La Paura, un romanzo coraggioso

La Prima Guerra Mondiale è stata senza dubbio una delle più colossali catastrofi che abbiano segnato la Storia europea. E’ un fenomeno di una vastità e di una complessità straordinarie, con ramificazioni sconfinate che continuano a riecheggiare tutt’oggi nel discorso politico, culturale e artistico. Ancora oggi leggo interventi di gente che cerca di rispulizzirla, di girarla in positivo, tipo “ha cimentato l’Italia come stato-nazione”. Che è un po’ come dire che il bombardamento di Tokyo ha risolto l’annoso problema del traffico, ma vabbé.

Oggi non intendo entrare troppo nella polemica della propaganda nazionalista e low key guerrafondaia, perché questo onore lo lascio tutto al protagonista della nostra storia: il soldato Jean Dartemont!

L’autore

Gabriel Chevallier (@gabrielchevall2) | Twitter

Chevallier is watching you

L’autore dietro le disavventure di Dartemont è Gabriel Chevallier. Chevallier nasce nel 1895 in una famiglia della borghesia Lionese. Ha 19 anni quando scoppia la guerra ed è chiamato alle armi. Appena finito l’addestramento, il nostro viene rimpinzato di schegge e finisce in ospedale. Ristabilito, viene rispedito al fronte, dove si fa il resto della guerra.

Chevallier torna tutto d’un pezzo e campa il resto della vita facendo una serie di lavori, dall’illustratore al giornalista al commesso viaggiatore… allo scrittore.

Chevallier comincia a scrivere nel 1925, basandosi sulla sua esperienza di veterano. Il suo primo romanzo, che ha come narratore il soldato Dartemont (l’autore sotto mentite spoglie), La Peur, è pubblicato nel 1930.

Il romanzo viene ricevuto malissimo.

Il genere

Nel suo saggio Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Rieuneau ha studiato l’immagine della Grande Guerra che emerge dai romanzi dell’epoca. Un migliaio di scrittori si sono trovati sotto le armi, e il loro contributo alla letteratura francese è ricco e variegato.

In particolare, a noi interessa quella che Rieuneau definisce “L’epoca dei testimoni”, ovvero testi scritti da reduci che parlano della loro esperienza diretta.

Il tipo di “romanzo-testimonianza” si diffonde a partire dal 1916. Un esempio emblematico è il famosissimo Le Feu di Henri Barbusse.

Nella ventina di romanzi rappresentativi di questa corrente, vediamo cicciar fuori spesso gli stessi posti, fatti, esperienze. Anche le motivazioni degli autori paiono simili: il bisogno di raccontare la propria storia, e il desiderio che questa storia sia ricordata.

Questo bisogno di parlare del proprio trauma, di vederlo riconosciuto dagli altri, è pressoché universale. E’ uno dei temi principali del documentario The Look of Silence, di Oppenheimer: l’impossibilità di parlare del proprio dolore, di vederlo riconosciuto dai nostri simili, è un ostacolo insormontabile nel processo di lutto che caratterizza, in modo più o meno intenso, il superamento di ogni trauma.

Il fatto che questi romanzi abbiano tutti temi e fatti in comune non significa però che siano libri simili. Come dice Sicard, possiamo distinguere quattro grandi categorie del genere:

  • La testimonianza pura, dritta dritta dalle pagine di diario del combattente
  • La letteratura della smobilitazione, dove non si parla più dell’esperienza diretta del combattimento ma della guerra in generale, come concetto, come fenomeno, la sua natura e ciò che fa agli uomini che ne sono coinvolti
  • Il culto dell’eroismo, ovvero storie che celebrano la guerra come una sorta di catalizzatore esplosivo che fa emergere le migliori virtù dell’uomo. Un caso celeberrimo in questo ambito è quel matto di Montherlant, con La Relève au Matin (1920) o Le Songe (1922)
  • La letteratura di protesta. Ovvero quelli che a Motherlant avrebbero cacciato volentieri uno stivale nel culo. Si tratta di opere diversissime tra loro (Sicard cita Les Drapeaux di Paul Reboux, Le Sel de la Terre di Raymond Escholier o Les Suppliciés di René Naegelen), ma accomunate da un rifiuto della guerra, un’attitudine disincantata o ostile alla prosopopea nazionalista, se non proprio uno slancio internazionalista

Rieuneau identifica questo tipo di romanzo come tipico del decennio 1919-1929. La Peur è un po’ più tardivo, essendo uscito nel 1930, ma si inserisce perfettamente in questo filone.

Nel romanzo, Chevallier rivisita le sue esperienze con lo pseudonimo Jean Dartemont. Attraverso le parole di Dartemont, il nostro racconta la follia della guerra, la paura onnipresente, l’assurdità della propaganda nazionalista, il senso di impotenza e ingiustizia del soldato semplice davanti alla colossale catastrofe del conflitto mondiale.

Il romanzo non è un resoconto pedissequo delle sue disavventure, ma è chiaramente una rielaborazione che mischia esperienze reali e riflessioni politico-filosofiche. Passaggi descrittivi crudi e sinceri si alternano a brani narrati con toni quasi caricaturali, a dialoghi che ricordano i dibattiti platonici, dove Dartemont dichiara le proprie convinzioni. La Peur non è semplicemente una testimonianza, La Peur è un romanzo dichiaratamente, violentemente politico. Ma di questo parleremo più in dettaglio.

Il libro

La Peur - Poche - Gabriel Chevallier - Achat Livre | fnac

Je vais vous dire la seule occupation qui compte à la guerre: J’AI EU PEUR

A 19 anni, Jean Dartemont parte soldato. Non è un convinto nazionalista, ma non è nemmeno un pacifista. E’ giovane e curioso, vuole vedere come una vera guerra è combattuta (perché si sa, a 19 anni siamo tutti immortali).

La curiosità di Dartemont sarà soddisfatta fin troppo alla svelta. Per quattro anni.

La storia, grosso modo, è questa. Non c’è una vicenda strutturata, un arco vero e proprio, se non una progressiva realizzazione dell’assurdità della guerra, la rabbia e la frustrazione all’idea che stai per morire a 19 anni senza nessuna buona ragione, e un’analisi penosa dell’effetto della paura estrema e cronica a cui il fante di linea viene sottoposto.

Chevallier non nega coraggio e l’eroismo, ma non celebra le grandi virtù guerriere, il romanticismo di morire per la Patria. Dartemont e i suoi compagni non sono esempi di eroismo classico. Quello che Chevallier pensa della narrativa romantica nazionalista e militarista è chiaro fin dalle prime pagine:

[NOTA: le citazioni sono prese dalla traduzione italiana, precisazioni in bibliografia]

Quando si è vista la guerra come l’ho vista io viene da chiedersi: «Perché mai si accetta una cosa simile? In nome di quale tracciato di confini, di quale onore nazionale la si può legittimare? Come si può travestire da ideale ciò che è pura delinquenza, e fare in modo che venga approvato?».

Ai tedeschi hanno detto: «Avanti con questa guerra nuova e lieta! Nach Paris e Dio è con noi, per una Germania più grande!». E quei bonaccioni dei tedeschi, che prendono tutto sul serio, si sono messi in marcia per la conquista trasformandosi in bestie feroci.

Ai francesi hanno detto: «Ci attaccano. È la guerra del Diritto e della Rivincita. Tutti a Berlino!». E i francesi pacifisti, i francesi che non prendono niente sul serio, hanno interrotto le loro fantasticherie di agiati borghesi per andare a combattere.

È successa la stessa cosa agli austriaci, ai belgi, agli inglesi, ai russi, ai turchi e poi agli italiani. Nel giro di una settimana venti milioni di uomini civilizzati, intenti a vivere, ad amare, a far soldi, a costruire il futuro, hanno ricevuto l’ordine di piantare tutto in asso per andare a uccidere altri uomini. E quei venti milioni di individui hanno obbedito perché li avevano convinti che quello era il loro dovere.

Venti milioni, tutti in buonafede, tutti d’accordo con Dio e con il loro sovrano… Venti milioni di idioti… Come me!

 

E ancora:

Dopo un anno di vita militare mi capita di pensare che sono un pessimo soldato e di rammaricarmene come una volta mi rammaricavo di essere un pessimo studente. È chiaro, non riesco a piegarmi ad alcuna regola. Devo biasimarmi? L’incapacità di accettare i princìpi che mi hanno insegnato è forse un vizio? In linea di massima credo che sia un bene, e che quei princìpi siano nefasti. Ma a volte, quando vedo tutti gli altri coalizzati contro di me e sicuri delle loro idee, inizio a dubitare: anch’io ho le mie debolezze, come chiunque, e mi arrendo all’opinione comune… Temo di non essere adatto a questa guerra che richiede solo passività e spirito di sopportazione. Non sarebbe meglio per la mia tranquillità se io fossi un combattente privo di incertezze, come ce ne sono tanti (ma io ne ho mai conosciuti?), che lotta con accanimento per la patria nella convinzione che la morte di ogni nemico ucciso gli valga un’indulgenza presso il suo dio? Ho la sfortuna di riuscire ad agire solo in virtù di un motivo approvato dalla mia ragione, e la mia ragione rifiuta certe costrizioni che le si vorrebbero imporre. Gli insegnanti, un tempo, mi rimproveravano di essere troppo indipendente; poi ho capito che temevano il mio giudizio, e che la mia logica di adolescente sollevava problemi che loro avevano deciso di accantonare. Ma oggi le costrizioni sono più forti, e chi le esercita forse mi farà ammazzare.

Le descrizioni offerte da Chevallier sono vivide, a tratti surreali. Quando il fronte si avvicina, l’impressione non è tanto quella di una lotta tra uomini, ma di un cataclisma. C’è un’ironia fatalista e orrida nell’idea di essere a un soffio dalla morte, e questo senza nessuna buona ragione, senza nessun modo di svincolarsi. E’ una situazione orrida, è una situazione assurda.

Una vampata che sembrava investire il mondo intero ci strappò al torpore. Avevamo appena superato una cresta, e il fronte, davanti a noi, ruggiva con tutte le sue bocche infuocate, fiammeggiando come una fucina infernale i cui mostruosi crogioli trasformavano in una lava di sangue la carne degli uomini. Ci veniva la pelle d’oca all’idea di essere solo una palata di carbone destinata ad alimentare quella fornace, al pensiero che dei soldati, laggiù, lottavano contro la tempesta di ferro, contro l’uragano di fuoco che faceva ardere il cielo e tremare le fondamenta della terra. Le esplosioni erano così ravvicinate da produrre l’impressione di un unico bagliore e di un boato ininterrotto. Sembrava che qualcuno avesse buttato un cerino sull’orizzonte zuppo di benzina, e che un genio malefico continuasse a versare del punch su quelle diaboliche fiammate e sghignazzasse lassù celebrando la nostra distruzione. E perché nulla mancasse a quella macabra festa, perché un contrasto ne accentuasse ulteriormente l’aspetto tragico, vedevamo razzi leggiadri innalzarsi verso la cima di quell’inferno e sbocciare come fiori di luce, per poi ricadere, moribondi, con uno strascico da cometa. Eravamo abbagliati da quello spettacolo, il cui angosciante significato era chiaro solo ai veterani. Fu la prima visione che ebbi della furia scatenata del fronte.

Come dice il titolo stesso del romanzo, un tema domina le pagine: la paura.

Chevallier racconta la paura con un candore spietato. La paura è una sorta di infezione, una febbre che aggredisce l’uomo fin dall’inizio e lo rode ogni giorno, senza dargli mai pace.

Quest’angoscia costante è mista a un complicato ventaglio di emozioni contraddittorie. Chevallier parla senza remore del risentimento, dell’incertezza, del disperato desiderio di vivere e del senso di colpa dell’essere ancora vivo. In quello che lui stesso descrive come uno dei ricordi peggiori che il fronte gli lascia, Chevallier racconta il suo primo incontro ravvicinato con dei cadaveri freschi:

A un tratto il soldato che mi precedeva si accovacciò e iniziò a trascinarsi sulle ginocchia per infilarsi sotto un ammasso di materiali che ostruivano il passaggio. Mi accovacciai anch’io e lo seguii. Quando si rialzò mi apparve davanti un uomo di cera, supino, che spalancava una bocca senza respiro e occhi senza espressione, un uomo freddo, irrigidito, che probabilmente si era rifugiato sotto quell’ingannevole riparo di assi e lì era morto. All’improvviso mi trovavo a tu per tu con il primo cadavere recente che avessi mai visto. Il mio volto passò a pochi centimetri dal suo, il mio sguardo incrociò il suo sguardo, spaventoso e vuoto, e la mia mano sfiorò la sua mano, ghiacciata e illividita dal sangue che gli si era gelato nelle vene. Durante il breve faccia a faccia che mi impose, ebbi la sensazione che il morto mi incolpasse della sua fine e minacciasse vendetta. È una delle impressioni più tremende che ho riportato dal fronte.

Ma quel morto era il custode di un regno di morti. Quel primo cadavere francese precedeva centinaia di altri cadaveri francesi: la trincea ne era piena.

[…]
Intravidi da lontano il profilo di un piccoletto barbuto e calvo, seduto sulla banchina di tiro, che sembrava ridere. Era il primo volto rilassato e rassicurante che incontravamo, e andai verso di lui spinto da un moto di gratitudine, chiedendomi: «Che avrà poi da ridere?». Rideva della propria morte! Aveva la testa tranciata perfettamente in due. Oltrepassandolo feci un balzo all’indietro nel rendermi conto che a quel viso allegro mancava l’altra metà.4 Il cranio era completamente vuoto. Il cervello, saltato via in blocco, si trovava proprio accanto al cadavere – come un pezzo di trippa sul banco di un venditore di frattaglie –, vicino alla mano, che lo indicava. Quel morto ci aveva giocato un macabro scherzo. Forse rideva per quello. Lo scherzo raggiunse il colmo dell’orrore quando uno dei nostri lanciò un grido strozzato e scappò via come un pazzo facendosi strada a spintoni.

«Che ti prende?».

«Credo che sia… mio fratello!».

«Guardalo da vicino, santo cielo!».

«Non ce la faccio…» bisbigliò il soldato mentre si allontanava.

Dartemont combatte e uccide per salvare la propria pelle. Dartemont prova simpatia per i prigionieri o i disertori tedeschi, perché si riconosce in loro più che non nei propri ufficiali.

A volte il nemico più terrificante è il cecchino, a volte è il tuo colonnello, a volte la cosa più pericolosa che puoi fare è andare a la latrina durante un bombardamento. Accucciato tra le rocce Dartemont deve valutare se vale la pena rischiare la pelle o cagarsi addosso. Sono episodi umilianti, che Chevallier racconta senza pudore.

Cadaveri di Verdun, scaraventati sulle chiome degli alberi da un’esplosione

In uno dei passaggi più celebri del romanzo, Dartemont è all’ospedale, pieno di schegge. A un’infermiera patriottica che gli chiede com’è il combattimento, Dartemont risponde:

Vi dirò la sola occupazione che conta in guerra: HO AVUTO PAURA.

La cosa che domina in prima linea non è il pensiero della Patria o l’onore o lo slancio guerriero, ma la paura. Miserabile, abbietta, oscena paura.

Entriamo in agonia.

L’attacco è sicuro. Ma siccome dobbiamo rinunciare agli assalti frontali, che non riescono a sfondare, avanzeremo lungo i camminamenti. Il mio battaglione deve attaccare gli sbarramenti tedeschi con le bombe a mano. Io, come granatiere, andrò tra i primi.

Non conosciamo ancora l’ora prevista per l’attacco. Verso mezzogiorno ci dicono: «Sarà stasera o stanotte».

Dalle latrine, che sono rialzate, si scorgono le linee nemiche. La pianura, leggermente in salita, è circondata in lontananza da quello che resta di un bosco martoriato, il Bois de la Folie, che, a quanto sembra, il comando si prefigge di occupare. Corre voce che abbiamo di fronte la guardia imperiale tedesca, pronta ad accoglierci con proiettili esplosivi.

Che fare fino a sera? Non conto granché sulle bombe a mano, che non so usare. Smonto il fucile, lo pulisco con cura, lo ingrasso e lo avvolgo in uno straccio. Controllo anche la baionetta. Non so come si combatte dentro un camminamento, avanzando in fila indiana. Ma dopotutto il fucile è un’arma, l’unica che conosco veramente, e devo pur prepararmi a lottare per la vita. Nemmeno sul coltello conto granché.

Soprattutto non devo pensare… E a cosa poi? A morire? Non posso pensarci. A uccidere? È un’incognita, e di uccidere non ho nessuna voglia. Alla gloria? La gloria non si conquista qui, ma standosene nelle retrovie. Ad avanzare di cento, duecento, trecento metri nelle linee tedesche? Ormai so fin troppo bene che questo non cambierebbe di una virgola l’andamento della guerra. Non sono mosso né dall’odio, né dall’ambizione, né da altri stimoli. Eppure devo andare all’attacco…

Ho un unico obiettivo: schivare i proiettili, le bombe a mano e le granate, salvare la pelle, che si vinca o si perda. D’altra parte: vinci se resti in vita. E questo è l’unico obiettivo di tutti, qui.

Il capitolo sulla permanenza in ospedale è una lunga sezione verso metà del libro, ed è una delle più “costruite”. Si perde completamente il sapore spontaneo e realistico degli aneddoti di trincea, per una specie di messa in scena dialettica tra Dartemont, giovane istruito e segnato dalla guerra, e le infermiere, incarnazioni della visione borghese e nazionalista, donnette con la testolina piena di propaganda che non sanno, non possono sapere ciò che succede al fronte.

Questa parte è insieme una delle più difficili e più interessanti da leggere. Dartemont non è sempre un narratore congeniale, e in queste pagine emerge tutto il suo classismo e il sessismo spicciolo che per il lettore attuale può risultare davvero stridente. Allo stesso tempo si tratta anche di un momento di quiete narrativa in cui Chevallier può elaborare il suo messaggio politico, il suo risentimento verso una società guerrafondaia e intellettualmente inetta.

