Classici Militari: Bing Fa o l’Arte della Guerra (3)

[Questo post doveva uscire il 9 di agosto. Chiedo scusa per il ritardo, non ho idea di cosa sia andato storto.]

 

Benvenuti nella terza e penultima puntata dedicata al più famoso dei Classici Militari, l’Arte della Guerra!

Per chi si fosse perso le prime appassionanti puntate, rimando ai miei articoli,

Questo e Questo.

Riprendiamo da dove avevamo lasciato, le Disposizioni militari!

Un soldato Sung. No, non sono sicura che fossero davvero vestiti così. Fichez-moi la paix!

Il primo consigli che il nostro Sun Zi dà è “prima di tutto, renditi inconquistabile”, poi aspetta pazientemente che il nemico scopra un fianco. Ora, “essere inconquistabile dipende da te”, mentre “essere conquistabile” (AKA, scoprire il fianco) dipende dal nemico. Ovvero, se sei davvero bravo puoi rendere te stesso invincibile, ma anche il nemico può fare la stessa cosa.

Chi non può vincere assume un atteggiamento difensivo, chi può vincere attacca.

Questa frase contiene una grande verità, ovvero che c’è una sola cosa che trattiene un popolo dall’attaccarne un altro: non conviene.

Beninteso, questa frase non è da intendersi il modo puramente materiale. Un sacco di guerre inutili sono state combattute, anche guerre che era chiaro dall’inizio non avrebbero portato nessun vantaggio reale. Dovete pensare con la testa di chi quella guerra decide di farla (o non farla). Cosa per quella gente costituisce un vantaggio o meno?

Poco importa quanto stupida, insensata, inconcludente o controproducente sia: la guerra viene fatta perché si crede sinceramente e fermamente che conviene.

Conviene per i soldi, per la terra, per la razza ariana o per avere un posto in paradiso, ma conviene. Se non conviene non si fa.

A riprova: la guerra nucleare non conveniva a nessuno e non l’hanno fatta.

Per chi scrive fantasy: due popoli devono avere delle buone ragioni per essere alleati o nemici, per essere in pace o in guerra. Se uno dei due ha un livello tecnologico ridicolmente arretrato rispetto a quell’altro, sarà un suo subalterno. Se non ha un esercito sarà un suo subalterno. E se non lo è ci deve essere una buona ragione, dire che è così e basta non è sufficiente.

 

Tornando a noi, chi si limita a un atteggiamento puramente difensivo, pur avendo magari un vantaggio iniziale, non può vincere una guerra. Solo chi è capace di attaccare può preservarsi e ottenere una vittoria definitiva.

Ottenere una grande vittoria militare, celebrata dal popolo, non è il pinnacolo dell’eccellenza. Per Sun Zi dire che chi ottiene una grande vittoria è “eccellente”, equivale a dire che chi vede il sole o la luna ha una vista sopraffina. La vittoria di un uomo eccellente è conquistare chi è facile da conquistare. Chi davvero eccelle nell’Arte della guerra fa in modo di combattere un nemico che ha già perso in partenza.

La vera eccellenza comincia col mettersi in una posizione in cui non puoi essere sconfitto, il tutto senza tagliarti la possibilità di attaccare.

In parole povere, i campioni prima creano le condizioni per vincere, poi combattono una guerra vinta. I mediocri combattono prima e cercano la vittoria poi.

E, come ogni cosa cinese, chi vuole ottenere l’eccellenza deve possedere il Tao.

Ci sono più interpretazioni per cosa diavolo significhi il termine nello specifico: per alcuni si tratta della padronanza dei principi essenziali all’arte militare, per altri della padronanza delle virtù confuciane, che rendono un uomo equilibrato, previdente e amato, nonché virtuoso. Ci tengo a sottolineare l’ultima, dato che i Cinesi avevano un approccio piuttosto pratico e tautologico al Fato: se sei virtuoso, il Cielo ti favorirà e vincerai. Se vinci, vuol dire che il Cielo ti favoriva, ergo sei virtuoso.

Insomma, chi vince ha ragione.

Parlando di metodi militari, ce ne sono cinque:

  1. misurazione
  2. stima delle forze (Che tipo di forze? Che materiali?)
  3. calcolo degli effettivi
  4. considerazione e paragone delle forze
  5. vittoria (si prega di non barare e non saltare direttamente a quest’ultima!)

Il terreno dà luogo alla misurazione; la misurazione dà luogo alla stima delle forze; la stima dà luogo al calcolo, che dà luogo alla considerazione e paragone. Fai tutto bene, e avrai la vittoria in tasca. Ma potresti accorgerti che “far tutto bene” è più facile a dirsi che a farsi.

 

Potere strategico

Come comandare un grande numero di uomini? Non è diverso dal comandarne pochi. Il punto è saper dividere e configurare.

Peraltro, ci sono due metodi che permettono di vincere il nemico: quello Ortodosso e quello Eterodosso. Come si combatte il vuoto col pieno, se ingaggi battaglia con un nemico che usa tattiche ortodosse, devi rispondere con altre eterodosse. Chi è capace di sfruttare tattiche eterodosse, ha risorse inesauribili e la vittoria in pugno.

I componenti di una battaglia possono essere sempre gli stessi, ma i modi di combinarli sono infiniti (un po’ come le regole in narrativa). Parimenti ortodosso ed eterodosso si combinano all’infinito in possibilità illimitate.

 

Per quanto riguarda la vera battaglia, la mischia…

C’è una strana idea tra numerosi scrittori, supportata da quel maiali di Hollywood, secondo cui la battaglia è di norma un mucchio selvaggio con buoni e cattivi mischiati insieme che menano a destra e a sinistra. L’Eroe sta da solo, in mezzo al nemico, fulgido esempio per gli uomini, rigorosamente senza elmo.

E’ una stronzata.

Ci sono scrittori che non sanno descrivere le battaglie, e poi c’è l’Aliprandi…

Diversi tipi di eserciti combattono in modi diversi. Un esercito come quello di Sun Zi si muoverà in maniera diversa dalle bande guerriere di Yoritomo e Ichi-no-Tani, e in modo ancora diverso dalle troppe dell’Operazione Anaconda.

La battaglia può parere caotica, o lo può diventare, ma la prassi non cambia: quale che sia la forma, lo stile, il tempo, chi mantiene il controllo vince. Perfino in una battaglia a bande come quella di Ichi-no-Tani, i combattenti sapevano chi erano i loro alleati, quali erano gli obbiettivi, da dove dovevano passare, dove ritrovarsi e quando disperdersi.

Questo è ancora più vero quando a muoversi è un vero esercito. Può parere caotico, ma non può esserci disordine. Una mischia hollywoodiana è un cazzo di disastro, una catastrofe tattica che costerà la vita a un numero altissimo di uomini per un risultato risibile. A bloody mess.

Il che in un libro ci può stare benissimo, beninteso. Ma se pensi che quello sia il modo standard di combattere sbagli: quello è il modo standard di prendere un fracco di legnate (e probabilmente perdere la guerra).

 

Tornando a Sun Zi, il nostro spiega che il caos simulato è fonte di controllo: inganna il nemico fingendo disordine e spingilo a fare ciò che tu vuoi che faccia. Parimenti, fingere paura porta coraggio, fingere debolezza porta forza.

Caos e ordine sono un problema di numeri, coraggio e paura sono un problema di configurazione strategica delle forze, forza e debolezza dipendono da come hai spiegato le tue forze.

Il punto è disporsi in una configurazione tale che il nemico risponderà nella maniera che a te conviene. Offri qualcosa che vale, e cercherà di prenderla. Fagli vedere truppe ben ordinate e coordinate, e aspetterà. Il punto è sempre lo stesso: un comandante deve dirigere i suoi, e deve dirigere i loro. Spingi il nemico ad agire (o non agire) secondo quello che tu vuoi. Non lasciare mai che sia lui a guidare le danze.

