di Furuhito e falciare il supporto a Naka, Soga no Iruka, figlio di Emishi e uomo dal carattere conciliante e compassato di una mina magnetica del ‘39, decide che, per prima cosa, bisogna eliminare Yamashiro. Yamashiro aveva ottime ragioni di odiare i cugini, era un vecchio candidato al trono, e rappresentava un avversario politico molto scomodo.

“Feeling cute, might kill your whole family idk” (cit. Iruka)

E’ il cuore dell’inverno del 643, è buio, il freddo è pungente. Soga dà ordine ai suoi uomini: andate alla residenza del principe Yamashiro, uccidete lui, i suoi figli e tutta la sua gente.

Gli sgherri avanzano nella notte, arrivano alla residenza. Tutto tace. Stanno per scavalcare la porta quando delle lanterne appaiono sopra il muro. Sono gli uomini di Yamashiro.

I fart in your general direction!- Tuona il capo incoccando una freccia. –Your mother was a hamster and your father smelled of elderberries!

Yamashiro non è uno scemo, si aspetta un agguato. La sua gente scarica sulle capocce dei Soga una grandinata di frecce.

Dopo il primo shock, i Soga riprendono animo. Sono di più, sono meglio armati. Contrattaccano.

Yamashiro sa di non poter tenere la posizione. Scaltramente, getta delle ossa di cavallo della propria camera, appicca fuoco alla residenza e scappa insieme alla moglie e ai figli.

Dopo che le fiamme si sono calmate, gli sgherri di Iruka avanzano nel macello fumante. Hanno una mezza idea di dove si trovano gli appartamenti di Yamashiro, ci si dirigono scavalcando cadaveri e travi carbonizzate. Trovano i frammenti di osso nelle rovine fumanti.

-Aha ! Questa era la camera di Yamashiro, questo è senza dubbio il suo scheletro!

-Dici? Mi pare un po’ strano.

-E’ Yamashiro.

-Guarda che gambe, oh ! E’ proprio vero che aveva le ossa grandi…

-Ti dico che è Yamashiro.

-Senti, ma questo teschio mi pare avere un mento u po’ troppo volitivo. E questi dentoni poi…

-SENTI COSO, SONO LE 3 DI NOTTE, FA UN FREDDO CANE E ABBIAMO PERSO UN TERZO DEI NOSTRI, IO DICO CHE E’ YAMASHIRO E CHE POSSIAMO TORNARE A CASA!

Frattanto, nelle montagne, il Principe Yamashiro e i suoi fanno il punto della situazione. E’ chiaro che il momento delle discussioni è finito: Iruka ha dimostrato che no ha paura di usare le armi. Non resta che la guerra. Yamashiro potrebbe fuggire nelle provincie orientali, levare un esercito, combattere Iruka.

Questo però significa guerra civile. In un periodo in cui le casse languono, gli alleati sono inaffidabili e un esercito colossale e ultramoderno potrebbe decidere di attaccare a ogni momento. Chissà, magari una guerra civile è proprio ciò che Silla o i Tang aspettano.

Yamashiro non è disposto a correre questo rischio.

Dal Nihon shoki :

«Se facciamo come dici [NdT leviamo un esercito nell’est] saremmo certamente vincitori. Ma sento di non poter infliggere dieci anni di sofferenza sul popolo. Io sono solo un uomo, come posso portare dolore ad altri diecimila ? In futuro, non voglio che la gente dica che hanno perso le loro madri o i loro padri a causa mia»

Yamashiro non può trattare col suo nemico, e non vuole combattere, ma non ha intenzione di farsi catturare. Insieme ai suoi, ritorna al mucchio di cenere che era un tempo la sua residenza. Il tempio di famiglia è ancora in piedi. Yamashiro e la sua famiglia si riuniscono al suo interno e si suicidano tutti quanti.

Non sono morti per mano dei Soga, non sono morti in un incendio, non c’è modo di fingere che si sia trattato di un increscioso incidente. Yamashiro ha deciso di morire per risparmiare al regno la catastrofe di una guerra civile, e tosto diventa un esempio di virtù confuciana e fedeltà allo Stato. Yamashiro e i suoi non sono mere vittime di intrighi politici: ora sono martiri.

E chi ha strappato allo Stato e alla corona un uomo così fedele, così virtuoso?

Oh beh. Soga no Iruka.

Politicamente è un disastro.

Non solo: ora il nemico principale di Iruka, il principe Naka, poco più che un bambino in questa data, sa di non avere scelta. Non c’è accordo possibile, è solo questione di chi colpirà per primo.

Empresses Regnant of Japan - Empress Kōgyoku/Saimei - History of Royal Women
La faccia che fai quando sei regina di Wa e ti informano che Soga no Iruka ha di nuovo sterminato una famiglia di oppositori politici

Naka non è l’unico a odiare Iruka. Anche perché, considerati i metodi, Iruka non è tipo da farsi molti amici.

Tra quelli che lo odiano c’è un tale Nakatomi no Komako no Muraji. Non un pesce particolarmente grosso, tutto considerato. Ma è un sostenitore fedelissimo del principe imperiale Karu. Secondo lui, Karu incarna le virtù del sovrano benevolo, ed è quindi un candidato molto migliore di Furuhito.

Ma come fare a spingere la nomina di Karu, quando Furuhito ha dalla sua un clan potente e aggressivo come i Soga?

Komako ha bisogno di un alleato.

Un giorno, durante una partita della versione giapponese del calcio tra aristocratici, Komako incontra il giovane principe Naka.

I due si vanno a genio e presto scoprono di essere entrambi cultori di Confucio e degli insegnamenti del Duca di Zhou. Con mille precauzioni, i due iniziano a complottare contro Iruka.

Per evitare di essere scoperti, nascondono la loro amicizia, o parlano a bassa voce solo in luoghi pubblici, dove il frastuono impedisce ad orecchie indiscrete di ficcanasare.

I due decidono che la cosa più conveniente non è prendersela coi Soga nel loro insieme, ma di sfruttare le divisioni interne della famiglia.

Il capostipite dei Soga, quello che fece sgozzare il povero Sushun, era Soga Umako. Soga Umako ebbe molti figli, tra cui Soga Emishi, padre di Iruka, e Soga Kuramaro. Il figlio di Kuramaro è Kurayamada, erede del ramo secondario della famiglia. C’è poco amore tra i due cugini, primo perché i cugini in Giappone hanno tendenza a odiarsi, secondo perché Iruka è uno pericoloso e impulsivo, e terzo perché Kurayamada è relegato al secondo posto nel clan rispetto a Iruka.

Naka approccia quindi Kurayamada, che offre il proprio supporto (e la propria figlia) con pronto entusiasmo.

Mentre i congiurati congiurano, Iruka e suo padre costruiscono residenze fortificate. A Komako e Naka pare evidente che non c’è modo di stanarli con le cattive. Bisogna zompare Iruka mentre non è i una delle sue basi.

E la possibilità si presenta nel 645.

E’ il sesto mese, l’Imperatrice terrà una grande udienza in cui le saranno presentati i doni da parte dei re coreani e le sarà letto il rapporto sullo stato geopolitico della penisola.

Naka nasconde una lancia nel padiglione e si prepara ad attaccare con un paio di alleati.

Il principe Furuhito è presente, e così Iruka, che arriva armato di spada. Komako riesce però a metterlo a proprio agio e a convincerlo a lasciare l’arma prima di prendere il proprio posto.

Tutto è pronto. Kurayamada deve leggere il rapporto dalla Corea alla regina. La lettura del rapporto è il segnale per gli amici di Naka che è ora di intervenire e uccidere Iruka!

Kurayamada si alza per leggere il documento. Naka passa ordine alle guardie di bloccare le uscite e non fare passare nessuno, per nessun motivo.

I due alleati di Naka intanto tremano all’idea di attaccare l’uomo più pericoloso e potente del Paese. Entrambi si sentono male, vomitano per la tensione, cercano di restare saldi.

Intanto Kurayamada sta leggendo. Linea dopo linea, recita i carateri cinesi a voce alta. Naka e i suoi dovrebbero attaccare, ma niente si muove. Kurayamada sente gli occhi di Iruka piantati addosso. Il rapporto è quasi finito.

Il suo corpo era fradicio di sudore, la sua voce vacillava e le sue mani tremavano.

Kuratsukuri no Omi [Iruka, NdT] si insospettì e chiese: «perché tremi così?»

[Kura]yamada no Maro rispose: «Sono in soggezione perché sono così vicino a Sua Maestà, e senza volere sto sudando.»

Vedendo il terrore e l’esitazione dei suoi, Naka afferra la lancia e si avventa per primo. Gli altri lo seguono, sguainano le spade, irrompono nel mezzo della sala, colpiscono Iruka alla base del collo e alla gamba.

Iruka si trascinò presso il seggio dell’Imperatrice, e chinando il capo disse:

«Coloro che succedono al soglio imperiale sono i figli del cielo. Non credo di aver alcuna colpa, ma se ve ne sono, che siano investigate!»

L’Imperatrice era sconvolta, e disse a Naka no Ōe:

«Non so di cosa si tratti. Cosa sta succedendo?»

Naka no Ōe si prosternò e disse:

«Kuratsukuri [Iruka, NdT] si adopera per rovesciare il trono, e metterà fine al lignaggio. Come accettare che i discendenti del cielo siano rovesciati in favore di Kuratsukuti?»

[…] L’Imperatrice si alzò e se ne andò nella sala, Allora Saeki no Muraji Komaro e Wakainukai no Muraji Amita uccisero Iruka no Omi.

Scapitozzamento di Iruka, dal Tōnomine engi emaki

Così moriva uno degli uomini più potenti del Paese, fatto a pezzi nella sala del trono, abbandonato dalla propria sovrana.

Il cadavere fu portato alla residenza di suo padre. Sapendo che era solo questione di tempo prima che i soldati venissero a finire il lavoro, Emishi incendiò la propria residenza e morì nel rogo, portando con sé i tesori e la biblioteca del clan.

Una settimana dopo, Kōgyoku abdicava in favore del principe Karu. Naka divenne principe ereditario alla tenera età di diciannove anni. Una ventina d’anni dopo sarebbe a sua volta salito al trono col nome di Tenji. Nakatomi Komako fu premiato col nome di Fujiwara e divenne Fujiwara no Kamatari, capostipite del potentissimo clan Fujiwara (che vedete comparire negli articoli su Masakado o sulla Guerra di Genpei). Quanto al principe Karu, divenne l’Imperatore Kōtoku, il grande riformatore.

Rogo della residenza di Emishi, dal Tōnomine engi emaki

Questo colpo di mano del principe Naka, principe Karu e Nakatomi Komako fu decisivo nella Storia della corte: I tre architetti del colpo di stato furono quelli che lanciarono la Grande Riforma di Taika, che, basandosi sui principi della Costituzione in 17 articoli, catapultò il regno di Wa dallo stadio di proto-stato clanico a quello di impero burocratico basato su leggi scritte e governato da un’aristocrazia civile costituita da funzionari.

Ma di Taika e del Codice amministrativo parleremo un’altra volta.

Per ora imparate dalla triste sorte di Iruka: la morte del tuo nemico non è necessariamente una buona notizia.

MUSICA


Bibliografia

Un articolo sugli scavi archeologici svolti alla residenza di Iruka in Nara

COHEN Ronald e SERVICE Elman R., Origins of the State : The Anthropology of Political Evolution, Institute for the Study of Human Issues, Philadelphia, 1978

GERNET Jacques, Le monde chinois, vol. 1, Pocket, Paris, 2008

GRAFF David A., HIGHAM Robin, A military History of China, University Press of Kentucky, Lexington, 2012

INOUE Mitsusada, dans HALL John Witney, JANSEN Marius B., KANAI Madoka, TWITCHETT Denis, éd. The Cambridge History of Japan vol. 1, Cambridge University Press, Cambridge, 1993

INOUE Mitsusada, SAKAMOTO Tarō, IENAGA Saburō, ŌNO Susumu, Nihon shoki (jō, ge), Tōkyō, Iwanami Shoten, 1968

KUJI Fujio, Nihonjin to uma no bunkashi, Tōkyō, Bushindō,  2016

LI Ogg, Recherche sur l’Antiquité Coréenne vol. I – Ethnie et Société de Koguryou, Collège de France, Paris, 1980

MORI Kimiyuki, Higashi Ajia no dōran to Wakoku, Tōkyō, Yoshikawakōbunkan, 2006

NAGASAKA Kaneo, Jūshichi-jō kenpō, Yūzankaku, Tōkyō, 1937

TAKAHASHI Takashi, Emishi, Chūkōshinsho, Tōkyō, 1989

Bruna, piccola e malvagia: Anita Garibaldi seconda

Anni fa condivisi la mirabolante storia del mio gatto, Manfred von Richthofen die zweite. Ritengo che, di tutti i miei articoli, sia uno dei più importanti e necessari per la società.

Chi però segue il mio blog avrà notato, nel mio articolo di riapertura, che nelle foto compare una misteriosa figura:

Oggi, tanto per cambiare dai soliti post di morti ammazzati e polemica, ho deciso di parlare di lei.

Tutto comincia con un prequel.

In una notte senza luna nelle campagne del Valdarno, tra nutrie e cinghiali, nacque una bimba chiamata Bernard (nota come Nursie).

Come dono di compleanno, le tre fate madrine (Ornella, Dianora e Rosa del piano di sotto) le donarono piedi taglia 32, lunghi ricci Botticelleschi e l’abilità di attirare a sé le bestie che Fatina Selezione Naturale cerca disperatamente di eliminare dal pool genetico.

Nel tentativo di sfuggire a questa maledizione benedizione, Nursie decise un bel giorno di sgomberare a casa della Tenger, in periferia parigina, lontano da merli epilettici e cinghiali paraplegici. Dopotutto la Tenger abitava lì da 10 anni e non si era mai imbattuta in bestie catorcio.

Ebbene, il primo anno abbiamo dovuto grattare Manfred dall’asfalto, come narrato nell’articolo succitato.

Il secondo anno è arrivata Anita

Il terzo Nyarlathotep.

Il quarto siamo già riservate per un riccio handicappato.

Se il trend continua, la Tenger dovrà iniziare a vendere organi sul mercato nero per mantenere lo zoo.

La storia di Anita

Un bel giorno di primavera, Tenger si sta facendo gli affaracci suoi a casa quando Nursie torna da una passeggiata. Attaccato a una chiappa, tipo stella marina, ha un ragnetto peloso che strilla con la disperazione straziante di una sirena antincendio.

Nursie ha attirato un altro gatto.

O almeno, si ipotizza che sia un gatto, anche se a colpo d’occhio somiglia di più a un Tarsio Spettro: è un mucchietto d’ossa tutto occhi e fauci. La bestia ha così disperatamente fame che si fa acchiappare subito, nonostante abbia chiaramente paura di farsi avvicinare.

Portata dal veterinario, viene determinato che si tratta di un organismo coloniale costituito per il 70% da gatto e per il 30% da pulci.

Quindi non è un Tarsio Spettro, non possiamo smollarla allo zoo del Jardin des Plantes, ce la ritroviamo in casa. La sbattiamo in camera di Nursie perché così un’altra volta impara.

Metto annunci sui siti di gatti persi, metto annunci sui siti di gente che vuole adottare gatti. Un gatto in casa mi basta, non ho mezzi per tenerne due e questa bestia dovrà essere sistemata altrove, punto.

Spoiler: non è stata sistemata altrove.

L’abbiamo chiamata Anita più per scherzo che per altro, perché non somigliava per nulla alla tostissima moglie di Garibaldi. Era una creaturina tremebonda e debole, affamata di coccole ma spaventata da tutto. Per settimane, ogni volta che prendevo la scopa per spazzare, Anita schizzava via terrorizzata (il che mi lascia supporre che qualcuno si sia divertito a prenderla a botte).

Ad ogni modo, la rappezziamo, la spulciamo, e constatiamo che si tratta forse dell’unico caso francese di gattina completamente nera e completamente cesso. Le foto non rendono giustizia al manto spelacchiato, le costole sporgenti, le cicatrici visibili. Nonostante cure e cibo, Anita resta a forma di Tarsio Spettro scampato al disastro di Chernobyl.

Un paio di mesi dopo averla raccattata, è estate. Inscatolo le bestie e raggiungo i vecchi genitori alla fattoria di famiglia (siamo i maggiori produttori di sassi e ortiche del villaggio!)

E’ qui che Anita scopre la passione che le permetterà di superare i traumi della propria travagliata infanzia: uccidere.

La prima settimana questo mostriciattolo tutt’occhi ammazza una dozzina di bestioline tra topi, ghiri e lucertole. L’ho vista all’opera: salta sulla preda, addenta la testa e con un rapido movimento spezza il collo della vittima. Dopodiché inizia a palleggiare il cadaverino molle in giro: lo pesta, lo afferra con i denti, lo lancia per aria e lo prende a zampate come Mila che schiaccia a pallavolo. A volte, se Manfred è nei paraggi, gli porta la carcassa e gliela butta ai piedi tutta felice, per far giocare anche lui.

Dopo diversi minuti di quest’attività che, chiaramente, è divertentissima, Anita raccatta la vittima di turno, si siede in un angolino e procede a mangiarla. Tutta.

Di solito ciò avviene sotto la mia sedia mentre studio. So che ha catturato qualcosa perché lo scricchiolio di un cranio masticato fa un rumore molto caratteristico.

Long story short, mangiare topi interi è una cura di bellezza fenomenale!

L’omicidio ha un effetto palesemente terapeutico perché non solo Anita smette di essere una cosina nevrotica, ma inizia a crescere, diventa a forma di gatto e non più di ragno.

Oggi Anita è una gattina di 4 Kg, una palletta capace di fare fusa assordanti e il cui passatempo preferito è ridurre la biodiversità. In mancanza di topi o ghiri, la sua vittima preferita è la mia treccia, che è nemica della rivoluzione. Non c’è niente di meglio che svegliarsi la mattina con un mostriciattolo nero che ti tira i capelli.

Un’altra cosa che Anita ama fare è salire sul petto del dormiente e dargli tante adorabili leccatine sul naso. La sola cosa più adorabile che svegliarsi perché ti tirano i capelli, è svegliarsi perché la fiatella putrefatta del gatto ti riempie i polmoni.

Col tempo Anita ha ampliato il suo raggio d’azione e la lista dei nemici della rivoluzione si è allungata: a topi, ghiri e lucertole si aggiungono api, farfalline, cornacchie, altri gatti, gatti più grossi, cani da pastore, mucche…

Anita non fa prigionieri: schizza tipo palla da cannone mirando agli occhi.

E così ci ritroviamo con questo concentrato di malvagità. Il suo compleanno è il 30 agosto e la sua arma di predilezione sono unghiette a rasoio capaci di aprire un ratto adulto come una borsetta.