Le infermiere si stupiscono nel constatare che al dovere così come lo intendono loro si possono opporre altri doveri, che esistono ideali sovversivi più elevati, di più ampio respiro e più proficui per l’umanità.

Comunque, la signorina Bergniol ha concluso:

«Non educherò i miei figli secondo le sue idee».

«Lo so, signorina. Voi, che potreste essere portatrici di fiaccole oltre che di creature, trasmetterete ai vostri figli solo la tremolante candela che avete ricevuto, da cui cola la cera che vi brucia le dita. Sono le candele che hanno incendiato il mondo invece di illuminarlo. Sono i ceri con cui domani, di nuovo, un’umanità cieca accenderà i bracieri sui quali si consumeranno i frutti delle vostre viscere. Il loro dolore a quel punto non sarà altro che cenere; e nel momento stesso in cui il sacrificio si compirà, lo sapranno e vi malediranno. Con i vostri princìpi, se se ne presenterà l’occasione, sarete a vostra volta delle madri disumane».

Come si può constatare, questi passaggi sanno più di comizio che di autobiografia. Come dicevo, La Peur è un romanzo politico, ma di nuovo, torneremo sull’argomento.

La parte in ospedale non è una mera parentesi educativa e polemica: anche in queste pagine l’esperienza diretta fa capolino. Qui possiamo vedere cosa succede agli “eroi”, l’impatto che ferite e trauma hanno sui combattenti. Un personaggio spicca tra gli altri: Charlet, un conoscente che Dartemont ritrova in ospedale, addetto a raccattare i pitali pieni di merda dei feriti.

Al soldato infermiere abbiamo affibbiato un soprannome impietoso: Popò. So che lui ne è amareggiato. Lo so perché ho conosciuto André Charlet prima della guerra, all’università, dove figurava tra gli studenti migliori, quelli pieni di curiosità e di idee. Pubblicava sulle riviste giovanili certi brillanti sonetti che rappresentavano la vita come un immenso campo di conquista, una foresta divina e stupefacente in cui si addentrano gli esploratori scelti per poi tornarne carichi di frutti meravigliosi dai sapori sconosciuti, di donne dalla bellezza esotica e di mille barbarici oggetti dal ricercato gusto primitivo. Durante la mobilitazione si era arruolato tra i primi ed era stato gravemente ferito nel corso dell’anno seguente.

L’ho ritrovato qui, abbattuto, senza energie e sporco. Pochi mesi di guerra lo hanno trasformato, gli hanno conferito questa aria irrequieta, questa magrezza e questa pelle giallastra. L’esperienza del fronte gli ha lasciato addosso un terrore folle, che gli si legge negli occhi. Pur di restare all’ospedale ha accettato un simile incarico, con le sue ripugnanti incombenze. Interpretando il ruolo di Popò, riesce a prolungare di tre mesi la sua permanenza qui, in virtù di non so quale ordinanza militare che autorizza gli ufficiali medici ad avvalersi temporaneamente di assistenti. D’altronde è molto probabile che in seguito venga assegnato alle truppe ausiliarie, se non addirittura riformato. Lui però preferisce evitare di sottoporsi a una commissione se non in ultima istanza, perché teme che il suo corpo non sia abbastanza malconcio da giustificare un’esenzione che gli eviti il ritorno al fronte. Ma è il solo ad avere questo timore; quanto a noi, lo riteniamo destinato alla morte per tubercolosi, più inesorabile delle granate.

[…]

Presto o tardi doveva succedere. Mi stupisco che le anomale trasformazioni avvenute in lui non me l’abbiano fatto intuire. Per quanto demoralizzato, un uomo giovane si riprende in fretta; Charlet invece si incupiva sempre più.

Prima, quando è entrato in corsia, le dita contratte, i tic che gli alteravano i lineamenti, l’andatura a scatti tradivano uno stato di forte tensione nervosa. Ha comunque iniziato il suo turno come al solito, ma senza nemmeno salutarmi.

Verso l’una mi è improvvisamente comparso davanti. Aveva una faccia spaventosa, terrea, con delle chiazze scure e gli occhi cerchiati di rosso. Mi ha messo il braccio sotto il naso:

«Annusa! Annusa, dài!».

«Be’, che c’è?».

Spingeva il braccio verso di me con violenza. Mi sono fatto indietro.

«Allora, lo senti? Lo senti l’odore?».

Mi fissava con occhi scintillanti, furibondi, da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Avvicinando il suo volto al mio fino a toccarlo, mi ha detto queste parole incredibili:

«Sono una merda».

«Via, Charlet, sei impazzito?».

«Insomma, annusa!».

Più ancora della sua rabbia, mi ha spaventato la bava che gli stava colando dalla bocca. Per fortuna lo hanno chiamato:

«Ehi, Popò!».

Si è lanciato in direzione di Peignard gesticolando in modo scomposto:

«Mi chiamo Merda, chiaro? E non sopporterò oltre i vostri volgari insulti!».

Ho capito che era andato fuori di testa e subito ho temuto per i feriti più malconci: Peignard con il suo piede, Diuré con i suoi tubi di drenaggio, il povero bretone. Ho chiamato gli altri, quelli più in forze, che lo hanno attorniato mentre qualcuno andava a cercare aiuto. Lui, in piena crisi, tentava di scappare e gridava:

«Vi tengo in pugno, farabutti! Tutti gli uomini sono miei sudditi! Io sono la verità, il padrone del mondo!».

Finalmente tre marcantoni sono saliti dagli scantinati e lo hanno trascinato via.

Ci riverremo, ma quando lessi questo passaggio pensai al periodo in cui il libro fu pubblicato: 1930.

Chi è un minimo familiare con la Storia del periodo conosce il colossale stigma sociale associato con il tracollo mentale dei combattenti. Lo stress post-traumatico, o shell shock com’era chiamato nel primo dopoguerra, era considerato più vergognoso della Sifilide. Basti pensare che a due riprese, nell’agosto del ’43, il Generale Patton prese a schiaffi due dei suoi soldati affetti da shell shock.

Nel 1930 Chevallier raccontava l’effetto della paura, lo rivendicava, lo esponeva.

Rieuneau definisce Chevallier come “l’anti-Montherlant”, qualcuno che non solo sfata i miti della propaganda, ma che odia con ogni fibra del suo corpo la glorificazione della guerra.

«Nègre, vorrei farti una domanda che continua a tormentarmi. Che ne pensi del coraggio?».

«Ancora! La questione è stata definitivamente archiviata. Gli specialisti se ne sono occupati nel silenzio dei loro laboratori. Te lo dico una volta per tutte: il francese è coraggioso per natura, ed è l’unico a esserlo. I tecnici hanno dimostrato che per mandare il tedesco in battaglia bisogna fargli inalare dell’etere. Questo coraggio artificiale non è coraggio. E tu che mi racconti?».

«Io? Detto tra noi: mi sono rotto i coglioni!».

Incastrato nelle trincee, Dartemont prova un incontenibile senso di ribellione. Uno slancio che però non ha nessuna speranza di sfogare: se non gli sparano i tedeschi, saranno i suoi a farlo. Costretto in un gioco truccato contro di lui, Dartemont può solo cercare di sopravvivere, per poter un giorno raccontare la sua esperienza.

Quella notte pensai al destino del soldato sconosciuto che avevamo appena importunato nella sua tomba, e che altri avrebbero nuovamente calpestato. Immaginavo un uomo simile a me, cioè giovane, pieno di progetti e di ambizioni, di amori ancora indefiniti, appena affrancatosi dall’infanzia e sul punto di sbocciare. La vita, per come la vedo io, assomiglia a una partita che inizia a vent’anni e la cui posta si chiama successo: i soldi per i più, la fama per qualcuno, la stima degli altri per pochissimi. Vivere, durare non è niente; realizzare è tutto. Chi muore giovane è paragonabile a un giocatore che abbia appena ricevuto le sue carte e a cui venga proibito di giocare. E per quel giocatore, forse, si trattava di una rivincita… Vent’anni di studi, di sottomissione, di desideri e di speranze, tutta la somma di sentimenti che un essere umano porta dentro di sé e che costituisce il suo valore avevano trovato in quell’angolo di trincea il loro punto di arrivo. Se dovessi morire adesso non direi: «è spaventoso» o «è terribile», ma: «è ingiusto e assurdo», poiché non ho ancora tentato niente, fatto niente se non aspettare la mia occasione e la mia ora, limitandomi a conservare le forze e a pazientare. La vita secondo la mia volontà e le mie inclinazioni è appena cominciata, o meglio deve ancora cominciare, visto che la guerra ne ha rinviato l’inizio. Se soccombo adesso, sarò stato solo dipendente e incolore. Quindi sconfitto.

Tutti i temi dei romanzi rivoluzionari e pacifisti si ritrovano mischiati e confusi nella storia caotica di Dartemont.

Chevaillier racconta gli orrori macabri del campo di battaglia, ma senza attardarcisi troppo. Dopotutto altri prima di lui avevano sviluppato quell’angolo: Barbusse, Dorgelès, Naegelen…

La parte che più parla di combattimenti è quella dedicata all’offensiva sul Chemin des Dames.

Per gli italiani, la faccenda è più nota come “Seconda battaglia dell’Aisne”, una massiccia offensiva avvenuta tra l’aprile e l’ottobre del 1917. Non entro nei dettagli perché si tratta di una roba degna di un intero saggio (se vi interessano i massacri sull’Aisne, ai tempi avevo raccontato dell’Affaire de Crouy). Qui basti sapere che le operazioni primaverili, dirette dal generale Nivelle, si conclusero in un sanguinosissimo disastro condito con ammutinamenti.

Chevallier partecipò all’offensiva.

Non conosco ripercussioni morali paragonabili a quelle provocate dal bombardamento su chi si è rintanato in un ricovero. La sicurezza si paga al prezzo di un crollo interiore, di un logorio dei nervi davvero tremendi. Non conosco niente di più angosciante di quel martellamento sordo che ti bracca sottoterra, tenendoti sepolto in una fetida galleria che può diventare la tua tomba. Per riemergere dall’abisso è necessario uno sforzo che, se non si è superato lo spavento fin dall’inizio, la volontà non è più in grado di compiere. Bisogna lottare contro la paura ai primi sintomi, altrimenti ti irretisce, e allora sei spacciato, trascinato in una catastrofe che l’immaginazione accelera con le sue spaventose invenzioni. Una volta scossi, i centri nervosi trasmettono comandi del tutto incongrui e, con le loro assurde decisioni, rischiano di contravvenire persino all’istinto di conservazione. Il colmo dell’orrore, che rende lo scoramento ancora più grave, è che la paura non toglie all’uomo la facoltà di giudicarsi. Egli vede se stesso sull’ultimo gradino dell’ignominia e non riesce a risollevarsi, a giustificarsi ai suoi stessi occhi.

Questo è lo stato in cui mi trovo…

Sono rotolato in fondo al baratro di me stesso, in fondo alle segrete dove si nasconde la parte più riposta dell’anima. Un’immonda cloaca, una tenebra vischiosa. Ecco cos’ero senza saperlo, ecco cosa sono: uno che ha paura, una paura incontrollabile, una paura da mettersi a piangere, che ti annienta… Per farmi uscire dovrebbero cacciarmi fuori a calci. Ma accetterei di morire qui, credo, pur di non essere costretto a salire quei gradini… Ho paura al punto da non tenere più alla vita. Del resto, per me provo solo disprezzo. Per resistere contavo sulla stima di me stesso, e ora l’ho persa. Come potrei ostentare ancora sicurezza adesso che so chi sono veramente? Come potrei mettermi in luce, brillare, dopo quello che ho scoperto? Forse riuscirò a ingannare gli altri, ma sarò sempre consapevole di mentire, e questa messinscena mi dà la nausea. Penso a Charlet, alla compassione che provavo per lui all’ospedale. Sono caduto in basso come lui.
[…]

Sotto i sacchi per la sabbia del mio giaciglio ho trovato una bottiglia vuota da un litro, con il tappo, e la mia vigliaccheria se n’è rallegrata. Ogni tanto mi giro su un fianco e piscio lì dentro, a piccoli getti, in modo che nessuno sorprenda questa inconfessabile manovra. Durante la giornata la mia principale preoccupazione è versare l’urina a terra un poco alla volta, in modo che sia assorbita dal suolo. Ah, sono proprio uno schifoso!

La morte sarebbe preferibile a questo supplizio avvilente… Sì, se deve durare ancora a lungo, preferisco morire.

Direi che è andata bene ^_^

Robert Nivelle — Wikipédia

Quando hai un vantaggio numerico di 2 a 1 e totalizzi un glorioso punteggio di 120.000 perdite e 0 vittorie

La verve rivoluzionaria del romanzo non si esaurisce in un ritratto spietato della vita del soldato semplice. Chevallier denuncia anche i propri ufficiali, gli attacchi inutili spinti per soddisfare i pruriti di gloria di questo o quello, le condanne a morte assolutamente ingiuste e crudeli. Nel romanzo si menziona, ad esempio, l’omicidio la condanna di Lucien Bersot.

Si tratta del famoso e infame incidente “del pantalone rosso”: Bersot era un soldato che fece richiesta per un nuovo paio di braghe. Gli furono date quelle di un morto, ancora lacere e sporche di sangue. Bersot si rifiutò di portarle e fu arrestato. Questo scatenò indignazione e rivolta tra i suoi compagni, al che fu deciso di fare di Bersot un esempio, e il soldato fu fucilato.

Crimini di questo genere purtroppo non sono stati rari. I lettori italiani sono probabilmente familiari con la storia di Alessandro Ruffini.

Sono episodi del genere che confermano per Chevallier il fatto che i suoi superiori non hanno nessun riguardo per la vita dei loro subordinati. Per i soldati semplici, questa gente è altrettanto pericolosa, altrettanto nemica del tedesco.

Shell_shock

Un reduce francese vittima di Shell shock si ritrae con terrore alla vista del berretto di un ufficiale

Ma Chevallier non ce l’ha solo con l’esercito. Dopotutto se quest’inutile massacro è stato possibile, ciò lo si deve anche al sostegno e alla partecipazione della società civile. E Chevaillier ne ha tante da dire sulla borghesia nazionalista. Già dalle prime pagine appare chiaro un ritratto di revanchisti che ancora non hanno ingollato la disfatta di Sédan, gente piena di mediocre risentimento che celebra una guerra che non saranno loro a combattere, gente pronta a sacrificar decine di migliaia di uomini per una catarsi emotiva.

In una scena del libro, un passante che non dà prova di un livello accettabile di fervore patriottico viene pestato sulla pubblica via. Quando Dartemont torna a casa in licenza, dopo essersi fatto l’ospedale, viene prima criticato da suo padre per non aver già scalato i ranghi, e poi portato in giro e mostrato ad amici e conoscenti. Avere un figlio che è per un pelo scampato a un combattimento è oggetto di vanto, una fonte d’orgoglio per ricchi borghesi che fanno la guerra seduti al bar con un bicchiere di kir.

La società borghese è conformista, ipocrita, benpensante, una società che si balocca con storie fasulle e caricaturali di una guerra eroica, romantica e giusta. E Chevallier non cela il proprio disprezzo per costoro.

Il tempo è sereno. Ogni notte, adesso, sentiamo dei ronzii. Le squadriglie tedesche che vanno a bombardare Parigi sorvolano le nostre linee. Non abbiamo i mezzi per sbarrargli la strada. Ma salutiamo il passaggio di quegli aerei invisibili dicendo:

«Mi sa che stavolta se la beccano i patrioti, la batosta!».

«Gli servirà di lezione. Ci vorrebbe proprio, per i civili, qualche ora di bombardamento sulla capoccia!».

«Così forse la smettono di gridare: “Avanti, fino alla morte!”».

«Peccato solo rovinare i monumenti».

«Ma sentitelo! E la nostra pelle, allora? Vale meno di un monumento? Mica gliene importa niente a nessuno se ci sbudellano!».

«Così quelli della capitale le assaggiano pure loro, le bombe!».

«Sai che risate se i crucchi mollano una bella scoreggia dritto dritto sul ministero della Guerra!».

«Sta’ zitto, disfattista!».

«Ma sentitelo, ’sto venduto, ’sto brocco, ’sto volontario di merda!».

«Tanto per cominciare,» dice Patard, il telefonista dell’artiglieria «in guerra bisogna distruggere. Così finisce prima».

Patard è uno dei numerosi personaggi irriverenti che costellano il romanzo. Canaglie costrette a marciare come tutti gli altri, ma che non si bevono la storia dell’etica eroica, della gloria francese. Questi personaggi non sono sviliti come disfattisti o traditori, sono celebrati. La loro insolenza è l’eroismo in questo contesto, le loro trasgressioni sono celebrate, piccole rivolte contro un sistema ingiusto. Sono eroi in quanto resilienti.

[Patard] È il più temibile ladruncolo che si sia mai visto, il terrore delle cucine, degli spacci e dei magazzini. La sua impresa più celebre è stata quando ha fregato i pantaloni e gli stivali al generale di divisione. Il fatto ha avuto luogo sullo Chemin des Dames. Patard, in fondo a un ricovero, confezionava bustine fuori ordinanza che pensava di vendere ai soldati del suo reggimento. Ma gli mancava il nastro per adornare quei berretti. Per procurarselo si è offerto di andare sotto le bombe fino al comando di divisione a sostituire un telefono guasto. Lì, curiosando in giro, ha trovato dei bei pantaloni di panno fine appesi a un chiodo, dei pantaloni rossi, proprio il colore che gli serviva. Visto che accanto c’erano degli stivali, ha preso anche quelli ed è ritornato in trincea. Il generale ha scatenato un pandemonio, ma non ha mai sospettato che i suoi pantaloni fossero finiti, ridotti in striscioline, sulle teste dei suoi uomini, né poteva immaginarsi di salutarli ogni volta che incrociava un artigliere.

Patard è un eroe perché riesce a sopravvivere senza impazzire nel costante terrore che perseguita il soldato.

E Dartemont?

Di certo non si racconta come un eroe. La guerra non è qualcosa che Dartemont fa, è qualcosa che Dartemont subisce. C’è un solo episodio in cui Dartemont appare sinceramente fiero del proprio valore: durante un bombardamento, Dartemont vede un altro portaordini arrivare di corsa sotto il tiro degli obici tedeschi.