La leva della vittoria è la strategia, non gli uomini in quanto tali. Chi vuole vincere deve cercare gli uomini adatti a servire la strategia, non viceversa.

 

Vuoto e Sostanza

Come spesso nel manuale, Sun Zi comincia con lo specificare le basi per chi fosse così tonno da non conoscerle: chi arriva prima sul terreno di battaglia sceglie come installarsi, può riposare e sarà in vantaggio. Chi arriva dopo avrà corso, sarà stanco e molto probabilmente non avrà molta scelta su dove schiaffarsi.

Come detto prima, se vuoi farli avvicinare, offri qualcosa da desiderare. Se vuoi frenarli, sbandiera qualcosa da temere.

In generale, cerca di sovvertire la condizione del nemico. Se è ben nutrito, affamalo; se è riposato, stancalo; sistemati in modo che debba correre a cercarti, precipitati dove non ti aspetta.

E sempre per la Fiera dell’Ovvio: il modo più semplice di viaggiare è attraverso un territorio non occupato. Se vuoi prendere una posizione di colpo, attacca posizioni non difese. Se vuoi occupare una posizione imprendibile, scegline una che il nemico non attaccherà.

Tutto questo per dire: se sei bravo ad attaccare, non sapranno cosa e come difendere; se sei bravo a difenderti, non sapranno dove attaccarti.

Ad esempio, vuoi ingaggiare un nemico che si trincera dietro spalti troppo tosti?

Costringilo a uscire attaccando qualcosa che deve proteggere.

Al contrario, non hai bisogno di spalti per difenderti, se sei in grado di menomare i suoi movimenti.

Devi essere flessibile e pronto a rispondere all’evenienza. Sapere quali sono le loro condizioni, ma non lasciare che sappiano, ad esempio, quale campo di battaglia hai scelto per il big showdown, così dovranno prepararsi su numerosi fronti e posizioni. Stirali il più possibile.

D’altro canto, puoi ben dirigere, raggruppare e disporre il tuo esercito (senza disperderti e stiracchiarti in mille posizioni) solo se conosci il posto e il giorno in cui conta farti il mazzo.

Peraltro, devi anche avere una chiara idea di cosa vinci e cosa perdi, e per far questo devi sapere bene con chi hai a che fare. Sun Zi consiglia di incoraggiare il nemico, in modo da farlo muovere e poter osservare il suo comportamento, quali sono le sue forze, cosa ha e cosa gli manca.

Tu, per contro, devi evitare il più possibile di assumere una forma discernibile, perché figurati: anche il nemico sta facendo lo stesso gioco, e le sue spie ti stanno studiando alla stessa maniera. Questo ti permetterà di adattarti (“come acqua”) al nemico, evitare suoi “pieni” e colpirlo nei suoi “vuoti”.

Combattimento

Il combattimento è la parte più difficile di una guerra.

Il primo che dice “Ma va’'” finisce nell’angolo in ginocchio sui ceci.

Dicevo, la cosa più difficile in combattimento è volgere lo svantaggio in vantaggio.

Di per sé, il combattimento tra due eserciti è portatore di vantaggi. Il combattimento tra masse, invece, è un casino.

Un esercito ridotto e leggero è più rapido e meglio manovrabile di una massa di coscritti coi bagagli. Ma è anche più vulnerabile.

Sun Zi sconsiglia di lasciarsi impedimenta e armi pesanti dietro per correre avanti: solo una piccola parte dell’esercito (i più forti) riusciranno ad arrivare in condizioni di combattimento, seguiti da una massa sempre più scompaginata di bagagli e gente esausta e demoralizzata. E un esercito che non ha un solido rifornimento è un esercito nei guai.

 

Il primo passo per vincere una guerra non è caricare a testa bassa prima degli altri, ma conoscere i piani dei tuoi avversari e preparare le alleanze che ti permetteranno di essere in vantaggio. Questo vale in particolare se prevedi una spedizione, poiché dovrai impiegare delle guide locali, ed è bene avere un’idea chiara di da che parte stanno.

 

Riguardo ai rifornimenti, quando saccheggi un territorio, dividi il ricavato tra le tue truppe. Sempre dividere i profitti! La gente è più disposta a morire per te se può guadagnare dal rischio.

 

Una cosa che spesso piaga i romanzi e i film, è la totale assenza di una catena di comando e di strumenti di segnalazione. L’eroico generale urla ordini, la soldataglia esegue, gente si scambia commenti da una parte all’altra del campo, e alla fine tutto pare una versione per ritardati della ricreazione delle elementari.

In una battaglia vera c’è casino. Tanto casino. Il fracasso di un mucchio di gente più o meno corazzata, urlante e esagitata è allucinante. Se poi ci sono artiglierie coinvolte è anche peggio.

Come fare allora a dire alla gente quello che deve fare?

Tamburi, gong, trombe, timpani… gente di posti diversi ha inventato strumenti diversi che potessero sovrastare il casino generale con un messaggio chiaro, udibile e comprensibile per lo meno dal sergente di turno. Allo stesso modo, bandiere, gonfaloni, insegne, ecc. Non sono lì per decorazione. In uno scontro si può perdere l’orientamento. Sei finito in un mucchio di nemici, ti hanno suonato come una zampogna, sangue e cervello ti colano dalle orecchie e te la fai talmente addosso che non ti ricordi nemmeno come ti chiami. Ma le insegne si vedono. Il gonfalone della tua squadra si muove, si ritira. Sai che dovete tornare indietro. E l’addestramento sovviene quando il ragionamento falla. Una sequenza di suoni conosciuti, e le tue budella sanno se vuol dire “ritirata”, “carica” o “è l’ora del tè”.

Strumenti e segnali coordinano un esercito. Uomini coordinati sono uomini uniti, e uomini uniti sono uomini che fanno un buon lavoro. Le probabilità di un temerario pazzoide che corre avanti piantando i suoi, o di un disertore che scappa per i campi sono ridotte al minimo se gli uomini sono coordinati e uniti.

Ovviamente in una battaglia notturna userai fuochi per segnalazione. Sun Zi consiglia anche di aumentare il numero di strumenti sonori. Dato che la tua carne da cannone non vede a un palmo dal naso, almeno fatti sentire.

 

Un altro elemento è fondamentale in un esercito, ed è quello che Sun Zi chiama il ch’i, qualcosa che in questo contesto si avvicina al nostro animus. Secondo lui, il ch’i è di solito ardente al mattino, e progressivamente più indolente lungo alla giornata, per toccare il suo minimo al tramonto. E’ ovvio che l’interesse è attaccare quando il ch’i dei nemici è basso.

Personalmente al mattino ho la testa nel culo e al tramonto potrei abbarcarti tre steri di legna senza sudare, ma sono cinesi, sono mattinieri.

 

Sun Zi ribadisce una carrellata di consigli: non avvicinarti ad alte montagne, non affrontare gente che ha le colline alle spalle, attento a non farti tirare in una finta ritirata, non attaccare truppe animose e non farti fregare da truppe disordinate messe lì come esca. Non metterti tra i piedi di un esercito che sta tornando a casa, e se ti trovi a dover assediare qualcuno, lasciagli sempre una via di ritirata (la prenderanno, e passeranno dove TU hai deciso di farli passare). Ugualmente, non pressare troppo un invasore esausto.

Quest’ultima pare strana. Suppongo che il rischio sia, pressandolo troppo, di rinfocolare il suo morale e ricompattare i suoi uomini. Lascia malinconia, malcontento e sconforto fare il loro lavoro.