Manfred ha accettato Anita con entusiasmo, Anita tollera Manfred con pazienza.

Colgo l’occasione per ricordare che i gatti vanno assolutamente sterilizzati, chippati, vaccinati regolarmente e tenuti in casa la notte: sono bombette di distruzione di massa e piaghe assolute per la biodiversità. Siate proprietari responsabili, non lasciate che questi gremlins si riproducano o che siano liberi di fare troppi danni.

Per chi segue questo blog, non temete: gli articoli storici torneranno tra un paio di settimane.

Per il resto, MUSICA!

La Paura, un romanzo coraggioso

La Prima Guerra Mondiale è stata senza dubbio una delle più colossali catastrofi che abbiano segnato la Storia europea. E’ un fenomeno di una vastità e di una complessità straordinarie, con ramificazioni sconfinate che continuano a riecheggiare tutt’oggi nel discorso politico, culturale e artistico. Ancora oggi leggo interventi di gente che cerca di rispulizzirla, di girarla in positivo, tipo “ha cimentato l’Italia come stato-nazione”. Che è un po’ come dire che il bombardamento di Tokyo ha risolto l’annoso problema del traffico, ma vabbé.

Oggi non intendo entrare troppo nella polemica della propaganda nazionalista e low key guerrafondaia, perché questo onore lo lascio tutto al protagonista della nostra storia: il soldato Jean Dartemont!

L’autore

Gabriel Chevallier (@gabrielchevall2) | Twitter

Chevallier is watching you

L’autore dietro le disavventure di Dartemont è Gabriel Chevallier. Chevallier nasce nel 1895 in una famiglia della borghesia Lionese. Ha 19 anni quando scoppia la guerra ed è chiamato alle armi. Appena finito l’addestramento, il nostro viene rimpinzato di schegge e finisce in ospedale. Ristabilito, viene rispedito al fronte, dove si fa il resto della guerra.

Chevallier torna tutto d’un pezzo e campa il resto della vita facendo una serie di lavori, dall’illustratore al giornalista al commesso viaggiatore… allo scrittore.

Chevallier comincia a scrivere nel 1925, basandosi sulla sua esperienza di veterano. Il suo primo romanzo, che ha come narratore il soldato Dartemont (l’autore sotto mentite spoglie), La Peur, è pubblicato nel 1930.

Il romanzo viene ricevuto malissimo.

Il genere

Nel suo saggio Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Rieuneau ha studiato l’immagine della Grande Guerra che emerge dai romanzi dell’epoca. Un migliaio di scrittori si sono trovati sotto le armi, e il loro contributo alla letteratura francese è ricco e variegato.

In particolare, a noi interessa quella che Rieuneau definisce “L’epoca dei testimoni”, ovvero testi scritti da reduci che parlano della loro esperienza diretta.

Il tipo di “romanzo-testimonianza” si diffonde a partire dal 1916. Un esempio emblematico è il famosissimo Le Feu di Henri Barbusse.

Nella ventina di romanzi rappresentativi di questa corrente, vediamo cicciar fuori spesso gli stessi posti, fatti, esperienze. Anche le motivazioni degli autori paiono simili: il bisogno di raccontare la propria storia, e il desiderio che questa storia sia ricordata.

Questo bisogno di parlare del proprio trauma, di vederlo riconosciuto dagli altri, è pressoché universale. E’ uno dei temi principali del documentario The Look of Silence, di Oppenheimer: l’impossibilità di parlare del proprio dolore, di vederlo riconosciuto dai nostri simili, è un ostacolo insormontabile nel processo di lutto che caratterizza, in modo più o meno intenso, il superamento di ogni trauma.

Il fatto che questi romanzi abbiano tutti temi e fatti in comune non significa però che siano libri simili. Come dice Sicard, possiamo distinguere quattro grandi categorie del genere:

  • La testimonianza pura, dritta dritta dalle pagine di diario del combattente
  • La letteratura della smobilitazione, dove non si parla più dell’esperienza diretta del combattimento ma della guerra in generale, come concetto, come fenomeno, la sua natura e ciò che fa agli uomini che ne sono coinvolti
  • Il culto dell’eroismo, ovvero storie che celebrano la guerra come una sorta di catalizzatore esplosivo che fa emergere le migliori virtù dell’uomo. Un caso celeberrimo in questo ambito è quel matto di Montherlant, con La Relève au Matin (1920) o Le Songe (1922)
  • La letteratura di protesta. Ovvero quelli che a Motherlant avrebbero cacciato volentieri uno stivale nel culo. Si tratta di opere diversissime tra loro (Sicard cita Les Drapeaux di Paul Reboux, Le Sel de la Terre di Raymond Escholier o Les Suppliciés di René Naegelen), ma accomunate da un rifiuto della guerra, un’attitudine disincantata o ostile alla prosopopea nazionalista, se non proprio uno slancio internazionalista

Rieuneau identifica questo tipo di romanzo come tipico del decennio 1919-1929. La Peur è un po’ più tardivo, essendo uscito nel 1930, ma si inserisce perfettamente in questo filone.

Nel romanzo, Chevallier rivisita le sue esperienze con lo pseudonimo Jean Dartemont. Attraverso le parole di Dartemont, il nostro racconta la follia della guerra, la paura onnipresente, l’assurdità della propaganda nazionalista, il senso di impotenza e ingiustizia del soldato semplice davanti alla colossale catastrofe del conflitto mondiale.

Il romanzo non è un resoconto pedissequo delle sue disavventure, ma è chiaramente una rielaborazione che mischia esperienze reali e riflessioni politico-filosofiche. Passaggi descrittivi crudi e sinceri si alternano a brani narrati con toni quasi caricaturali, a dialoghi che ricordano i dibattiti platonici, dove Dartemont dichiara le proprie convinzioni. La Peur non è semplicemente una testimonianza, La Peur è un romanzo dichiaratamente, violentemente politico. Ma di questo parleremo più in dettaglio.

Il libro

La Peur - Poche - Gabriel Chevallier - Achat Livre | fnac

Je vais vous dire la seule occupation qui compte à la guerre: J’AI EU PEUR

A 19 anni, Jean Dartemont parte soldato. Non è un convinto nazionalista, ma non è nemmeno un pacifista. E’ giovane e curioso, vuole vedere come una vera guerra è combattuta (perché si sa, a 19 anni siamo tutti immortali).

La curiosità di Dartemont sarà soddisfatta fin troppo alla svelta. Per quattro anni.

La storia, grosso modo, è questa. Non c’è una vicenda strutturata, un arco vero e proprio, se non una progressiva realizzazione dell’assurdità della guerra, la rabbia e la frustrazione all’idea che stai per morire a 19 anni senza nessuna buona ragione, e un’analisi penosa dell’effetto della paura estrema e cronica a cui il fante di linea viene sottoposto.

Chevallier non nega coraggio e l’eroismo, ma non celebra le grandi virtù guerriere, il romanticismo di morire per la Patria. Dartemont e i suoi compagni non sono esempi di eroismo classico. Quello che Chevallier pensa della narrativa romantica nazionalista e militarista è chiaro fin dalle prime pagine:

[NOTA: le citazioni sono prese dalla traduzione italiana, precisazioni in bibliografia]

Quando si è vista la guerra come l’ho vista io viene da chiedersi: «Perché mai si accetta una cosa simile? In nome di quale tracciato di confini, di quale onore nazionale la si può legittimare? Come si può travestire da ideale ciò che è pura delinquenza, e fare in modo che venga approvato?».

Ai tedeschi hanno detto: «Avanti con questa guerra nuova e lieta! Nach Paris e Dio è con noi, per una Germania più grande!». E quei bonaccioni dei tedeschi, che prendono tutto sul serio, si sono messi in marcia per la conquista trasformandosi in bestie feroci.

Ai francesi hanno detto: «Ci attaccano. È la guerra del Diritto e della Rivincita. Tutti a Berlino!». E i francesi pacifisti, i francesi che non prendono niente sul serio, hanno interrotto le loro fantasticherie di agiati borghesi per andare a combattere.

È successa la stessa cosa agli austriaci, ai belgi, agli inglesi, ai russi, ai turchi e poi agli italiani. Nel giro di una settimana venti milioni di uomini civilizzati, intenti a vivere, ad amare, a far soldi, a costruire il futuro, hanno ricevuto l’ordine di piantare tutto in asso per andare a uccidere altri uomini. E quei venti milioni di individui hanno obbedito perché li avevano convinti che quello era il loro dovere.

Venti milioni, tutti in buonafede, tutti d’accordo con Dio e con il loro sovrano… Venti milioni di idioti… Come me!

 

E ancora:

Dopo un anno di vita militare mi capita di pensare che sono un pessimo soldato e di rammaricarmene come una volta mi rammaricavo di essere un pessimo studente. È chiaro, non riesco a piegarmi ad alcuna regola. Devo biasimarmi? L’incapacità di accettare i princìpi che mi hanno insegnato è forse un vizio? In linea di massima credo che sia un bene, e che quei princìpi siano nefasti. Ma a volte, quando vedo tutti gli altri coalizzati contro di me e sicuri delle loro idee, inizio a dubitare: anch’io ho le mie debolezze, come chiunque, e mi arrendo all’opinione comune… Temo di non essere adatto a questa guerra che richiede solo passività e spirito di sopportazione. Non sarebbe meglio per la mia tranquillità se io fossi un combattente privo di incertezze, come ce ne sono tanti (ma io ne ho mai conosciuti?), che lotta con accanimento per la patria nella convinzione che la morte di ogni nemico ucciso gli valga un’indulgenza presso il suo dio? Ho la sfortuna di riuscire ad agire solo in virtù di un motivo approvato dalla mia ragione, e la mia ragione rifiuta certe costrizioni che le si vorrebbero imporre. Gli insegnanti, un tempo, mi rimproveravano di essere troppo indipendente; poi ho capito che temevano il mio giudizio, e che la mia logica di adolescente sollevava problemi che loro avevano deciso di accantonare. Ma oggi le costrizioni sono più forti, e chi le esercita forse mi farà ammazzare.

Le descrizioni offerte da Chevallier sono vivide, a tratti surreali. Quando il fronte si avvicina, l’impressione non è tanto quella di una lotta tra uomini, ma di un cataclisma. C’è un’ironia fatalista e orrida nell’idea di essere a un soffio dalla morte, e questo senza nessuna buona ragione, senza nessun modo di svincolarsi. E’ una situazione orrida, è una situazione assurda.

Una vampata che sembrava investire il mondo intero ci strappò al torpore. Avevamo appena superato una cresta, e il fronte, davanti a noi, ruggiva con tutte le sue bocche infuocate, fiammeggiando come una fucina infernale i cui mostruosi crogioli trasformavano in una lava di sangue la carne degli uomini. Ci veniva la pelle d’oca all’idea di essere solo una palata di carbone destinata ad alimentare quella fornace, al pensiero che dei soldati, laggiù, lottavano contro la tempesta di ferro, contro l’uragano di fuoco che faceva ardere il cielo e tremare le fondamenta della terra. Le esplosioni erano così ravvicinate da produrre l’impressione di un unico bagliore e di un boato ininterrotto. Sembrava che qualcuno avesse buttato un cerino sull’orizzonte zuppo di benzina, e che un genio malefico continuasse a versare del punch su quelle diaboliche fiammate e sghignazzasse lassù celebrando la nostra distruzione. E perché nulla mancasse a quella macabra festa, perché un contrasto ne accentuasse ulteriormente l’aspetto tragico, vedevamo razzi leggiadri innalzarsi verso la cima di quell’inferno e sbocciare come fiori di luce, per poi ricadere, moribondi, con uno strascico da cometa. Eravamo abbagliati da quello spettacolo, il cui angosciante significato era chiaro solo ai veterani. Fu la prima visione che ebbi della furia scatenata del fronte.

Come dice il titolo stesso del romanzo, un tema domina le pagine: la paura.

Chevallier racconta la paura con un candore spietato. La paura è una sorta di infezione, una febbre che aggredisce l’uomo fin dall’inizio e lo rode ogni giorno, senza dargli mai pace.

Quest’angoscia costante è mista a un complicato ventaglio di emozioni contraddittorie. Chevallier parla senza remore del risentimento, dell’incertezza, del disperato desiderio di vivere e del senso di colpa dell’essere ancora vivo. In quello che lui stesso descrive come uno dei ricordi peggiori che il fronte gli lascia, Chevallier racconta il suo primo incontro ravvicinato con dei cadaveri freschi:

A un tratto il soldato che mi precedeva si accovacciò e iniziò a trascinarsi sulle ginocchia per infilarsi sotto un ammasso di materiali che ostruivano il passaggio. Mi accovacciai anch’io e lo seguii. Quando si rialzò mi apparve davanti un uomo di cera, supino, che spalancava una bocca senza respiro e occhi senza espressione, un uomo freddo, irrigidito, che probabilmente si era rifugiato sotto quell’ingannevole riparo di assi e lì era morto. All’improvviso mi trovavo a tu per tu con il primo cadavere recente che avessi mai visto. Il mio volto passò a pochi centimetri dal suo, il mio sguardo incrociò il suo sguardo, spaventoso e vuoto, e la mia mano sfiorò la sua mano, ghiacciata e illividita dal sangue che gli si era gelato nelle vene. Durante il breve faccia a faccia che mi impose, ebbi la sensazione che il morto mi incolpasse della sua fine e minacciasse vendetta. È una delle impressioni più tremende che ho riportato dal fronte.

Ma quel morto era il custode di un regno di morti. Quel primo cadavere francese precedeva centinaia di altri cadaveri francesi: la trincea ne era piena.

[…]
Intravidi da lontano il profilo di un piccoletto barbuto e calvo, seduto sulla banchina di tiro, che sembrava ridere. Era il primo volto rilassato e rassicurante che incontravamo, e andai verso di lui spinto da un moto di gratitudine, chiedendomi: «Che avrà poi da ridere?». Rideva della propria morte! Aveva la testa tranciata perfettamente in due. Oltrepassandolo feci un balzo all’indietro nel rendermi conto che a quel viso allegro mancava l’altra metà.4 Il cranio era completamente vuoto. Il cervello, saltato via in blocco, si trovava proprio accanto al cadavere – come un pezzo di trippa sul banco di un venditore di frattaglie –, vicino alla mano, che lo indicava. Quel morto ci aveva giocato un macabro scherzo. Forse rideva per quello. Lo scherzo raggiunse il colmo dell’orrore quando uno dei nostri lanciò un grido strozzato e scappò via come un pazzo facendosi strada a spintoni.

«Che ti prende?».

«Credo che sia… mio fratello!».

«Guardalo da vicino, santo cielo!».

«Non ce la faccio…» bisbigliò il soldato mentre si allontanava.

Dartemont combatte e uccide per salvare la propria pelle. Dartemont prova simpatia per i prigionieri o i disertori tedeschi, perché si riconosce in loro più che non nei propri ufficiali.

A volte il nemico più terrificante è il cecchino, a volte è il tuo colonnello, a volte la cosa più pericolosa che puoi fare è andare a la latrina durante un bombardamento. Accucciato tra le rocce Dartemont deve valutare se vale la pena rischiare la pelle o cagarsi addosso. Sono episodi umilianti, che Chevallier racconta senza pudore.

Cadaveri di Verdun, scaraventati sulle chiome degli alberi da un’esplosione

In uno dei passaggi più celebri del romanzo, Dartemont è all’ospedale, pieno di schegge. A un’infermiera patriottica che gli chiede com’è il combattimento, Dartemont risponde:

Vi dirò la sola occupazione che conta in guerra: HO AVUTO PAURA.

La cosa che domina in prima linea non è il pensiero della Patria o l’onore o lo slancio guerriero, ma la paura. Miserabile, abbietta, oscena paura.

Entriamo in agonia.

L’attacco è sicuro. Ma siccome dobbiamo rinunciare agli assalti frontali, che non riescono a sfondare, avanzeremo lungo i camminamenti. Il mio battaglione deve attaccare gli sbarramenti tedeschi con le bombe a mano. Io, come granatiere, andrò tra i primi.

Non conosciamo ancora l’ora prevista per l’attacco. Verso mezzogiorno ci dicono: «Sarà stasera o stanotte».

Dalle latrine, che sono rialzate, si scorgono le linee nemiche. La pianura, leggermente in salita, è circondata in lontananza da quello che resta di un bosco martoriato, il Bois de la Folie, che, a quanto sembra, il comando si prefigge di occupare. Corre voce che abbiamo di fronte la guardia imperiale tedesca, pronta ad accoglierci con proiettili esplosivi.

Che fare fino a sera? Non conto granché sulle bombe a mano, che non so usare. Smonto il fucile, lo pulisco con cura, lo ingrasso e lo avvolgo in uno straccio. Controllo anche la baionetta. Non so come si combatte dentro un camminamento, avanzando in fila indiana. Ma dopotutto il fucile è un’arma, l’unica che conosco veramente, e devo pur prepararmi a lottare per la vita. Nemmeno sul coltello conto granché.

Soprattutto non devo pensare… E a cosa poi? A morire? Non posso pensarci. A uccidere? È un’incognita, e di uccidere non ho nessuna voglia. Alla gloria? La gloria non si conquista qui, ma standosene nelle retrovie. Ad avanzare di cento, duecento, trecento metri nelle linee tedesche? Ormai so fin troppo bene che questo non cambierebbe di una virgola l’andamento della guerra. Non sono mosso né dall’odio, né dall’ambizione, né da altri stimoli. Eppure devo andare all’attacco…

Ho un unico obiettivo: schivare i proiettili, le bombe a mano e le granate, salvare la pelle, che si vinca o si perda. D’altra parte: vinci se resti in vita. E questo è l’unico obiettivo di tutti, qui.

Il capitolo sulla permanenza in ospedale è una lunga sezione verso metà del libro, ed è una delle più “costruite”. Si perde completamente il sapore spontaneo e realistico degli aneddoti di trincea, per una specie di messa in scena dialettica tra Dartemont, giovane istruito e segnato dalla guerra, e le infermiere, incarnazioni della visione borghese e nazionalista, donnette con la testolina piena di propaganda che non sanno, non possono sapere ciò che succede al fronte.

Questa parte è insieme una delle più difficili e più interessanti da leggere. Dartemont non è sempre un narratore congeniale, e in queste pagine emerge tutto il suo classismo e il sessismo spicciolo che per il lettore attuale può risultare davvero stridente. Allo stesso tempo si tratta anche di un momento di quiete narrativa in cui Chevallier può elaborare il suo messaggio politico, il suo risentimento verso una società guerrafondaia e intellettualmente inetta.

Le infermiere si stupiscono nel constatare che al dovere così come lo intendono loro si possono opporre altri doveri, che esistono ideali sovversivi più elevati, di più ampio respiro e più proficui per l’umanità.