Resta un unico portaordini, e non se ne manda mai uno da solo sotto le granate. Il maresciallo esita… In quel momento vediamo un soldato che attraversa il burrone di corsa e si arrampica su per il pendio. Poco dopo arriva, coperto di sudore, ansimante. È Aillod, dell’undicesima. Trae un sospiro che significa: «Sono salvo!». Ma il maresciallo sceglie proprio lui:

«Adesso vai alla nona con Julien».

«Però, sempre gli stessi!» risponde Aillod sommessamente, davanti a me.

Noto l’espressione del suo viso, in cui il terrore prende il posto della gioia, e incrocio il suo sguardo, che è quello di un cane che aspetta di essere preso a bastonate, di un uomo che è appena stato condannato a morte. Quello sguardo mi fa vergognare. È davvero un’ingiustizia. Allora grido senza riflettere:

«Ci vado io!».

Vedo gli occhi di Aillod ravvivarsi, pieni di riconoscenza. E vedo pure lo stupore del maresciallo:

«D’accordo, vai!».

Durante questa missione, per cui Dartemont si è portato volontario in uno slancio di solidarietà non proprio ragionato, il nostro riesce per la prima volta a conquistare la paura.

Più tardi, di nuovo al riparo, Dartemont ha la possibilità di pensare a ciò che gli è successo.

È ancora presto quando vado a stendermi sulla mia branda, al buio. Rifletto sui fatti di questa sera. Insomma, per essere coraggioso ho a disposizione un mezzo semplice ed efficace: accettare la morte. Ricordo che già una volta, nell’Artois, quando dovevamo affrontare in campo aperto le mitragliatrici, mi ero abituato a questa idea per qualche ora. Poi gli ordini erano cambiati.

Quelli che cercano di farsi coraggio dicendosi: «Non mi succederà niente» sono del tutto irrazionali (eppure sono la maggioranza). Una simile convinzione non può essermi di aiuto, perché so fin troppo bene che i cimiteri sono pieni di gente che aveva sperato di tornare a casa sana e salva, persuasa che le pallottole e le granate scegliessero i loro bersagli. Tutti i morti si erano affidati alla protezione di una provvidenza personale, intenta a vegliare su di loro e del tutto indifferente agli altri. In quanti, sennò, sarebbero venuti a farsi ammazzare?

Mi sento del tutto incapace di mostrare coraggio se non sono deciso a dare la vita. In alternativa a questa scelta c’è solo la fuga. Ma una decisione del genere la si può mantenere per un breve momento, non per settimane o mesi. Lo sforzo morale è troppo grande. Ecco perché il vero coraggio è così raro. Di solito accettiamo una specie di compromesso zoppicante fra il destino e la volontà, che non soddisfa la ragione.

Per ora ho fatto due volte l’esperienza del coraggio assoluto. Sarà stata questa, alla fin fine, la mia azione di guerra più gloriosa.

Poi penso alle parole di Baboin: «È meglio non fare tanto i gradassi…». Oggi ho fatto il gradasso, e se voglio «portare a casa la ghirba» mi converrà resistere a simili impulsi…

Rieuneau nota che nel romanzo Chevallier non se la prende coi “vigliacchi”. Non è da vigliacchi provare paura, è naturale. Il terrore abbietto e umiliante non è mancanza di carattere, non è frutto di un difetto, non è una colpa, è la normale reazione di un uomo a cui viene inflitta la guerra.

In questo Chevaillier rivendica la vulnerabilità degli uomini in faccia a una narrativa disumanizzante che li vuole gagliardi combattenti pronti al sacrificio.

 

La pubblicazione

Tutti gli articoli sulla WWI devono avere un riferimento a Black Adder Goes Forth, sorry

Come potrete immaginare, in un’Europa in pieno sussulto nazionalfascista come quella del 1930, un romanzo come La Peur non fu ricevuto proprio benissimo. Non è da escludere che il clima nazionalista e guerrafondaio e la salita al potere di movimenti fascisti siano stati tra i fattori che spinsero Chevallier à scrivere il suo libro, una visione della guerra che sputa in faccia alla prosopopea fascistoide.

I toni che usa sono tali che Olivier Cariguel commenta:

Se avesse confessato le sue riflessioni in piena guerra, Dartemont si sarebbe beccato senza dubbio un plotone d’esecuzione per aver attentato al morale dell’esercito e per antipatriottismo.

Dartemont è un antieroe che non ha vergogna a mettere a nudo il suo lato umano, quel lato che la narrativa cazzodurista disprezza.

Dartemont ha fame, ha freddo, ha paura.

Dartemont non è un eroe di guerra.

Dartemont definisce la Patria:

Né più né meno che una riunione di azionari, né più né meno che un aspetto della proprietà, dello spirito borghese e della vanità.

Non è una sorpresa se, nel 1930, solo giornali di sinistra come Le Canard Enchainé celebrarono La Peur come l’opera fondamentale e la testimonianza imperdibile che è.

Per citare Chevaillier stesso, nella prefazione all’edizione del 1951:

Il libro fu accolto da movimenti diversi, e l’autore non sempre fu trattato molto bene. Ma due cose sono da notare. Degli uomini che lo avevano ingiuriato sarebbero girati male in futuro, il loro valore s’era infatti sbagliato di campo. Quanto ai combattenti di fanteria, scrissero: “Vero! Ecco ciò che sentivamo e non potevamo esprimere”. La loro opinione contava molto.

Il pacifismo di Chevallier non è un puccioso mondo di “volemossebbene”. Nonostante la sua condanna della Grande Guerra sia inappellabile, Chevallier non esclude la guerra a priori. Nel 1939, ad esempio, si accordò col proprio editore per togliere il proprio romanzo dagli scaffali.

Per riprendere l’introduzione del 1951:

Quando la guerra ormai c’è, non è più il momento di avvertire la gente che si tratta di un’avventura sinistra dalle conseguenze imprevedibili. Bisognava capirlo prima e agire di conseguenza.

In altre parole, la guerra è una calamità che umilia, distrugge, degrada l’essere umano. Ma se la si vuole evitare occorre adottare politiche e attitudini appropriate: non ha senso voler fare i pacifisti quando la Divisione Fantasma trancia allegramente attraverso le Ardenne.

Nella stessa prefazione, Chevallier aggiunge:

Nella mia gioventù si insegnava – quando eravamo al fronte – che la guerra era moralizzatrice, purificatrice e redentrice. Abbiamo potuto constatare le implicazioni di questi slogan ripetuti in continuazione: smerciatori, trafficanti, mercato nero, delazioni, tradimenti, fucilazioni, torture, tubercolosi, tifo, terrore, sadismo e fame. E dell’eroismo, d’accordo. Ma la piccola, l’eccezionale proporzione di eroismo non riscatta l’immensità del male. D’altro canto pochi sono tagliati per l’eroismo. S’abbia la lealtà di convenirne, noi che ne siamo tornati.

La grande novità di questo libro, il cui titolo era una sfida, è ciò che dicevamo [al fronte]: ho paura.

Nei “libri di guerra” che avevo letto la paura era a volte menzionata, ma si trattava di quella degli altri. L’autore era un personaggio flemmatico, così occupato nel prendere appunti che se la rideva degli obici.

L’autore di questo libro considera che sarebbe improbo parlare della paura dei propri compagni senza parlare della propria. Ragion per cui ha deciso di prendersi la responsabilità della paura, prima tra tutte la propria. Quanto a parlare della Grande Guerra senza parlare della paura, senza metterla in primo piano, sarebbe stata fumisteria. Non si vive nei luoghi dove si può essere squartati in ogni istante senza provare una certa apprensione.

Bataille du Chemin des Dames | Site d'histoire | historyweb.fr

Capo, credo di star provando una certa apprensione

Al di là del messaggio politico di Chevallier, Dartemont è un personaggio notevole nell’orizzonte della narrativa maschile: lo era nel 1930 e lo è tutt’ora.

Come sa chi ha letto il mio commento a quella porcheria esilarante di Educazione Siberiana, spesso nei film di “Uominiveri per Uominiveri” il protagonista è uno tostissimo che fa cose tostissime per un’ore e mezza, e i romanzi non se la cavano granché meglio. Questo comporta due problemi: tanto per cominciare non può esserci vero coraggio se non c’è paura (sicché la storia raccontata è semplicemente inutile), e in secondo luogo questo tipo di storie, quando troppo pervasive, rinforzano un mito dannoso di forza e virilità, con conseguenze indirette negative sui lettori.

Dartemont è un personaggio che rivendica la propria vulnerabilità e la propria paura. E’ un personaggio che espone la propria fragilità umana senza pudore, con onestà e insolenza. E’ un personaggio che lotta per sopravvivere, ma che si mette a rischio quando riconosce la disperazione rassegnata negli occhi di un compagno.

Dartemont offre un modello dove la vera forza non è la violenza guerriera (che pure fa parte della vita in trincea), ma l’onestà di ammettere: ho freddo, ho fame, ho paura. Ed è accettando la propria paura e la legittimità del suo desiderio di restare in vita che Dartemont mantiene la propria sanità mentale e la propria vita.

Quella di Chevallier non è l’unica esperienza della Grande Guerra. Come accennato, altri reduci l’hanno vissuta in modo diverso. Ma allora come oggi La Peur resta un romanzo narrativamente e politicamente importante, che in troppo pochi hanno letto.

MUSICA!
P.S. nel 2015 i francesi hanno realizzato un film sul romanzo, ma non l’ho ancora visto quindi non so se consigliarvelo. Qui il trailer.


Bibliografia

CARIGUEL Olivier, Revue des Deux Mondes, 2008, p.182

CHEVALLIER Gabriel, La Peur, ed. Le Dilettante, Parigi, 2008

CHEVALLIER Gabriel, trad. CARRA Leopoldo, La Paura, Adelphi, 2011

RIEUNEAU Maurice, Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Klincksieck, Parigi, 1974

SICARD Claude, Revue d’Histoire Litttéraire de la France, vol. 76, n.3, 1976, p.500-507

Pagina Wiki su Chevallier (FR)

Pagina Wiki del romanzo (FR)

 

 

Recensione: Magdeburg-L’Eretico, parte III

Bentornati in questo luogo di sconforto e perdizione. Questa sarà l’ultima puntata dedicata all’Opera Stallatica! Con questo post si conclude il resoconto sulle PRINCIPALI CAUSE che fanno di questo libro un concentrato di pattume. Ho tagliato moltissimo, anche tra gli errori più gravi, dacché il bello di questa roba è che deforma lo spazio tempo: se si dovesse fare una lista delle crasse idiozie, ne verrebbe un documento più lungo del libro. Go figure.

P.S. SPOILERS, ma un vi perdete nulla!

daibanana.php

In omaggio alla bellissima daikatana (ugh!) di Wulf, la daibanana, grande arma samurai! (si ringraziano Sirio Signorelli e il buon Dago per l’immagine!)

Avevamo lasciato il party protagonista (Wulf e due pupazzi imbalsamati di rincalzo) in fuga, e Dekken sulla strada di casa. Ci sarebbero anche dei fili narrativi legati ad Alessandro Colonna e Nauhaus, ma sono di un’inutilità tale che a leggerla mi son cascate le palle in terra tanto forte da sfondare il pavimento, e ora sono in causa con la gattara del piano di sotto.

Dekken e il suo amichetto Auerbach erano ripartiti insieme dopo aver spedito Caleb a Bad-Hoch. Mentre laggiù si consuma un’orrida scena d’azione, i nostri concludono una tappa e si accampano in mezzo ai rovi. Perché la sottile linea tra grim fantasy e personaggi affetti da ritardo mentale è difficile da azzeccare.

I nostri sono a una barriera che delimita le terre di Dekken. Barriera che è

[…] ambigua. Come tutte le barriere.

Sul serio? Sarò strana io, o sarà una deformazione professionale vichinga, ma a me pare che il solo messaggio più chiaro di una barriera sia un muro di scudi di gente incazzata.

Ai tempi, Licia Troisi fu sbeffeggiata senza quartiere per le misure assurde e la fisica balorda dei suoi libri. Ma stuprare l’ottica e il buonsenso sono, pare, caratteristiche imprescindibili del fantasy nostrano. Difatti, dietro il muretto di cui sopra, dal nulla si materializza un cavaliere con “armatura toracica” (corazza, Altieri, si chiama corazza!) e immancabile picca (sob).

Non solo, subito dopo si manifesta pure un esercito vero e proprio. Nessuno li ha visti o sentiti arrivare, perché è noto che le armature non fanno assolutamente rumore se sciaguattate in sella a un cavallo! O forse sono tutti sordi e con 2 diottrie per occhio.

A poche centinaia di metri da questa barriera dei miracoli, Dekken dà la sua benedizione a un gruppo di miserabili che vuole rifugiarsi nelle sue terre. Mentre io mi chiedo perché uno dovrebbe accamparsi nei rovi sulla soglia di casa invece che, non so, entrare, Dekken lancia la scansione, e dopo un retrolampo in cui litiga coi suoi e insulta i luterani, riveniamo…

Al tramonto! Dekken e i suoi guardano le ombre dei derelitti sparire dietro la barriera. Sì, gli stessi che stavano per attraversarla la mattina e che solo alla sera riescono a scavalcarla. Forse anche loro, come il 98% delle comparse in questo disastro di libro, sono afflitti da un qualche handicap grave. Resta che Dekken e i suoi sono rimasti come belle statuine per un giorno intero.Guardare dei paraplegici coprire i cinquanta metri piani coi denti è davvero così interessante?

Tra l’altro siamo ancora deliziati con l’ennesimo flashback di Dekken, in cui c’è una scena tra suo fratello Karl e la futura sposa Rowena, una roba così noiosa che alla fine mi hanno dovuta rianimare con un defibrillatore.

Vi ricordate quando ho detto che Mikla era un personaggio inutile? Beh, sono stata troppo severa. Certo, è inutile, ma per lo meno sta zitta. Rowena, oltre a essere inutile, è Buona, Bella e Profonda. Il che significa che non fa nulla a parte sotterrarci sotto una marea verbale che varia da “non vuol dire un cazzo” a “chissenefrega”.

«Non pensare al metallo, Rowena. Non pensare al sangue. È soltanto un sogno.»

«Ma continua a tornare da me, quasi ogni notte. Tu sogni, Karl?»

«Tenebre.»

[…]

«I sogni vengono dalle tenebre?» La voce di lei è un sussurro. «Sei sicuro di questo?»

 
Seriously Face GIFs | Tenor
[…]«Non lo sono.»

«Allora di che cosa sei sicuro?»

[…]«Di amarti»

«Come puoi amarmi?»

Fate finire questo inutile strazio! Giuro, questa scena romantica se la vede ad armi pari con quella troiata diseducativa di Twilight!

«Contraddizione, pericolo…» Karl serra le labbra. «Eresia.»

«Parola di fuoco.»

«E di metallo.» C’è un’espressione indefinibile sul volto di Kart von Dekken. «Non sei turbata?»

 

Ad ogni modo, lei lo vuole sposare, perché glielo dicono delle “voci da dentro”. Io chiamerei un esorcista, lui se la pomicia. Karl, guarda che saranno almeno in due lì dentro, non vorrai rischiare il sovraffollamento!

Intanto, tra le frasche, Dekken li spia e si masturba “a sangue”. Sticazzi, dico io.

Saltiamo a Leopold Klein, che spara a sua volta il centottesimo flashback superfluo (sul serio, se togliessimo quelli il libro sarebbe un opuscolo!). Sappiamo anche che Leopold Klein ha una biblioteca di “centinaia di volumi”. Evidentemente nella Germania del 1630 i libri costavano meno di oggi. O forse è solo un modo maldestro per far capire al lettore che Leopold è un uomo di cultura.

Dopo un’indispensabile parentesi sulle ricerche astronomiche del periodo (il sussidiario del nipotino torna utile ancora una volta!), ci viene detto che dei mercenari ubriachi stanno facendo un rogo di libri nella piazza. Il sergente e il galoppino della porta ricompaiono (quelli che volevano aggredire un inviato con lettere ufficiali), fanno irruzione nel laboratorio di Leopold, pestano lui e cercano di stuprare la moglie. Da notare che i mercenari di Altieri sono sempre in armatura, anche quando non sono in servizio e soprattutto quando progettano di scoparsi qualcuno (Excalibur ha fatto scuola).

Quando le cose stanno per mettersi male, Deveraux interviene. Se non ce ne fossimo già accorti, anche lui è uno trp fygo, e dice cose inutili mentre combatte (combatte annoiato, perché tutti sono troppo sfigati rispetto a lui, e perché il suo personaggio non era abbastanza ridicolo e cliché).

Sistemati i due sacrificabili, Deveraux e Leopold trovano che il momento è perfetto per una discussione sulle filosofie orientali. Sì, con i cadaveri in casa, un rogo fuori dell’uscio e un linciaggio in sospeso che può riprendere da un momento all’altro.

Deveraux spiega a Leopold il concetto dei cinque elementi presenti nello Zen (sarebbe meglio definirli “cinque agenti”, ma non siamo fiscali), l’haragei (in questo universo, una specie di potere magico proporzionale alla figaggine) e la ninjitudine di Wulf. Se ve lo stesse chiedendo, sì, queste sono tra le righe più retard del libro.

Leo è convinto che Wulf sia buono perché

«I bambini sentono il pericolo» non cedette Leopold. «I bambini percepiscono il male. La piccola Sarah lo adorava.

Ma certo, i bambini sentono il pericolo, è per quello che pedofili e predatori hanno una vita tanto difficile. Ma forse questa è la spiegazione degli “occhi intelligenti”. I personaggi di Altieri hanno l’età mentale di mocciosi di sei anni. Sì, ci sta.

Leo finisce per cedere e parla a Deveraux della Lutherweg, la via che porta al Monastero del Capibara. Deveraux, grande emissario e osservatore di Richelieu, quello che deve sapere tutto su tutti, non lo conosce. Un professionista, quoi!