 

I nove cambiamenti (che a esser fiscali sarebbero dieci)

Ci sono delle cose che un generale deve o non deve fare:

  • Non accamparti in luoghi che intrappolano. In genere questo si interpreta per terreni bassi, magari in mezzo ad alture, con acqua, pantani: sono zone che si possono facilmente inondare (magari piove molto, o qualche furbo rompe di proposito un argine), e rendono l’avanzata di uomini e carri penosa
  • Riunisciti coi tuoi alleati in un punto centrale, accessibile da diverse direzioni e magari da diverse strade vere e proprie.
  • Non restare su terreno isolato.
  • Pianifica in anticipo per quanto riguarda il terreno circondato.
  • Su terreno fatale dovrai combattere.
  • Certe strade non devono essere seguite.
  • Certi eserciti non devono essere attaccati.
  • Ci sono città che non devono essere assediate.
  • Ci sono posizioni per cui non si combatte.
  • Ci sono degli ordini del sovrano che devono essere ignorati. Pare ci sia un frammento qui, che aggiunge precisione. Se il sovrano ti ordina di seguire quelle strade, o attaccare quegli eserciti, città o posizioni di cui si è appena parlato… lascialo perdere. Sta col culo sul trono a centinaia di kilometri da dove tu sei. Si fotta.

Che poi tutto riviene a un oculato bilancio di cosa vinci e cosa perdi. Non combattere mai per perdere.

 

Non fidarti del fatto che non verranno: sii preparato (che è quello che i latini esprimevano con si vis pacem, para bellum).

 

Il capitolo si chiude con una nota sul generale. Ci sono cinque tratti di carattere che presentano un rischio, per lui e per il suo esercito:

  1. Chi è determinato a morire può essere ucciso;
  2. chi è determinato a sopravvivere può essere catturato;
  3. chi s’incazza facile può essere insultato;
  4. Chi è ossessionato dalla propria immagine può essere coperto d’infamia;
  5. chi ama la gente può esser perturbato.
  6. Questi cinque tratti sono catastrofi in potenza: valuta bene il tuo generale prima di mandarlo in giro con ottocentomila fantaccini.

 

Meditate sulle savie parole del Maestro. Perché per ora è tutto, alla prossima puntata altre chicche!
E ora, MUSICA!

 

Genpei 0.1 – i disordini di Hōgen

La Guerra di Genpei è uno dei più celebri conflitti della Storia del Giappone. Non è strano che anche chi non si interessa all’Arcipelago l’abbia sentita nominare. Ci si sono ispirati millemila film, cartoni, romanzi, pièce teatrali, eccetera. Di solito la loro pertinenza storica è pari a quella del film-cagata Kinkdom of Heaven, a volte si hanno piccoli gioielli.

Ma cos’è successo davvero in questo allegro massacro da cui sono usciti (di solito coi piedi in avanti) alcuni dei più celebri personaggi della letteratura giappa?

Come in ogni guerrone che si rispetti, per capirla bisogna prima conoscere i presupposti e gli eventi degli anni precedenti.

Questo è il primo di una serie di articoli sulla guerra di Genpei.

Genpei 0 – i disordini di Hōgen

Minamoto no Tametomo, in una stampa di metà ottocento

Cominciamo dalla base: Taira e Minamoto, chi sono costoro?

All’origine, sono principi in eccesso.

I membri della famiglia imperiale dovevano garantire l’equilibrio con gli dei, un compito gravoso per cui erano compensati con appannaggi e rendite. C’era però un piccolo problema: la famiglia imperiale aveva un comportamento sessuale molto endogamico e molto, molto prolifico.

I guerrieri erano gente fissata col sangue, facevano di tutto per selezionare il lignaggio.

I nobili se ne fregavano. Avevano qualche vaga remora (niente incesto coi genitori, o con i fratelli di stessa madre, per esempio), ma per il resto la libertà sessuale di uomini e donne era molto vasta, finché gli individui gestivano le loro relazioni con discrezione.

Il che significa un numero esorbitante di marmocchi.

Oh, il matrimonio esisteva, beninteso. Di solito il patto era: la sposa pagava per le spese d’apparato del marito (abito, accessori, carro, ecc.), e il marito riconosceva i figli e curava la loro carriera politica. Se poi quelli fossero davvero biologicamente suoi o meno, non era importante.

Il Genji forse romanza un po’ quando mette in scena il protagonista che fa un figliolo con la concubina del defunto padre (figliolo che finisce per salire al trono), ma la faccenda resta plausibile.

In sostanza: l’Imperatore aveva diverse donne, che a loro volta potevano avere diversi uomini, ma ufficialmente partorivano comunque principi imperiali.

Questo portò a troppi principi per troppo pochi appannaggi. Potevano andarsene a colonizzare qualche paese vicino e procurarsi nuova terra, ma le navi giapponesi, per secoli, hanno avuto la fastidiosa tendenza di affondare come ferri da stiro. La Corte optò quindi per un sistema a retroazione negativa: il rango diminuiva di generazione in generazione, e alla quarta i nipotini imperiali venivano radiati dai registri di famiglia.

Non è male come sembra. Agli scartati veniva dato un rango dignitoso, una funziona o una lucrosa carica provinciale, e un cognome: Taira o Minamoto.

Taira e Minamoto indicano quindi, in principio, una qualche discendenza imperiale, ma di Taira e Minamoto ce n’è ovviamente un sacco di tipi diversi, a seconda di quale fosse l’Imperatore all’origine della genia. Talvolta il lasso temporale tra i capostipiti è tanto vasto e la parentela tra loro così remota, che non possiamo nemmeno considerarli legati.

Quelli che hanno fatto più chiasso alla fine di Heian e nel primo medioevo, i “grandi” Taira e Minamoto, sono i discendenti dell’Imperatore Kanmu e dell’Imperatore Seiwa. In altre parole i Kanmu-Heishi (Hei è un altro modo di leggere Taira) e i Seiwa-Genji (Gen è la lettura cinese di Minamoto).

I Taira


Il primo Kanmu-Heishi a ricevere il nome Taira fu il principe Takamochi, nel nono secolo. Fu nominato vicegovernatore di Kazusa, nel Bandō, dove fondò la base della sua nuova famiglia. Il suo terzo figlio, Yoshimasa (o Yoshimochi, della dotta controversia sulla lettura parleremo in un altro articolo che sono sicura tutti voi aspettate!), che fu chinjufu shōgun (Generale pacificatore dei barbari nelle provincie nord-occidentali di Mutsu e Dewa, per ulteriori informazioni rimando a questo articolo). Fu anche padre di Masakado, il guerriero più figo di sempre (ma di lui parlerò in un’altra serie di articoli che di certo tutti voi aspettate!).

Il secondogenito di Takamochi fu Kunika, gran segretario () della provincia di Hitachi e padre di Sadamori, che oltre a essere il cugino paraculo di Masakado fu anche uno dei pochi della famiglia che riuscì a invecchiare (maledetto lui).

Se Takamochi fu il capostipite della famiglia, Sadamori fu il fondatore del vero potere dei Kanmu-Heishi, e anche quello che vinse la guerra (diventando quindi l’antenato illustre a cui rifarsi per confermare e rinforzare la tradizione militare). Il centro del suo potere divenne Ise, il suo ramo familiare è quindi conosciuto anche come Ise-Heishi.

Sadamori è un personaggio molto francese: dopo aver perso la guerra ed essersi fatto riempire il culo di calci da suo cugino, riuscì comunque a figurare tra i grandi vincitori e incassare la ricompensa. Go figure.

Il bis-bis-nipote di Sadamori fu Masamori, nominato governatore militare (zuryō) di diverse provincie, che dopo aver accumulato una solida base economica e militare entrò al servizio dell’allora Imperatore Ritirato Shirakawa.