Comunque, la signorina Bergniol ha concluso:

«Non educherò i miei figli secondo le sue idee».

«Lo so, signorina. Voi, che potreste essere portatrici di fiaccole oltre che di creature, trasmetterete ai vostri figli solo la tremolante candela che avete ricevuto, da cui cola la cera che vi brucia le dita. Sono le candele che hanno incendiato il mondo invece di illuminarlo. Sono i ceri con cui domani, di nuovo, un’umanità cieca accenderà i bracieri sui quali si consumeranno i frutti delle vostre viscere. Il loro dolore a quel punto non sarà altro che cenere; e nel momento stesso in cui il sacrificio si compirà, lo sapranno e vi malediranno. Con i vostri princìpi, se se ne presenterà l’occasione, sarete a vostra volta delle madri disumane».

Come si può constatare, questi passaggi sanno più di comizio che di autobiografia. Come dicevo, La Peur è un romanzo politico, ma di nuovo, torneremo sull’argomento.

La parte in ospedale non è una mera parentesi educativa e polemica: anche in queste pagine l’esperienza diretta fa capolino. Qui possiamo vedere cosa succede agli “eroi”, l’impatto che ferite e trauma hanno sui combattenti. Un personaggio spicca tra gli altri: Charlet, un conoscente che Dartemont ritrova in ospedale, addetto a raccattare i pitali pieni di merda dei feriti.

Al soldato infermiere abbiamo affibbiato un soprannome impietoso: Popò. So che lui ne è amareggiato. Lo so perché ho conosciuto André Charlet prima della guerra, all’università, dove figurava tra gli studenti migliori, quelli pieni di curiosità e di idee. Pubblicava sulle riviste giovanili certi brillanti sonetti che rappresentavano la vita come un immenso campo di conquista, una foresta divina e stupefacente in cui si addentrano gli esploratori scelti per poi tornarne carichi di frutti meravigliosi dai sapori sconosciuti, di donne dalla bellezza esotica e di mille barbarici oggetti dal ricercato gusto primitivo. Durante la mobilitazione si era arruolato tra i primi ed era stato gravemente ferito nel corso dell’anno seguente.

L’ho ritrovato qui, abbattuto, senza energie e sporco. Pochi mesi di guerra lo hanno trasformato, gli hanno conferito questa aria irrequieta, questa magrezza e questa pelle giallastra. L’esperienza del fronte gli ha lasciato addosso un terrore folle, che gli si legge negli occhi. Pur di restare all’ospedale ha accettato un simile incarico, con le sue ripugnanti incombenze. Interpretando il ruolo di Popò, riesce a prolungare di tre mesi la sua permanenza qui, in virtù di non so quale ordinanza militare che autorizza gli ufficiali medici ad avvalersi temporaneamente di assistenti. D’altronde è molto probabile che in seguito venga assegnato alle truppe ausiliarie, se non addirittura riformato. Lui però preferisce evitare di sottoporsi a una commissione se non in ultima istanza, perché teme che il suo corpo non sia abbastanza malconcio da giustificare un’esenzione che gli eviti il ritorno al fronte. Ma è il solo ad avere questo timore; quanto a noi, lo riteniamo destinato alla morte per tubercolosi, più inesorabile delle granate.

[…]

Presto o tardi doveva succedere. Mi stupisco che le anomale trasformazioni avvenute in lui non me l’abbiano fatto intuire. Per quanto demoralizzato, un uomo giovane si riprende in fretta; Charlet invece si incupiva sempre più.

Prima, quando è entrato in corsia, le dita contratte, i tic che gli alteravano i lineamenti, l’andatura a scatti tradivano uno stato di forte tensione nervosa. Ha comunque iniziato il suo turno come al solito, ma senza nemmeno salutarmi.

Verso l’una mi è improvvisamente comparso davanti. Aveva una faccia spaventosa, terrea, con delle chiazze scure e gli occhi cerchiati di rosso. Mi ha messo il braccio sotto il naso:

«Annusa! Annusa, dài!».

«Be’, che c’è?».

Spingeva il braccio verso di me con violenza. Mi sono fatto indietro.

«Allora, lo senti? Lo senti l’odore?».

Mi fissava con occhi scintillanti, furibondi, da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Avvicinando il suo volto al mio fino a toccarlo, mi ha detto queste parole incredibili:

«Sono una merda».

«Via, Charlet, sei impazzito?».

«Insomma, annusa!».

Più ancora della sua rabbia, mi ha spaventato la bava che gli stava colando dalla bocca. Per fortuna lo hanno chiamato:

«Ehi, Popò!».

Si è lanciato in direzione di Peignard gesticolando in modo scomposto:

«Mi chiamo Merda, chiaro? E non sopporterò oltre i vostri volgari insulti!».

Ho capito che era andato fuori di testa e subito ho temuto per i feriti più malconci: Peignard con il suo piede, Diuré con i suoi tubi di drenaggio, il povero bretone. Ho chiamato gli altri, quelli più in forze, che lo hanno attorniato mentre qualcuno andava a cercare aiuto. Lui, in piena crisi, tentava di scappare e gridava:

«Vi tengo in pugno, farabutti! Tutti gli uomini sono miei sudditi! Io sono la verità, il padrone del mondo!».

Finalmente tre marcantoni sono saliti dagli scantinati e lo hanno trascinato via.

Ci riverremo, ma quando lessi questo passaggio pensai al periodo in cui il libro fu pubblicato: 1930.

Chi è un minimo familiare con la Storia del periodo conosce il colossale stigma sociale associato con il tracollo mentale dei combattenti. Lo stress post-traumatico, o shell shock com’era chiamato nel primo dopoguerra, era considerato più vergognoso della Sifilide. Basti pensare che a due riprese, nell’agosto del ’43, il Generale Patton prese a schiaffi due dei suoi soldati affetti da shell shock.

Nel 1930 Chevallier raccontava l’effetto della paura, lo rivendicava, lo esponeva.

Rieuneau definisce Chevallier come “l’anti-Montherlant”, qualcuno che non solo sfata i miti della propaganda, ma che odia con ogni fibra del suo corpo la glorificazione della guerra.

«Nègre, vorrei farti una domanda che continua a tormentarmi. Che ne pensi del coraggio?».

«Ancora! La questione è stata definitivamente archiviata. Gli specialisti se ne sono occupati nel silenzio dei loro laboratori. Te lo dico una volta per tutte: il francese è coraggioso per natura, ed è l’unico a esserlo. I tecnici hanno dimostrato che per mandare il tedesco in battaglia bisogna fargli inalare dell’etere. Questo coraggio artificiale non è coraggio. E tu che mi racconti?».

«Io? Detto tra noi: mi sono rotto i coglioni!».

Incastrato nelle trincee, Dartemont prova un incontenibile senso di ribellione. Uno slancio che però non ha nessuna speranza di sfogare: se non gli sparano i tedeschi, saranno i suoi a farlo. Costretto in un gioco truccato contro di lui, Dartemont può solo cercare di sopravvivere, per poter un giorno raccontare la sua esperienza.

Quella notte pensai al destino del soldato sconosciuto che avevamo appena importunato nella sua tomba, e che altri avrebbero nuovamente calpestato. Immaginavo un uomo simile a me, cioè giovane, pieno di progetti e di ambizioni, di amori ancora indefiniti, appena affrancatosi dall’infanzia e sul punto di sbocciare. La vita, per come la vedo io, assomiglia a una partita che inizia a vent’anni e la cui posta si chiama successo: i soldi per i più, la fama per qualcuno, la stima degli altri per pochissimi. Vivere, durare non è niente; realizzare è tutto. Chi muore giovane è paragonabile a un giocatore che abbia appena ricevuto le sue carte e a cui venga proibito di giocare. E per quel giocatore, forse, si trattava di una rivincita… Vent’anni di studi, di sottomissione, di desideri e di speranze, tutta la somma di sentimenti che un essere umano porta dentro di sé e che costituisce il suo valore avevano trovato in quell’angolo di trincea il loro punto di arrivo. Se dovessi morire adesso non direi: «è spaventoso» o «è terribile», ma: «è ingiusto e assurdo», poiché non ho ancora tentato niente, fatto niente se non aspettare la mia occasione e la mia ora, limitandomi a conservare le forze e a pazientare. La vita secondo la mia volontà e le mie inclinazioni è appena cominciata, o meglio deve ancora cominciare, visto che la guerra ne ha rinviato l’inizio. Se soccombo adesso, sarò stato solo dipendente e incolore. Quindi sconfitto.

Tutti i temi dei romanzi rivoluzionari e pacifisti si ritrovano mischiati e confusi nella storia caotica di Dartemont.

Chevaillier racconta gli orrori macabri del campo di battaglia, ma senza attardarcisi troppo. Dopotutto altri prima di lui avevano sviluppato quell’angolo: Barbusse, Dorgelès, Naegelen…

La parte che più parla di combattimenti è quella dedicata all’offensiva sul Chemin des Dames.

Per gli italiani, la faccenda è più nota come “Seconda battaglia dell’Aisne”, una massiccia offensiva avvenuta tra l’aprile e l’ottobre del 1917. Non entro nei dettagli perché si tratta di una roba degna di un intero saggio (se vi interessano i massacri sull’Aisne, ai tempi avevo raccontato dell’Affaire de Crouy). Qui basti sapere che le operazioni primaverili, dirette dal generale Nivelle, si conclusero in un sanguinosissimo disastro condito con ammutinamenti.

Chevallier partecipò all’offensiva.

Non conosco ripercussioni morali paragonabili a quelle provocate dal bombardamento su chi si è rintanato in un ricovero. La sicurezza si paga al prezzo di un crollo interiore, di un logorio dei nervi davvero tremendi. Non conosco niente di più angosciante di quel martellamento sordo che ti bracca sottoterra, tenendoti sepolto in una fetida galleria che può diventare la tua tomba. Per riemergere dall’abisso è necessario uno sforzo che, se non si è superato lo spavento fin dall’inizio, la volontà non è più in grado di compiere. Bisogna lottare contro la paura ai primi sintomi, altrimenti ti irretisce, e allora sei spacciato, trascinato in una catastrofe che l’immaginazione accelera con le sue spaventose invenzioni. Una volta scossi, i centri nervosi trasmettono comandi del tutto incongrui e, con le loro assurde decisioni, rischiano di contravvenire persino all’istinto di conservazione. Il colmo dell’orrore, che rende lo scoramento ancora più grave, è che la paura non toglie all’uomo la facoltà di giudicarsi. Egli vede se stesso sull’ultimo gradino dell’ignominia e non riesce a risollevarsi, a giustificarsi ai suoi stessi occhi.

Questo è lo stato in cui mi trovo…

Sono rotolato in fondo al baratro di me stesso, in fondo alle segrete dove si nasconde la parte più riposta dell’anima. Un’immonda cloaca, una tenebra vischiosa. Ecco cos’ero senza saperlo, ecco cosa sono: uno che ha paura, una paura incontrollabile, una paura da mettersi a piangere, che ti annienta… Per farmi uscire dovrebbero cacciarmi fuori a calci. Ma accetterei di morire qui, credo, pur di non essere costretto a salire quei gradini… Ho paura al punto da non tenere più alla vita. Del resto, per me provo solo disprezzo. Per resistere contavo sulla stima di me stesso, e ora l’ho persa. Come potrei ostentare ancora sicurezza adesso che so chi sono veramente? Come potrei mettermi in luce, brillare, dopo quello che ho scoperto? Forse riuscirò a ingannare gli altri, ma sarò sempre consapevole di mentire, e questa messinscena mi dà la nausea. Penso a Charlet, alla compassione che provavo per lui all’ospedale. Sono caduto in basso come lui.
[…]

Sotto i sacchi per la sabbia del mio giaciglio ho trovato una bottiglia vuota da un litro, con il tappo, e la mia vigliaccheria se n’è rallegrata. Ogni tanto mi giro su un fianco e piscio lì dentro, a piccoli getti, in modo che nessuno sorprenda questa inconfessabile manovra. Durante la giornata la mia principale preoccupazione è versare l’urina a terra un poco alla volta, in modo che sia assorbita dal suolo. Ah, sono proprio uno schifoso!

La morte sarebbe preferibile a questo supplizio avvilente… Sì, se deve durare ancora a lungo, preferisco morire.

Direi che è andata bene ^_^

Robert Nivelle — Wikipédia

Quando hai un vantaggio numerico di 2 a 1 e totalizzi un glorioso punteggio di 120.000 perdite e 0 vittorie

La verve rivoluzionaria del romanzo non si esaurisce in un ritratto spietato della vita del soldato semplice. Chevallier denuncia anche i propri ufficiali, gli attacchi inutili spinti per soddisfare i pruriti di gloria di questo o quello, le condanne a morte assolutamente ingiuste e crudeli. Nel romanzo si menziona, ad esempio, l’omicidio la condanna di Lucien Bersot.

Si tratta del famoso e infame incidente “del pantalone rosso”: Bersot era un soldato che fece richiesta per un nuovo paio di braghe. Gli furono date quelle di un morto, ancora lacere e sporche di sangue. Bersot si rifiutò di portarle e fu arrestato. Questo scatenò indignazione e rivolta tra i suoi compagni, al che fu deciso di fare di Bersot un esempio, e il soldato fu fucilato.

Crimini di questo genere purtroppo non sono stati rari. I lettori italiani sono probabilmente familiari con la storia di Alessandro Ruffini.

Sono episodi del genere che confermano per Chevallier il fatto che i suoi superiori non hanno nessun riguardo per la vita dei loro subordinati. Per i soldati semplici, questa gente è altrettanto pericolosa, altrettanto nemica del tedesco.

Shell_shock

Un reduce francese vittima di Shell shock si ritrae con terrore alla vista del berretto di un ufficiale

Ma Chevallier non ce l’ha solo con l’esercito. Dopotutto se quest’inutile massacro è stato possibile, ciò lo si deve anche al sostegno e alla partecipazione della società civile. E Chevaillier ne ha tante da dire sulla borghesia nazionalista. Già dalle prime pagine appare chiaro un ritratto di revanchisti che ancora non hanno ingollato la disfatta di Sédan, gente piena di mediocre risentimento che celebra una guerra che non saranno loro a combattere, gente pronta a sacrificar decine di migliaia di uomini per una catarsi emotiva.

In una scena del libro, un passante che non dà prova di un livello accettabile di fervore patriottico viene pestato sulla pubblica via. Quando Dartemont torna a casa in licenza, dopo essersi fatto l’ospedale, viene prima criticato da suo padre per non aver già scalato i ranghi, e poi portato in giro e mostrato ad amici e conoscenti. Avere un figlio che è per un pelo scampato a un combattimento è oggetto di vanto, una fonte d’orgoglio per ricchi borghesi che fanno la guerra seduti al bar con un bicchiere di kir.

La società borghese è conformista, ipocrita, benpensante, una società che si balocca con storie fasulle e caricaturali di una guerra eroica, romantica e giusta. E Chevallier non cela il proprio disprezzo per costoro.

Il tempo è sereno. Ogni notte, adesso, sentiamo dei ronzii. Le squadriglie tedesche che vanno a bombardare Parigi sorvolano le nostre linee. Non abbiamo i mezzi per sbarrargli la strada. Ma salutiamo il passaggio di quegli aerei invisibili dicendo:

«Mi sa che stavolta se la beccano i patrioti, la batosta!».

«Gli servirà di lezione. Ci vorrebbe proprio, per i civili, qualche ora di bombardamento sulla capoccia!».

«Così forse la smettono di gridare: “Avanti, fino alla morte!”».

«Peccato solo rovinare i monumenti».

«Ma sentitelo! E la nostra pelle, allora? Vale meno di un monumento? Mica gliene importa niente a nessuno se ci sbudellano!».

«Così quelli della capitale le assaggiano pure loro, le bombe!».

«Sai che risate se i crucchi mollano una bella scoreggia dritto dritto sul ministero della Guerra!».

«Sta’ zitto, disfattista!».

«Ma sentitelo, ’sto venduto, ’sto brocco, ’sto volontario di merda!».

«Tanto per cominciare,» dice Patard, il telefonista dell’artiglieria «in guerra bisogna distruggere. Così finisce prima».

Patard è uno dei numerosi personaggi irriverenti che costellano il romanzo. Canaglie costrette a marciare come tutti gli altri, ma che non si bevono la storia dell’etica eroica, della gloria francese. Questi personaggi non sono sviliti come disfattisti o traditori, sono celebrati. La loro insolenza è l’eroismo in questo contesto, le loro trasgressioni sono celebrate, piccole rivolte contro un sistema ingiusto. Sono eroi in quanto resilienti.

[Patard] È il più temibile ladruncolo che si sia mai visto, il terrore delle cucine, degli spacci e dei magazzini. La sua impresa più celebre è stata quando ha fregato i pantaloni e gli stivali al generale di divisione. Il fatto ha avuto luogo sullo Chemin des Dames. Patard, in fondo a un ricovero, confezionava bustine fuori ordinanza che pensava di vendere ai soldati del suo reggimento. Ma gli mancava il nastro per adornare quei berretti. Per procurarselo si è offerto di andare sotto le bombe fino al comando di divisione a sostituire un telefono guasto. Lì, curiosando in giro, ha trovato dei bei pantaloni di panno fine appesi a un chiodo, dei pantaloni rossi, proprio il colore che gli serviva. Visto che accanto c’erano degli stivali, ha preso anche quelli ed è ritornato in trincea. Il generale ha scatenato un pandemonio, ma non ha mai sospettato che i suoi pantaloni fossero finiti, ridotti in striscioline, sulle teste dei suoi uomini, né poteva immaginarsi di salutarli ogni volta che incrociava un artigliere.

Patard è un eroe perché riesce a sopravvivere senza impazzire nel costante terrore che perseguita il soldato.

E Dartemont?

Di certo non si racconta come un eroe. La guerra non è qualcosa che Dartemont fa, è qualcosa che Dartemont subisce. C’è un solo episodio in cui Dartemont appare sinceramente fiero del proprio valore: durante un bombardamento, Dartemont vede un altro portaordini arrivare di corsa sotto il tiro degli obici tedeschi.

Resta un unico portaordini, e non se ne manda mai uno da solo sotto le granate. Il maresciallo esita… In quel momento vediamo un soldato che attraversa il burrone di corsa e si arrampica su per il pendio. Poco dopo arriva, coperto di sudore, ansimante. È Aillod, dell’undicesima. Trae un sospiro che significa: «Sono salvo!». Ma il maresciallo sceglie proprio lui:

«Adesso vai alla nona con Julien».

«Però, sempre gli stessi!» risponde Aillod sommessamente, davanti a me.