Leo lo avverte anche che Wulf gli ha parlato di un tunnel segreto per andarsene dalla città.

«Nessuno sa chi l’ha scavato. Né quando. Forse nessuno sa che esiste.»

Pensa che culo, eh? Meno male che Wulf sa tutto, sempre e comunque. Merito dell’haragei, che ormai può giustificare virtualmente qualsiasi cosa (o forse Wulf ha letto il copione).

Frattanto Pecoraro, il mercenario sopravvissuto di Bad-Hoch, ritorna a Wolfengrad come “uomo demente”. Così demente che ha medicato alla menopeggio il garretto del cavallo e si è liberato dell’armatura per correre più leggero. L’”uomo demente” è l’unico a dar prova di gnegnero in questa festa dell’idiozia.

Parlando di idiozia, tutti si sorprendono che la missione sia finita male.

Undici di loro rappresentavano il vertice dei tagliagole della Turingia.

Wait, prima hai detto che gli undici erano stati scelti a caso tra quelli che avevano stuprato la strega, poi salta fuori che tutti loro, per caso, hanno combattuto a Bad-Hoch, e ora mi dici che erano undici assassini scelti? Qualcuno ha riletto questa chiavica, prima di mandarla alle stampe?

Veniamo anche a sapere che i soldati della “mai sconfitta” falange di Arnehm “non vengono pagati da settimane”. Genius! Perché un uomo come Van der Kaal, il capoccia, che fa il mercenario da sempre, dovrebbe fare una cosa così stupida come non pagare i suoi? Mistero. Scopriamo anche che Bolanos non sa della strage di Bad-Hoch. Come? Bolanos dovrebbe essere moribondo di cancrena? La divina provvidenza ci avrà messo una mano, non l’avete letto il Manzoni?

Parlando di Bad-Hoch… Caleb e Dale decidono di andare a parlare con l’Eretico e dopo aver fabbricato una torcia con un elastico e una caccola, scendono nel chiostro. C’è una torcia accesa accanto alla fontana calda (Bad-Hoch è costruito su una fonte termale, che viene fatta sgorgare in una piscina nel chiostro, perché i fratacchioni si divertivano a organizzare schiuma-party in cortile).

Nessuna traccia del viandante in nero.

Eccetto la torcia di cui ci hai appena parlato. O forse s’è accesa da sola.

Wulf è lì a farsi i fanghi.

Il viandante in nero sedeva a gambe incrociate sull’anello di pietre della sorgente sotterranea. Una figura remota, vagamente sacrale. Ma questo non poteva avere senso. Non per un eretico.

Perché si sa che “eretico” vuol dire precisamente “blasfemo iconoclasta ateo”. Notare poi che Wulf sa rendersi invisibile quando vuole, pur essendo un mozzarellone tedesco seduto ai raggi della luna accanto a una torcia accesa. Poteri dei ninja.

Caleb chiede a Wulf perché fa quello che fa e Wulf, mine de rien, non gli risponde e gli rifila qualche bischerata new age. Wulf è troppo figo, o troppo scemo, per esprimersi.

Poco dopo la partenza del party protgonista, i cattivi arrivano e trovano corpi smembrati impilati davanti all’ingresso.

Parecchi altri dragoni vomitarono.

Mercenari navigati, everybody! Ad ogni modo, per restare logici, la maggior parte di loro scarica le pistole sparando a dei corvi.

 

Dire che sono deficienti sarebbe un insulto ai deficienti.

Ma che cosa fa intanto Dekken? Cavalca nella sua bella terra, dove si fanno almeno due racolti l’anno (non credo sia umanamente possibile farne di più, con mezzi tradizionali!), in particolare patate. Strano, pensavo che i nobili tedeschi avessero investito nella patata solo nel 1750, ma Dekken è sempre un secolo e mezzo avanti a tutti!

E riparte il flashback su tutta la genealogia Dekken!

Manfred von Dekken salpa al fianco di un visionario, temerario navigatore italiano, Cristoforo Colombo, alla scoperta di un nuovo mondo.

Perché Colombo si sa era partito per scoprire un nuovo mondo. No, non per raggiungere le Indie. Leif Erikson gli era apparso in sogno.

Documenti che dimostrano una verità immane: la sfericità del mondo stesso.

SANS BLAGUE!

Ok, finiamola una volta per tutte: la faccenda dei medievalii che credevano nella Terra piatta è una BUFALA. La faccenda fu regolata nientemeno che nel III secolo avanti Cristo al più tardi.

E se vogliamo dire che ce n’eravamo scordati nel frattempo, sottolineo che: i vichinghi andavano e venivano dalla Virginia e dalla Groenlandia intorno al 1000; in opere underground poco conosciute come la Divina Commedia la Terra è tonda come una palla.

Ora, se vogliamo dire che ancora all’epoca di Colombo (e dopo, se è per questo) anche i più grandi ingegni avessero un’idea molto bizzarra della geografia terrestre e delle cose che vivevano in contrade lontane, siamo d’accordo. Per conferma basta leggersi Piano Carpini o perfino un viaggiatore più smaliziato come Marco Polo.

Ma no, gli istruiti non credevano che la Terra fosse piatta, e i non istruiti nemmeno si ponevano la questione.

 

Tornando a Dekken e alla sua genealogia, il nostro non ricorda il titolo nobiliare di sua madre.

Una contessa norvegese. O forse una duchessa. Reinhardt neppure lo ricordava

Perché si sa, l’araldica non è per niente il centro d’interesse di nobili rampanti.

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*Jingle*

Abbiamo accennato la puntata scorsa alla fanteria di Gustavo Adolfo, mi pare coretto concludere con la cavalleria.

Cominciamo col dire che gli Svedesi erano per tradizione più navigatori che cavalieri. I loro ronzini erano bestie ticce e robuste, tra i 110 e 140 cm al garrese. Un po’ piccini. Ma i cavalli non erano il solo problema: le armi tecnologiche (pistole, carabine, moschetti) erano di solito comprate all’estero (dacché gli svedesi non cominciarono a farne di decenti che negli anni ’40 del XVII° secolo). Anche le armature, fino agli anni ’20, erano spesso procacciate all’estero.

La cavalleria nativa era organizzata su base regionale, e riunita, nel 1627, in 5 reggimenti. In principio ogni reggimento contava 4 compagnie, che furono portate a 8 nel 1631, ognuna costituita da 125 cavalieri.

Nel 1621, dopo aver messo le mani su Riga e la Livonia, Gustavo riuscì a rimpolpare un po’ le sue file con combattenti qualificati, ma non abbastanza da fare le scarpe ai Polacchi, che come cavalieri spakkavano abbestia. Finalmente, nel 1628 gli svedesi imbarcarono 3 reggimenti interi di archibugieri ai saldi di Cristiano IV di Danimarca.

Fino agli anni ’30 del XVII° secolo, la proporzione cavalieri/fanti dell’esercito svedese era di 1 a 2, ma l’altissima mortalità nella pietaglia cambiò l’equilibrio a 1 a 1 e infine 5 a 4 nel 1636 alla battaglia di Wittstock.

 

I corazzieri

Costituivano la cavalleria d’élite, protetti da un carapace pesante. Erano armati di due pistole (per caricare a caracollo) e spada.

Quando Gustavo prese le cosa in mano, nel 1620, la Svezia aveva un numero ristretto di corazzieri (riuniti nell’Adelsfana), per lo più nobili che dovevano servire il re come dovere feudale e che di rado venivano impiegati in battaglia.

Le loro armature erano un problema. Pare che ancora alla battaglia di Breitenfeld fosse solo una minoranza, tra cavalieri ed alti ufficiali, a poter sfoggiare un equipaggiamento completo.

D’altro canto Breitenfeld mostrò che a vincere non era più tanto la cavalleria, quanto l’artiglieria e l’impiego della fanteria, e investire in grandi armature per i cavalieri divenne sempre meno interessante. La Fase Svedese (1630-1635) segnerebbe l’inizio del declino delle corazze pesanti.

 Corazziere. Le pistole erano infilate davanti all’arcione

 Gli archibugieri.

Impiegati in schermaglie di portata relativamente minore, erano armati d’archibugio (o carabina). Erano protetti in modo più leggero e anche loro dotati di pistole. In battaglia il loro ruolo era di solito la difesa dei fianchi dello schieramento di corazzieri.

Nel 1621 Gustavo li riformò e stabilì l’armamento base: corazza, elmo aperto, spada e pistole al posto dell’archibugio. In pratica soppresse gli archibugieri propriamente detti per una cavalleria leggerea bonne à tout faire, da impiegare in diverse situazioni, in supporto alla cavalleria pesante. Non sapendo bene come definirli, questi “archibugieri senza archibugio” venivano spesso chiamati semplicemente “cavalieri” (reiter).

Col maturare della Fase Svedese, i reiter di Gustavo come anche quelli cattolici furono sempre meno protetti.

Arcibugiere con archibugio, da non confondere col moschettiere!

Gli Hackapeliter, i reggimenti finlandesi.

Il nome gli veniva dal simpatico grido di battaglia (traducibile con “hack ‘em down!”): la loro ferocia selvaggia era leggendaria. Nel 1628 erano organizzati in 24 compagnie, gran parte sotto il comando di un Colonnello della Cavalleria Finlandese.

 

I dragoni.

Si trattava di fanteria montata, l’antenato della fanteria motorizzata. Si spostavano a cavallo ma combattevano di preferenza a piedi (come moschettieri). All’inizio non erano troppo presenti: Gustavo mise insieme il primo vero reggimento alla fine del 1630.

Nonostante fossero pochi (raggiunsero lo zenit nel 1632, con 1200 membri), erano un elemento indispensabile, dato che, alla differenza di quelle piaghe ambulanti dei cavalieri, erano più disponibili a smontare e svolgere incarichi poco “dashing” ma necessari. Erano il grasso del motore dell’esercito. Di solito venivano impiegati come esploratori, nel tenere passaggi pericolosi o in altri compiti ausiliari.

I dragoni erano di solito armati come moschettieri. Avevano moschetti a miccia (per quelli a percussione dovettero aspettare il 1635), di solito più leggeri di quelli della fanteria, tanto che potevano essere usati anche senza trespolo.

 

I djurskyttar, i cacciatori.

Presi tra forestali e guardiacaccia. Si suppone si occupassero di azioni di disturbo in piccole unità molto rapide. Non abbiamo molte notizie su di loro, as far as I know, se non che erano una piccola minoranza e di solito compaiono in poche decine.

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Torniamo a Wulf e soci, che intanto sono arrivati a Bad-Achen.

«Un mastio?»

«Un monastero.»

E una caramella al soldato Caleb, che non sa distinguere un monastero da un mastio. I nostri bussano.

«Chi postula?»

«Nessuno.»

Wulfgar, va’ a cagare.

Questo è quello che io chiamo un imbecille. Che razza di risposte dà? No, no, NO signor Altieri! Non venga a dirmi che è per far comprendere che la logica di questo personaggio è aliena a quella dei suoi contemporanei, perché la sua “logica” è aliena agli ominidi tutti: non è logica! E’ trolleggio idiota. E’ il ragazzino di dodici anni che si fa la foto gangsta per metterla su facebook. E’ la mocciosetta che si taglia perché fa figo. E’ fottuta stupidità e bisogno d’attenzione!

I giapponesi della stessa epoca hanno una logica molto aliena alla nostra, ma loro una logica ce l’hanno. E, a chiosa, Wulf, il più letale degli shinobi, non solo si fa notare come una ditata nell’occhio, ma è anche così gegno da dire al frate guardiano di essere un eretico.

“Un coglione scemo che si crede un coglione furbo”. Mernau, perché ci hai abbandonati?

Il frate sta, giustamente, per sbatterli fuori, quando l’abate Benno interviene.

“Come osi mandarli via?

“Ma, padre, quest’uomo è armato, insolente e si professa eretico…

“E allora? E’ un Buono!

“Ma signore, costoro sono probabilmente ricercati, magari a ragione, e…

“Fottiti, prete! Vuoi mandare a puttane la trama?

Sì, immagino sia andata più o meno così.

Willy-nilly, li fanno entrare e accomodare in refettorio per la cena.

Francescani, benedettini, trappisti, Mikla non aveva idea a quale ordine monastico

Dale, abbiamo capito che sei un po’ scema, ma per esser trappisti mi sembrano un po’ troppo chiacchieroni! A meno che in questa versione del seicento gli ordini non abbiano giocato a scambiarsi nomi e fondatori (ricordiamo, “i domenicani di Loyola”).

Dale e Caleb sono in fondo alla tavolata, in un refettorio semibuio, e stanno mangiando. Dale, che deve ricordarci di essere una povera impedita, si scopre per errore la testa (rasata a zero, il che la indica come una criminale in fuga).

Gli sguardi tornarono su di lei. Questa volta, tutti gli sguardi.

Come fanno a vederla tutti in una situazione simile? Non chiediamo. Il frate guardiano, tale Gerd, si alza e pretende di sapere perché le hanno rasato il cranio.

Ora, lasciamo perdere la realtà storica: ricordiamo che nell’universo di Altieri è considerato normale che un inquisitore stermini un convento di francescani perché hanno ospitato dei luterani e perché i loro sorci scombinano gli archivi della biblioteca! Altro che criminali in fuga.

Gerd fa prova di buonsenso, ma siccome sta trattando i Buoni con qualcosa di meno dolce che guanti di peluche morbidoso profumato alla lavanda, si attira prima il vaffanculo di Caleb (sempre sputare in faccia a chi ti accoglie e ti nutre!) e poi si fa richiamare dall’abate. Ma Gerd tiene duro. Anche Wulfgar appare, e per una volta la sua semplice presenza non basta a far crollare in terra l’avversario.

Fu l’abate Benno Frenkel ad alzarsi. «Può bastare così.»

L’abate passava Gerd di tutta la testa.

Eh già, perché il più grosso ha ragione. Bullo è bello, ricordatevelo!

La celebrazione della tirannia e della prepotenza vigliacca come cose fighe è così ricorrente in questo libro che ho arrotondato tutti gli spigoli di casa a testate.

Frattanto, Bolanos e falange sono arrivati a Bad-Hoc, dove il frate (l’unico a non sapere chi e perché ha distrutto il monastero) trova, sull’altare, un libro:

Della completa dipartita da questo mondo della Nobile Famiglia Germanica Sonderheim

anno Domini 1611

Fatemi capire, questi sono andati lì apposta per distruggere le prove e lasciano il libro lì, ancora parzialmente leggibile? Vabé, è la “mai sconfitta” falange del Cottolengo, ricordiamocelo.

Mentre Bolanos è lì, arriva Jan van der Kaal.

Comepregochi?

Ricapitoliamo: Bolanos sta a Wolfengrad, a mezza giornata da Bad-Hoch. Van der Kaal ha accompagnato Auberach ai confini delle terre Dekken, a un’altra giornata buona di viaggio (almeno). Al ritorno di Pecoraro a Wolfengrd, un messo viene mandato a Van der Kaal e Bolanos parte illico per Bad-Hoch. Come diavolo fanno ad arrivare praticamente insieme? Forse Van der Kaal ha imparato a manipolare lo spazio-tempo, come Dekken?

Ma torniamo a Leo.

Leopold guida la famiglia e Deveraux attraverso il vento di novembre, verso il cimitero. Un cimitero molto antico.

«Forse è qui da prima, molto prima di Magdeburg.» Lentamente, Leopold s’inoltrò in mezzo ai rovi, tra statue dai lineamenti indefiniti. «Quando il mondo era vuoto.»

“Questo mondo è del tutto spopolato, sai cosa gli ci vorrebbe? Un cazzo di cimitero!”

La stupidità di queste battue mi provoca dolore fisico.

Trovano il mausoleo indicato da Wulf, ma pare non esserci altro che due grossi sarcofagi, niente tunnel. Stanno per uscire quando…

«Vento…»

Heu, Leo, tira un forte vento da almeno tre pagine…

La fiamma era piegata. Come se le ombre e la pietra stessero cercando di risucchiarla.

Nella mia esperienza le bocche delle grotte soffiano aria fuori, e non viceversa, but, hey! This is Magdeburg! E un capitolo dopo l’aria soffia nel verso giusto. Una botta al cerchio e una alla botte, e siamo tutti felici!

Leo e soci scendono nel tunnel, dove trovano…

«Pipistrelli…»

And we jumped the shark!

Ogni volta che penso di aver toccato il fondo del retard, questo libro mi sorprende di nuovo. Adesso uno scienziato e un feroce guerriero sono convinti che i pipistrelli siano non so che strana razza di tritacarne volante o qualcosa del genere. Fatto sta che per poco non si cagano addosso. O forse ho male interpretato io. Forse sono atterriti dalla prospettiva di disturbare l’ibernazione del Rinolophus ferrumequinum.

Una dopo l’altra, anche le altre ali tornarono a richiudersi.

Il popolo delle tenebre di Magdeburg non aveva fretta, nessuna fretta.

Leopold? Grande sapiente e scienziato? Lettore di centinaia di libri? Siete in novembre, grazie al cazzo che non hanno fretta! Hai mai visto un pipistrello andare in giro a novembre? In Turingia?

I nostri telano, chiedendosi perché mei i pipistrelli non li abbiano mangiati. Giuro, non ho mai letto niente di così idiota in un romanzo.
Grand rhinolophe - Rhinolophus ferrumequinum, | Animals, Baby ...
Il flagello delle zanzare, il terrore dei moscerini!

Torniamo a Bad-Achen che è meglio, va’.
Dale, che poche ore prima stava morendo di polmonite, non ha più male al petto e ha quasi smesso di tossire. In meno di una serata. Miracoli della Turingia. Abbiamo anche un delizioso siparietto zuccheroso con lei e Caleb che si baciano. E perché no? Dopotutto lei ha subito torture, stupri di gruppo e due tentati omicidi solo due giorni prima.

Caleb esce, e trova Wulf che smartella allegramente in piena notte, magari sotto la finestra della cella di Gerd. Giusto per farsi amare. Eh, ma lui non può aspettare: deve fabbricare un bokken (che viene forgiato a martellate… wait, what?).