Ormai siamo in pieno insei, il Governo del Chiostro.

Pensate che “ritirato” significhi che ha mollato il seggiolone?

Sticazzi, siamo in Giappone, niente può essere semplice! In un periodo in cui la Corte era comandata dalla famiglia Fujiwara (che monopolizzava tutte le più alte cariche e aveva inscatolato l’autorità imperiale) Shirakawa trovò il sistema di svignarsela tra le maglie del sistema, yo!

Ancora giovane, Shirakawa si ritirò dal potere e sgomberò. Fuori dal Palazzo Interno (dairi), si costituì una cerchia di collaboratori fidati parallela alle strutture ufficiali della Corte e riprese il ruolo politico che gli spettava, mentre il suo erede restava al dairi a ciucciarsi riti e cerimonie per compiacere gli dei e il protocollo.

Shirakawa, dicevamo, arruolò Masamori. Il figlio di quest’ultimo si chiamava Tadamori, e servì Shirakawa e l’Imperatore Ritirato Toba, facendo la fortuna della propria famiglia.

Il figlio di Tadamori l’avrete sentito nominare: Kiyomori. Il celebre, celebre e inglorioso Kiyomori, tanto bistrattato dalla storiografia e dalla letteratura.

Di lui parleremo più là più in dettaglio, perché è uno dei protagonisti della nostra storia.

Kiyomori e lo stress post traumatico, da una stampa di Chikanobu

 

I Genji


Il primo a ricevere il nome di Genji fu il sesto figlio dell’Imperatore Seiwa, Sadazumi. Costui è l’antenato di Minamoto no Tsunemoto. Si tratta anche in questo caso di un vecchio nemico di Masakado (ne aveva un caretto, di questi), che credo portò sulla tavola un contributo strategico un tantino più significativo di quello di Sadamori, tanto è vero che fu impiegato di nuovo nella repressione del grande pirata Fujiwara no Sumitomo, poco tempo dopo.

Suo figlio fu Minamoto no Mitsunaka, rinomato guerriero protagonista di diverse favole, che nella realtà storica servì la Corte appoggiandosi alla sua base nella provincia di Settsu.

Mitsunaka ebbe tra figli, Yorimitsu, Yorichika e Yorinobu, a capo rispettivamente dei Settsu-Genji, Yamato-Genji e Kawara-Genji (dalle provincie in cui si basavano).

Nel 1028 Yorinobu fu spedito dalla Corte nel Kantō per sedare la rivolta di Taira no Tadatsune.

Sul posto acquisì la base precedentemente appartenuta a Naokata dei Kanmu-Heishi: Kamakura nella provincia di Sagami.

Tadah!

Kamakura diventerà la “Capitale dei Genji” e il baricentro del clan si spostò definitivamente nel Bandō.

Il figlio di Yorinobu, Yoriyoshi, sposò la figlia di Naokata, consolidando la sua posizione rispetto ai guerrieri locali. Se volete saperne di più su di lui, rimando di nuovo al mio precedente articolo, Breve storia dei disordini in Mutsu. Qui vi basti sapere che divenne in parole povere uno dei principali capi del network guerriero del Tōhoku.

Suo figlio fu Yoshiie, al servizio dell’imperatore Shirakawa.

Yoshiie parte al massacro in un turbine di petali di ciliegio

 

Chiudendo il cerchio, Tadamori e Yoshiie si ritrovarono al servizio dello stesso uomo, l’uno basato intorno al Mare Interno, l’altro basato sulle selvagge pianure del Bandō, gomito a gomito con gli emishi.

Per avere un’idea, una mappa del Giappone con le aree di influenza e le provincie-base dei due clan

Seiwa-Genji e Kanmu-Heishi erano i due pugni armati dell’Imperatore Ritirato. Shirakawa costituì grazie a loro la sua guardia personale, gli hokumen. Erano loro a eseguire i suoi ordini, a essere nominati tsuitōshi (designati per sedare rivolte e disordini) e imporre la pax imperiale in nome e per conto di Shirakawa.

Bisogna notare che nel frattempo la situazione in Giappone era evoluta. I domini privati di templi, santuari o dignitari (shōen) erano diventati più vasti e indipendenti. Prima i facoltosi padroni riuscirono a esentarli da tasse, poi a vietare l’ingresso ai funzionari provinciali. In parole povere, da un lato i grandi nobili avevano latifondi privati immuni, dall’altro la macchina governativa arrancava e sputava sangue su un territorio sempre più difficile da controllare.

Gli amministratori di questi shōen e i grandi signori avevano ovviamente i loro piccoli eserciti privati, ma non erano gli unici: grandi templi come l’Enryaku-ji, lo Onjō-ji o il Kōfuku-ji avevano a loro vota costituito le loro proprie milizie di guerrieri devoti e monaci guerrieri. In particolare questi ultimi erano spesso gente un tantino fanatica. Dei disastrosi bisticci tra, ad esempio, le sette Shingon e Tendai, parleremo in un altro articolo.

Quando Shirakawa tirò le cuoia, suo nipote prese il suo posto nel Chiostro col nome di Toba. Citando lo Hōgen monogatari (da una traduzione di René Sieffert, dacché l’originale me lo sono scordato a Parigi, peggio per voi):

A quel tempo era sovrano colui conosciuto col nome di Imperatore Monaco Toba. Discendente della Grande Divinità che riluce nel Cielo alla quarantaseiesima generazione, era dall’Imperatore Jinmu il settantaquattresimo Sovrano.

Il testo è particolarmente favorevole a Toba.

Il nono giorno della settima luna del secondo anno dell’era Kashō (1107), l’Imperatore Ritirato Horikawa morì. Il diciannovesimo giorno dello stesso mese il Principe, allora nel quinto anno di vita, fu investito del rango supremo. Durante i sedici anni in cui fu sul trono le terre che il mare cinge furono in pace, il Mondo Sotto il Cielo in sicurezza. Venti e piogge si conformavano alle stagioni, né calore né freddo venivano nel momento sbagliato.

Checché ne dica lo Hōgen monogatari, il Giappone era in una situazione delicata. Appena bambino, Toba si ritrovò sul trono, con un’eredità tutt’altro che semplice da gestire. Peraltro, per complicarsi ulteriormente la vita, Toba aveva family issues.

Fun for everybody!

Nello specifico, Toba aveva due mogli:

Daikenmon-in no Sōshi, figlia del Gran Consigliere Surnumerario (gon-dainagon) Fujiwara no Kimizane. Costei aveva dato al Figlio del Cielo due figli maschi, il futuro Imperatore Sutoku e il Principe Imperiale Masahito.

Bufukumon-in no Tokushi, figlia del Medio Consigliere Surnumerario (gon-chūnagon) Fujiwara no Nagazane e madre del Principe Imperiale Narihito.

Needless to say, le due erano in feroce competizione per piazzare i propri bambini adorati sul Trono Celeste.

Toba non aveva nessuna voglia di compiacere Sōshi. Le malelingue dicono che la signora, da ragazza, fosse stata troppo vicina al nonno di Toba, Shirakawa. Tokushi d’altro canto era meno implicata con i Fujiwara (suo padre era meno importante) e Toba la favoriva.

A ventun anni (1123), Toba si ritirò. Suo figlio Sutoku fu nominato Imperatore, ma non poteva durare. Dopo la morte dell’ingombrante Nonno Shirakawa, nel ’29, Toba prese in pugno le redini dello Stato, e si dette da fare finché non riuscì a far abdicare Sutoku (che divenne Nuovo Imperatore Ritirato, al margine della ridda politica). Al suo posto fu elevato alla dignità imperiale il piccolo Narihito come Imperatore Konoe. Era il primo anno dell’era di Eiji (1141), Konoe aveva sì e no un paio d’anni.