Noto l’espressione del suo viso, in cui il terrore prende il posto della gioia, e incrocio il suo sguardo, che è quello di un cane che aspetta di essere preso a bastonate, di un uomo che è appena stato condannato a morte. Quello sguardo mi fa vergognare. È davvero un’ingiustizia. Allora grido senza riflettere:

«Ci vado io!».

Vedo gli occhi di Aillod ravvivarsi, pieni di riconoscenza. E vedo pure lo stupore del maresciallo:

«D’accordo, vai!».

Durante questa missione, per cui Dartemont si è portato volontario in uno slancio di solidarietà non proprio ragionato, il nostro riesce per la prima volta a conquistare la paura.

Più tardi, di nuovo al riparo, Dartemont ha la possibilità di pensare a ciò che gli è successo.

È ancora presto quando vado a stendermi sulla mia branda, al buio. Rifletto sui fatti di questa sera. Insomma, per essere coraggioso ho a disposizione un mezzo semplice ed efficace: accettare la morte. Ricordo che già una volta, nell’Artois, quando dovevamo affrontare in campo aperto le mitragliatrici, mi ero abituato a questa idea per qualche ora. Poi gli ordini erano cambiati.

Quelli che cercano di farsi coraggio dicendosi: «Non mi succederà niente» sono del tutto irrazionali (eppure sono la maggioranza). Una simile convinzione non può essermi di aiuto, perché so fin troppo bene che i cimiteri sono pieni di gente che aveva sperato di tornare a casa sana e salva, persuasa che le pallottole e le granate scegliessero i loro bersagli. Tutti i morti si erano affidati alla protezione di una provvidenza personale, intenta a vegliare su di loro e del tutto indifferente agli altri. In quanti, sennò, sarebbero venuti a farsi ammazzare?

Mi sento del tutto incapace di mostrare coraggio se non sono deciso a dare la vita. In alternativa a questa scelta c’è solo la fuga. Ma una decisione del genere la si può mantenere per un breve momento, non per settimane o mesi. Lo sforzo morale è troppo grande. Ecco perché il vero coraggio è così raro. Di solito accettiamo una specie di compromesso zoppicante fra il destino e la volontà, che non soddisfa la ragione.

Per ora ho fatto due volte l’esperienza del coraggio assoluto. Sarà stata questa, alla fin fine, la mia azione di guerra più gloriosa.

Poi penso alle parole di Baboin: «È meglio non fare tanto i gradassi…». Oggi ho fatto il gradasso, e se voglio «portare a casa la ghirba» mi converrà resistere a simili impulsi…

Rieuneau nota che nel romanzo Chevallier non se la prende coi “vigliacchi”. Non è da vigliacchi provare paura, è naturale. Il terrore abbietto e umiliante non è mancanza di carattere, non è frutto di un difetto, non è una colpa, è la normale reazione di un uomo a cui viene inflitta la guerra.

In questo Chevaillier rivendica la vulnerabilità degli uomini in faccia a una narrativa disumanizzante che li vuole gagliardi combattenti pronti al sacrificio.

 

La pubblicazione

Tutti gli articoli sulla WWI devono avere un riferimento a Black Adder Goes Forth, sorry

Come potrete immaginare, in un’Europa in pieno sussulto nazionalfascista come quella del 1930, un romanzo come La Peur non fu ricevuto proprio benissimo. Non è da escludere che il clima nazionalista e guerrafondaio e la salita al potere di movimenti fascisti siano stati tra i fattori che spinsero Chevallier à scrivere il suo libro, una visione della guerra che sputa in faccia alla prosopopea fascistoide.

I toni che usa sono tali che Olivier Cariguel commenta:

Se avesse confessato le sue riflessioni in piena guerra, Dartemont si sarebbe beccato senza dubbio un plotone d’esecuzione per aver attentato al morale dell’esercito e per antipatriottismo.

Dartemont è un antieroe che non ha vergogna a mettere a nudo il suo lato umano, quel lato che la narrativa cazzodurista disprezza.

Dartemont ha fame, ha freddo, ha paura.

Dartemont non è un eroe di guerra.

Dartemont definisce la Patria:

Né più né meno che una riunione di azionari, né più né meno che un aspetto della proprietà, dello spirito borghese e della vanità.

Non è una sorpresa se, nel 1930, solo giornali di sinistra come Le Canard Enchainé celebrarono La Peur come l’opera fondamentale e la testimonianza imperdibile che è.

Per citare Chevaillier stesso, nella prefazione all’edizione del 1951:

Il libro fu accolto da movimenti diversi, e l’autore non sempre fu trattato molto bene. Ma due cose sono da notare. Degli uomini che lo avevano ingiuriato sarebbero girati male in futuro, il loro valore s’era infatti sbagliato di campo. Quanto ai combattenti di fanteria, scrissero: “Vero! Ecco ciò che sentivamo e non potevamo esprimere”. La loro opinione contava molto.

Il pacifismo di Chevallier non è un puccioso mondo di “volemossebbene”. Nonostante la sua condanna della Grande Guerra sia inappellabile, Chevallier non esclude la guerra a priori. Nel 1939, ad esempio, si accordò col proprio editore per togliere il proprio romanzo dagli scaffali.

Per riprendere l’introduzione del 1951:

Quando la guerra ormai c’è, non è più il momento di avvertire la gente che si tratta di un’avventura sinistra dalle conseguenze imprevedibili. Bisognava capirlo prima e agire di conseguenza.

In altre parole, la guerra è una calamità che umilia, distrugge, degrada l’essere umano. Ma se la si vuole evitare occorre adottare politiche e attitudini appropriate: non ha senso voler fare i pacifisti quando la Divisione Fantasma trancia allegramente attraverso le Ardenne.

Nella stessa prefazione, Chevallier aggiunge:

Nella mia gioventù si insegnava – quando eravamo al fronte – che la guerra era moralizzatrice, purificatrice e redentrice. Abbiamo potuto constatare le implicazioni di questi slogan ripetuti in continuazione: smerciatori, trafficanti, mercato nero, delazioni, tradimenti, fucilazioni, torture, tubercolosi, tifo, terrore, sadismo e fame. E dell’eroismo, d’accordo. Ma la piccola, l’eccezionale proporzione di eroismo non riscatta l’immensità del male. D’altro canto pochi sono tagliati per l’eroismo. S’abbia la lealtà di convenirne, noi che ne siamo tornati.

La grande novità di questo libro, il cui titolo era una sfida, è ciò che dicevamo [al fronte]: ho paura.

Nei “libri di guerra” che avevo letto la paura era a volte menzionata, ma si trattava di quella degli altri. L’autore era un personaggio flemmatico, così occupato nel prendere appunti che se la rideva degli obici.

L’autore di questo libro considera che sarebbe improbo parlare della paura dei propri compagni senza parlare della propria. Ragion per cui ha deciso di prendersi la responsabilità della paura, prima tra tutte la propria. Quanto a parlare della Grande Guerra senza parlare della paura, senza metterla in primo piano, sarebbe stata fumisteria. Non si vive nei luoghi dove si può essere squartati in ogni istante senza provare una certa apprensione.

Bataille du Chemin des Dames | Site d'histoire | historyweb.fr

Capo, credo di star provando una certa apprensione

Al di là del messaggio politico di Chevallier, Dartemont è un personaggio notevole nell’orizzonte della narrativa maschile: lo era nel 1930 e lo è tutt’ora.

Come sa chi ha letto il mio commento a quella porcheria esilarante di Educazione Siberiana, spesso nei film di “Uominiveri per Uominiveri” il protagonista è uno tostissimo che fa cose tostissime per un’ore e mezza, e i romanzi non se la cavano granché meglio. Questo comporta due problemi: tanto per cominciare non può esserci vero coraggio se non c’è paura (sicché la storia raccontata è semplicemente inutile), e in secondo luogo questo tipo di storie, quando troppo pervasive, rinforzano un mito dannoso di forza e virilità, con conseguenze indirette negative sui lettori.

Dartemont è un personaggio che rivendica la propria vulnerabilità e la propria paura. E’ un personaggio che espone la propria fragilità umana senza pudore, con onestà e insolenza. E’ un personaggio che lotta per sopravvivere, ma che si mette a rischio quando riconosce la disperazione rassegnata negli occhi di un compagno.

Dartemont offre un modello dove la vera forza non è la violenza guerriera (che pure fa parte della vita in trincea), ma l’onestà di ammettere: ho freddo, ho fame, ho paura. Ed è accettando la propria paura e la legittimità del suo desiderio di restare in vita che Dartemont mantiene la propria sanità mentale e la propria vita.

Quella di Chevallier non è l’unica esperienza della Grande Guerra. Come accennato, altri reduci l’hanno vissuta in modo diverso. Ma allora come oggi La Peur resta un romanzo narrativamente e politicamente importante, che in troppo pochi hanno letto.

MUSICA!
P.S. nel 2015 i francesi hanno realizzato un film sul romanzo, ma non l’ho ancora visto quindi non so se consigliarvelo. Qui il trailer.


Bibliografia

CARIGUEL Olivier, Revue des Deux Mondes, 2008, p.182

CHEVALLIER Gabriel, La Peur, ed. Le Dilettante, Parigi, 2008

CHEVALLIER Gabriel, trad. CARRA Leopoldo, La Paura, Adelphi, 2011

RIEUNEAU Maurice, Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Klincksieck, Parigi, 1974

SICARD Claude, Revue d’Histoire Litttéraire de la France, vol. 76, n.3, 1976, p.500-507

Pagina Wiki su Chevallier (FR)

Pagina Wiki del romanzo (FR)

 

 

Tombe scoperchiate: un breve assaggio di preistoria coreana e il Cimitero di Daho-ri

Oggi tanto per cambiare vorrei parlare della Corea.

Quando iniziai a studiare Storia Giapponese, la Corea era quel posto nei dintorni che i Giapponesi invadevano ogni qualche secolo.

In realtà la Storia coreana, in particolare per quel che riguarda il periodo preistorico e protostorico, è assolutamente indispensabile per capire le rocambolesche vicende dell’Arcipelago.

Il piccolo problema è che la Storia coreana non gode manco da lontano della stessa mole divulgativa dedicata alla Storia cinese o giapponese, per lo meno non in lingua occidentale. In lingua giapponese già si trova di più, ma, dati i rapporti un tantinello disfunzionali che corrono tra i due paesi, farsi un’idea della Storia coreana basandosi su ricercatori giapponesi è un pochettino… hum… problematico.

Non so di preciso perché, ma la Corea sembra un po’ la sorella zitella dell’Estremo Oriente.

Fortunatamente per noi esiste gente come Gina Barnes e Mark Byington!

provincie

Mappa delle moderne provincie sudcoreane

La preistoria coreana è un soggetto vastissimo (DUH!). Oggi voglio limitarmi a offrire un’infarinatura generale di riferimento e, per rendere il tutto un pochino più gustoso, concludere con un saporito bocconcino archeologico. Giusto per avere quel dettaglio concreto che piace tanto a noi storici dei materiali (Storia dei Materiali, una branca che suona avvincente come il cemento che asciuga ma che in realtà è molto peggio del cemento che asciuga).

Masochist cat by Claire-Aurora on DeviantArt

Cominciamo con l’identificare un periodo: il Periodo Samhan, ovvero «dei tre Han». o «Proto-Tre Regni». Gli «Han» in questione non sono da confondersi con gli Han cinesi (漢): «Han» riferito alla Penisola coreana (韓) è un termine piuttosto vago usato per identificare tre polities, tre proto-stati che pendono forma da qualche parte tra il 300 a. C. e lo 0. Si tratta di grumi di polis legate tra loro da relazioni più o meno solide e gravitanti attorno ad alcuni centri più grandi e importanti.

I limiti del Periodo Samhan non fanno l’unanimità. Per Gina Barnes, questa fase si situa tra lo 0 e il III° secolo d. C., e corrisponde alla Tarda Età del Ferro. Per alcuni ricercatori coreani, il periodo comincia già dal 100 a. C., o dal 300 a. C., durante l’ultima fase dell’Età del Bronzo.

I sostenitori della tesi del 300 a. C. hanno dalla loroparte le fonti cinesi che, seppur posteriori, fanno riferimento alla situazione coreana del 300 a. C. parlando di «tre Han». Come vedremo, le foti cinesi sono state messe insieme secoli dopo questo periodo, quindi da sole provano poco. Tuttavia sono generalmente molto affidabili, e sembrano confermate da alcuni dati archeologici: a partire dal 300 a. C. si diffonde nella Penisola quella conosciuta come la Slender bronze dagger culture, un nuovo complesso culturale distinto dalla cultura dei dolmen precedente.

Questa innovazione sarebbe un inizio dell’incipiente processo di state formation che, secondo questa corrente storiografica, avrebbe portato alla nascita di Federazioni Han già nel II° a. C.

Secondo Lee Jaehyun, la Cultura del Bronzo coreana è divisibile in due categorie: una che segue lo stile della Slender bronze dagger culture tipica del Liaoning, e una in stile tipicamente coreano, entrambe esemplificate da forme distinte di daga.

Liaoning-type Bronze Dagger image

Daga in bronzo in stile Liaoning, l’oggetto-emblema della Slender bronze dagger culture. Questo reperto è stato trovato nella contea di Buyeo, nella provincia di Chungcheon, è conservato nel National Museum of Korea in Seul.

Bronze Artifacts from Daegok-ri, Hwasun (Korean-type Bronze Daggers) image

Daga in bronzo in stile coreano, ritrovate nella contea di Hwasun nella provincia del Jeolla meridionale. Reperti conservati nel National Museum of Korea in Seul.

La daga in stile Liaoning ha un’inconfondibile forma a liuto ed è diffusa dal nordest della Cina alla penisola, ma ne troviamo pochi esempi in Corea, quasi sicuramente beni importati.

Daghe_bronzo

In blu i ritrovamenti di daga in bronzo in stile Liaoning, in rosso i ritrovamenti di daghe in bronzo in stile coreano

La Korean-style slender bronze dagger culture presenta numerosi aspetti originali, il che spinge Lee Jaehyun a supporre che si tratti in realtà di una cultura indipendente. E’ caratterizzata da oggetti rituali in bronzo, tra cui spiccano specchi e armi, ma anche sonagli e strumenti. Nella sua fase formativa, notiamo diverse caratteristiche in comune con la cultura del bronzo in stile Liaoning. La fase successiva, detta «di espansione», è caratterizzata da uno sviluppo di oggetti più originali, tra cui ferri di lancia e alabarde.

Tra la fine del II° secolo a. C. e il II° secolo d. C., questa cultura declina, mentre in parallelo si sviluppa la Cultura del Ferro. Gli specchi decorati in linee sottili e i sonagli diventano progressivamente più rari, mentre si favoriscono oggetti rituali in bronzo sotto forma di armi, come punte di lancia decorative.

La prima fase della Cultura del Ferro nel sud della Corea si sviluppa tra il IV° e il II° secolo a. C. e presenta molte similitudini con quella tipica del regno di Yan, da cui è stata probabilmente importata. In questa fase però la Cultura del Ferro resta molto limitata nelle regioni di Jeolla e Chungcheong.

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Prego ammirare la mia padronanza di Paint

E’ con la seconda fase, alla fine del II° secolo a. C., che la produzione di ferro si diffonde nella penisola. Questa nuova ondata presenta caratteristiche smaccatamente Han (Han nel senso degli Han della Cina). E’ in questa fase che si situa la Tomba n.1 del cimitero di Daho-ri, che andremo a studiare!

La diffusione del ferro come materiale di prestigio/mezzo di scambio e lo sviluppo delle miniere nella regione dello Yeongnam favorirono una vasta rete commerciale che legava le polities sudcoreane con le Comanderie cinesi di Lelang e Daifang, con Mahan, con le regioni degli Ye orientali e le isole giapponesi. Quest’industria è la base della crescita economica che favorirà il maturare delle polities di Saro e Guya negli staterelli di Gyeongju e Gimhae, con cui il regno di Wa avrà strettissimi legami diplomatici e commerciali nel suo periodo di formazione.

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I Tre Han e le due comanderie

Tornando ai Tre Han, si tratta di Mahan (futuro regno di Baekje), Byeonhan (futura Confederazione di Gaya) e Jinhan (futuro regno di Silla, ovvero gente cattivissima se diamo spago alle fonti giapponesi dell’VIII° secolo).

A noi interessa in particolare Byeonhan e la futura Gaya, una delle entità politiche più importanti nello sviluppo del regno di Yamato in Giappone, e una delle meno conosciute.

Il problema è che mentre abbiamo una qualche forma di documentazione indigena per entità come Baekje, Silla o Goguryeo, gli annali di Gaya non sono sopravvissuti in nessuna forma, e quindi le uniche fonti storiche riguardo questa sfuggente Confederazione e la sua Storia sono tutte fonti straniere compilate dai paesi vicini.

Purtroppo anche l’aspetto archeologico è problematico, e vale la pena parlarne prima di tuffarci nel bellissimo sport della violazione di tombe: i primi studi archeologici legati a Gaya o alle polities che la precedettero risalgono agli anni ’20 e furono portati avanti dai giapponesi.

Da buona potenza coloniale e nazionalista, il Giappone non era proprio mosso da un sincero desiderio di conoscenza (anche perché il sincero desiderio di conoscenza raramente si presta a confermare l’ideologia nazionalista, ideologia storicamente molto recente). Insomma, i giapponesi hanno scoperchiato un botto di tombe, fatto manbassa della roba più bella che c’era e se la sono portata via senza documentare i siti. E considerato il volume di bombe che si son buscati vent’anni dopo, de facto una quantità ragguardevole di patrimonio di Gaya è finito in fumo.

(C’è anche un lunghissimo dibattito se Gaya fosse o non fosse una colonia Wa, ma questa lattina di vermi l’apriremo un’altra volta).

I primi scavi condotti nel bacino del Nakdong dai Sudcoreani risalgono gli anni ’70, ma il grosso dei siti di Gaya, come Daho-ri e la Tomba n.1, sono documentati a partire dagli anni ’90. Purtroppo, con l’eccezione della regione di Gimhae, i dati archeologici per Periodo Samhan di Gaya sono relativamente pochi.

Ovviamente anche il dato archeologico va trattato con cautela: la maggioranza dei siti a nostra disposizione sono siti funerari. E l’arte funeraria è importantissima, sia chiaro, dato che spesso le pratiche mortuarie consistono in una sorta di ricostruzione essenziale dell’identità del morto (la sua appartenenza a una certa classe, clan, professione, ecc), ma la morte è solo uno degli aspetti della vita degli esseri umani. Alla fine, l’arte mortuaria è una storia che i vivi raccontano su loro stessi e sul defunto, e non abbiamo molti elementi da comparare a detta storia.

funny-pictures-bored-cat | MediaLIRTs

Concluso questo preambolo interessantissimo che, son certa, vi avrà tenuto col fiato sospeso, tuffiamoci nella parte divertente: violare tombe!