Il giorno dopo ripartono alla volte del fiume Lete. Ora, vi ricordate che per tutto il libro Wolf cerca di confondere le proprie tracce e fa percorsi assurdi perdendo un sacco di tempo ad minchiam? Ecco: è stato così furbo che non solo Van der Kaal ha indovinato che vuol passare il fiume, ma ha anche chiappato il guado giusto! Ma fidatevi, era tutto calcolato (stacce).

Il guado è a Lohrbeck, una cittadina di modeste dimensioni senza mura, senza ronda, senza portali d’ingresso, senza soffito, senza cucina, in via de’ matti numero zero. Dopotutto non c’è mica una guerra, nei paraggi.

Mentre Wulf va a intimidire i mercenari di guardia al ponte, Caleb e Dale vanno a fare la spesa (la gita dei bimbi speciali prevede pranzo al sacco). Sul luogo infuria una tormenta che acceca, ma nonostante tutto è giorno di mercato. O forse la neve acceca solo i cattivi che, SPOILER, stanno per arrivare.

Mentre Dale fruga sul banco dei pret-à-porter (no, non sto scherzando), Caleb viene aggredito da quattro dei suoi ex-compagni, giustamente incazzati. E io noto che questi rozzi mercenari riescono a intrufolarsi alle spalle delle loro vittime con molto più successo di Wulf. Forse i ninja dovevano prendere loro come allievi.

Wulf interviene, ma sulla collina appare la Falange di Arnhem. I nostri montano una trappola sul ponte e si preparano allo scontro finale, il più retard del romanzo.

Mettetevi comodi, servitevi una birra, preparate un cuscino per attutire il tonfo dei testicoli. Questo pezzo è GENIALE!

I Cattivi, accecati dalla bufera, caricano a spada tratta. Niente pistole, carabine, balestre, maiala di su’ ma in carrozza. Si fotta la distanza.

Van der Kaal spinse all’indietro la visiera dell’elmo, cercò di distinguere qualcosa al di là del fumo degli incendi

Quali incendi? O sarà la sempiterna cenere che Altieri ama spolverare su qualsiasi scenario? Dopotutto se fa figo in Silent Hill farà figo anche qui!

La situazione è così grumosa che i cattivi riescono a malapena a distinguere Wulf che, ricordiamolo, è un omone vestito di nero in un paesaggio innevato. Una parte di loro carica. E quando ormai sono a dieci yarde (circa nove metri?), vedono la trappola:

Grossa come il braccio di un uomo. All’altezza sbagliata, nel posto sbagliato.

Ancorata a U ai pilastri nord.

Ok, ok, frena un istante.

  1. Come ha fatto Wulfie a trovare una catena così grossa?
  2. Come ha fatto a sistemarla “a U tra i pilastri nord” senza una gru?
  3. Con che razza di tormenta apocalittica fanno il mercato, da quelle parti?
  4. Quattro.
  5. Botta di culo che chi costruì il ponte lì lo premunì di pilastri stile ponte di Brooklin, nell’evenienza che un giorno un ninja tedesco volesse sospendere una catena da nave per stecchire dei mercenari cattivi (gli architetti del seicento erano gente previdente).

Ma ora il pezzo forte!

Schatz strappò indietro le redini. Sentì la barra di ferro del morso squarciare, letteralmente squarciare, la bocca del cavallo. Forse Schatz urlò. O forse l’urlo fu solamente dentro la sua testa.
Il tenente Helmut Schatz pestò contro la catena con la stessa forza di un maglio su uno steccato di legno marcio. Entrambe le zampe anteriori del cavallo da guerra si spaccarono come giunchi nella tormenta. L’animale si attorcigliò sulla catena, crollò in avanti. Anche Schatz crollò in avanti. All’urto contro le travi coperte di neve congelata la sua colonna vertebrale si spezzò in tre punti.

E NON FINISCE QUI! L‘intero contingente di cavalleria riesce a ingolfarsi a tutta birra contro la catena e produrre un mucchio di carne macinata!

Corpi. Uomini, animali. Mescolati in un unico condotto di annientamento. I dragoni vennero a schiantarsi contro la catena a ondata. Un groviglio di arti, zampe, corazze, teste, viscere. Tre dragoni volarono oltre il ponte, guitti da incubo contro il cielo torbido. Picchiarono sulle rocce del Lete. Grosse eruzioni rosse si gonfiarono nelle rapide. I corpi vennero portati via dalla corrente tracciando altre scie rosse.
Il resto del gruppo d’assalto formò un covone purpureo a un terzo del ponte delle catene. Un tumulo di articolazioni sradicate, ossa spezzate, carni macellate. Correnti di sangue sciolsero lo strato di neve, filtrarono tra le fessure, grondarono nel fiume.

Mi sanguina il naso. Tutto ciò è troppo idiota per essere vero.

QUESTO E’ GENIO ALL’OPERA!

GENIO!


«Noooooo!» Jan van der Kaal perse bava e muco. «Maledetto! Noooooo!…»

Ossantidei! Ci manca solo Bolanos che si lascia sfuggire un “Gasp!”

In questo gran finale abbiamo il sunto glorioso di questa epica boiata: una base di solida stupidità impastata con nozioni inutili, tecnica fallace e sfondoni storici canditi. Il tutto glassato con gore a sconto semi-scaduto e infine una spolverata di sopraffino surrealismo.

Se Altieri avesse scritto un romanzo comico e autoironico, sarebbe forse stato un capolavoro assoluto. E non sto scherzando. C’è la creatività cialtrona, lo stile coatto, il sangue a secchiate. Come libro comico sarebbe un gioiellino imperdibile (e ripeto, sono serissima).

Ma no. Martelliamoci le balle tutti insieme e preghiamo Loyola, fondatore dei domenicani trappisti.

E ora il giudizio del GRUMPY.

Totale ignoranza della Storia sia Europea che Giapponese Bad_grumpy
Scene d’azione inverosimili e balorde Bad_grumpy
Descrizione inverosimile ed errata del funzionamento di armi e armature Bad_grumpy
Descrizione della razza umana che definire superficiale sarebbe farle un complimento Bad_grumpy
Comparse dal comportamento ridicolo, finalizzato solo a mandare avanti la trama a pedate o far risaltare la figaggine del protagonista Bad_grumpy
Comprimari privi di motivazioni o spessore psicologico Bad_grumpy
Protagonista affetto da ritardo mentale nei passaggi migliori, detestabile Gary Stu nella maggior parte del libro Bad_grumpy
Deveraux che combatte “annoiato” Bad_grumpy
Personaggi con “occhi intelligenti” che concorrono al Darwin Awards Bad_grumpy
Glorificazione di prepotenza, stupidità e tirannia Bad_grumpy
Totale mancanza di rispetto per uno dei periodi più tragici della nostra Storia Bad_grumpy
Italiano aleatorio Bad_grumpy
I dialoghi inutili e dolorosamente stupidi Bad_grumpy
I riassuntini gonzo-storici Bad_grumpy
La totale assenza di ogni seria documentazione Bad_grumpy
Capibara of Doom! Bad_grumpy
Voglio sapere chi è andato a piantare edera velenosa in Turingia! Bad_grumpy
I pret-à-porter venduti per strada sotto una bufera di neve Bad_grumpy
Le coincidenze idiote (tipo una catena da nave presente per caso in un paesello della campagna tedesca) Bad_grumpy
I flashbacks improponibili Bad_grumpy
I cattivi mentecatti Bad_grumpy
I personaggi che fanno la scansione per interi capitoli Bad_grumpy
Le coincidenze che guarda i casi della vita, non ci crederai mai, ma è andata proprio così, giurin giurello, credicelo Bad_grumpy
Kolstadt Bad_grumpy
Il Rinolophus ferrumequinum Bad_grumpy
Un romanzo sul 1630, e niente Hackapeliter! Bad_grumpy
Mernau Bad_grumpy

Ridateci Mernau. Non sarà stato un granché come personaggio, sed in terra caecorum…

Ma ormai è fatta! Festeggiamo! Musica e mazzate!

Parte I

Parte II

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Bibliografia (che non si dica che le note storiche me le sono tirate di testa)

BRZEZINSKI Richard, HOOK Richard, The army of Gustavus Adolphus 1, Infantry, Osprey Publishing, Oxford, 2000

Ibidem, The army of Gustavus Adolphus 2, Cavalry, Osprey Publishing, Oxford, 1999

TURNBULL Stephen, REYNOLDS Wayne, Ninja AD 1460-1650, Osprey Publishing, Oxford, 2012

Ibidem, Mongol Warrior 1200-1350, Osprey Publishing, Oxford, 2003

NATORI Masazumi, BORDAS Bernard, MAZUER Axel, Shōninki, Albin Michel, 2009

MUSASHI Miyamoto, Traité des Cinq Rues : Gorin no Shō, Albin Michel, 1983

YAGYUU Munenori, Le sabre de vie : Heihō Kadensho, Budo Editions, 2005

 

Recensione: Magdeburg-L’Eretico, parte II

Abbiamo già parlato dell’italiano aleatorio, della vacuità dei dialoghi, delle castronerie storiche (le più notevoli) e della bruttezza particolare delle scene d’azione. Abbiamo spolpato Magdeburg-L’Eretico e ora ci resta il nucleo: carcassa e viscere. Ma non temete, la carne attaccata all’osso è la migliore!
Parleremo infatti di trama e personaggi. Il caveat di questa puntata è:

La trama

E’ difficile riassumere questo libro. Un quarto delle pagine sono paragrafetti di Storia zeppi di nomi e date non indispensabili alla vicenda, infilati a random nei momenti meno adatti. Diversi capitoli si riassumono in: “il personaggio X viaggia per una TerraDesolataTM e pensa alla Storia della Guerra dei Trent’anni”!

Un esempio emblematico è la prima apparizione di madre Erika, che ci viene presentata fuori del monastero, mentre contempla una croce caduta. Alla domanda di una consorella se sia il caso di rialzarla, lei risponde che non hanno tempo. Peccato che poi continui ad ammirare il paesaggio e intrattenerci con elucubrazioni storiche di massacrante inutilità per concludere, a fine capitolo, “ok, ora possiamo raccattare la croce”. Cos’è, prima stava deframmentando?

Altro esempio di inutilità: il libro si apre con l’apparizione del protagonista, Wulfgar, il tizio in corpetto sadomaso e tatuaggi, in una notte buia e tempestosa. Originale. Peccato che il tipo non abbia niente da fare a parte timbrare il cartellino, e dopo qualche posa figa la scena è abbandonata. Il contributo di tutta la faccenda? Zero. Way to go!

Ma torniamo alla trama! Dopo l’inutile siparietto di cui sopra, ci spostiamo subito a Kolstadt: un monastero con biblioteca (con “migliaia” di documenti, il che ne farebbe un centro culturale di prima importanza in quello spicchio d’Europa, tenetelo a mente).

Se la terra aveva radici, una di esse era Kolstadt.

Ci mancherebbe. Peraltro, per una buffa coincidenza, se questo romanzo ha dei buchi di trama, uno di questi è proprio Kolstadt, il monastero-fortezza imponente e imprendibile:

Per un qualsiasi esercito assediante, prendere quella struttura sarebbe stato un incubo di massacro.

Peccato che meno di una pagina dopo, durante uno dei deliziosi flashback gonzo-storici, vien fuori che un inquisitore “dal nome dimenticato” un bel giorno decise di andar lì (dove stavan dei francescani, noti sostenitori del protestantesimo) e ammazzare tutti quanti.
Ora, io non voglio essere fiscale, ma…

• La ragione per cui l’inquisitore stermina i francescani è che questi ospitavano degli eretici (?), anche se poi non si trattava che di una scusa (?). Si intuisce che il fine principale era “bonificare” la biblioteca… e non poteva farlo coi francescani vivi?
• Avete letto che il monastero è inattaccabile, venti righe fa? Costui lo prende senza colpo ferire. Kolstadt sta alle fortificazioni come l’Armata Invincibile alle navi.
• Nessuno ricorda il nome di colui che ha massacrato tutti i frati di un monastero con una biblioteca così prestigiosa.
Ma come no, credibile! E’ come dire che nessuno si ricorda chi disse “nuts” all’assedio di Bastogne!

 

Madre Erika è la tizia che ci riassume questo molto verosimile antefatto, mentre fissa il vuoto con “occhi intelligenti”.
E qui abbiamo uno dei grossi problemi: i personaggi. Sorvoliamo sulla collezione di clichés (il guerriero taciturno e tormentato, il soldatino giovane e di buona volontà, la ragazza inutile tacciata di stregoneria, Il cattivo belloccio e glaciale…), il loro guaio è che sono tipi che vanno in giro per uno scenario già visto a fare cose di dubbia coerenza con una motivazione pari a zero. Che vogliono fare?
E non ditemi “Oh, Tengi, ma è solo il primo libro, lo scopriremo poi”, UNA BELLA SEGA! Le motivazioni sono ciò che fa muovere una storia! Una storia è A vuole B e per ottenerlo deve fare C. Non dico che le motivazioni debbano essere chiare dalla prima pagina, ma dal secondo capitolo dovrebbero almeno intuirsi! Magari cambieranno. Magari erano errate. Ma ci sono!
Nel libro di Altieri la metà del tempo i personaggi agiscono per una specie di slancio istintivo, ispirazione divina (l’autore gli avrà berciato “muoviti stronzo!” da dietro la telecamera). Non si ha mai l’impressione che debbano agire in quel modo. Caleb segue Wulfgar ma avrebbe potuto andarsene per cavoli suoi. Erika riapre la biblioteca maledetta perché una mattina appena alzata le gira così. Dekken manda Caleb dietro l’Eretico perché in quel momento gli gira di fare un dispettuccio al suo compagno di merende.
Inoltre, il libro risente dello stesso morbo di Hollywood: l’apparenza è tutto. I cattivi sono rozzi, coi denti marci, vanno a puttane e non si lavano (tranne Dekken, ma solo perché lui segue il cliché del cattivo raffinato). I buoni sono bellocci e hanno “gli occhi intelligenti”. Tanto valeva vestire gli uni di bianco e gli altri di nero.
E ovviamente i Buoni hanno ragione. Sempre ragione (lo ripeto perché Altieri ama la ridondanza).

Ora, la cosa che mi dà molto fastidio è che Altieri maneggia uno dei periodi più tragici della Storia europea senza il benché minimo riguardo. La Guerra dei Trent’anni è un coacervo di realtà tragiche. Prendete i mercenari. Sì, molti erano brutti e cattivi. Sì, molti erano stupratori e macellai. E molti di loro erano nati in posti di fame, con solo il mestiere delle armi come alternativa alla fossa. Alcuni sono nati durante la guerra, avranno avuto dei fratelli morti in guerra, hanno fatto la guerra per sopravvivere e sono morti in guerra. Nati, morti e vissuti nella brutalità e nel saccheggio. Altri sono stati arruolati a calci nel culo e spediti a morire di dissenteria in mezzo a gente che nemmeno parlava la loro lingua, mentre a casa i vecchi crepavano di stenti perché mancavano braccia sul podere.
Non sarebbe interessante rendere giustizia al tragico e all’orrifico? All’eroismo e al crimine? Non sarebbe interessante maneggiare gente vera con un minimo di rispetto?

No. I mercenari di Magdeburg sono tutti sporchi e cattivi senza redenzione, con la sola eccezione di Caleb, che non ha mai fatto niente di davvero sbagliato perché è Buono, e se sei un Buono in Magdeburg hai sempre l’opzione Scelta Giusta. Comodo. Molto comodo.

Ma torniamo a noi. Dopo Erika incontriamo Geldern e il Boss del libro, Reinhardt von Dekken che, quando non perde tempo a parlare a vanvera, cavalcare all’ombra di torri o pisciare su vecchie tombe (non sarò io a criticare i passatempi peculiari… c’è mica un cecoslovacco sbronzo in sala?), impiega le sue forze nell’intrigo. Lo si distingue dagli altri mini-boss perché ha tutte le caratteristiche dei Buoni, tranne la bontà: è bello, ha i denti sani, parla in modo ampolloso e dice cose superflue.

Dekken da ragazzo odiava suo padre e suo fratello, ed era apertamente contrario alle nozze di quest’ultimo con una luterana. Caso vuole che tutti i tizi di cui sopra siano assassinati (dai famosi cavalieri armati di picca e moschetto). Dekken rimane così unico erede, e la cosa non insospettisce NESSUNO.
Ora, vent’anni dopo, lui si sveglia, chiama un tizio e gli fa “sai coso, a volte ti guardi allo specchio e ti chiedi… ma come sono stati sterminati i miei?”
E ora vi do uno spoiler incredibile! Siete pronti? Oh mio Dio non ci crederete. Attenti eh. Concentratevi. Pronti?
Dekken e un altro nobile, Auerbach, hanno complottato la strage, vent’anni prima!

Ta da da dah!

Dekken vuole sapere se è rimasta una qualche traccia della sua colpevolezza.
Geldern che, in buona fede, ha svolto le sue ricerche, scopre che c’era un libro con prove compromettenti nel monastero di Bad-Hoch, ma, guarda te i casi della vita, il posto è stato attaccato da qualcuno, i monaci sterminati e tutto l’archivio bruciato (tenete a mente questo particolare).
Dekken viene a sapere che esiste un altro documento capace di incolparlo, scritto dal suo ex-confessore e ora galoppino, il gesuita Georg Nauhaus. Bene. Ora deve solo scoprire dove si trova tale documento.
Potrebbe semplicemente chiederlo a Geldern, che è in buona fede e non ha capito che il mastermind è Dekken (Geldern è un po’ cretino, come il 99% dei comprimari). But this is Magdeburg!
Dekken strizza il nome da Geldern prima di uccidere lui e famiglia (per far capire che è cattivo, nel caso fosse sfuggito a qualcuno). Il documento si trova a Kolstadt. Guarda te le coincidenze.
Ma torniamo a Wolfengrad, la città in cui il nostro protagonista ha fatto quell’indispensabile ingresso, e dove il domenicano Bolanos sta per bruciare la strega Mikla.
Mikla è un personaggio talmente inutile e lento di comprendonio che d’ora in poi la chiamerò Dale (ho già detto che mi piace il trash?).
Dale è molto bella, quindi è buona. E’ stata pestata e stuprata, ma non importa, perché Dale guarisce alla velocità della luce, cosa che, in questo libro, fanno tutti coloro che non muoiono sul colpo.
Purtroppo, proprio quando stanno per dare il via al barbeque e salvare il lettore dalla Damsel in DistressTM, Wulfgar interviene, e abbiamo quella splendida scena d’azione di cui ho parlato nella prima parte.
Wolf e Dale fuggono dalla porta sud (suppongo che, sempre grazie alle coincidenze fortuite, tutte le guardie fossero a pisciare) e si confondono coi non-monatti che vanno a bruciare i non-ebrei nei non-forni gonzo-storici.
Dale ha paura del contagio (uno sprazzo di realismo, fategli ciao, non tornerà più) ma Wolf la rassicura: sono sopravento.
La ragazza è sbalordita:

«Come riesci a capire tutto questo?»