La soddisfazione di Toba durò diversi anni, ma il secondo anno dell’era di Kujū (1155), a soli 16 anni, a Konoe “gli viense un accidente”. Il suo stato peggiorò nei mesi e niente sembrava poter guarire il sovrano.

Lo Hōgen racconta di una notte di autunno in cui, sentendosi un po’ meglio, Konoe convocò alti dignitari e poeti per ammirare il paesaggio. Una poesia gli è attribuita.

Il canto degli insetti che si affievolisce

Io che già rimpiango l’autunno sul finire

Prima di questo sparirò di certo

Insomma, se la sentiva. I dignitari brontolarono che era di cattivo augurio, e forse tutti i torti non li avevano, dacché il giovane Konoe si aggravò di colpo e si spense la notte dopo.

Sutoku non sperava di tornare sul trono, ma avendo a sua volta un figlio maschio, il principe Shigehito, sperava che il padre nominasse il bambino e ristabilisse il ramo maggiore della famiglia sul trono.

Manco per niente. Malelingue insinuarono che erano stati i woodoo e gli accidenti di Sutoku a far ammalare Konoe (to be fair, di accidenti gliene aveva di certo tirati tanti). Che ci credesse o meno, Toba elevò il fratello minore di Sutoku, Masahito, che divenne il nuovo Imperatore Goshirakawa. Farsi sorpassare a destra d un fratello minore fa incazzare. E Sutoku s’incazzò.

Nel frattempo in casa dei Fujiwara…

Eh sì, anche loro avevano family issues. Il capofamiglia, Tadazane, aveva l’infausta fortuna di avere due figli maschi, Tadamichi e Yorinaga, e guarda un po’, i due erano ai ferri corti per determinare chi doveva essere considerato come nuovo capofamiglia.

Cogliendo l’occasione della faglia nella casa imperiale, Tadamichi prese le parti di Goshirakawa, Yorinaga quelle di Sutoku.

Il secondo giorno del settimo mese del primo anno di Hōgen (1156), dopo aver arrangiato questa bella bomba a orologeria, Toba trovò che aveva combinato abbastanza danni e tirò le cuoia. Senza por tempo in mezzo, le due fazioni convocarono i Taira e i Minamoto e si scatenarono.

Un assaggino?

All’est del terzo viale gli uomini di guerra del partito dell’Imperatore Ritirato [Sutoku] si erano riuniti, passando la notte a cospirare e il giorno, arrampicati sugli alberi o sulle colline, a spiare la residenza di Takamatsu che faceva ufficio di Palazzo [per Goshirakawa]. Essendosi diffusa la voce, l’indomani, terzo giorno del mese, fu dato ordine a Yoshitomo, Governatore di Shimotsuke, di arrestare l’Amministratore della residenza dell’Est del Terzo Viale, il Sotto-intendente del Tesoro Mitsukazu e due dei suoi uomini. Ieri soltanto era morto l’Imperatore Monaco o oggi già tali avvenimenti accadevano […].

Lasciate che l’immagine di tizi arrampicati sui pini s’imprima e torniamo ai nostri guerrieri.

Il clan guerriero di questo periodo non era la struttura rigida e unita del periodo Edo. Lo spirito di corpo era ristretto di solito ai propri alleati personali (che potevano essere dei parenti, oppure no). Spesso i legami di matrimonio potevano essere più astringenti di quelli di sangue.

Questo era fonte di infinite faide familiari, mine de rien. E il caso in esame non fece eccezione.

La famiglia guerriera media

Il punto era che i vari figli e fratelli Taira e Minamoto avevano sposato le loro donne, fondato le loro famiglie e si erano legati individualmente a patroni diversi. Finché le famiglie dei loro signori rimasero in pace il problema non si pose, ma quando i Fujiwara e gli imperatori chiamarono alle armi, la faida politica tagliò attraverso le due genie guerriere come una mannaia nel burro. Ognuno dovette scegliere tra la propria famiglia di sangue (padre e fratelli) e l’uomo da cui dipendeva il benestare e la sopravvivenza sua e della sua famiglia ristretta (moglie e figli). I guerrieri lanciarono i dadi, e si armarono.

Sotto Goshirakawa si schierarono Taira no Kiyomori, capo dei Kanmu-Heishi, il primogenito del capo dei Minamoto, Yoshimoto, Yoshiyasu, cugino in primo grado di suo padre, e Yorimasa, capo militare del principale porto di Settsu.

Sotto Sutoku si schierarono Taira no Tadamasa, zio paterno di Kiyomori, e Minamoto no Tameyoshi, padre di Yoshitomo e capo dei Genji, sostenuto dagli altri suoi figli, tra cui il giovane Tametomo, passato nella narrativa successiva come il miglior arciere della Storia del Giappone. A quanto pare Tametomo non aveva ancora vent’anni al momento, ma aveva già partecipato, alla tenera età di quindici anni, alla repressione di una banda di briganti, e si era guadagnato stima e rispetto come capo militare.

Lo Hōgen non risparmia su di lui:

Bellezza, prestanza, determinazione, tutto il lui pareva veramente eccellente. Dacché la sua altezza suerava i sette piedi, dominava la gente ordinaria di due o tre piedi. Arciere nato, aveva il braccio sinistro più lungo di quello destro di quattro pollici, sicché tirava frecce di quindici mani [palmo chiuso].

Un po’ di iperbole poetica? Pace. Tametomo è un personaggio spettacolare!

Tornando a noi, il decimo giorno del settimo mese dello stesso anno, Sutoku stabilì il proprio quartier generale nella residenza di Shirakawa, Goshirakawa in quella di Takamatsu (non vi confondete!).

Appena installati, Tameyoshi e Tametomo proposero di effettuare un attacco a sorpresa contro il palazzo di Takamatsu approfittando della notte. Sfortunatamente per loro a comandare erano degli aristocratici civili, e Yorinaga rifiutò il permesso. Ma ti pare stare a sentire un militare di professione svezzato a cinghiate e raid nemici? Un attacco notturno è roba da banditi.

Una sorpresa notturna, dici, ma può andar bene al limite per una guerra privata, fatta sa dieci o venti cavalieri! E’ ben evidente che quando il Sovrano presente e il Sovrano Esaltato si disputano l’Impero una sorpresa notturna sarebbe del tutto inopportuna!

Non è bello quando gente del tutto verde discute di tattica? Tameyoshi e i suoi non poterono che bestemmiare e sperare che anche Goshirakawa avesse collaboratori altrettanto fessi.

Speranza vana.

Goshirakawa si era scelto degli alleati molto meno sprovveduti: quando Yoshitomo propose un attacco notturno al palazzo di Shirakawa, il consigliere Shinzei approvò senza remore.

All’alba dell’undicesimo giorno, la residenza di Shirakawa fu cinta d’assedio da 300 cavalieri di Kiyomori, 200 di Yoshitomo, 100 di Yoshiyasu (trattandosi di un attacco a sorpresa, è probabile che non ci fossero truppe a piedi). Gli attaccanti erano sostenuti dai Genji Yorimasa, Shigenari e Nobukane.

Gli uomini di Tameyoshi opposero una resistenza feroce ma, guarda un po’ te chi se lo aspettava, la residenza nobiliare non era tenibile, e in 4 ore i sopravvissuti dovettero risolversi a una ritirata precipitosa.

Non fu una lunga fuga. Lo stesso anno Yorinaga morì per le ferite subite, Tameyoshi e Tadamasa furono decapitati, e Sutoku fu spedito in esilio a Sanuki dove divenne pazzo per la rabbia e il dolore. Nello Hougen l’Imperatore destituito culmina la sua tragica follia con una terribile maledizione.