Tomba n.1 del cimitero di Daho-ri

Il sito archeologico di Daho-ri (茶戸里) si trova nella zona di Changwon, capoluogo della regione sudcoreana del Gyeongsang meridionale, ovvero la parte sudorientale della penisola coreana.

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Vista aerea del sito di Daho-ri

Il sito è stato scavato tra il 1988 e il 1998 e oggi gode dello status ufficiale di Sito Nazionale Storico n.327. Non solo ha fornito un considerevole numero di artefatti, ma si tratta di un sito usato per un lasso di tempo considerevole: durante i 10 anni di scavi abbiamo trovato 69 tombe con sarcofago in legno, 4 con sarcofago a giara, e perfino una tomba con camera in pietra del Periodo di Gaya, il che significa un lasso di tempo che va dal II° secolo a. C. al VI° secolo d. C..

Daho-ri è a una decina di chilometri dal fiume Nakdong, un’importantissima arteria di scambi che scorre fino a Gimhae e Busan, il che lascia supporre che questa zona avesse contatti frequenti col resto della regione via il fiume.

Daho-ri stesso è nelle vicinanze di altri siti, tra cui insediamenti fortificati e cimiteri.

Purtroppo una delle prime cose rilevate all’inizio dello scavo nel 1988 è che il sito era stato saccheggiato. Ma è stato comunque possibile estrarre informazioni preziose.

Oggi voglio parlare in particolare di quella che è chiamata Tomba n.1.

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La Tomba n.1 scoperchiata

Come buona parte del sito, la Tomba n.1 è stata trovata saccheggiata e stravolta, ma il sarcofago di legno era ancora in buono stato. Trattandosi di un mostro monossilo, probabilmente era troppo pesante e solido per i ladri. Sotto di esso abbiamo potuto recuperare un certo numero di oggetti funerari, a conferma che nascondere la roba sotto il letto è una grande idea.

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Esistono due tipi di sarcofago in legno, in Corea: il sarcofago monossilo realizzato da un singolo tronco scavato, e il sarcofago di assi, una sorta di «bara», simile in stile ai sarcofaghi Han.

La maggioranza dei sarcofaghi in legno coreani sono a «bara». E’ possibile che i sarcofaghi monossili siano una forma più arcaica e che l’uso della «bara» sia invalso più tardi, a seguito dell’influenza delle Comanderie.

La Comanderia di Lelang, probabilmente la più importante nel traffico tra Byeonhan e gli Han cinesi, venne fondata nel 108 a. C., dopo che l’Imperatore Wu rase al suolo la polity di Gojoseon (Vecchia Joseon), polity situata nel nordovest della Penisola. Questa guerra avrebbe portato un afflusso notevole di esuli al sud, provocando un’evoluzione nella cultura e nei costumi funerari.

Le tombe con sarcofago in legno, dette mokkwanmyo (木館墓), cominciano a manifestarsi nel sito di Daho-ri nel I° secolo. Secondo Kim Daesik, dell’Università di Hongik, questa evoluzione nei costumi segna l’apparire di una classe dirigente (tombe di questo genere ovviamente necessitano un investimento non indifferente di risorse, tempo e lavoro) diversa da quella indigena precedente.

Poesse che il misterioso defunto della Tomba n.1 fosse un immigrato Gojoseon?

In realtà per le fonti cinesi la stretta relazione tra Gojoseo e gli staterelli coreani predata il I° secolo: il primo riferimento in tal senso viene da quello che è anche il primo testo a riferirsi alle polities della Penisola col termine «Han», il Sanguozhi (Storia dei Tre Regni). Il Sanguozhi, iniziato da Chen Shou del regno di Jin (233-297) e completato e annotato da Pei Songzhi del regno dei Song (372-451), è un testo importantissimo, nonostante sia stato completato secoli dopo i fatti narrati.

Nel libro, re Jun di Gojoseon avrebbe perso una guerra contro il generale Wei Man del regno di Yan (che gli succede sul trono di Gojoseon) e sarebbe quindi fuggito a sud, diventando «Re di Han».

Alcuni hanno situato questi fatti tra il 194 e il 180 a. C. Potrebbe darsi che il II° secolo sia il periodo in cui il termine Han riferito alla Corea entra in uso.

Altri hanno criticato questo approccio fiducioso alle fonti cinesi, notando che potrebbe benissimo trattarsi di un termine usato anacronisticamente.

Per altri ancora, si può iniziare a parlare di «Han» con l’apparizione archeologica di un nuovo indicatore culturale, la ceramica con bordo aggiunto (粘土帯土器), che ha origine nella penisola del Liaodong e si diffonde nel resto della Corea verso il 300 a. C.

粘土帯土器 image
Esempio di vaso degli inizi dell’Età del Ferro, ritrovato in Seo-gu, distretto di Incheon, conservato nel National Museum of Korea

Avvincenti discussioni filologiche a parte, già dal III° secolo a. C. il sud della Corea è caratterizzato da polities che intrattengono scambi regolari col Nord della Cina e Gojoseon. Byeonhan, la polity che interessa a noi, si sviluppa a partire dal II°-I° secolo a. C.

Quando parliamo di polities per Byeonhan, parliamo davvero di entità politiche di taglia ridotta: secondo Yi Hyunhae gli staterelli più grandi di Byeonhan contavano 2-3.000 famiglie, e quelli minori appena 6-700. Si trattava con ogni probabilità di costellazioni di città semi-indipendenti che agivano di concerto in materia di diplomazia e politica estera.

Dalla fine del II° sec a. C., spuntano cimiteri di gruppo attraverso tutta la provincia del Gyeongsang. Questo è accompagnato da una diffusione senza precedenti del sarcofago in legno e da un aumento sensibile degli artefatti nel corredo funebre. Compaiono tombe come la Tomba n.1, palesemente erette per capi. La varietà nella struttura e nel corredo suggerisce peraltro una certa diversità culturale in seno alla classe dirigente, il che presuppone una società più complessa e stratificata. Yi Hyunhae si accorda col dire che questo è dovuto a un massiccio influsso di migranti, i buona parte provenienti da Gojoseon.

Questo sembra confermato dal fatto che in Daho-ri continuiamo a trovare oggetti in continuità con il passato, come le ceramiche «non decorate» (Mumun) nere e marroni. Ma notiamo anche un influsso crescente di oggetti in metallo o in lacca simili in stile e in qualità a quelli fabbricati dagli artigiani di Gojoseon.

Secondo Kim Daesik, possiamo interpretare questi dati come segue:

  • gente portatrice di conoscenze e tecniche nuove arriva e viene assimilata in una nuova classe dirigente (come direbbe uno degli spauracchi della “Destra Razionale”, Foucault, potere e sapere sono spesso strettamente correlati).
  • Questo apporto tecnologico però non provoca stravolgimenti traumatici nella struttura sociale locale, che mantiene molta continuità col passato
  • Ne deriva che le società agricole indigene erano stabili e sviluppate.

L’arrivo di gente nuova sembra riecheggiare nel mito fondatore di Gaya raccontato nel Samguk Yusa: Un uomo di nome Suro discende dal cielo sul picco del monte Kuji, e vi stabilisce il suo regno. I nove capi (kan, 干) della regione di Gimhae lo scelgono quindi come capo.

Per Kim, il mito suggerisce la fusione tra culture locali e una cultura straniera, aliena.

Spessissimo la classe dirigente è descritta come aliena o celeste in origine, questa interpretazione ha valore in quanto supportata da elementi archeologici.

Per quel che riguarda Daho-ri in particolare, troviamo 3 tipi di tomba con sarcofago, classificati in base alla taglia e alla profondità della fossa: le tombe grandi (con sarcofagi di 240-278 cm per 100-136 cm e una profondità di 120-205 cm), che spesso hanno una buca di taglia ridotta al centro del pavimento, poi sigillata dal sarcofago; le tombe piccole (160-200 cm per 55-64 cm e una profondità di 20-40 cm); e le tombe così così (200-270 cm per 80-125 cm e una profondità di 90-168 cm, sono di poco più piccole delle tombe di tipo 1 ma, come le tombe di tipo 3, sono sprovviste di buca supplementare).

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Il sarcofago monossilo della Tomba n.1

La Tomba n.1 data del I° secolo a. C. La sua posizione in seno al cimitero non presenta particolarità degne di nota, ma dalla quantità e qualità del corredo funebre possiamo dedurre che si tratta della tomba di qualcuno relativamente importante.

La fossa ha una pianta rettangolare con gli angoli arrotondati e misura circa 278cm in lunghezza, 136 cm in larghezza e 205 cm in profondità, orientata lungo un asse sudest-nordovest. Presenta una buca realizzata al centro del pavimento, poi coperta dal sarcofago.

Il sarcofago stesso è imponente: ricavato scavando e aprendo in due un tronco di quercia di 350 anni, per un risultato che misura 240 cm per 85 cm, riempiendo di fatto quasi la totalità della fossa con la sua massa.

Il sarcofago è ancora più impressionante se si considera che le seghe da legno non erano ancora state inventate e che l’intera faccenda è stata realizzata con accette e fuoco.

La tecnica ricorda quella per realizzare le canoe monossili. Yi Young Hoon nota che la tradizione della canoa-sarcofago si ritrova anche nella tradizione funeraria del Sichuan del periodo dei Regni Combattenti (V°-III° secolo a. C.) e nella cultura Dong Son vietnmita (1.000 a. C. – 100 d. C.).

Parte del coperchio è stata rovinata dai ladri, ma all’interno abbiamo comunque trovato una daga laccata, una collana di perle di vetro, una coppa di legno e una lama di scure a testa piatta. Si tratta probabilmente degli effetti personali del morto, di cui purtroppo non ci resta niente.

Sotto il sarcofago, c’è la buca di cui sopra, che misura 65cm per 55 cm per una profondità di appena 12 cm. Qui abbiamo trovato asce con manico in legno ancora intatto (usate probabilmente per scavare la fossa, oggetti laccati tra cui una coppa a piede, fasci di spago, castagne e foglie. Abbiamo anche recuperato pezzi di una spessa corda, usata senza dubbio per calare il sarcofago nella fossa.

Nella buca secoondaria si trovava una cesta di bambù piena di oggetti: due daghe in bronzo laccate (che hanno permesso di ricostruire finalmente la daga bronzea coreana del periodo), una daga in ferro laccata, una daga in ferro con impugnatura in legno, due frammenti di daga in ferro, un coltello in ferro laccato con una guardia ad anello, una punta di lancia in bronzo e quattro punte di lancia in ferro.

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Daga in bronzo con fodero, conservata al National Museum of Korea

La cesta conteneva anche strumenti, come cinque ferri di ascia in ferro colato e due falcetti con manico in legno, o ornamenti e oggetti di prestigio, come uno specchio decorato, una fibbia da cintura in bronzo, cinque anelli in bronzo di cui uno decorato con un motivo seghettato.

Abbiamo anche trovato delle monete wuzhu (che ritroviamo anche in altri siti contemporanei, siano essi sepolture o siti fortificati), una campanella di bronzo per cavalli e cinque pennelli di foggia particolare (dotati di setole a entrambe le estremità). La presenza dei pennelli è uno dei più antichi esempi di cultura della scrittura nella regione. I pennelli sono peraltro accompagnati da un coltello apposito la cui funzione era grattar via i caratteri errati dalle tavolette di legno (uno dei supporti di scrittura più comuni anche in Giappone, dove vengono chiamate mokkan).

La campana per cavalli e la fibbia in bronzo sono in chiaro stile Han, arrivati in Daho-ri senza dubbio a seguito di scambi con Lelang.

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Specchio in bronzo decorato con motivi di stelle e nuvole stilizzate, conservato nel National Museum of Korea

Yi Young Hoon ipotizza che la cerimonia funeraria si svolgesse nelle tappe seguenti :

  • Il cadavere e parte del corredo erano deposti nel sarcofago, che era quindi chiuso. Il sarcofago era trascinato per i «piedi» al luogo di inumazione, dove venivano realizzate la fossa e la buca della cesta.
  • La cesta era deposta nella buca e il pavimento era ricoperto da contenitori quadrati e circolari contenenti offerte di cibo e bevande, insieme ad altri doni funerari come asce e mazze. Castagne erano quindi gettate nella fossa.
  • Il sarcofago era calato nella buca e le corde erano tagliate.
  • Uno strato di terra era zeppato tra il sarcofago e le pareti, e su di esso venivano poste altre offerte funerarie, probabilmente oggetti preziosi in ferro e in lacca.
  • Altra terra era zeppata nella fossa, fino ad arrivare a livello del coperchio del sarcofago. A questo punto altri oggetti in lacca erano posti sul coperchio, il resto della fossa veniva riempito e la terra veniva accumulata fino a formare un basso tumulo.

Yi Young Hoon cita come esempio simile la Tomba n.11 sempre in Daho-ri, dove possiamo individuare almeno tra strati cerimoniali con offerte di punte di freccia, contenitori in lacca e un arco laccato trovati in differenti livelli.

E’ anche importante notare che gli oggetti laccati estratti dalla Tomba n.1 presentino una tecnica raffinata e nettamente diversa dal metodo di laccatura usato in Lelang. Il che mostra come l’industria della lacca fosse a questo punto non solo sviluppata, ma originale in questa regione.

I ferri d’ascia presenti nel canestro non erano adatti a essere montati su un manico e usati: si tratta in realtà più di una forma di lingotto, un’unità base di ferro. La Corea del Sud e in particolare questa zona, era un grosso produttore che esportava un volume considerevole di questi lingotti verso le Comanderie Han e le Isole Wa. I Wa in particolare erano dipendenti dalla produzione coreana, ma di questo riparleremo magari quando racconteremo della fine di Gaya.

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Asce-lingotto estratte dalla Tomba n.1, conservate nel National Museum of Korea

E’ da notare che nei siti funerari di Chinhan e Byeonhan troviamo oggetti indigeni o oggetti cinesi, con poca roba importata da altri posti. Per fare un confronto, nella polity di Mahan gli oggetti di importazione Han sono molto più rari. Questo a dimostrazione che nel Periodo Samhan le Comanderie avevano legami diversi con le varie polities presenti nella penisola.

La sovrabbondanza di ferro lascia supporre che il morto della Tomba n.1 fosse coinvolto nel commercio del ferro con Lelang.

I cimiteri sono associati con centri di potere. Il numero di sepolture e la taglia di tombe, come anche la ricchezza dei corredi, lasciano presupporre che verso il I° secolo a. C. nei pressi di Daho-ri si trovasse un centro amministrativo ed economico di prima importanza.

you made it how ya feel now - Condescending Wonka | Make a Meme

Toh, qualcuno è arrivato a fine articolo!

E’ un fatto indiscutibile che la Corea sia servita da ponte tra il Continente e le Isole giapponesi, portando con il suo flusso di mercanti e immigrati tecniche, idee, materiali. Per ricercatori come Takesue Jun’ichi, i toraijin, gli immigrati coreani, furono fondamentali nella rivoluzione tecnica e culturale che segna la fine del periodo Jōmon e l’inizio del Periodo Yayoi. L’apparizione in siti archeologici giapponesi di daghe in bronzo coreane preannuncia l’incipiente processo di state-formation che portò all’emergere del Regno di Yamato e, eventualmente, alla nascita dell’Impero Giapponese.

E’ impossibile studiare la preistoria e la protostoria giapponese senza tener conto di ciò che succedeva sul Continente, e in particolar modo in Corea.

Sicché oggi ho voluto offrire un assaggio del complicato e affascinante mondo della preistoria sudcoreana.

MUSICA!


Bibliografia

BARNES Gina, The Rise of Civilization in East-Asia – The Archaeology of China, Korea and Japan, Thomas and Hutson, Londra, 1999

Center for Historical Studies -East Eurasia, Kodai higashi Yuurasia kenkyuu senta- nenpou, Senshu University, Kawasaki, Marzo 2018

JU Bo Don, “Problems Concerning the Basic Historical Documents Related to the Samhan”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 2, Harvard University, Cambridge, 2009, p. 95-124

KIM Taesik, “Sources for the Study of Kaya History”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 3, Harvard University, Cambridge, 2012, p. 17-48

LEE Jaehyun, “The Interregional Relations and Developmental Processes of Samhan Culture”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 2, Harvard University, Cambridge, 2009, p. 61-94

LEE Ki-baik, A New History of Korea, trad. WAGNER Edward W., Harvard University Press, Cambridge, 1984

PARK Hae Woon, “Archaeological Research on Kaya: Past, Present, and Future”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 3, Harvard University, Cambridge, 2012, p. 105-170

RHEE Song-nai et al. “Korean Contributions to Agriculture, Technology, and State Formation in Japan: Archaeology and History of an Epochal Thousand Years, 400 B.C.–A.D. 600.” Asian Perspectives, vol. 46, no. 2, 2007, pp. 404–459

SHIN Michael D., Korean History in Maps, Cambridge University Press, 2014

YI Hyunhae, “The Formation and Developement of the Samhan”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 2, Harvard University, Cambridge, 2009, p. 17-60

YI Young Hoon, “Tomb 1 at the Taho-ri Site in Ch’angwon”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 2, Harvard University, Cambridge, 2009, p. 155-178

 

Pagina del National Museum of Korea

 

 

 

 

Genpei 2.2: più dell’onore poté il digiuno

E’ ora di riprendere dopo lungo oblio la nostra saga sulla sanguinosa Guerra di Genpei, il lungo conflitto che mise fine al potere dell’aristocrazia civile e portò alla nascita del Bakufu di Kamakura, il «Governo della Tenda», noto in occidente come «shogunato».

Rapido riassunto: uno scazzo dinastico degenera in lotta armata nel 1180 e catalizza conflitti e ostilità latenti che si scatenano uno dopo l’altro effetto-domino fino a scatenarsi in un tripudio di sangue e merda generalizzato.

Siamo agli inizi del 1183, la guerra dura da tre anni, la carestia infuria, il paese è roso da rivolte e faide. Kyūshū è in fiamme, e perfino lo Shikoku, il Molise del Giappone, è un vespaio.

Tre contendenti emergono dalla bolgia di sberle e legnate nei denti:

  • I Taira, sotto la guida del nuovo capo Munemori (il patriarca Kiyomori è morto da poco), padroni della Capitale e padroni del traffico marittimo. Nella loro base di Rokuhara, sono ufficialmente il clan più potente del Paese e controllano l’Imperatore.
  • Minamoto Yoritomo, basato in Sagami, erede del ramo principale del clan e alla testa di una vasta coalizione di bande della piana del Bandō. Tra costoro spiccano gli Hōjō, i Miura, i Sasaki, i Chiba, i Takeda di Kai.
  • Minamoto Yoshinaka, il più giovane del mazzo, abile tattico la cui base principale è in Shinano ma che si trova ormai comodamente installato nel governo provinciale di Echigo, a sua volta a capo di una sostanziosa coalizione di bande dell’Hokuriku. Per ora, Yoshinaka non ha ancora perso una battaglia (a differenza di Yoritomo, che salvo un colpo di culo formidabile, sta prendendo un fracco di legnate).