Domandona! Capire da che parte tira il vento?! Merito dei sensi allenati dei ninja, bellezza. Watah!
Ma forse sono severa, Dale è di certo troppo rimbecillita dal trauma e dalla febbre… Possibile, ma no, visto che è abbastanza presente da rendersi conto che il tizio guida il cavallo in modo da confondere le tracce nel tramonto…
Wait… In città, qualche ora prima, era così buio che Wolf si “fondeva con le tenebre”, e ora è il tramonto? Come diavolo girava il pianeta, nel novembre del 1630?

Lasciamoli lì e torniamo a Wolfengrad, dove incontriamo il tenente Caleb Stark, un altro Buono, che investiga la piazza del rogo, dove i suoi uomini si sono fatti macellare. Bell’esempio di diligenza, tenente! Ma Caleb non era presente al momento del fattaccio perché voleva impedire ad altri soldati di aggredire dei monatti.
MASSI’, MOLTO CREDIBILE! Tanto nessuno ha mai avuto paura di mettere le mani addosso a un monatto o avvicinarsi al carro degli appestati.
CHECCAZZO!

 

Ad ogni modo, Caleb entra in una chiesa dove il prete Bolanos si fa curare l’occhio bruciato.

L’occhio non c’era più. Scoppiato, prosciugato dal fuoco. Orli ossei della cavità orbitale affioravano dalle grinze della pelle scavata dall’ustione.

Era una torcia o era napalm?
Peraltro, un’ustione del genere, senza un trattamento antibiotico, si infetterebbe nel giro di poco, e poche ore dopo l’incidente Bolanos dovrebbe essere in preda ai deliri della febbre, ovvio preludio alla sua dipartita, probabilmente nella settimana seguente.
E invece no!
Non solo Bolanos è perfettamente cosciente, ma il giorno dopo monta a cavallo per guidare l’inseguimento dell’eretico e due giorni dopo sente a stento dolore!
Bolanos non è l’unico a guarire in uno schioccare di dita: Dale, moribonda per la febbre, ha superato delirio e trauma il giorno dopo!
Ok, Dale viene curata da Wolf con l’agopuntura (e preferisco non pronunciarmi quanto quest’idea sia ridicola e insultante per l’intelligenza del lettore, dico solo: cool, multitask!).

Ma non divaghiamo. Tornando a Caleb, il nostro trova il modo di bisticciarsi col suo diretto superiore e gli punta la spada alla gola, ritrovandosi la pistola dell’avvesario alla testa.
Tralasciando il dettaglio che sono entrati armati in una chiesa (e no, NON era una cosa abituale, ma nessuno pare notare questo comportamento anomalo), l’ufficiale cattivo per poco non se la fa addosso per l’angoscia. Eh sì, perché un consumato mercenario reduce da mille battaglie di sicuro si caga sotto per un novellino (novellino che ha la testa contro la canna della sua pistola).
L’unica ragione per cui il romanzo di Altieri non finisce a pagina due, è la stessa che fa durare il film Soft Air un’ora e mezza o giù di lì: i cattivi sono così fottutamente lenti, che i buoni riescono sempre a cavarsela.
Ad ogni modo, Dekken s’interpone e scavalca Auerbach (datore di lavoro dei mercenari), ordinando a Caleb di riacchiappare l’Eretico.
Perché s’intromette?
Per far dispetto all’amichetto Auerbach. E perché Caleb deve entrare a far parte del party protagonista, come NESSUNO si aspetterà (spoiler!).
Gli vengono assegnati undici soldati “i primi a chiavarsi la strega”. Ve li elenco, perché dopo sarà utile: Mernau, Makoved, Opatow (l’uomo ubiquo), Landolfi, Ingbert, Pecoraro, Zagorje, Bovec, Harkeny, Krka, Giessen.
Giessen è un albino con gli occhi rossi. E’ ufficiale, la falange di Arnehm recluta i suoi alle paraolimpiadi. E’ la sola ipotesi che spiega la presenza di un albino (condizione che rende l’uomo gravemente miope).
Ma che bisogno c’era? Sarebbe cambiato qualcosa se Giessen (che muore dopo un paio di scene) fosse stato una persona normale? Sarebbe stato sensato. E questo non è un libro sensato, questa non è una storia, questa è una boiata.
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Parentesi storica di contorno: i soldati della Guerra dei Trent’anni. (potete saltare oltre se non v’interessa)

Tanto perché questo articolo non sia tutto centrato su Altieri, ho deciso di unserire un piccolo intermezzo storico. Non intendo trattare in dettaglio gli eserciti di questo periodo (almeno per ora), ma solo darvi un esempio breve, per avere un piccolo assaggio. Ecco quindi a voi la fanteria svedese di Gustavo Adolfo.

 Moschettiere

La fanteria di Gustavo Adolfo era composta in parte da mercenari, in parte da coscritti. Riguardo a questi ultimi, a partire dal 1620 tutti gli uomini validi sopra i 15 anni e sotto i 40 potevano essere chiamati alle armi. Quando veniva ordinata una leva, tutti i coscrivibili di un distretto venivano radunati e messi in file di dieci. Di questi, se ne prendeva uno da mandare all’addestramento, e gli altri 9 pagavano per il suo equipaggiamento.

Tra il 1626 e il 1630 furono arruolati mediamente 10.000 uomini l’anno (il 2% della popolazione maschile). Per certe zone fu un disastro. Prendete il caso di Bygdea, dove solo 15 dei 230 coscritti tornarono vivi. La mortalità era altissima (essere arruolato equivaleva quasi a una condanna a morte), e la causa di morte principale era la malattia.

Per non strizzare troppo una popolazione già malridotta, Gustavo aumentò l’impiego di mercenari, volontari attratti dai soldi e dalla possibilità di una rapida carriera (si veda la folgorante ascesa di Christof von Huowald). In pratica, un colonnello (AKA, ricco avventuriero) riceveva una patente per arruolare un reggimento, che poi gli apparteneva.

Come in altri eserciti protestanti, i reggimenti mercenari al soldo degli svedesi portavano nomi di colori (Blu, Grigio, Rosso e Verde). In principio ogni reggimento contava 8 compagnie, che Gustavo aumentò a 12 nel 1629-1630, in vista delle operazioni in Germania.

Ma veniamo alle armi della fanteria.

Il “vero” moschetto svedese era grosso e pesante (7,5 Kg), con proiettili di 19,7 mm. Il peso e il rinculo erano tali che non poteva essere messo in mano al primo pirla che passava. Per i primi pirla c’erano i “mezzi” moschetti, fatti su modello olandese, con palle di 18,6 mm e un peso tra i 6 e i 6,5 Kg.
Si dice che Gustavo abbia soppresso l’uso del puntello per appoggiare la canna, ma è in parte scorretto. In un ordine del 1631 a Luis de Geer i puntelli sono richiesti, e si capisce che nel 1632, se alcuni moschettieri ne facevano a meno, altri li usavano ancora.

Picchiere

I moschettieri non erano gli unici soldati. Se gli svedesi ne avevano buscate dai polacchi, era stato perché i loro picchieri facevano schifo. Gustavo prese cura di riformarli. Da un lato, adottarono le swinefeathers, picche tra i 5 e i 6 piedi, spesse 4 dita, con una punta da un lato e un puntale di metallo all’altra estremità. Piantate nel terreno e orientate all’altezza del petto del cavallo, facevano dei buoni cavalli di frisia, ma pare siano in parte passate di moda (salvo uso saltuario) dopo il 1626.

Inoltre, i soldati furono meglio armati. La lama della picca del 1630 poteva essere a sezione piatta o quadrangolare, e il metallo serrava i lati dell’asta fino a 50 cm o 1m. L’asta stessa era del diametro di 3,5 cm al centro (si affinava alle estremità), e poteva essere lunga tra i 5,2 e i 5,4 m (ora capite perché è cretino metterle in mano a dei cavaieri).
Il picchiere era più protetto del moschettiere, dacché oltre all’elmo aveva una corazza e piastre per le cosce (dopo la morte di Gustavo le cose andarono un po’ a puttane e nel 1640 i picchieri erano di nuovo mal protetti).

Infine, i fanti avevano, in teoria, una spada. Ora, è complicato decidere che tipo di spada e di che qualità, perché è praticamente impossibile (as far as I know) identificare con certezza quelle dei fanti nelle armerie. Si tratta di un’arma costosa e pare che in realtà molti ne facessero a meno. Ad esempio, nel 1626, in Prussia, molti fanti svedesi avrebbero optato per le più economiche (ma molto pratiche) asce e accette.

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Torniamo a noi e spostiamoci su un altro dei plots: le disavventure tragicomiche di Deveraux, “osservatore” di Richelieu, che va in giro di testa sua, intrattenendoci con interessantissime parentesi alla Piero Angela e riflessioni così profonde che per leggerle ho dovuto zavorrarmi.
Quando non dice cose inutili, è alla ricerca di Wolf e si mette in mostra in modi stupidi e controproducenti, solo per il gusto di finire nei guai e tirarsene fuori grazie alla sua superiorità fisica e sociale. Perché se questo coacervo di nonsense ha un messaggio, è che bullo è bello.
Deveraux arriva a Magdeburg, dove lo attende la guardia in assetto di guerra. Non necessario, pensa Deveraux, dato che ci sono due fortezze nei dintorni a proteggela (Deveraux è francese, quindi suppongo sia verosimile che non capisca un cazzo di tattica).

Ovviamente anche questi soldati sono stupidi, cattivi e coi denti sporchi. E lo fanno aspettare mentre mandano a cercare qualcuno che possa leggere i suoi documenti. Scandalo!

Siccome piove, Deveraux decide di togliersi il cappello.

Perché? ‘Cause the plot must go on, bitches! Si toglie il cappello perché così facendo muove il mantello e il sergente vede la katana!
Sì, ha una katana anche lui. E la usa senza nessun disagio, pur non avendo il mignolo sinistro (amputato alla radice).
E’ un’annosa questione: quale dito posso tagliare al personaggio senza invalidare le sue mirabolanti doti belliche?

Il mignolo della mano sinistra! Ma sì! Dopotutto è solo il dito che effettivamente serra e regge il peso della katana in qualsiasi fottuta scuola di scherma giapponese mai esistita.
Ora, non dico che se non hai quel dito non puoi usare una katana, ma probabilmente ti buscherai una fastidiosa tendinite. Deveraux non prova alcun disagio. Fail.
Ad ogni modo, il sergente alla porta la vede e decide di prendergliela (perché è normale per un piantone derubare uno straniero ben vestito che viaggia con documenti ufficiaPORCO GIUDA!). Deveraux gli taglia la picca in due.

Tranciata di netto a metà, come mutilata da un elfo beffardo.

Sparatemi.

Un uomo si frappone: Leopold Klein, l’ebreo costruttore di lenti e fabbricante di armi.

Il giudeo, quello che capiva le righe scritte. Solo che non aveva affatto l’aspetto di un giudeo. Niente naso a becco, niente capelli neri arricciati, niente labbra carnose. I tratti del volto rasato di Leopold Klein erano precisi, quasi raffinati. Intelligenti occhi azzurri brillavano sotto una fronte alta, definita da lisci capelli castani.

Non si capisce bene se a parlare è Deveraux o il Narratore. In ogni caso dimentica che noi ebrei abbiamo anche le unghie adunche e l’attaccatura dell’anca sbilenca. Ah, e ci divertiamo a sparare sui chierichetti palestinesi!

Comunque Leopold è buono. Anche perché fare un giudeo cattivo sarebbe stato politically uncorrect. I cattivi possono essere al massimo israeliani.
Klein guida Deveraux attraverso Magdeburg e i due scambiano i soliti discorsi inutili. Scopriamo, combinazione delle combinazioni (questo libro va avanti a botte di coincidenze nei denti), che Klein conosce Wulf. In tutta Magdeburg, un tizio a caso scelto solo perché sa leggere è anche il solo ad avere informazioni sul ninja peggiore di sempre. What are the odds!
Nonostante Klein intuisca per primo che Deveraux è sulle tracce del tizio e NON abbia intenzione di aiutarlo, confessa spontaneamente di conoscerlo. E meno male che aveva gli occhi intelligenti.
Ma lasciamo Deveraux coi suoi dilemmi e andiamo a far conoscenza con… indovinate? Esatto, un altro Buono Assolutamente Indispensabile per la Trama. Si tratta di Alessandro Colonna. Si capisce che è buono perché picchia gente più debole di lui e si mostra sprezzante e prepotente verso i subalterni.

Ci tengo a fare una parentesi: io non sono buonista né benpensante. Non ci vedo niente di male nel picchiare qualcuno che se lo merita. E’ soltanto che la formula “Buono sfrutta la superiorità fisica e sociale per bistrattare una qualche comparsa subalterna simbolo del Male e della Stupidità” è più frequente in questo “libro” che gli scioperi della SNCF a Parigi.
Tra l’altro è una formula maldestra, perché il più delle volte il subordinato non fa altro che il suo dovere (si veda più avanti un povero sergente delle guardie svizzere).

Ma torniamo a Colonna. Il suo apporto in questo volume è fondamentale. Infatti si riassume in:
si scopa una Farnese e va a Roma per parlare col Papa. No, il dialogo col Papa non è compreso in questo volume. Ma abbiamo un sacco di pagine con lui che fa il bulletto di periferia! Mince, ça valait la peine!
Seguiamo Alessandro fino a Roma, dove incontra una comitiva di flagellanti. Nella processione si nasconde un Pasquino, un altro tizio con gli occhi intelligenti (ergo candidato al Darwin Award), che decide di andare a insultare il Papa sotto il naso delle guardie svizzere. Ovviamente un sergente lo sente e lo acciuffa subito, lo malmena un po’ e gli trova nelle tasche una manciata di pasquinate. Ho detto che aveva gli occhi intelligenti?
Io sono dell’opinione che gli idioti meritino di morire, ma Alessandro interviene e, mostrando il più sfacciato disprezzo per un soldato che fa il suo onesto dovere approfitta della sua posizione per bulleggiarlo.
Perché? Per ripicca, pare. Altieri, so che stai cercando di farmelo stare simpatico come irriverente anticonformista, ma non attacca: io odio i prepotenti che fanno leva sul loro grado o sulla loro forza fisica per opprimere i più deboli, e di questi cani il romanzo rigurgita.
Alessandro arriva in piazza San Pietro, dove i soldati stanno prendendo a cannonate degli uccelli (!).

Tre, quattro bordate di grosso calibro

Io non voglio sapere chi è che ha equipaggiato gli uccellatori.

Tornando a Caleb…
Caleb va alla porta sud della città e chiede alle guardie se…
Ah no, scusate, siamo in un romanzo di Altieri. Dicevo, va alla porta sud e…

Tracce profonde, lasciate da un cavallo montato da un uomo in armatura pesante. Oppure da due creature dell’inferno.
L’eretico era andato a sud.

Sono le loro tracce di sicuro, nessun errore possibile, soprattutto contando che una numerosa milizia mercenaria con cavalleria pesante sta facendo i cavoli propri nella zona.
Vabé, Caleb è sicuro. Mi ricorda quella scena delirante del Signore degli Anelli (il film) in cui Aragorn cerca (e trova!) tracce di due hobbit su un campo di battaglia dove c’è appena stata una carica di cavalleria catafratta.
Caleb è così un gegno della lettura delle tracce che si rende conto che l’eretico fa solo finta di confonderle!
Questo è per parare il fatto che Wulf in continuazione cerca di depistare gli inseguitori senza MAI riuscirci. Ovviamente ciò non vuol dire che Wolf sia un mona, ma che sta fingendo! Logico!
No, sul serio: più avanti nella storia i fuggitivi faranno percorsi assurdi perdendo un sacco di tempo (circa, vedremo che o il tutto si svolge in un territorio grande come il comune di Forte dei Marmi o le giornate in Turingia durano 76 ore) senza mai riuscire a seminare i loro inseguitori. Anzi, i cattivi capiscono, nonostante tutti i giri di Wolf, da quale guado vuole passare, e lo precedono. Ma ovviamente anche questo era previsto. Perché Wolf non ci è, ci fa.

Palle: il protagonista è un bischero, o, per dirla con le parole di Mernau

«È un coglione scemo che si crede un coglione furbo»

Grazie!
La caccia continua.

I Reiter mugugnarono. Dovevano pisciare, volevano mangiare.

Uomini duri, non c’è che dire. Sono così presi dai loro piccoli guai che non si rendono nemmeno conto di un miracolo epocale: stando ad Altieri, fanno una sosta in un rudere dai muri coperti di “edera velenosa“.
O è l’ennesima idiozia, o quello è il primo esemplare di edera velenosa in Europa! Perché continuare co’ ‘sta fregnaccia dell’eretico? Io voglio sapere la storia di questa pianta. Chi l’ha portata, chi la piantata, perché…

Sarebbe molto più interessante di ciò che segue…

Caleb e compagni arrivano a Bad-Hoch, e il tenente scopre che i suoi sono già stati sul posto, tre anni prima: a sterminare i frati per conto di Dekken e Auerbach. Visto che Caleb è nella falange da quattro anni, com’è che non ne sa niente?
Forse perché è stupido. O forse quando hanno saccheggiato il monastero lui era in settimana bianca.