“[…] Rigettato nelle Tre Vie del male, possa io, in virtù dei miei sforzi, diventare il più grande demone del Giappone, e farò del sovrano un soggetto e del soggetto un Sovrano!” Disse, e con un morso si tranciò la punta della lingua. Col sangue che sgorgò tracciò le sue maledizioni alla fine del Libro del Grande Veicolo:

“Da Bonten a Taishaku in alto e gli dei sotterranei in basso, vogliano tutti gli dei unire le loro forze per il compimento del mio voto!”

Che Sutoku si sia mangiato la lingua in un raptus o meno, morì di inedia (inflitta o aiutato) il secondo anno di Chōkan (1164), all’età di quarantasei anni.

Tutto bene quel finisce bene quindi, no?

Hum.

Circa.

Goshirakawa promosse i suoi consiglieri, Shinzei e Nobuyori, e si lanciò un una serie di risanamenti e modifiche politiche, specie per quanto riguardava lo statuto degli shōen, dei templi e dei santuari (cosa che le teste pelate non apprezzarono né punto e né poco).

Quanto ai guerrieri, riassumiamo:

Kiyomori era ormai a capo delle bande di Iga, Ise, Kawachi, Bizen, Bicchū.

Yoshitomo controllava le bande di Ōmi, Mino, Owari, Mikawa, Tōtomi, Suruga, Sagami, Awa, Kazusa, Musashi, Kōzuke, Shimotsuke, Hitachi, Kai e Shinano.

In rosso le provincie sotto l’influenza Taira, in blu quelle sotto l’influenza Minamoto

In parole povere, i Taira controllavano l’ovest, più popolato e sviluppato, mentre i Minamoto gravitavano verso l’est, più selvaggio e disabitato. Se Yoshitomo aveva le zampe su più province di Kiyomori, doveva fare i conti con un clan indebolito dalla perdita di numerosi uomini di valore, tra cui i suoi generali più capaci, Tameyoshi e Tametomo.

Al contrario, Kiyomori aveva eliminato un concorrente e consolidato il clan, accaparrandosi province ricche e popolose.

Nello Hōgen monogatari viene raccontato che Yoshitomo aveva sperato fino all’ultimo che la sua bravura in battaglia e la sua partecipazione nella vittoria gli avrebbero permesso non solo di elevare il nome della famiglia, ma di ottenere la grazia per i suoi, almeno per suo padre.

Siamo alla fine dell’Epoca di Heian, la pena capitale esisteva, ma restava una pratica molto rara, specie ai danni di grandi personaggi. Di solito si preferiva spedire il perdente in esilio, o costringerlo a prendere i voti in un monastero di provincia. Benché lo Hōgen monogatari sia molto romanzato, è credibile che Yoshitomo sperasse di ottenere la grazia per i suoi.

Non fu concessa. Nella versione romanzata Yoshitomo nasconde suo padre e gli promette protezione, quando la Corte li scopre. A Yoshitomo viene data la scelta: o presenterà la testa di suo padre, o i nobili manderanno un boia a fare il lavoro.

Che il capitolo annoda-budella dello Hōgen sulla morte di Tameyoshi sia accurato o meno, il fatto resta: l’ordine fu dato, la capoccia decollata.

Alla fine della guerra, Yoshitomo si trovò indebolito più che non rinforzato. La sua fedeltà era stata ripagata con la testa mozzata di suo padre, e l’uomo che aveva sacrificato di meno, Kiyomori, era quello che ora commerciava con la Cina e s’ingrassava sul Mare Interno.

Il risentimento è un seme bastardo, e in condizioni favorevoli attecchisce all’istante, con conseguenze disastrose.

E le condizioni favorevoli si presentarono prestissimo: tolti di mezzo i fratelli Fujiwara, era il turno di Nobuyori e Shinzei di scannarsi per determinare chi era il primo gallo del pollaio. I morti di Hōgen erano ancora caldi, ma le basi dei disordini di Heiji erano già solide.

Ma questa è un’altra storia!

MUSICA!

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BIBLIOGRAFIA

UESUGI Kazuhiko, Genpei no sōran, Yoshikawa Kōbunkan, 2007, Tōkyō

KAWAJIRI Akio, Taira Masakado no ran, Yoshikawa Kōbunkan, 2007, Tōkyō

HERAIL, Francine, Aide-mémoire pour servir à l’étude de l’Histoire du Japon des origines à 1854

SIEFFERT René, Le Dit de Hōgen; le Dit de Heiji, Verdier, 2007, Francia

Horror e aspirine

Di ritorno dagli Altai era mia ferma intenzione pubblicare un articolo di Storia. Purtroppo mi sono buscata un qualche tipo di peste, quindi in attesa che l’articolo sulla Guerra di Genpei sia presentabile, vi cuccate una rapida carrellata di tre film recenti che ho avuto occasione di sorbirmi.

DEAD MINE


Film indonesiano uscito nel 2013, è il terzo film del regista Steven Sheil, un realizzatore non proprio prolifico (i suoi primi due film sono uno del 2002, Cry, e uno del 2008, Mum &Dad).

La storia

Il figlio di un milionario, Price, è sulle tracce del fantomatico oro di Yamashita, un favoloso tesoro di guerra che i giaps hanno messo insieme saccheggiando mezzo Sud-Est Asiatico e nascosto da qualche parte in una base delle Filippine. Nel film, le ricerche di Price e di Rie li guidano non tanto nelle Filippine, ma in Indonesia.

Price è accompagnato dalla fidanzata, un ex-militare inglese, la studiosa giapponese e cinque mercenari assoldati per proteggerli da pirati e predoni.

I nostri trovano effettivamente la base, realizzata riconvertendo una miniera preesistente, ma sono convenientemente attaccati da tizi cattivi e costretti a rifugiarsi all’interno. I cattivi non identificati danno un’altra spintarella alla trama tirandogli dietro una bomba a mano: uno dei mercenari si fa molto male e restano bloccati dentro.

To be fair, il capoccia dei mercenari, Captain Tino Prawa, avanza l’ipotesi che i cattivi non siano solo una pigra variante della classica Frana-Che-Chiude-I-Protagonisti-Nel-Tunnel-Ommioddio, ma che siano predoni che picchettavano la zona, a caccia dello stesso tesoro che Price sta cercando. E’ un pochino meno visto e rivisto della Frana-of-Doom, ma resta chiaramente un plot device.

Anyway, le carte sono sul tavolo: i nostri sono bloccati dentro con un ferito e devono trovare un’uscita secondaria. Non resta altro che esplorare le gallerie.

Ovviamente il gruppo non è solo. Arrivati davanti a una seconda entrata, qualcuno accende le luci e attacca un’allegra canzoncina militare su come il glorioso esercito imperiale spazzerà via i diavoli occidentali (l’importante è credrci).

A differenza della maggior parte dei film di questo genere, in questo c’è una ragione se l’impianto continua a funzionare dopo tanti decenni di presunto abbandono, e perfino una ragione se si attiva proprio in quel momento, e ciò è bene, perché la scena non è gratuita.

Andando avanti nell’esplorazione, i nostri trovano uffici e magazzini abbandonati, e finalmente Rie raccatta il fiato per spiegare meglio lo scopo della base: la miniera lavorava per l’Unità 731, che avrete magari sentito nominare. Si tratta di un’unità per lo sviluppo della guerra biologica. Operava soprattutto in Cina, e il responsabile, il tristemente noto dottor Ishii, fu processato durante quella baracconata nota come il Processo di Tokyo.

Tornando a noi, come detto, il gruppo non è solo: oscure presenza si aggirano nei cunicoli, e sono a caccia di carne fresca.

I daresay, certe immagini si addicono molto al mio gusto raffinato ed elegante

Dead Mine riprende il classico dei mutanti e lo riedita in modo più articolato. I “mostri” in questione non si riducono a mere riedizioni di Gollum sotto steroidi.