Considerato lo stato disastroso del paese, Yoritomo tenta di trovare un compromesso coi Taira. E’ una buona proposta, e tutti ne convengono. Ma Munemori ha daddy issues e rifiuta per principio. Ciliegina sulla torta, la missione Taira di «pacificazione» (termine tecnico giapponese per indicare brutale repressione di ogni qualsivoglia dissenso), inviata in Hokuriku per stanare Yoshinaka, fallisce miseramente.

E qui ci ritroviamo. In un paese incendiato da siccità, carestia e odio.

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I tre centri di potere: Heian per i Taira, Kamakura per Yoritomo, la capitale provinciale di Echigo per Yoshinaka

I Taira sono cinti dal casino: Kyūshū, Shikoku, e ora anche i monaci di Kumano, nel Kii, rilanciano la rivolta. Questi ultimi ce l’hanno coi Taira per via della distruzione dei templi di Nara.

Alla fine del nono mese dell’anno precedente, i rivoltosi di Kumano avevano occupato Shishigaseyama e dichiarato il loro aperto supporto a Yoritomo.

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In rosso, nel centro, la provincia dove si trova la Capitale, tenuta dai Taira;
Contrornate in arancione, le provincie toccate da disordini e rivolte;

In verde barrato nel nord, il territorio controllato da Kiso Yoshinaka;
In aranciano barrato nell’est, il territorio controllato (più o meno bene) da Minamoto Yoritomo

Tra i sostenitori di Yoritomo in Kumano spicca un certo Tanabe Tanzō. Il suo nome non è nuovo nelle fonti: in molti sospettano che sia lui il delatore che ha avvertito i Taira della lettera del Principe Mochihito, all’origine della guerra. Questo dato non è confermato in tutte le fonti, quindi prendetelo con le molle.

Quello che sappiamo con relativa sicurezza è che è nato nel 1130 e che a questo punto riveste una funzione importante nell’amministrazione monacale di Kumano. Suo padre si chiamava Tankai, ma il Sonpi bunmyaku suggerisce che Tanzō fosse in realtà un figlio naturale di nientemeno che Minamoto no Tameyoshi (il nonno di Yoritomo, e ve lo dico perché questa faccenda è peggio di Beautiful e mi diverte incasinarvi le idee).

Tanzō è legato ai Taira e si occupa della marina militare nella provincia di Kii. Come altri in Kumano, il rogo dei templi di Nara è un momento di rottura critico, e Tanzō si ribella.

Questo tradimento gli viene perdonato, ma la frattura è insanabile: nel nono mese, Tanzō raggiunge Yoritomo e diventa de facto il nuovo ammiraglio dei Minamoto. Di certo i ribelli si rendono conto che, se vogliono sconfiggere i Taira, clan padrone del mare, hanno bisogno di una flotta un minimo decente.

Nel frattempo anche Yoshinaka sta consolidando la propria posizione, espandendo la sua sfera di influenza fino in Ecchū.

Munemori si ritrova quindi con rivolte ad ovest e due poteri ostili che dall’Est strisciano con lentezza inesorabile verso la provincia di Yamashiro e la Capitale Fiorita. Si può consolare con l’ida che Yoshinaka e Yoritomo si odiano, e hanno altrettanta probabilità di attaccare i Taira che di sbranarsi tra loro.

Minamoto no Yoshinaka (il tizio più in alto), attorniato da altri tostissimi guerrieri, dal pennello di Utagawa Kuniyoshi (1848)

Il 1182 e 1183 sono contraddistinti da lavori politici più che fati d’arme: la carestia infuria e senza cibo e foraggio gli eserciti non vanno da nessuna parte.

Secondo Kamo no Chōmei (1155-1216), nulla cresce per due anni. Vi riporto il brano in intero per dare un’idea dell’orrore che regnava in Giappone in questo periodo.

Alcuni disertarono le loro terre e se ne andarono in altre provincie, e altri lasciarono le loro case e si accamparono sulle colline. Vari tipi di preghiere furono recitate, ma le cose non migliorarono. E poiché la gente della Capitale dipendeva in tutto dalle terre d’attorno, quando nessun contadino veniva più con il cibo, come potevano costoro continuare la loro solita esistenza? Anche se gli abitanti portavano i loro beni sulla via e supplicavano la gente di comprarli come mendicanti senza vergogna, nessuno li degnava di uno sguardo, e se mai c’era qualcuno disposto a barattare il denaro era tenuto a poco, ma non c’era modo di convincerli a separarsi dai cereali. Gli accattoni riempivano le strade e il loro clamore era assordante.

Così il primo anno passò, e fu già difficile da vivere, sperammo in un miglioramento in quello seguente, ma fu peggio, dacché si scatenò una pestilenza, e le preghiere della gente non servirono a nulla. Man mano che i giorni passavano, gli abitanti si sentivano come pesci quando l’acqua gocciola via, e cittadini rispettabili che di solito indossavano cappelli e scarpe ora andavano scalzi a mendicare casa per casa. E mentre guardavi sconvolto tali scene, costoro si accasciavano e morivano sulla strada. E contro i muri e lungo le vie potevi vedere ovunque i corpi di coloro che erano morti di fame. E non c’era nessuno per portarli via, un fetore terribile colmava le strade, e la gente passava distogliendo lo sguardo. Le strade normali erano già in terribile stato, ma nei bassifondi presso il fiume non c’era nemmeno spazio per far passare carri o cavalli.

I manovali poveri e taglialegna e gente così, quando non poterono più tagliare legna da ardere e nessuno li aiutava, presero a distruggere le loro capanne e a portarne i pezzi in città per venderli. E ciò che un uomo poteva trasportare non era abbastanza da procurargli il cibo per sopravvivere un giorno.

Ed era sconvolgente vedere frammenti con lacca rossa o foglia d’oro e d’argento ancora attaccati spuntare in questi mucchi di legna. E questo è perché quelli che non potevano procurarsi nient’altro facevano irruzione nei templi di montagna e rubavano immagini e utensili e li facevano a pezzi per venderli come legna da ardere. Squallidi e degenerati sono i tempi in cui si compiono simili azioni.

Un’altra cosa molto triste era che coloro che avevano figli che amavano molto invariabilmente morivano prima di loro, perché si privavano di tutto per dare ai loro figli e figlie ciò di cui avevano bisogno. E così i figli sopravvivevano sempre ai genitori. E c’erano infanti che continuavano a succhiare il seno della madre, non capendo che era già morta.

Testimonianze come questa sono ciò che a mio parere restituisce alla Storia lo spessore e la nitidezza che il tempo tende a offuscare. Spesso quando studiamo eventi remoti, i protagonisti appaiono impersonali, personaggi di un racconto più che non persone in carne ed ossa.

Testimonianze come questa riportano a galla l’umanità delle persone. Oggi come allora, i genitori amano i figli. Oggi come allora, quando una situazione terribile si protrae, legami e strutture si sfaldano, e gente che aveva famiglia, vita, lavoro, si trova sola, per la strada, a crepare in solitudine. Oggi come allora, catastrofi climatiche possono privare qualcuno di tutto, e non c’è niente che puoi fare se non pregare dei che non ascoltano e cercare di sopravvivere un giorno in più, perché magari domani pioverà, magari domani arriveranno dei viveri, magari domani sarà diverso.

Gaki, spettri dominati da una fama atroce e insaziabile. Le loro pance sono dilatate come quelle dei morituri, le loro bocche sono sproporzionatamente grandi, ma il loro collo è troppo stretto per inghiottire anche un sorso d’acqua, e il cibo si muta in fuoco non appena tocca le loro labbra. Il Gaki è la personificazione del tormento di qualcuo che sta morendo di fame.
La simpatica scenetta in questione è ripresa dal Gaki sōshi, del Museo di Nara

Uno potrebbe pensare che una situazione del genere ponga necessariamente fine a una guerra che è cominciata come scazzo dinastico tra alti dignitari. Ma nonostante le grandi campagne militari siano per la maggior parte fuori questione, il fermento continua, in particolare a Kamakura, dove la Rivoluzione non dorme mai!

-Siamo praticamente padroni del Bandō.- Dice Yoritomo, durante una riunione. -E’ ora di regolare i conti con mio cugino Yoshinaka.

-”Praticamente” padroni.- Nota qualcuno. -Un sacco di bande di Hitachi non hanno risposto all’appello. Se ci spingiamo a nord, ci scopriamo ad est.

-Non ho cugini famosi in Hitachi, possiamo prendere il rischio. Invece ho un cugino famoso in Hokuriku.

-Per ora Yoshinaka non si è mostrato ostile.

-E’ nella natura stessa dei cugini di uccidersi a vicenda prima o poi.

-Giusto.

-Quindi, se non ci sono altri parenti problematici da fare a pezzettini, io direi di mettere su una spedizione di taglia ridotta e-

-Capo!- Un piantona arriva di corsa. -Capo, hai mica uno zio in Hitachi?

-Oh no.

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Vi presento Minamoto no Yoshihiro, che chiameremo il Sire di Shida per evitare confusione tra tutti gli Yori e gli Yoshi del clan Minamoto.

Il Sire di Shida è terzo figlio di Minamoto no Tameyoshi e fratello minore del padre di Yoritomo. «Shida» altro non è che il nome della sua base principale, nella provincia di Hitachi.

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La provincia di Hitachi, nel sud potete notare il distretto di Shida

Il Sire di Shida non era mai stato amico del padre di Yoritomo. Fin da ragazzo, il suo fratello preferito era il secondogenito, Yoshitaka. I due sembrano inseparabili sin dall’infanzia: servono insieme alla Capitale e si trasferiscono insieme in Hitachi a fine turno. In questa remota provincia orientale, i due restano uniti, uno il supporto dell’altro. Cosa che non piace per nulla al padre di Yoritomo: Hitachi è nel cuore del Bandō, una provincia produttrice di cavalli e una zona strategica importantissima. Il nostro teme che i due fratelli possano unire le loro forze per rovesciarlo.

Che belle le famiglie disfunzionali, non trovate?

Nel 1155, il figlio maggiore di Yoshitomo (e fratello maggiore di Yoritomo) risolve la situazione spacciando suo zio Yoshitaka.

Annientato dalla perdita del fratello, il Sire di Shida si ritira nel suo territorio e resta fuori dalla guerra. Per più di 20 anni, si occupa della sua terra, senza mai cercare il conflitto con il governatore Taira della provincia. Perché dovrebbe, dopotutto? Non sono stati i Taira ad assassinare suo fratello.

Anche dopo l’inizio della ribellione, il Sire di Shida resta fuori dai giochi.

Ma nel 1183, con la guerra in stallo e il mondo in fiamme, il Sire di Shida decide di agire.

Forse teme il crescente potere di suo nipote Yoritomo, un uomo per cui non può avere che diffidenza e ostilità. Forse teme che Yoritomo trascini il clan nell’ennesima guerra persa, dannandoli tutti. Forse è irato col nipote che mostra scarsissima considerazione a suo riguardo. Forse vuole unirsi alle forze di Yoshinaka. Non lo sappiamo.

Toujours est-il, il Sire di Shida decide di agire.

Il 20 del secondo mese del 1183, il Sire di Shida lascia la propria base nel sud di Hitachi e comincia la lunga marcia passando via Shimotsuke verso Kamakura, dove conta sorprendere e spacciare suo nipote Yoritomo.

La congiura viene però scoperta: Yoritomo raccatta i suoi e va incontro a suo zio, incontrandolo a Nogi no miya. E proprio mentre il Sire di Shida si prepara a dare battaglia, uno dei suoi tradisce e prende le parti di Yoritomo.

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Il teatro delle operazioni

Segue una battaglia ferocissima. Così feroce che la memoria del macello è sopravvissuta nei toponimi del luogo, noto come Jigokuzawa (la palude dell’inferno) o Todorokizawa (la palude del fracasso).

Nonostante gli sforzi, il Sire di Shida perde: sconfitto, può solo ritirarsi precipitosamente e rifugiarsi sotto la protezione di Kiso Yoshinaka.

La Battaglia di Nogi no miya può sembrare aneddotica: ok, sono due parenti che si scannano tra di loro provocando la morte di centinaia di poveri stronzi che non c’entrano niente. Che c’è di nuovo?

Da un punto di vista politico questa battaglia segna un cambiamento importante nell’equilibrio del Bandō: fino a questo punto Hitachi era rimasta potenzialmente ostile a Yoritomo. Alcune bande della provincia si erano unite alla causa di Yoritomo, ma la loro lealtà era condizionata. Con la sconfitta del Sire di Shida, Yoritomo non solo ha eliminato un grosso notabile locale e possibile competitore, ma ha messo le mani su un ricco patrimonio. Per 30 anni il Sire di Shida è stato fuori dalle beghe politiche e si è dedicato solo a curare le proprie terre. Ora il frutto di tanto lavoro finisce dritto nelle rapaci zampine di Yoritomo, che usa subito il nuovo capitale per ricompensare i suoi e assicurarsi la fedeltà dei capetti di Hitachi. Con Nogi no miya, Yoritomo mette al sicuro la propria retroguardia.

Non solo, ma Yoritomo si assicura una vittoria di cui ha davvero bisogno. Con il nuovo lustro e i nuovi mezzi, può sperare di fare i conti con Yoshinaka.

Stando allo Heike monogatari, Yoritomo non riesce a strappare a suo cugino una vera e propria sottomissione, ma riesce a confinarlo nell’Hokuriku, sloggiandolo dalla provincia di Kōzuke, e a fargli inviare suo figlio come ostaggio a Kamakura.

Il primo round tra i due si conclude così con un netto vantaggio per Yoritomo.

Yoritomo

Yoritomo mentre medita nuove infamie

Mentre i Minamoto regolano conti tra di loro, i Taira ritentano di pacificare l’Hokuriku. Con minacce e pedate rimettono insieme un esercito, e il 17 Koremori riparte.

Dallo Heike monogatari:

Avendo ricevuto l’autorizzazione di esigere rifornimenti, una volta passata la barriera di Ōsaka saccheggiarono lungo la strada tutti gli uffici e le magioni, senza rispettare i prodotti delle tasse né i beni pubblici, e dacché al loro passaggio portavano via tutto ciò che trovavano, in Shiga, Karasaki, Mitsukawajiri, Mano, Takashima, Shihotsu e Kahizu, la popolazione non poteva resister loro e fuggì per monti e valli.

L’esercito messo insieme è un mostro mastodontico di migliaia e migliaia di uomini, Uesugi ipotizza anche 40.000! Si tratta di un miscuglio mal accozzato di vassalli dei Taira e coscritti strappati alle provincie obtorto collo. La coesione è bassa e il morale ancora più basso.

Koremori divide l’armata in due parti : una deve avanzare attraverso Tsuruga, a nord del lago Biwa, via il passo Konome. L’altra attraversa il passo Tochinoki, da Ōmi a Echizen. Il 26 fanno giunzione in Echizen senza troppi intoppi.

Intoppi che cominciano il giorno dopo, quando i Taira incocciano nel castello di Hiuchi, protetto da 6.000 cavalieri secondo lo Heike monogatari, tenuto da un ramo filo-Minamoto dei Fujiwara settentrionali e dal superiore monastico Saimei del tempio Heizen (pure pro-Minamoto).

La montagna è dietro, la montagna è davanti. Davanti alla fortezza scorrevano i fiumi Nōmi e Shindō. Alla confluenza dei due, [i difensori] avevano stabilito una diga di enormi alberi abbattuti, rinforzata da una prodigiosa quantità di graticci, così che a est come a ovest l’acqua era salita fino ai piedi dei monti e si sarebbe detto un lago.

Insomma, i grandi eserciti difficilmente possono scorrazzare in giro inosservati: i difensori sapevano che sarebbero arrivati e hanno creato un troiaio paludoso che Alberto I del Belgio levati.

L’acqua è un’ottima difesa, ma non bisogna mai fidarsi dei preti: nottetempo Saimei sgattaiola fuori e scocca ai Taira una freccia. E’ cava. Al suo interno i nemici trovano un messaggio arrotolato. E’ una lettera di Saimei in persona.

“Questo lago non è sempre stato qui. E’ solo l’acqua dei torrenti di montagna ostruiti da un po’. Al calar della notte, inviate i vostri valletti d’arme e fate loro distruggere i graticci. Le acque scenderanno in poco tempo. Appena i vostri cavalli potranno toccare, attraverserete. Quanto a me, li colpirò alle spalle.”

George Washington Treason - Laughshop.com

“People gather, scatter, they go left and right following their interests. That is not surprising.” (Masakage Yamagata ci insegna la politica, dal film Kagemusha)

Il giorno dopo, fangosi ma invitti, i Taira avanzano su Hiuchi, che viene prontamente abbandonato dai difensori.

Sembra che la pacificazione dell’Hokuriku, a questo giro, sia partita proprio bene.

Ma i Taira non hanno contato su Yoshinaka, che dopo l’umiliazione politica impartitagli da Yoritomo ha un sacco bisogno di ripulire il proprio onore col sangue di qualcuno.

Nella prossima puntata, la Battaglia di Kurikara!

MUSICA!

Puntate precedenti:

Genpei 0.1

Genpei 0.2

Genpei 1.0

Genpei 1.1

Genpei 1.2

Genpei 1.3

Genpei 2.0

Genpei 2.1


Bibliografia

FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Harvard University Press, 1995, Cambridge

FRIDAY Karl, Samurai, warfare and the state, Routledge, 2004, New York

FUKUDA Toyohiko, SEKI Yukihiko, Genpei kassen jiten, Yoshikawa kobunkan, 2006, Tokyo

KAMO NO CHOMEI, Trad. Sadler A. L., Ten foot square hut, Charles E. Tuttle Company, 1993, Sidney

ROYALL Tyler, The tale of the Heike, Viking, 2013, New York

SIEFFERT René, Le dit des Heiké, Verdier, 2012, Lonrai

SOUYRI Pierre-François, Histoire du Japon Médiéval – Le monde à l’envers, Tempus, 2013, Paris

UESUGI Kazuhiko, Genpei no sōran, Yoshikawa Kōbunkan, 2007, Tōkyō

 

 

Iconoclastia e il rifiuto di stare a sentire: se vi preme la Storia, smettete di usare argomenti fuffa

Tempo fa scrissi un articolo sulla natura dei monumenti e delle controversie che spesso li circondano. No, la polemica sulle statue non è una cosa nuova, esiste da quando qualcuno ha deciso che mettere figurine sui piedistalli fosse una buona idea.