E fate la ola per la centomillesima coincidenza fortunata del libro: che caso che i primi undici a scoparsi la ragazza siano anche stati tutti coinvolti in quella brutta faccenda di Bad-Hoch, vero?
I nostri avanzano verso le rovine, vedono l’eretico, e uno di loro, Ingbert, decide di spacciarlo con un tiro di moschetto.

«Sono almeno settanta yarde, forse ottanta.[…]Con nebbia, con vento forte.»

Condivido le perplessità di Caleb, ma la questione non si pone, perché Wolf spaccia il tizio e un altro mercenario con due frecce-patriot.

Vorrei aprire una piccola parentesi. Secondo il numero Osprey Mongol Warriors, un arco mongolo fa 120lb o più, leggermente più potente (se non erro) del nostro celebre longbow. Questa meraviglia composita buca a 137 metri circa di distanza, ma è mortale a 27 metri.
Ne consegue che l’arco di Wolf ha il doppio del libraggio di un arco mongolo. Stando alle parole di Klein, anche di più: il triplo di un long bow!
So che l’ho già chiesto, ma What The Fuck?! Un oggetto simile non sarebbe utilizzabile!
Tra l’altro la prima freccia colpisce il tizio sotto l’occhio e lo mantiene inchiodato a un albero, la terza sfonda una dannata corazza. Io direi che duecentosettanta libbre a quell’arco non gliele toglie nessuno.
Ma forse le armature della falange (falange che serve uno degli uomini più ricchi e potenti di Germania) sono fatte di stagnola e cartapesta, visto che quando Caleb cerca di prende la spada del reiter dalla corazza bucata, questa è bloccata nel fodero deformato dalla caduta.

Intanto i suoi compagni sono arrivati, senza ulteriori incidenti, all’ingresso. Mernau prende il comando (dopo aver intelligentemente sparato a caso per scaricare la pistola… non chiedete).
E questa ve la cito tutta.

«Opatow, Landolfi, Giessen!»
«Agli ordini!»
«Prima linea di avanzata!»
Mernau si sporse a scrutare nel tunnel dell’ingresso. Macerie, detriti, ombre pesanti. Nel chiostro, erbacce alte quasi quanto un uomo si torcevano nel vento.
«Bovec, Zagorje, Opatow: seconda linea di avanzata!»
«Agli ordini!»

Notato nulla? Un aiutino: Ingbert e Krka sono morti.
Sì. A meno che non sia un refuso dell’ebook, Opatow riesce a essere in prima e seconda linea, Makoved e Harkeny sono spariti. E io mi chiedo come sia umanamente possibile fare un errore del genere.
La prima linea entra nella galleria d’ingresso.

Qualcosa scricchiolò.
«Cazzo! No!…» Era Makoved.

Toh, è ricomparso.
I soldati hanno tirato una corda, che ha azionato una terribile trappola (la versione rinascimental-retard di Mamma ho perso l’aereo): un secchio pieno di viscere di cane si rovescia loro addosso. Dotta citazione da Carrie di King. Adesso cominceranno a far volare la roba e avere le mestruazioni.
Purtroppo no, il secchio che ondeggiava sopra di loro si stacca da solo e prende in testa Bovec.
Poco male direte voi. Invece

Crack! Non legno spezzato: vertebre demolite. Bovec crollò sui detriti.
Aveva il cranio rivoltato di tre quarti sulla spalla destra.

Prima il ritardato che non sa schiacciare un grilletto, poi l’albino, ora quello con l’osteoporosi. For the win!
Zagorje invece deve essere un fuscello anoressico, visto che una freccia di Wolf nel collo basta a “sollevarlo da terra come una bambola di stracci”. O forse è l’ennesimo miracolo della balistica teleguidata rinascimentale.
Harkney ricompare dal nulla per morire subito. L’ombra dell’eretico si staglia sulla soglia e i mercenari tirano alla cieca. Perché sparare alla sagoma nitida di un uomo grande e grosso in uno spazio confinato è molto complicato. I cattivi non sanno mirare. Ennesimo becero, putrido, marcio e decadente cliché.
I superstiti fanno irruzione nel chiostro, dove Mernau ha una brillante idea:

«Io ammazzo la strega!» Mernau corse verso le scale in rovina sul porticato nord del chiostro. «Voi sgozzate quel bastardo eretico!»

E nessuno ha niente da ridire.
Mentre Mernau esce di scena, succedono cose… che non so spiegare.

L’erba cambiò forma. Divenne un solco. Il solco divenne un fluire d’acciaio. La mano sinistra del Reiter Opatow volò via nei vapori.

… Non guardate me, non ho la minima idea di cosa significhi.

Giessen e Pecoraro aprirono il fuoco. Wulfgar eseguì una torsione nel vento, fuori da entrambe le linee di tiro.

Il romanzo di Altieri è come un film d’azione cinese degli anni settanta, senza i rumori scemi, il divertimento, l’autoironia, la comicità sempliciotta e Jet Li ventenne a torso nudo.
Tra l’altro, non c’è niente di più noioso di un combattimento in cui si sa benissimo che l’eroe è troppo figo per subire anche solo un graffio. Fagli male, cazzo, non ho pagato venti euro per vederlo attraversare il libro indenne!

Pecoraro partì in un nuovo assalto assieme a Giessen, spade come randelli tra le mani guantate di entrambi. L’acciaio ricurvo del viandante in nero si inchiodò con le lame dritte della Pappenheimer.

Meno male che entrambi sono partiti su un fendente, se fossero partiti con un dritto ridoppio e un roverso tondo sarebbe finita male.

Wulfgar lasciò partire un calcio frontale sinistro. Giessen incassò duro sotto la cintura, annaspò per controllare la difesa. Wulfgar falciò in orizzontale ascendente [orizzontale o ascendente?], da destra a sinistra. Colpo di decapitazione. La testa del Reiter Giessen ruotò sull’asse vertebrale come una trottola grottesca.

Se tutto il libro non fosse pervaso da pretenziosa retorica, tutto questo gonzo-splatter-gore potrebbe piacermi. Peccato che questa roba non sappia decidere se essere una boiata spassosa o una puttanata noiosa.
Ad ogni modo, alla fine Pecoraro (unico superstite del chiostro) fugge, indementito dall’orrore.
Sì lo so che è un mercenario della falange più balorda di sempre. Infatti secondo me non è la mattanza a sconvolgerlo, quanto la devastante faigosità di Wulfie.
Ma non vi ho detto che cos’è successo a Mernau! Ebbene, riesce a sorprendere Dale alle spalle. Un uomo in armi è entrato nella stanza, è scivolato dietro di lei e lei non se n’è accorta. Non sfugge niente a costei!


Mernau la prende in ostaggio e si mette di sbieco verso la porta, in modo da usarla come scudo umano contro l’eretico. Ma non serve a niente, perché Caleb emerge dalla porta e interviene in favore della strega.
Perché?
E perché Mernau non l’ha visto arrivare?
Annose questioni a cui Altieri non risponde col comodo stratagemma “nessuno dei personaggi si pone l’ovvia domanda”.
Caleb sta per farsi ammazzare (e ormai me lo auguro), ma Wolf interviene e ammazza il cattivo, imbarca Caleb nell’avventura e gli rifila uno dei suoi ciondoli tarocchi, l’acqua.

E torniamo da Madre Erika, che ci delizia con l’ennesimo flashback. Ricordate l’inquisitore che era sparito nella biblioteca? Apparentemente si è trasformato nel topo mannaro di Unika.
Le suore si accorgono che qualcosa nella biblioteca non va: ci sono dei libri “fuori posto”. Ne deducono che devono esserci dei topi. Perché i topi di Turingia i libri non li mangiano, li leggono e non li rimettono a posto, una vera piaga!

Secondo il retrolampo, una volta scoperto dei topi, un paesano del luogo porta due gatti. In un susseguirsi di azioni assurde, gatti, paesano e una suora ci lasciano le pelle quando un ratto grosso come un cane salta fuori. Madre Erika riesce a cecargli un occhio e uscire a precipizio. E va bene, abbiamo assodato che in una biblioteca da migliaia di documenti c’è un mostro antropofago. Cosa viene fatto a questo proposito?

Nulla.

La biblioteca viene chiusa. Con tutti i libri dentro. Non ci provano nemmeno a recuperarli, semplicemente chiudono tutto e buona notte al secchio. Molto credibile, specie nel 1630.
E per aggiungere idiozia a incoerenza, quando Madre Erika rientra nella biblioteca, si capisce che le finestre non sono sbarrate né hanno vetri o impannate. Hanno chiuso un ratto in un posto aperto. Ma per loro fortuna la bestiaccia era troppo occupata a scombinare l’archivio per rendersene conto.

All’alba, Erika si sveglia e, ispirata da un corvo (?), decide di tornare in biblioteca. Perché sì.
La madre superiora dagli occhi intelligenti lascia la chiave nella serratura esterna: una ventata sbatte la porta (che evidentemente non ha una maniglia ed è di sottilissimo legno compensato) e lei si trova bloccata dentro. Comincio a pensare che nel dubbio italiano di Altieri “occhi intelligenti” sia sinonimo di “idiota oltre ogni grazia divina”.
Ma il capibara mannaro appare!

Kenya de Nippon on Twitter: "I met a capybara and couldn't resist ...

Lei trova il libro che il topo vuole distruggere da anni e che miracolosamente si risolve a cercare solo in quel omento, ma si trova intrappolata. Da un momento all’altro il ratto la ucciderà!

«Che cosa aspetti?»
L’inquisitore dei topi tornò a sibilare.

E ci risiamo: la sola ragione per cui i buoni se la cavano, è perché i cattivi sono una manica di ritardati mentali.
Segue intervento del fantomatico corvo e alla fine Erika ammazza il mostro piantandogli un crocifisso nel cranio. Con una mano sola. Kneel to the fighting nun!


“Molto dopo”, le consorelle la liberano (è un tardo pomeriggio ora!). Perché nessuno aveva notato l’assenza della badessa e la chiave infilata nella toppa della serratura proibita. In questo convento tutto funziona come un orologio svizzero, non c’è che dire.
Quale opera rarissima e unica al mondo sarà quella che il capibara mannaro aveva deciso di distruggere quel pomeriggio?
La Bibbia tradotta da Lutero.
E’ ufficiale, questo libro è una candid camera.

Non è finita purtroppo, e il peggio (la lama della famosa roncola) ha ancora da venire. Preparatevi, perché una scena degna dei Monty Python corona questo disastro editoriale.

E ora, in memoria di quel cataclisma umano che fu la Guerra dei Trent’anni, MUSICA!

P.S. Per chi se la fosse persa, qui la prima parte.

Recensione: Magdeburg-L’Eretico, parte I

Ho deciso di inaugurare la sezione “narrativa”. Si parlerà di romanzi belli, romanzi scarsi, romanzi brutti. E anche di abomini agli occhi degli Uomini e degli Dei. La prima recensione appartiene all’ultima categoria.


Era l’Anno del Signore 2005 quando il morbo allungò le sue zampe d’aracnide nelle librerie. Il Male aveva una faccia, e il Male aveva un nome, e tutt’ora Wikipedia lo descrive come “romanzo storico-gotico, seppur con leggere contaminazioni fantasy”.

Questo libro è contaminazione, è il T-virus della letteratura!

Sì, sto parlando di lui. Il Palpatine dell’editoria. L’autore italiano che non sa l’italiano. Il multiforme Alan D. Altieri.
Era il 2005, io avevo diciassette anni, ero giovane, ingenua e con la testolina piena di sogni. Ed è in pura buona fede che comprai per l’insana cifra di DICIOTTO EURO Magdeburg – L’Eretico.
Quel libro fu uno dei gradini verso la disillusione. Se finirò vecchia zitella alcolizzata in una roulotte piena di gatti, lo devo anche a quel libro. Accetto e abbraccio il mio karma. Ma come disse Burke: All that is necessary for the triumph of evil is that good men do nothing.
Troppe volte ho parlato con gente che giudica questo un buon libro. Troppe volte mi hanno chiesto « perché, cos’ha che non va ? »
Sarebbe più facile dire cos’ha che va.
Questa volta ho deciso di spiegare i principali fattori che fanno di questo libro un’immonda chiavica di immondizia e putridume.
E metto qui due caveat :
– io non chiudo un libro per lo stile (salvo casi limite). Sono di bocca buona: sono una a cui puoi scodellare una sbobba immonda, basta sia ricca in proteine. Lo stile di Altieri è ampolloso e ridondante, MA non per forza sgradevole. Pur essendo una raffinata fanciulla di buona famiglia, ho un gusto colpevole per ciò che è trash e cialtrone. Per intenderci, Riki-Oh è uno dei miei film preferiti. Non crede di essere un film serio, vuole essere un film idiota pieno di smembramenti deliranti! E funziona!
L’Eretico ha troppa pretenzione per essere divertente e troppi elementi retard per essere serio.

-Non sto dando alcun giudizio sulla gente a cui questo libro piace. I gusti sono gusti. Concedo alla plebe il diritto di godere della robaccia (e poi non dite che non sono magnanima!). Sacrebleu, io stessa apprezzo la robaccia, ogni tanto! Il punto è: oggettivamente questa roba è pattume. Puoi godertela lo stesso, come io mi godo le patatine al gusto pancetta fritte nel grasso di liposuzione (non guardatemi così, sono saporite ed eco-friendly!). Basta esser coscienti del fatto che è merda.
Detto questo, allacciate le maschere antigas, infilate i guanti e prendete un bel respiro…


Il linguaggio.
Altieri non sa l’italiano. Se io avessi scritto certa roba in un tema de l liceo, il mio professore sarebbe venuto a cercarmi a casa per farmelo mangiare. E avrebbe avuto ragione.
Una delle prime cose che salta agli occhi è l’espressione “armatura toracica”. A casa mia, quella cosa di metallo che copre il torso si chiama corazza. Le uniche volte che ho sentito parlare di “armatura toracica” è stato in riferimento a bestie tipo i limuli (che il Tapiro conoscerà di certo).
Può darsi che su questo mi sbagli io. Prima di fustigarmi la natiche però, sappiate che c’è altro!

Tipo l’uso ad minchiam del termine “simulacro”.

Grandi chiavi incrociate sotto una tiara simile a un simulacro

Simile a un simulacro“. Giuro che queste quattro parole continuano a infestare i miei incubi.

Furono in uno spazio dal lastrico dilaniato, pieno di simulacri abitati dal vento e dai corvi.

Quindi i simulacri sarebbero tipo dei trespoli per uccelli? Casette per pennuti? Pollai? Una a caso di queste, ma a forma di tiara? Mi appello all’autore: cosa significa secondo lei “simulacro”? Perché sa, in lingua italiana standard, queste frasi non vogliono dire nulla.

Ma Altieri ama non dire nulla. Certe frasi o interi capitoli sono lì solo per riempire il foglio. Tipo quando un personaggio termina una frase con un punto fermo e l’autore ci informa che “non era una domanda”. Sans blague! Sapete gente, ho ottenuto con successo la quinta elementare, so riconoscere un punto interrogativo quando ne vedo uno! (Lo so, sono una ragazza speciale! Lo diceva anche la maestra di sostegno!)
Parlando di ovvietà, Altieri ci tiene ad esempio a precisare che la coda del mostro più ridicolo delle Umane Lettere è di “duro cuoio organico“.
Ma dai?! Non in sintetico? Peccato. Mancata deriva retrofuturista, au grand dam de mon cher ami le Duc.
E non dimentichiamoci del protagonista!

L’eretico impugnava un arco da tiro.

Un arco da tiro?! Parbleu! Meno male che specifica, o me lo sarei immaginato con in braccio un arco scemo!
Potrò sembrare acida, ma un terzo del libro è costituito da cose superflue. A un certo punto una si sente un pelo presa per il culo!

Un’altra parola che Altieri ama molto è “rostro”.

In molti punti del labirinto, simili a rostri che cercavano di artigliare il cielo, si ergevano le cupole delle cattedrali e i pinnacoli dei campanili.

Vada per i pinnacoli, ma come diavolo fa una cupola ad assomigliare a un rostro?
Forse Altieri non sa nemmeno cosa significa “rostro”:

Della porta rimanevano solamente pochi rostri di granito.

Appunto.
Questo mi ricorda la Troisi, quando scriveva di gente carponi che avanzava spedita.
La mancanza di vocabolario frega Altieri anche quando cerca di dare una qualsivoglia consistenza a scenari che altrimenti sono riassumibili con “un posto a caso”.
Parlando di Magdeburg:

Botteghe, stallatici, taverne, altre botteghe.

Il grassetto è mio. E quando si dice un posto di merda. Ora m’immagino la città come un susseguirsi di costruzioni, botteghe e cumuli di letame alti tre piani. Sarà la nuova moda venuta da Praga? Nel caso tu debba defenestrare qualcuno…
(Sì, in certi rari casi “stallatico” può significare “stalla”, ma è ormai usato solo per indicare il letame)

Il vero guaio è quando l’autore inserisce qualcosa solo perché suona bene, e, peggio che mai, lo mette in bocca a un personaggio.

Nient’altro che pezzi di pergamena, mortalmente vero.» Augustus respira profondamente. «E la pergamena brucia rapida.

No Altieri, la pergamena brucia poco e male, e questo Augustus lo sa. Lo so che “è per dire”, ma sarebbe come se io me ne uscissi con:
-Gli Accordi di Schengen non sono che un file, e i file bruciano rapidi.
Che senso avrebbe?
Nessuno. Ma Magdeburg non ha senso. Altieri non è uno scrittore e questo non è un libro, è un cazzo di Pesce d’Aprile!
E ce n’è ancora!

Sotto la giubba di cuoio, le sue spalle larghe sembrano estensioni delle querce.

Che dovrebbe significare? Che sono di legno? Cariche di ghiande? Sotto ci sono i tartufi? Questa fa il paio con i “muscoli scalpitanti come cavalli imbizzarriti al sole” di sorrentiana memoria.