I prigionieri di guerra sono stati chiaramente usati come cavie, e ora infestano la miniera come mostri. Le museruole che portano ancora sul muso non gli impediscono di essere abomini antropofagi.

Non sono solo: a un certo punto l’inglese e la studiosa sono catturati da nientemeno che un ufficiale giapponese, sfigurato dalla “cura” messa a punta dalla 731 ma ancora abbastanza arzillo nonostante gli ottant’anni suonati.

Infine, una versione perfezionata della droga era stata messa a punto prima della fine della guerra, e somministrata a un gruppo di soldati d’élite. Nel profondo della miniera, la Guardia Imperiale dorme, in attesa di essere risvegliata e di marciare per la Patria e l’Imperatore.

Il budget del film è limitato, e si vede. Spesso le gallerie sono fatte con cartapesta, ed è penosamente chiaro che si tratta di cartapesta. Sembrano le scenografie di un teatrino comunale.

Il gore non è molto, ed è una saggia decisione, perché niente ammazza la tensione come un’esilarante scena di squartamenti a poco. Difatti certe morti invece di essere tragiche o paurose risultano quasi comiche.

Nell’insieme gli attori fanno un buon lavoro. I personaggi non sono eccelsi, ma sono credibili e la recitazione resta su un livello più che sufficiente (alcuni meglio, come il capitano indonesiano e il veterano inglese, altri più meh, come la studiosa giapponese o la fidanzata del milionario). Insomma, nessuno brilla per particolare originalità, ma sono tutti dignitosi.

Il film scansa gran parte dei clichés telefonati. Sarebbe stato facile fare di Price il cliché del ricco stronzo che non ha nessun riguardo per la vita dei suoi compagni, ma la sceneggiatura riesce a smussare gli angoli e renderlo più umano e meno caricaturale.

Un altro cliché popolare in questo genere di film, che io odio, è quello del laboratorio che perde il controllo dei propri mutanti super-soldatoni. Nella fattispecie non accade: nonostante le apparenze, la Guardia Imperiale ha tutto sotto controllo, e lo dimostra.

Gonna go bushido on your ass, gaijin

La Guardia Imperiale è un piacere per gli occhi, e per il poco screentime che hanno fanno un’eccellente figura, coordinati e muti, ma non troppo robotici da risultare rigidi.

Riassumendo

La storia non è originale, è il classico film di mutanti e gallerie
Gli elementi storici presenti sono usati in modo decente
I personaggi sono già visti e rivisti
Tra sceneggiatura e recitazione sono comunque credibili e passabili, anche se nessuno di loro risulta davvero memorabile
Il budget era basso, e certe scene de soffrono molto
La Guardia Imperiale
Il film riesce a scansare alcuni dei più scrausi clichés
Altri invece sono ben presenti
Il film non fa paura
Resta un Action passabile

 

Nell’insieme, il film in sé è molto classico, e la sola cosa originale che porta sulla tavola è l’esercito giapponese e l’unita 731. Ma nonostante la scarsa originalità gioca bene le proprie carte, e il risultato, pur non essendo eccelso, resta divertente da guardare.

Se avete voglia di distrarvi e avete un’ora e mezza da uccidere, dategli un’occhiata.

 

OCULUS


Questo è un Horror senza Action, proiettato nel 2013 e realizzato dal regista Mike Flanagan.

La storia apre col giovane Tim che viene dimesso dall’ospedale psichiatrico. Si capisce che la sua permanenza lì ha a che fare con la morte dei genitori e che fuori dall’ospedale lo aspetta una sorella maggiore, Kaylie, che potrebbe non avere tutte le rotelle a posto a seguito del trauma.

In sunto, dieci anni prima il padre dei due ha torturato e assassinato la moglie, e ha cercato di uccidere anche i figli, finché Tim non lo ha freddato con una rivoltellata.

Kaylie cerca di coinvolgere il fratello (in nome di una fantomatica “promessa” di cui Tim non si ricorda) in una bizzarra operazione che ha per oggetto uno specchio antico, presente in casa all’epoca della tragedia e che Kaylie ritiene responsabile per la follia del padre.

Secondo Kaylie, lo specchio è la sede di un’oscura entità, che seduce e manipola i possessori fino alla rovina. Kaylie è determinata a provare che il padre non era responsabile per i fatti di dieci anni prima e che lo specchio è davvero magico, per poi distruggerlo con un pendolo automatico (lo specchio, a detta sua, ha una volontà propria ed è impossibile per un essere umano fargli del male).

In tutto questo, vuole l’aiuto di Tim, che dal canto suo considera tutta la faccenda pura follia. Secondo i suoi ricordi, lo specchio non ha mai giocato un ruolo, il padre è schiodato a seguito della grave depressione della moglie (depressione che lui stesso a causato con la propria infedeltà).

Il film corre su due binari: il passato, con Kaylie e Tim bambini, e il presente, durante l’esperimento.

Il regista gioca bene sull’ambiguità: nonostante ci si aspetti l’azione di qualcosa di soprannaturale, fino a un terzo del film Tim potrebbe avere ragione e Kaylie potrebbe in effetti essere matta.

Quando lo specchio comincia a reagire alla presenza dei due fratelli, è lì che il film decolla. La linea si assottiglia tra realtà e illusione, fino a sparire. Così, mentre i ricordi dell’infanzia tornano sempre più vividi, si riduce la separazione tra passato e presente. La faccenda ricorda un po’ quando cerchi di svegliarti da un incubo e una volta aperti gli occhi ti rendi conto che stai sempre dormendo.

La recitazione è ottima, ed è quello che tiene in piedi questo film. La sceneggiatura pure è più che buona. Quando Tim dubita, è logico che dubiti, e quando inizia a credere è verosimile che inizi a credere a quel punto e che reagisca in quel modo. Anche quando pare assodato che c’è una forza soprannaturale dietro tutta la faccenda, il film non esagera mai, lasciando sempre un piccolo spazio di manovra per il dubbio. Dopotutto la storia potrebbe essere un ricordo deformato, magari i due fratelli hanno re-immaginato una situazione complicata, la follia del padre era in realtà un genitore costretto a gestire una situazione difficile, e l’influenza dello specchio potrebbe essere una reinterpretazione del loro sentimento di impotenza davanti a un mondo di adulti incomprensibile e pauroso. Dopotutto, in una delle prime scene, è proprio Tim a spiegare alla sorella come la nostra mente può rielaborare informazioni reali in scenari falsi o ingannevoli.

Oh hi there…

Quindi è trp bllximo?!

Quasi.

Il film ha qualche problema.

Ad esempio, lo specchio mangia il cane dei due fratelli. Tuttavia, quando si tratta di esseri umani, le vittime non spariscono, lasciano dietro i propri cadaveri. Allora come funziona, sparisci nel mondo dello specchio come le streghette di Madoka, o diventi pazzo e muori nel mondo reale?

Inoltre, Kaylie sa che lo specchio è pericoloso e manipola le persone, eppure lo guarda direttamente senza remore. Vero che prende una serie di precauzioni, quindi il suo comportamento potrebbe essere spiegato con eccessiva fiducia nella propria intelligenza, ma resta un po’ troppo avventato per un personaggio come lei.

Ci sono anche un paio di jump-scares di cui si poteva anche fare a meno.