L’intero concetto di monumento è complicato e si presta a diversi approcci. In questo articolo voglio limitarmi a quella che secondo me è una delle funzioni principali, e considerare alcuni degli argomenti anti-iconoclasti più ricorrenti.

Quindi accomodatevi sulla vostra poltrona preferita mentre io vi spiego cosa dovete pensare.

Scherzi a parte, si tratta di argomenti davvero vastissimi e ho già dovuto tagliare circa metà di quello che avevo scritto per non fare un articolo eterno. Purtroppo il blog non si presta molto a trattare un soggetto del genere, quindi prendete questa come la mia opinione, considerando che l’intera faccenda è necessariamente appiattita e semplificata all’estremo. Non è l’unico approccio possibile alla questione, ma è il mio approccio in questo particolare frangente.

Parte 1: Vivevo sotto un sasso, poi qualcuno me l’ha preso per tirarlo a uno sbirro

Nel caso qualcuno fosse in letargo: cos’ha scatenato il recente picco iconoclasta?

livememe.com - Am I Out Of Touch? No, It's The Children Who Are Wrong

Il 25 maggio un cittadino americano chiamato George Floyd viene strangolato a morte da un poliziotto a seguito di una lite su una banconota di 20$. Floyd lascia cinque figli, che cresceranno vedendo il video dell’omicidio spiattellato ovunque su internet.

Questo “incidente” non è un caso isolato.

Il 23 febbraio Ahmaud Arbey sta correndo lungo una strada. Due privati cittadini cercano di fermarlo, poi gli sparano nella schiena. Per più di un mese il Distric Attorney (legato ai due assassini) non fa arrestare nessuno. Il filmato dell’omicidio viene rilasciato, diventa virale e, com’è come non è, due giorni dopo i due assassini vengono incarcerati.

Il 13 marzo Breonna Taylor, una ventiseienne afroamericana che di lavoro fa il soccorritore, sta dormendo in casa sua. Tre uomini fanno irruzione buttando giù la porta. Il fidanzato di Breonna spara. I tre fanno fuoco a loro volta e uccidono Breonna.

I tre sono poliziotti in borghese. Hanno sbagliato casa. Breonna muore con otto colpi di pistola in corpo. Nessun processo per omicidio è in vista al momento in cui sto scrivendo questo articolo. In compenso sapete chi è stato arrestato? Il fidanzato di Breonna (l’accusa è stata abbandonata a fine maggio).

Questi non sono gli unici “incidenti” che vedono la polizia o gente ammanigliata con le autorità discriminare o assassinare membri della comunità afroamericana, sono solo fatti particolarmente famosi di quest’anno. Tamir Rice era un bambino di 12 anni che giocava con una pistola giocattolo in un parco, la polizia è arrivata e 2 secondi dopo (2) Tamir viene freddato a rivoltellate. Nessuno è stato condannato. Philando Castile stava guidando con la compagna e la figlia di 4 anni. Viene fermato per un controllo, avverte il poliziotto che c’è un’arma nella macchina (Philando ha la licenza che lo autorizza a portare l’arma). Il poliziotto è preso dal panico, spara, Philando riceve 5 pallottole, muore davanti a sua figlia. Il poliziotto è assolto.
Potrei continuare. Ma non si tratta solo di “incidenti misteriosamente ricorrenti”: ripetuti studi provano che la comunità non-bianca, e in particolare quella afroamericana (ma i First Nation stanno messi ancora peggio), viene regolarmente discriminata da polizia e sistema giudiziario.

La U.S. Sentencing Commission ha determinato che, a parità di crimine, un uomo di colore ha il 19,1% di probabilità in più di ricevere una sentenza lunga rispetto a un bianco. Nel 2019, uno studio della National Academy of Sciences sulle sparatorie effettuate dalla polizia tra il 2013 e il 2018 ha trovato che un uomo afroamericano ha 2,5 volte più probabilità di essere fucilato da un poliziotto rispetto a un cittadino bianco.

Insomma, è una faccenda lungherrima e complicata (in cui entrano molte altre variabili), ma il fatto resta: la comunità non-bianca è vittima di violenza di Stato e discriminazione.

Dato questo contesto, la morte di George Floyd è stata la scintilla che ha scatenato proteste che hanno preso sempre più ampiezza, fino a contagiare il resto del mondo.

Perché, per quanto ci piaccia pensare che questo genere di porcherie capitino solo in America, la realtà è che succedono anche da noi.

Parte 2: Ma che avete da strillare?

List of monuments and memorials removed during the George Floyd ...

Perché prendersela coi monumenti?

Un monumento non è mai qualcosa di anodino. Come detto nell’articolo precedente, un monumento è un’azione. Voglio ricordare qualcosa o qualcuno, o celebrare qualcosa o qualcuno, che ritengo sia importante nella narrativa collettiva della società. Un monumento non significa semplicemente “è successa questa cosa” o “questa persona è esistita”: stai letteralmente ponendo il soggetto su un piedistallo.

In altre parole, un monumento è parte di una storia che raccontiamo su di noi e sul nostro mondo.

Il problema nasce dal fatto che la narrativa è sempre necessariamente politica, e pertanto evolve a seconda del contesto e del momento. Non puoi raccontare una storia senza che questa abbia un’implicazione politica di un qualche tipo.

Salvo d’Acquisto era una persona reale che ha fatto certe scelte. Io posso raccontare la sua storia ponendo l’accento sulla crudeltà stolida dei Nazisti che hanno fucilato un uomo innocente, o posso raccontarla come celebrazione dell’atto eroico di un uomo che in vita come in morte si dedicò alla protezione dei cittadini, o posso raccontarla come esempio di redenzione di Forze Armate che per decenni erano state esecutrici di un regime totalitario.

Queste tre storie sono tutte veritiere, riguardano tutte lo stesso fatto storico, ma raccontano tre narrative politicamente diverse.

Come dice Augusto Boal, la narrativa dominante è la narrativa della classe dominante.

Perfino oggi, quando andiamo ad analizzare un’opera di narrativa, raramente troviamo una rimessa in questione di concetti strutturali come autorità, ordine, ecc. Il principe ingiustamente diseredato riconquisterà il trono. Il personaggio è vittima di un crimine e diventa un supereroe che aiuta la polizia. La famiglia che sta per perdere la casa riuscirà a trovare i soldi giusto in tempo per riscattare l’ipoteca.

In tutte queste storie ricorre un tema: lo status quo è buono e giusto, ma qualcuno o qualcosa viene a perturbarlo (un invasore, un poliziotto corrotto, la mafia, un investitore rapace, ecc) e la storia si conclude quando lo status quo è epurato dalle “mele cattive”. Raramente una storia propone una vera critica strutturale del sistema: magari il punto non è avere un re legittimo, ma abolire la monarchia. Magari il punto non è eliminare il giudice cattivo, ma cambiare del tutto il sistema giuridico. Magari il punto non è trovare i soldi, ma combattere il sistema capitalistico che priva la gente della propria casa.

Non sto dicendo che queste sarebbero buone storie, o che una storia per essere buona deve criticare lo status quo. Né sto dicendo che tutte  le storie approvano lo status quo. Sto solo segnalando questo tropismo. E questo non per dire che la narrativa dominante sia “cattiva”. La classe dominante può propugnare un sacco di principi e valori assolutamente condivisibili e positivi per la società.

Il punto è: raramente la narrativa dominante rimette in causa la legittimità del sistema stesso. Ed è bene essere coscienti di questo quando consumiamo narrativa, sia essa sottoforma di libri, film o monumenti.

Dato che è la classe dominante a definire lo status quo, il mondo e le storie sono di solito costruite attorno a loro. Per esempio, in una società patriarcale il default sarà l’uomo che si conforma al modello di mascolinità adottato da quella società. Chi non corrisponde al default sarà relegato a un ruolo non centrale, non sarà particolarmente rilevante, o sarà addirittura rifiutato.

E’ in questo contesto che entrano in gioco i monumenti.

Parte 3: Garibaldi, Anita e Turing: tre personaggi in cerca di scultore

Giuseppe Garibaldi Presso 9 Marsala Qui O Si Fa l'Italia O Si ...

Assodato che un monumento è l’atto di raccontare e celebrare, è facile capire che i monumenti giocano un ruolo fondamentale nella creazione dei miti di una società. Non sono l’unica cosa che forgia i miti della società, ma sono una delle cose, simbolicamente la più vistosa.

Di nuovo, “mito” qui non è inteso in senso derogatorio. E’ inteso come opinione di default che una persona acquisisce senza troppe questioni.

Quando la persona media pensa a Garibaldi, la prima cosa che le viene in mente non è il personaggio storico reale (che magari ha studiato un pochino alle medie 30 anni prima e poi basta), ma il gagliardo guerrigliero in camicia rossa che scruta l’orizzonte dalla cima di una colonna.

E qui possiamo trovare il primo problema che ammorba la discussione: la commistione tra monumenti e Storia.

La Storia la si impara a scuola, nei musei, o via buoni programmi di divulgazione (e via il mio blog, ovviamente). Quella dei monumenti non è educazione intellettuale, è propaganda politica (di nuovo, usato qui senza nessun intento derogatorio).

Garibaldi è in cima a una colonna perché è un eroe che ha partecipato alla creazione dell’Unità d’Italia, che è stata una gloriosa lotta contro gli stupidi Borbone e gli infami Austriaci, e l’Italia è un grande, bel Paese, di cui tutti possono essere fieri!

Poco importa che Garibaldi e Cavour si odiassero, che l’Italia creata non fosse assolutamente ciò che Garibaldi aveva in mente, che i Savoia abbiano represso con crudeltà le insurrezioni meridionali: Garibaldi è un eroe nazionale e incendia il cuore di romantico ardore.

La statua di Garibaldi ha il fine di rinforzare il sentimento nazionale e offrire un modello di audacia e idealismo, non quello di educare la gente su chi fosse o sul sofferto e complicato periodo che fu il Risorgimento.

Cosa c’entra questo con Boal, Black Lives Matter, e le statue di Cristoforo Colombo?

La narrativa dominante (propugnata dai monumenti) spesso marginalizza o cancella chi non si conforma al default. E, di conseguenza, chi non è rappresentato tende a restare invisibile al punto di vista di default.

Funziona anche in contesti storici e politici diversi. Prendiamo il monumento all’Operaio Sovietico: non viene eretto dagli operai, viene eretto dal Partito che controlla gli operai. Celebra laboriosità, determinazione, l’abnegazione di chi partecipa nel suo piccolo a un progetto più grande di lui. Nobilita una categoria spesso bistrattata (“lavoratori essenziali” vi dice niente?). Ma allo stesso tempo legittima e consacra un certo ordine sociale. E’ certamente positivo riconoscere l’importanza dell’operaio, ma è altrettanto vero che si tratta di propaganda per tenere la gente al proprio posto, un posto che la classe dirigente ha scelto e definito per loro, e su cui non si discute.

Image - 9218] | In Soviet Russia... | Know Your Meme

Tutti in Italia sanno chi è Garibaldi. Molti meno hanno sentito parlare di sua moglie Anita. Eppure Anita era pure una rivoluzionaria tostissima, accompagnò il marito in numerose imprese, e il tutto sfornando pargoli su pargoli! Eppure, mentre suo marito sta nelle piazze di quasi ogni città, solo Roma, a mia conoscenza, ha dedicato un monumento a questa feroce soldatessa.

Garibaldi si avvicina molto al default: era un uomo, lo possiamo considerare “italiano”, era molto eterosessuale, ed era conforme a certi ideali di mascolinità del periodo (coraggioso, audace, idealista, ecc). Viene quindi ripulito di tutte le cose scomode (il fatto che odiasse il Papa, il fatto che fosse un rivoluzionario, un mercenario, un puttaniere, qualcuno condannato a morte in contumacia, ecc.) e paffete, hai un eccellente elemento narrativo per infondere amor di patria e rinforzare lo status quo.

Rerum Romanarum: Monumento ad Anita Garibaldi

Anita being a kickass bitch

Anita è lontana dal default, e quindi viene esclusa dal fantastico mito nazionale. Le donne soldato non rientrano nella narrativa della classe dominante, ergo non vengono raccontate, anche se sono esistite. Sono così escluse che ho sentito con le mie orecchie un certo “storico” uscirsene con “la guerra è una roba da uomini”, che è un’affermazione di una stupidità talmente abissale da dare le vertigini. Bref, il punto non è insegnare la Storia, il punto è rinforzare il mito.

Quanti monumenti alla Seconda Guerra Mondiale esistono in Inghilterra?

E quanti di questi celebrano Turing?
Pochi. Quello famoso è uno, anche se gradualmente ne stanno comparendo altri.

Alan Turing Memorial, Manchester 2017 | Having visited Bletc… | Flickr

Alan Turing in Manchester

Turing non si conforma al default ed è stato vittima dello Stato, uno Stato che lui ha servito con lealtà nel periodo di massimo pericolo. Non solo Turing non conferma il mito mascolino, ma getta una pessima luce sul mito nazionale. Come si può essere fieri di un paese che ha fatto a Turing ciò che ha fatto? Solo a pensarlo provo pietà e tristezza. Provo rancore verso lo status quo che ha permesso un’ingiustizia del genere.

Quindi niente statue giganti con piedistallo in marmo per Turing. Non è un personaggio utile alla narrativa dominante (o, per lo meno, non lo è stato finora).

Sia chiaro, questi sono solo esempi: si tratta di un discorso generale che per necessità di spazio sto riducendo al massimo.

Vale la pena ripeterlo: i monumenti sono solo un elemento della narrativa collettiva. Tuttavia sono quello simbolicamente più vistoso insieme alla bandiera. Sono simboli della nostra identità, dell’idea che abbiamo della nostra Storia.

E’ la ragione per cui li costruiamo, ed è anche la ragione per cui decidiamo di abbatterli. Non è quindi una sorpresa che la recente ondata di proteste li abbia presi di mira: per chi vuole contestare lo status quo, ha perfettamente senso attaccare i simboli che lo legittimano e lo celebrano.

E’ perfettamente legittimo rimettere in questione chi viene celebrato e come. Ed è perfettamente normale avere statue che “invecchiano male”.

Ci sarà sempre qualcosa che pare normale in un periodo e disdicevole in un altro. Le abitudini cambiano, la narrativa anche, e i monumenti pure.

Sicché non è bizzarro che questo dibattito salti fuori. Se siete contro il rovesciamento delle statue, ottimo. E’ una posizione di per sé più che legittima. Ma per carità non riciclate argomenti fuffosi, perché la fuffa è la morte del dibattito.

Di seguito i peggiori argomenti anti-iconoclasti che mi è capitato di leggere.

Parte 4: ”La Repubblica Fiorentina è una ferita ancora aperta, Ferretti” (cit.)

Participation Trophies. Upvote so this image shows in Google ...

Argomento 1: “Queste statue sono di grandi uomini”

C’è tanto da spacchettare qui, ma principalmente: no. Mi spiace, la risposta è no.

Chi sceglie chi è un “grande uomo” degno di un posto in una piazza?

La classe dominante.

Non gli storici, non gli archeologi, non i ricercatori o i filosofi. E la prova è che, se dipendesse da me, l’Italia sarebbe addobbata solo da statue in scala 1:7 di Drusilla Foer.

ELEGANZISSIMA - Teatro della Pergola

Drusilla è una signora ricca e privilegiata ma: continua a pagare la domestica nonostante la quarantena, non fa una piega quando la signora Ornella le prende in prestito gli orecchini Van Cleef, e non porta rancore quando la insultano. Drusilla è un modello positivo di cultura ed eleganza. Siate come Drusilla.

Come coi monumenti a Garibaldi, il punto non è celebrare lui come persona, con i suoi pregi e difetti, ma fare di Garibaldi un “mito”. Come abbiamo visto, c’è una ragione politica dietro un monumento, e, a volte, col cambio del contesto cambia anche la necessità politica.

Un esempio perfetto per questo è la statua di Cristoforo Colombo.

La prima statua a lui dedicata è del 1792, ma la celebrazione di Colombo e della sua impresa prese vento solo dopo il 1892, a seguito di uno dei peggiori linciaggi della Storia, in cui 11 immigrati italiani furono massacrati perché accusati di aver assassinato un poliziotto. Gli Italiani non erano ancora stati ammessi al Club dei Bianchi (l’idea di razza bianca è una minchiata inventata solo per discriminare, ma di questo riparleremo), ed erano discriminati, oppressi, assassinati.

Per combattere questo razzismo anti-italiano, il presidente Benjamin Harrison incoraggiò, tra le altre cose, la celebrazione di un eroe che simboleggiasse al tempo stesso italiani e americani: Cristoforo Colombo. Columbus Day divenne una giornata di celebrazione nazionale. I monumenti a Colombo sono stati eretti per legittimare la comunità italoamericana.

Christopher Columbus Statue.jpg

Statua di Colombo del 1893, in Providence, Rhode Island

E’ facile constatare che ciò ha zero valore storico. Colombo non era “italiano”, arrivò alle Barbados, e, se proprio vogliamo, era lì in nome e per conto degli spagnoli.

Il monumento non serviva a “educare la gente” sulla figura storica di Colombo. Serviva a celebrare la comunità italoamericana e includerla nel mito collettivo dell’America.

Il rovescio della medaglia è che la figura di Colombo è inestricabilmente legata alla colonizzazione, la persecuzione degli indigeni, la tratta degli schiavi e tutta quella bella roba. Ma nel 1892 a nessuno fregava una beneamata mazza di questo: la schiavitù ha continuato a esistere legalmente fino al 1865, e non parliamo nemmeno dei First Nation, che sono tutt’ora una delle comunità in assoluto più discriminate d’America (avete voglia di indignarvi? Leggetevi l’orrida vicenda della North Dakota Access Pipeline). Per avere un’idea del clima ideologico del periodo, basti pensare che The White Man’s Burden di Kipling è del 1899. Altro che celebrare Colombo malgrado le implicazioni coloniali: le implicazioni coloniali erano fighe!

Oggi gli italoamericani sono considerati “bianchi” e non sono più oggetto di linciaggi e sistemica discriminazione. Oggi la comunità afroamericana e indigena chiedono che il simbolo mitologico della comunità venga cambiato con qualcuno che non celebri anche schiavismo, colonizzazione e genocidio.

Quando Colombo viene spinto giù dal suo piedistallo, il punto non è semplicemente “lui era una brutta persona”, il punto è “celebrare questa persona rinforza la narrativa che sminuisce la colonizzazione, lo schiavismo e , di conseguenza, la discriminazione razziale”.

E tenete conto che oggigiorno ci sono in America politici che descrivono la tratta degli schiavi come “una benedizione sotto mentite spoglie”. Quindi sì, questo crimine contro l’Umanità viene assolutamente sminuito e distorto dalla propaganda della destra, non sono paranoie da blogger afrocentrista.