Il viandante in nero parve danzare sul confine del vuoto.

E‘ ufficiale Alan, mi stai prendendo per il culo. Mi hai appena afferrato le mele con ambo le mani e ci stai affondando le grinfie. Alla prossima frase senza senso ti denuncio per molestie.
Cosa.diavolo.significa.questa.frase? Perché per quanto mi riguarda l’unico tizio che io abbia mai visto danzare sul confine del vuoto è costui.

E la mancanza di chiodi, per dirla all’albionese, coinvolge anche il regno animale.

Il cavallo da guerra bevve a lungo, la lingua calda e ruvida che affondava ritmicamente nella corrente.

Altieri, è un cavallo, non un cane. Perché non una scena in cui da’ la zampa, a ‘sto punto?

I Dialoghi
Il libro di Altieri è un’esperienza dal sapore Buddista. Lo leggi, e sperimenti il Nulla. Difatti, se non bastassero le parti in cui l’autore sciorina parole a caso dal sussidiario Ortografia degli aggettivi lunghi (Immonda Dori edizioni), ci sono i dialoghi. Leggerne uno è come farmi svuotare un dente. L’anestesia mi ottunde i sensi, il fastidio mi sbriciola il fegato e la durata di questo triviale supplizio mi sfibra l’anima.
Nella maggior parte dei casi si tratta di pezzi inutili in cui un personaggio secondario interroga qualcuno che è troppo gegno e superiore per rispondere a dovere, dando la buffa impressione di seguire un dibattito tra sordi. Altre volte è anche peggio. Quanto segue è uno scambio tra Alessandro Colonna e un messo pontificio.

«Vi fate attendere, Principe Alessandro.»
[…]«Tradizione di famiglia.»
«A onor del vero, Principe […] al nostro ultimo incontro in sala d’arme sono stato io ad aspettare voi.»

Ok, a meno che non sia un clamoroso errore dell’e-book, il tipo ha appena ammesso che arriva sempre in ritardo e l’altro ribatte “non è vero, infatti sei arrivato in ritardo anche l’altra volta”.

 

Romanzo “storico”?

E veniamo a uno dei principali punti che fanno di questo libraccio uno dei peggiori romanzi mai partoriti da quel tegame inverecondo che è l’editoria italiana: l’aspetto storico. Semplicemente non esiste. A voler essere ottimisti, l’unica fonte di Altieri è il sussidiario del nipotino di sei anni, e questo nel migliore dei casi!
Questo libro è il Troy della carta stampata. Il The conqueror del romanzo storico. Lo Star wars holiday special della narrativa scritta!
Volete un paio di esempi a caso?

Le forme erano chiuse in palandrane grigie, la parte inferiore della faccia protetta da maschere a forma di becco. Parevano corvi deformi. A tutti gli effetti, lo erano.
Mietitori della morte, predatori del morbo.
Monatti.
Le campanelle che portavano legate alle caviglie erano un avvertimento, una minaccia e un requiem.

Da dove cominciare?
I monatti non portavano maschere (quelli erano i medici) e non tutti portavano campanelli (solo gli apparitori). Inoltre non mi risulta che i corpi degli appestati venissero bruciati, come dice invece nel libro (Altieri ci tiene alla sua versione seicentesca del forno nazista, fa tanto apocalyptic-retard).

I primi a vedere il pericolo delle tesi dell’uomo di Wittenberg sono i domenicani di Ignazio di Loyola.

Wait, what? Perché i domenicani di Ignazio di Loyola? Ignazio di Loyola non è il fondatore dei Gesuiti? I domenicani non erano quelli di Domenico di Guzmán? Aiuto, sono confusa! C’è mica un frate in sala?

Ma la Storia non è la sola a patire. Uno (non io) potrebbe quasi chiudere un occhio se il romanzo di Altieri fosse anacronistico ma verosimile in sé. Il guaio è che non lo è! Vuole essere una storia di intrigo e azione, ed è un pasticcio senza soluzione. Volete un paio di esempi su a che punto anche questo aspetto sia un insulto agli Uomini e agi Dei?
A pagina 32-33 abbiamo la prima, emblematica scena d’azione.
Wulfgar (il protagonista) VS Mercenari sacrificabili in quanto brutti e sporchi (dell’elegante caratterizzazione parleremo poi)!
Sulla pubblica piazza, il pio frate Bolanos sta per mettere al rogo il personaggio più inutile del libro. Purtroppo, proprio quando il buon monaco sta per salvarci dalla Damsel in DistressTM, Wulfgar interviene, armato della sua daikatana, versione pimpata della katana. Perché Wulf deve compensare, suppongo. E no, non esiste nessuna spada con questo nome. Esiste la daitō (“grande”+katana), esiste la tachi (che si scrive uguale ed è la sciabola lunga da cavaliere), o, volendo esser creativi, si potrebbe leggere la parola ōgatana, ma daikatana no. Né ora, né prima, né mai.

Due dragoni della Falange sfoderarono le spade, si avventarono. Un terzo mise mano alla pistola.

Wulfgar sgozza in un colpo solo due comparse, sgronda la spada, ha un breve scambio verbale col prete («Soldati del Signore, non temete! Dio è con voi!» […] «Uccidete questo eretico! uccidetelo ora!») e…

«Mi stai tediando, prete.»
Il terzo soldato armò il cane della pistola, cercò di allineare il tiro.

Il soldato sta ancora armando il cane.
E’ autoevidente che questo poveretto è affetto da grave ritardo mentale, dacché o tiene la pistola scarica mentre è in servizio, o è il tiratore più lento del regno. Sul serio, Wulf avrebbe il tempo di farsi un caffè e questo cretino sarebbe ancora lì a giocare con la cacca!
Il nostro eroe mozza di netto “metà del braccio” del povero handicappato, spedendo tale metà a roteare per aria con tutta la pistola. Fortuna che l’artrosi precoce ha impedito alle dita di tirare il grilletto nello spasmo.
Anyway…

Padre Bolanos chiese perdono alla Madonna. Invocò lo Spirito Santo. Implorò svariati Cristi. Si appellò agli arcangeli. Chiamò al suo fianco Dio Onnipotente. [E si rollò una sigaretta no?] Uno dei due investigatori dell’eresia si lanciò in avanti urlando, mazza ferrata da dieci libbre in pugno. Il viandante in nero parve nuovamente fondersi con le tenebre.
La mazza calò sul niente. Dal cielo violaceo tornarono giù due oggetti. Un braccio mutilato e una pistola. Era un’arma spagnola, calibro mezzo pollice, palla di piombo foderata di ferro. Il viandante in nero la strappò dall’aria.

Il grassetto è mio. E’ ufficiale, Wulf era compagno di banco di Michael Valentine Smith e gli Old Ones gli hanno insegnato a dilatare il tempo e far levitare gli oggetti.
Altieri, ti aspetti che io prenda una dinamica del genere sul serio? Parlando di prese per il culo, mi pare che le unghie già mi buchino i mutandoni e affondino nella ciccia.
Nemmeno una pagina dopo, un mercenario che prova a scappare viene freddato da uno shuriken nella nuca. Presumo che il tizio fosse l’unico senza elmo. E faccio notare che Wulfgar fulmina un bersaglio mobile, al buio e in mezzo a una folla atterrita. Questo perché siamo nel primo giorno di narrazione. Il sesto giorno Wulfgar creerà un nuovo mondo da una semplice caccola del proprio naso, e il settimo si riposerà su una nuvola di awesomeness.

A pagina 66, l’ennesimo tizio inutile riassume al nobile Dekken l’assalto che è costato la vita alla sua famiglia acquisita, suo padre e suo fratello maggiore.

Non meno di cento guerrieri in sella a cavalli pesanti. Mercenari, signore. Armati di moschetti, sciabole, picche.

Wait, rewind! Cavalleria pesante (non, al limite, fanteria montata, no, cavalleria pesante!) armata di moschetti e picche? Ok, adesso voglio che qualcuno mi spieghi come si fa a definire “storicamente accurato” un romanzo in cui dei cavalieri sono armati di moschetti e picche!
E voglio che Altieri personalmente si esibisca nella ricarica di un moschetto seicentesco stando in sella a un cavallo lanciato al galoppo. Aprirò una petizione su Avaaz perché ciò avvenga.

A pag. 254, abbiamo Leopold Klein, altro tizio figo e inutile, che porta una corazza per la prima volta.

Le corregge di cuoio della corazza lo serravano ai lati del petto, tagliandogli il respiro. L’elmo si ostinava a scivolargli sugli occhi, bloccandogli la vista.

Che fisico aveva il morto a cui hai fregato le armi? Perché, nella mia esperienza, un’armatura pesa sulle spalle, non tira sui fianchi. Peraltro, se l’elmo ti va largo, a meno che il morto non sia Megamind, anche la corazza dovrebbe andarti larga.

«Pas de problem, mon ami.»
«Pour le Roi! Pour la potte!»

Sé, vabé, croissant, baguette!

Sarà ancora un errore dell’e-book? Prima cosa, si scrive “pas de problème”. Inoltre, “la potte”? Io frequento quasi soltanto metallari alcolizzati e guerrieri vichinghi, ho imparato tanti vocaboli anatomici (e tanti sinonimi!), questo mi manca. O anche questa era “tanto per”?

E il piatto forte. I ninja. La ciliegina sulla torta. Il dettaglio che spedisce qualsiasi giapponologo in terra attanagliato da risate convulse e singhiozzi dirotti.

Questo è un ninja

Questa no, but hey, tits!

Chi sono i ninja secondo Altieri?

«Guerrieri-ombra. Assassini dei signori della guerra. Sterminatori senza volto, senza nome.»

A parte il fatto che nel 1630 in Giappone c’è un solo grande Signore della Guerra degno di questo nome, Tokugawa Hidetada… Ma non divaghiamo, Wulf è un ninja, pour de vrais!

«Il più letale che sia mai esistito.»

Ci mancherebbe! Noi occidentali siamo sempre i migliori, cosa vogliono saperne quei nippo addestrati dalla nascita! Hanzō, you nOOb.

I ninja fanno proprio qualsiasi strumento di morte, da qualsiasi cultura, di qualsiasi nemico.

Cosa che fanno più o meno tutte le culture non ritardate. Tipo i giapponesi non-ninja quando misero le mani sui moschetti.
Sappiamo anche che l’arco di Wulfie è fatto a partire da un disegno di un arco mongolo. I mongoli…

Tentarono più volte di invadere la Terra delle Lacrime.

L’appellativo “Terra delle Lacrime” non ho ancora capito da dove l’abbia preso (sembra Emolandia), e il “più volte” è in realtà “due volte”. Peraltro, se non erro (nel qual caso il più nerboruto e villoso degli utenti sarà autorizzato a fustigarmi) l’arco mongolo strictu sensu era fatto di tanta roba (tendini, legno, ne parlerò nell’articolo su Piano Carpini) ma non di metallo. L’arco di metallo veniva usato in India e con risultati non proprio mirabolanti. Ok, i Mughal erano di origine mongola, ma resta tirata per i capelli!


 

PARENTESI.

Chi erano i ninja?
Cominciamo col dire che “ninja” è la lettura figa di shinobi, e che la sola ragione per cui ha avuto tanto successo in Occidente è che suona più esotica. In secondo luogo, il termine indica di solito degli uomini (o donne) addestrati e impiegati di solito come spie o sicari. Erano, in altri termini, il Mossad del Giappone pre-industriale.
Riferimenti a degli specialisti di questo settore rimontano al XV° secolo. Come in Bandō era per eccellenza la regione dei cavalieri, le provincie per antonomasia degli shinobi erano Iga e Koga.
Qual era la caratteristica distintiva di uno shinobi?
Il fatto di farsi pagare: costoro erano mercenari e lavoravano per soldi (Heavens to betsy!). Le operazioni di spionaggio e assassinio potevano essere in grave contraddizione col codice morale dei guerrieri di quei tempi, e un daimyō poteva aver qualche difficoltà a chiedere a un vassallo di far qualcosa che infangasse in suo onore (il legame feudale è allo stesso tempo fortemente asimmetrico ma fortemente reciproco). Gli shinobi veleggiavano su questo, disprezzati e indispensabili.
Il Periodo Sengoku è la loro epoca d’oro. Quando tutti si scannano tra di loro in un bagno di sangue di epiche proporzioni, un mercenario può fare la propria fortuna.
Gli usi principali di costoro erano quattro: spie, esploratori, attentatori e agitatori. I tizi in pigiamino nero che s’infilano nel castello nemico esistevano, ma la maggior parte degli shinobi non erano che soldati di ventura, gente con lo stesso addestramento ed equipaggiamento di un samurai normale, diversi solo per il codice morale e il sistema economico di riferimento.
Quindi abbiamo Iga e Koga che forniscono mercenari, spie e sicari a mezzo Arcipelago. All fun and games, fino all’anno 1581, quando un daimyō decise che ne aveva abbastanza e che era ora di metter fine a quell’inesauribile fonte di fastidi. Il signore in questione si chiamava Oda Nobunaga.
Il pulito che fece da quelle parti se lo ricordano ancora. Eh sì, i “più letali guerrieri del Giappone” si fecero fare un mazzo colossale da truppe regolari.
Gli scampati di questa ecatombe ripararono in parte a Kii, dove mantennero profilo basso come i tartari in Crimea, mentre il resto dei sopravvissuti trovò rifugio sotto l’ala benevola e per nulla interessata di un altro daimyō, tale Tokugawa Ieyasu. Le attività shinobi degne di nota, in seguito, sono praticamente tutte imputabili a gente al suo servizio.
E ora due parole su tizi specializzati in missioni fighe, tipo spionaggio e assassinio. L’addestramento di costoro somigliava per certi versi a quello di qualsiasi altro guerriero. In più, uno shinobi di alto livello doveva fare i conti con le particolarità del mestiere: contrabbandare armi o trovarne a portata, infiltrarsi in posti sorvegliati, raccogliere informazioni, passare inosservato, manipolare l’interlocutore, ecc.
Come si legge nero su bianco in uno dei testi fondamentali, lo Shōninki, le due doti principali di uno shinobi sono discrezione e segretezza. Uno shinobi non deve essere un combattente eccezionale, perché in principio non deve combattere. Uno che combatte è uno che si è fatto beccare, e a quel punto poco conta la vittoria o il bodycount, 90 su 100 la missione è compromessa!
Uesugi Kenshin fu assassinato da uno shinobi che, nascosto nella buca del cesso, gli infilò una spada nel culo. Kenshin era già malato e aveva già avuto delle emorragie. Quando si trascinò fuori, i suoi conclusero che la malattia aveva avuto un tracollo repentino e nemmeno pensarono alla possibilità di un attentato.
Il fatto che in quel momento Kenshin fosse in grado di articolare solo qualcosa tipo “Waaarghlaaaaaghblblblblbl….” ha certamente aiutato l’assassino. Difatti, il tempo che spogliassero la vittima e scoprissero la ferita, il misterioso shinobi se l’era filata, pieno di merda e soddisfazione.

FINE PARENTESI (questi guerrieri saranno trattati molto più a garbo in articoli futuri)


 

Quindi, cos’ha il protagonista di Altieri che non va, da un punto di vista storico-logico?
Primo: la storia si ambienta durante la Guerra dei 30 Anni. In quest’epoca i soli occidentali ad aver contatti diretti col Giappone erano i portoghesi, gli spagnoli e in misura minore gli olandesi. Che io sappia, la prima prova documentata di tedeschi in Giappone risale agli ultimi decenni del ‘600.
In altre parole, nel 1630 nessun crucco aveva mai messo piede in Giappone!
Vabé, direte voi, magari è un’eccezione! Un minimo di sospensione dell’incredulità, no?
No.
Non solo non ci sono crucchi in Cipango nel periodo che ci interessa, ma i soli ninja attivi sono leali servitori dei Tokugawa. Insegnare le loro arti a uno straniero sarebbe stato flagrante tradimento, a meno che Ieyasu stesso (o Hidetada al limite) non avesse dato la sua benedizione. And that’s a lot to buy!
Vabé, direte ancora (o vvu’ siete petulanti però!), magari Wulf ha imparato da una famiglia ninja scampata al massacro e rimasta indipendente.
No e poi no!
I ninja sono mercenari! Baldracche dell’omicidio, imprenditori del massacro! Vendono i loro servigi e si fanno concorrenza tra famiglie! Tra loro non si insegnerebbero la ricetta dell’ovo sodo, e dovrebbero rivelare i loro segreti a un nanban? Un sudicio barbaro?

Altieri non ha la minima idea. Il tizio che ha farcito d’acciaio Kenshin e se n’è andato illeso, quello era un vero ninja. E’ stata un’azione eccezionale! Ma tutta la faccenda del restare acquattato a farsi cagare in testa, in attesa del culo giusto… iiiih, non fa spettacolo, e lo spettacolo è la sola cosa che interessa ad Altieri.
Così Wulf è il figo silenzioso, il guerriero torturato che riesce sempre a farsi notare da tutti e far vedere all’intero paese quanto è torturato! Attira sempre l’attenzione, anche quando potrebbe facilmente evitarlo.
Wulf è la scene queen che ognuno di noi voleva essere a 12 anni.
Uno che da’ nell’occhio o attira l’attenzione è l’ultima persona su Terra a potersi definire ninja.

Riassumiamo: il ninja di Altieri va in giro con un vistoso stallone nero, l’equivalente seicentesco del suv. Sfoggia vistosi tatuaggi in un periodo in cui il tatuaggio è estremamente raro. Maneggia un arco d’acciaio fatto come quello mongolo che non ha nulla in comune con quello mongolo. Brandisce uno spadone più lungo della media quando le armi degli shinobi erano in genere più corte.

Tolto il lancio di shuriken, non ha nulla in comune con i ninja. “Ninja” per Altieri non significa un cazzo. E’ lì perché è popolare, è lì perché fa figo, ed è una delle ragioni per cui questo libro fa schifo.


Nelle prossime 2 puntate ci occuperemo di trama e personaggi, e credetemi, ce n’è da dire su come non si scrive e su come non si caratterizza!

E per celebrare la prima recenzione fantastorica, MUSICA!