In sunto

La storia non è proprio originalissima
La sceneggiatura se la cava molto bene con quello che ha
Buona recitazione
I personaggi sono tutti buoni
Illusione, passato e incubi sono gestiti molto bene, senza essere troppo confusi né troppo scodellati
I fantasmi
L’azione dello specchio e il senso di catastrofe imminente
Kaylie guarda direttamente lo specchio anche quando non è necessario, pur sapendo che sta correndo rischi inutili
I cani che spariscono… che se sei quadrupede sei assorbito, se sei bipede no?
Jump-scares non necessari
L’atmosfera generale è molto ben gestita

 

L’artefatto maledetto che manipola gli abitanti della casa non è certo una novità. A volte dà la luce a capolavori immortali del retard, come Amityville 4, in cui una lampada da salotto incarna nientemeno che il Diavolo in persona, guida furgoni e uccide idraulici.

In questo caso però l’idea è ben realizzata e il film gestisce bene il proprio gioco. In rapporto al genere, fa un lavoro migliore di quanto non faccia Dead Mine.

 

INSENSIBLES


Film del 2012, primo lungometraggio di Juan Carlos Medina.

Negli anni ’30 in Catalogna nascono dei bambini affetti da una rarissima condizione medica: sono del tutto insensibili al dolore. Considerati un pericolo per il prossimo e soprattutto per se stessi, i marmocchi vengono radunati dal dottor Carcedo e portati in quel di Canfran, in un ospedale-prigione dove i possano vivere senza auto-mutilarsi a morte.

La situazione cambia quando un prestigioso luminare tedesco, Dr Holzmann, offre a Carcedo la sua preziosa collaborazione. In cambio, Holzmann vuole solo ospitalità: Holzmann è giudeo e non ha nessuna voglia di tornare in Germania. Forte della sua maggiore preparazione, il crucco crede che sia possibile reintegrare i bambini nella società insegnandogli come sopravvivere, insegnandogli cos’è il dolore.

Ai giorni nostri David, chirurgo, ha un colpo di sonno al volante. Esce vivo dall’enorme incidente, ma sua moglie è morta, suo figlio è un feto prematuro che a stento sopravvive in incubatrice e dalle analisi salta fuori che lui ha una gravissima e rarissima forma di leucemia. Immagino che quella settimana il suo oroscopo recitasse “non muoverti dal letto percaritàd’Iddio”.

David ha quindi bisogno di un trapianto di midollo spinale. Ed è lì che scopre che i suoi genitori, con cui già non è in termini proprio affettuosi, non sono in realtà i suoi genitori: David è figlio di una prigioniera di Canfran, adottato dopo che il vero figlio di suo padre è nato morto.

David si trova quindi a dover rintracciare i suoi genitori biologici. Spera di poter contare su suo padre, che bizzarramente gli oppone una resistenza spietata e testarda.

Anche questo film si svolge su due periodi temporali. Negli anni ’30, uno dei bambini, Benigno, risulta uno dei pazienti più difficili e allo stesso tempo promettenti. Al giorno d’oggi, David deve rivangare il buio periodo della guerra civile e del franchismo per salvare la propria vita e non lasciare suo figlio orfano.

Difatti l’ospedale di Canfran prima viene sfruttato manu militari dai rossi, poi dai neri. Infine, un ufficiale tedesco riprende in mano la struttura, che viene convertita in prigione per anarchici e comunisti. Benigno, il solo sopravvissuto dei pazienti, viene rinominato Berkano, e assunto dalla nuova amministrazione.

Le sequenze in cui la guerra irrompe nella vita dell’ospedale sono realizzate bene, molto vicine a certe scene di Benicio del Toro, a cui Medina chiaramente si ispira, senza però scopiazzare. Insensibles non eguaglia El laberinto del Fauno, uno dei miei film preferiti in assoluto, ma se la cava in modo più che dignitoso.

La recitazione è buona per tutto il film. In particolare i bambini danno performances notevoli. I fratelli Ilias Stothart (Benigno bambino) e Mot Stothart (Benigno adolescente) fanno un ottimo lavoro nel trovare il giusto equilibrio tra l‘inespressiva freddezza di chi non conosce il dolore e l’espressività di un bambino che per altri versi è normale.

I personaggi sono tutti ben fatti e credibili. Carcedo ad esempio è un antagonista per tutta la prima metà del film, è un dottore mediocre e ostinato, ma allo stesso tempo il suo senso di responsabilità verso i bambini è sincero. Il padre di David (El Confesor!) è un ufficiale crudele e privo di remore, ma è mosso da una sincera convinzione che il Comunismo sia il grande male dell’umanità. Non ha nessuna empatia per i prigionieri, ma chiaramente ama sua moglie e si affeziona al figlio adottivo. Holzmann è un brav’uomo e un ottimo ricercatore, ma è imprudente.

Insomma, Carcedo ha le sue buone ragioni per volerli tenere in camice di forza…

Insomma, chi è buono, chi cattivo, ma tutti sono umani, ed è la guerra il crogiuolo che alla fine forgia gli eroi, le vittime o i mostri.

Quindi è un film trp bllximo?!

Hum…

Non proprio. Ha un paio di problemini.

Il primo: i bambini sembrano avere tutti grosso modo la stessa età. Nascono tutti in Catalogna e la loro condizione viene scoperta solo quando hanno circa sei o sette anni. Non solo nessuno pare nemmeno chiedersi il “perché”, ma nemmeno si spiega come mai nessuno abbia notato la menomazione prima di quel dato periodo.

Il secondo: a un certo punto i nazi controllano l’ospedale e il cibo non basta più, i bambini si ammalano e deperiscono. Un’infermiera propone ad Holzmann di rimandare i bambini alle rispettive famiglie. Holzmann risponde “C’è una guerra civile, saranno di sicuro tutti morti”.

Così, e basta.

Holzmann, che cazzo dici? Una scusa migliore no?

Il terzo: il colpo di fulmine di Berkano per la bella anarchica. Facepalm. E’ la cosa più contrived, forzata e raffazzonata del film. Non è nemmeno la svolta in sé a essere fastidiosa, è la fretta. Un minuto Berkano sta per taglieggiare la fanciulla, un minuto dopo la libera e le mette il bisturi in mano. Per essere un film che prende il suo tempo a stabilire con estrema cura tutti i personaggi, potevano anche spendere più di mezzo minuto su quello che poi è uno dei punti cardine della vicenda (il concepimento di David).

Il quarto: la fine.

Porca miseria la fine.

Il film resta realista per tutta la durata, e gli ultimi cinque minuti… butta insieme stupidità e WTF da due lire.

Il perché un po’ si spiega. Il punto è: non ci si può redimere dal passato, le colpe dei padri ricadranno per sempre sui figli, il dolore e la violenza commessi in un attimo continueranno a ferire e dolere per anni e anni, tutta la buona volontà del mondo non potrà annullare una cattiva azione.

E’ un buon messaggio, che personalmente condivido. Ma ci sarebbe stato modo di cucirlo in modo elegante nella trama senza ricorrere a quello che pare simbolismo da terza media.

La storia
I personaggi
L’atmosfera
La sceneggiatura
Il messaggio complessivo della storia
L’arco del personaggio del deuteragonista da Benigno a Berkano
La storia della prigioniera anarchica
La storia corre su due binari temporali, ma non è mai confusa o incasinata
Nessuno si chiede perché i bimbetti anormali siano tutti in Catalogna
Nessuno si accorge che i marmocchi sono insensibili fino a che non hanno sei o sette anni
La faccenda della scarsa lacrimazione non serve a nulla se non a rendere la storia meno credibile
“Saranno di sicuro tutti morti” WTF
La fine

 

Sono sette grumpy approvanti contro sei, ma non lasciatevi ingannare: quelli positivi sono più “pesanti” si quelli negativi. Il film non è perfetto e la scena finale è una cagata, ma tutto sommato Insensibles è un film dignitoso.

Questo è tutto. L’articolo su Genpei prenderà un po’ di tempo: ho in mente qualcosa di ponderoso e noioso come piace a me!

Nel frattempo, MUSICA!