Quindi il punto non è soltanto “cosa questa persona ha fatto”, ma “che ruolo gioca questo monumento in questo frangente storico”. Ed è importante tenerne conto quando ci si forma un’opinione in proposito.

Possiamo trovare personaggi storici che possano celebrare il nostro passato senza essersi macchiati dei peggiori crimini della Storia?

Magari no. O magari abbiamo deciso di celebrare alcuni personaggi in favore di altri perché la nostra narrativa ha interiorizzato il razzismo e la discriminazione.

Argomento 2: “L’iconoclastia distrugge la Storia”

Vorrei tanto sapere cosa capitava in Germania prima del ’45, ma gli Alleati hanno tirato giù tutte le svastiche e ora nessuno sa più cosa è successo.

L'immagine può contenere: una o più persone e persone sedute, il seguente testo "KAM R SOMETIMES I WISH WE KNEW WHAT HAPPENED IN GERMANY IN THE 1940'S BUT THEY TORE DOWN ALL THE STATUES so IT IS IMPOSSIBLE. @JenAshleyWright"

Questo argomento è cretino.

Mi dispiace.

E’ cretino e superficiale.

La Storia sta nelle scuole, nei musei, nei saggi, nei buoni programmi di divulgazione. Nessuno sta suggerendo che non si studi più la storia di Cristoforo Colombo. Al contrario, quello che viene chiesto è che invece di raccontare la storia di un eroico navigatore che “scoprì l’America”, si racconti la realtà molto più complicata, sfaccettata e difficile di Colombo, dei suoi tempi, e delle conseguenze dei viaggi d’esplorazione.

Ingiustizia, persecuzione e genocidio sono parte della nostra Storia. E mi dispiace se questo disturba l’ideale di “popolo di santi, poeti e navigatori”, ma è un fatto. E questo non per giocare alla gara dei progressisti: le società del passato erano iscritte in un contesto diverso con valori diversi. Il punto è che oggi, la nostra società è piagata da una serie di problemi attuali che derivano anche dal fatto che non abbiamo processato certi aspetti del nostro passato.

Non si sta chiedendo di cancellare la Storia, si sta chiedendo di insegnarla di più. La verità è che ora la Storia viene costantemente ripulita, epurata e travisata.

Nel 2018 uscì un saggio intitolato Teaching rape in the Medieval Litterature classroom. La notizia è stata condivisa sul gruppo Facebook Medieval Life and Combat studies. E bingo:

Medieval_life_combat_studies_rape

Notare che nessuno dei partecipanti alla discussione aveva letto il saggio, quindi non potevamo sapere come fosse scritto. Ma puntuale come le tasse, il tizio con la coda di paglia che interviene a pestare i piedi che non bisogna parlare dello stupro nel Medioevo perché “è politico”, e “qualcuno pensi ai bambini”, e “non è colpa della società se la gente stupra”, seguito da uno sbrodolo immondo di stronzate apocalittiche sui vichinghi e roba varia.

Non ha fonti che disputino la tesi del libro (tesi che non conosce), non ha dati, non sa cosa il libro contiene, ma sa che questa Storia non s’ha da insegnare.

La preoccupazione per la Storia, per molti, è un’ipocrisia. Non vogliono davvero che si insegni la Storia, vogliono che si racconti qualcosa che legittimi la loro visione di mondo.

Quando qualcuno decide di parlare di stupro, o di schiavismo, o di come questo o quell’eroe nazionale abbia anche fatto cose molto poco carine, l’alzata di scudi non avviene perché si sta travisando la Storia, ma perché si sta attaccando la storia con la s, la narrativa, il mito fondatore.

Tornando a “l’iconoclastia distrugge la Storia”, questo argomento non sarebbe cretino se l’iconoclastia se la prendesse con quelli che sono effettivamente reperti storici. Oggetti unici nel loro genere, come la Colonna Traiana. Ma non sta succedendo. A ora, la gente ha preso di mira statue del XIX° secolo o successive, senza nessuna particolarità tecnica o artistica di rilievo. Certo, se si lascia la situazione suppurare ancora un po’, la probabilità che qualcuno faccia una stronzata aumenta. Ma di questo parleremo più tardi.

Sia chiaro: non sto dicendo che “siccome non sono statue storicamente rilevanti allora va bene rottamarle”. Si può discutere sul perché e come queste statue siano state rimosse. In questa sede sto solo sottolineando che l’idea “cancellare la Storia” è assurda.

Si può dire che, anche se privi di qualsivoglia rilevanza storica, questi monumenti sono comunque “oggetti d’Arte”.
Ma questo può essere detto di qualunque cosa. Magari a me dispiace di più quando viene coperto un murales moderno che non quando Ritratto del Cardinal Stafava d’Aragona (1798) viene mangiato dai topi. E’ una discussione legittima, ma che si basa poco sui dati e molto sui sentimenti personali.

Argomento 3: “Queste sono statue di grandi uomini figli del loro tempo”

L'immagine può contenere: spazio all'aperto, il seguente testo "I, too, mostly learn history from looking at statues. People used to be green and quite large. Most of them sat on horses. The horses tended to be mad. Everyone had bird shit on them. People liked swords"

Ni.

Come detto, la scelta di chi e come rappresentare è una scelta politica. Ma anche volendo solo considerare il monumento come “celebrazione” di qualcuno, c’è un bilancio da fare.

Socrate andava a letto coi ragazzini. Oggi sarebbe considerato un pedofilo. Si può discutere se dedicargli o no un monumento, ma nella discussione giocherà il fatto che Socrate ha gettato le basi per una lunghissima tradizione filosofica occidentale. Inoltre Socrate è vissuto in un mondo abissalmente diverso dal nostro.

Prendiamo invece Montanelli, no? Mentre ai tempi di Socrate era effettivamente normale scopare ragazzini, il madamato non era approvato dall’esercito e fu vietato ufficialmente nel ’37. Quando Montanelli disse di aver comprato e stuprato Destà, stava già infrangendo le leggi e i costumi del suo tempo. Non solo, ma il nostro difendeva le sue azioni nel 2000, quando ormai avevamo capito che forse la compravendita delle bambine non è una cosa carina da fare. Inoltre, durante la sua carriera di giornalista, ha spesso mentito, distorto i fatti, ha scritto dei libri di Storia che sono degli assoluti troiai, e ci ha lasciato in eredità quella porcheria de Il Giornale.

Quindi perché avere il suo monumento? Cosa stiamo celebrando, di preciso? La prosa fluente? Basta quella? Perché a questo punto io faccio una Torta Foresta Nera al té verde che nemmeno ve la racconto, dov’è il mio busto bronzeo? Sono anche più carina! (Fun fact: non ho stuprato nessuno e compro esseri umani solo occasionalmente e solo per nutrire i gatti)

Le posizioni “le statue vanno tutte bene perché erano altri tempi” o “buttiamo giù tutti quelli che non erano puri abbastanza” sono entrambe idiote, con la differenza importante che nessuno sostiene la seconda (salvo forse un pugno di scoppiati) e un sacco di gente sostiene in modo più o meno dichiarato la prima. Ad ogni modo, bisogna discutere al caso per caso, tenendo conto del ruolo narrativo che il monumento in questione gioca, oltre che della realtà storica del soggetto. Per altro, rimando al mio articolo precedente.

Argomento 4: “Ma allora le piramidi costruite dagli schiavi?”

Confederate flag / Egyptian pyramids meme beautifully illustrates ...

Puttanaeva ‘sta stronzata degli schiavi è dura a morire!

Le Piramidi erano una celebrazione del potere della classe dirigente egiziana. E certo, con gli occhi di oggi, sarebbero tutti da ghigliottinare. Ma c’è un dettaglio: sono già tutti morti. Loro e i popoli che opprimevano. Le Piramidi sono reliquie del passato che possono magari essere appropriate, ma che, di per sé, propugnano una gloria e un potere che non esistono più.

Nell’altro articolo facevamo l’esempio della Colonna Traiana: senza più l’Impero, la colonna è un reperto storico, utile per studiare il passato, apprezzabile per il semplice valore artistico.

In entrambi i casi si tratta di artefatti unici nel loro genere, e quindi fondamentali per il nostro patrimonio culturale. Le statue celebrative del XIX° non corrispondono a questi criteri.

Argomento 5: “Vandalizzare le statue è sempre sbagliato perché sono parte della nostra Storia”

me-OW — HES FUCKIMG FACEPALMING

Questa non so nemmeno se discuterla: è cretina e basta. Dovevamo tenerci le statue del Duce? Dovevano lasciare la Svastica sopra il Reichstag? Suvvia, non diciamo stronzate.

Certo, sarebbe molto meglio una pacata discussione su queste opere, in cui si prende in considerazione il contesto, le ragioni, ecc. Magari si potrebbe creare un museo apposito dove collocarle, conservarle e usarle per effettiva divulgazione.

Ma a parte il fatto che la Cultura ha le pezze al culo, questa pacata discussione andava fatta prima. Non dopo che la costante ingiustizia ha fatto esplodere la Rivolta dei Ciompi 2.0.

E spesso, quando un ricercatore prova a smontare preconcetti attuali (come l’idea che il concetto di “razza bianca” risalga all’Antichità), viene prontamente attaccato da gente come il tizio postato qui sopra. Volete un esempio? Provate ad affrontare il controversissimo tema della policromia nella statuaria romana.

In altre parole: non solo una discussione onesta e documentata della Storia non viene valorizzata, ma spesso viene attivamente scoraggiata da molti utilizzatori. Le scritte spray sulle statue di Colombo non mi impediscono di fare ricerca: le minacce di morte sono per contro un deterrente ben più grande.

Oprah You Get A Meme |  YOU GET A DEATH THREAT!! YOU ALL GET DEATH THREATS!! | image tagged in memes,oprah you get a | made w/ Imgflip meme maker

Questo tipo di “capisco il messaggio, ma il modo, signori miei, il modo….” è qualcosa che mi risulta particolarmente fastidioso. E’ un punto di vista figlio del privilegio.

IO posso divertirmi a discutere della statua di Colombo, perché non sono io quella che viene strangolata sul marciapiede (a me tuttalpiù mandano qualche minaccia di morte o tirano maiale marcio in giardino, ma non divaghiamo). Tollerare silenziosamente un sistema che danneggia una categoria svantaggiata, e poi alzare il mignolo sdegnati quando detta comunità protesta in modo troppo esuberante, è pessimo. Specie quando gran parte della protesta è pacifica.

Martin Luther King disse: “riot is the language of the unheard”.

Vogliamo che questa pericolosa (perché E’ pericolosa, a lungo andare) ondata di iconoclastia finisca? Iniziamo ad ascoltare. Iniziamo a responsabilizzare chi ci governa e a combattere la narrativa secondo cui siamo tutti un “popolo di santi, poeti e navigatori”. Ridiscutiamo il ruolo dei nostri monumenti e il modo in cui insegniamo la Storia. Iniziamo a non tollerare più certi atteggiamenti discriminatori e a incoraggiare uno studio della Storia più completo.

Anche perché, davvero vi preoccupa tanto la Storia?

Bene, perché dal 2016 gli oleodotti stanno tranciando attraverso siti archeologici americani. Non statue del secolo scorso pagate un tanto a chilo di bronzo, no. Veri siti archeologici, cose effettivamente importanti per la conoscenza della Storia umana, cose effettivamente insostituibili e irreparabili.

Nel 2017 Trump ha drasticamente ridotto i Monumenti Nazionali di Bear Ears e Staircase-Escalante, aprendo all’attività mineraria a scapito dei siti archeologici oltre che dell’ambiente.

Quest’anno Rio Tinto ha fatto esplodere un sito archeologico australiano vecchio di 46.000 anni e segnato come di “grande valore”. Lo hanno potuto fare grazie a un cavillo razzista della legge australiana che rende il patrimonio aborigeno archeologico facilmente sacrificabile.

Potrei continuare. Questo genere di distruzione effettiva della Storia capita tutto il tempo.

E per chi dice “vabé, ma non lo sapevo”, ovvio: queste notizie girano poco. Non è il genere di notizia che viene spinta, perché non fa molti click. E non li fa in parte per il retaggio razzista che considera i siti archeologici di certe culture come inferiori a quelli di altre.

Parte 5: levatemi tutto, ma non il mio mercante di schiavi.

normandy Memes & GIFs - Imgflip

A me non piace il vandalismo.

Non mi piace il casino.

Ed è assolutamente legittimo chiedersi se uno slancio iconoclasta che prende di mira statue degli anni ’60 non possa, sul lungo periodo, degenerare in qualcosa di più dannoso.

MA gli argomenti succitati sono tutti fuffosi. E il punto non è tanto cosa potrebbe teoricamente eventualmente succedere. Il punto è che ora della gente viene martoriata da un sistema ingiusto. Il punto è che questo stato di cose ingiusto viene difeso in nome “della Storia”, e questa è una colossale presa per il culo.

E qui si arriva secondo me alla vera ragione per cui a molti è saltato il grillo a vedere statue di schiavisti buttate in mare.

Quelli vittime di razzismo e discriminazione sono delle minoranze. Il che significa, logicamente, che la maggioranza di noi non subisce questo genere di angherie, o le subisce molto meno. In questo particolare contesto, a noi lo status quo va anche bene.

Quando qualcuno chiede con veemenza che qualcosa cambi, lo percepiamo come un attentato alle nostre abitudini. Di colpo l’arredo urbano cambia. Di colpo quel monumento sotto cui giocavo da bambina è “problematico”. Di colpo quel personaggio che non ho mai studiato ma che ho sempre sentito descrivere come “un grande scrittore” è visto come un  criminale.

Non solo mi si chiede di pensare a un sacco di cose che prima potevo tranquillamente ignorare, ma mi si chiede di riconsiderare elementi che costituiscono la mia stessa identità: le mie abitudini, la mia città natale, il mito che mi sono raccontata sulla Storia del mio paese.

E non ne ho voglia! Non è stata colpa mia se le cose sono andate come sono andate, io manco ero nata! La mia vita è già una merda così, voglio solo viverla il più in pace possibile, è chiedere troppo?

La risposta è sì.

E’ chiedere troppo se il tuo “vivere in pace la tua vita” contribuisce a rendere la vita degli altri peggiore.

Molti sono inviperiti non tanto per le statue. Sono inviperiti dal cambio subitaneo imposto alle loro abitudini. E’ una reazione di pancia comprensibile, ma che una persona razionale deve saper rimettere nel suo giusto contesto. Questionare le proprie abitudini è brutto, il fatto che qualcuno possa spararti dal finestrino senza essere chiamato terrorista è peggio.

Tutti interiorizziamo pregiudizi e preconcetti. Non esistono persone “pure”. Ma quando ci rendiamo conto di aver interiorizzato qualcosa di così dannoso, sarebbe il caso di guardarsi allo specchio e lavorare un po’ su noi stessi.

Se vi indignate di più per una statua di Colombo rovesciata che non per l’omicidio impunito di un bambino di dodici anni, dovete lavorare su voi stessi.

E se siete (comprensibilmente) preoccupati che questa ondata iconoclasta sfugga di mano, smettetela di condividere post di conservatori che vanno a caccia di casi umani per deligittimare un movimento di protesta (che è oggettivamente legittimato dai fatti, vedi inizi articolo), e iniziate ad ascoltare la storia di chi è così esasperato da sfidare una pandemia per tirare una secchiata di vernice a un mercante di schiavi.

Perché in gioco non c’è una statua di bronzo, c’è la pelle di persone vive.

Nel 2017 in Francia un controllo di Polizia in un quartiere disgraziato di Parigi girò male. Un giovane di 22 anni chiamato Théo cercò di opporsi all’arresto. Nonostante i poliziotti fossero 4 contro 1, la cosa degenerò in pestaggio, culminato con un poliziotto che usò il manganello per stuprare Théo, lasciandolo invalido.

Il giudice ha determinato che si è trattato di un incidente. Perché può succedere a chiunque di sferrare un affondo con un bastone di metallo sul didietro esposto di un uomo a terra. No?

Questo è solo UN esempio. Ce ne sono tanti, purtroppo.

E allora cosa se la comunità nera Parigina schizza graffiti di protesta sulla statua della Nazione?

La statua della Nazione potrà essere lavata.

La vita di Théo è rovinata per sempre, la sua comunità è traumatizzata, la fiducia nella polizia, in quel quartiere disgraziato, ha ancora meno ragione di esistere. E questo significa più omertà, più crimine organizzato, e quindi più rischio per i poliziotti stessi.

Certo, imbrattare muri e strade non è una cosa carina da fare. Certo, a lungo andare l’iconoclastia può sfuggire di mano. Ma non è nulla se comparata ai danni che le minoranze subiscono per mano dello Stato o di gente tollerata dallo Stato. Tutte le statue divelte in America non contano assolutamente un cazzo davanti alla perdita di patrimonio archeologico che avviene e continua nell’indifferenza generale.

Se potete perdonare a Montanelli pedofilia e stupro perché “erano altri tempi”, allora potete perdonare atti simbolici di vandalismo perché “sono questi tempi”. Lo Stato è quello con la maggiore responsabilità. E’ lo Stato che può fare qualcosa, o lasciare che le cose degenerino via inazione o repressione indiscriminata.

Police brutality - Meme by Allenyd80 :) Memedroid

E’ assolutamente legittimo rimette in questione i miti, la propaganda, i monumenti. Se vogliamo che questa rimessa in questione abbia luogo nelle aule delle Università, dobbiamo far in modo che queste aule siano aperte e che la ri-discussione sia partecipata, non qualcosa che una sola parte deve richiedere urlando a rischio della propria vita.

MUSICA!


Bibliografia e letture aggiuntive

Articolo Wiki sul caso Floyd

Articolo Wiki su Arbey

Articolo Wiki sul caso Taylor

Articolo Wiki sul caso Rice

Articolo Wiki sul caso Castile

Articolo Wiki dell’Affaire Théo

Articolo Wiki sulla storia del Columbus Day

BALKO Radley, There’s overwhelming evidence that the criminal justice system is racist

Distruzione del sito di Pilbara in Australia

Distruzione dei siti archeologici da parte della NDAPL

EDWARDS Frank, LEEB Hedwig, ESPOSITO Michael, Risk of being killed by police use-of-force in the U.S. by age, race/ethnicity, and sex (qui il pdf)

KING Erika, Black men get longer prison sentences than white men for the same crime

OPPEL Richard Jr., GAMIO Lazaro, Minneapolis Police use force against Black People at 7 times the rate of Whites

Rischi per il patrimonio di Bear Ears

U.S. Sentencing Commission, Demographic Differences in Sentencing: An Update to the 2012 Booker Report