Vite anonime di gente interessante: il sito di Vagnari, centro industriale della Puglia Imperiale

6 gennaio 2021.

Tenger è alla dacia di famiglia. Non c’è riscaldamento, sul tavolo il lavoro di ammucchia, fuori c’è mezzo metro di neve, negli Stati Uniti il Re dei Furries ha espugnato il Campidoglio.

Mi sento un po’ eroina russa, un po’ sentinella alla Fortezza Bastiani

Volevo cominciare questo anno con qualcosa di stimolante, ma visto come abbiamo ingranato ho optato per qualcosa di assolutamente rilassato e privo di implicazioni politiche. C’è tempo per la polemica e tempo per la distrazione, no?

Oggi andiamo in Puglia, nella Valle del Basentello, e parliamo di cose strane e interessanti!

Il posto

Il Basentello è un fiume che segna il confine tra Potenza e Bari. Nel 2000 Alastair Small, archeologo dell’università di Edinburgo, sta conducendo una survey nella zona e individua un sito di possibile interesse a Vagnari, comune di Gravina, provincia di Bari. Il posto si trova nei pressi del tracciato della via Appia.

Lo stesso anno un cantiere viene organizzato in collaborazione con le università di Bari, Edinburgo, McMaster, Foggia e Glasgow.

Presto viene individuata un’area di circa 3,5 ha, tagliata da est a ovest da un calanco. Sulla parte Nord si trovano tracce di un villaggio del I°-IV° secolo d. C., mentre sulla parte sud si stende il cimitero. Nei paraggi, nel sito di San Felice, salta fuori una magione di lusso, molto probabilmente la residenza del dirigente incaricato di gestire il vicus di Vagnari. D’acchito, l’intera faccenda promette bene: gli archeologi hanno scovato quello che ha tutta l’aria di essere un centro agricolo e industriale.

Tra le prime cose a essere individuate nella parte abitata, un mulino e quella che sembra essere una forgia. Nel cimitero invece, sotto uno strato di terra agricola, emergono numerose tombe “alla cappuccina”, tipiche per gli individui di estrazione modesta.

Vagnari è una trovaglia particolarmente interessante, perché le fonti scritte offrono davvero pochi dettagli sulla vita quotidiana della regione in questo periodo, e quei pochi dettagli tratteggiano una zona poco sviluppata e popolata. Ad esempio, Seneca cita la Puglia nell’epistola 87, parlandone come di una zona con poca gente e vasti latifondi.

Vagnari per contro è un villaggio popoloso, con una manifattura specializzata. Gli scavi sono l’inizio di una lunga ricerca che permetterà di avere uno sguardo più preciso sulla storia della regione, e che regalerà anche un paio di interessanti sorprese!

Il vicus

Come abbiamo accennato, il vicus di Vagnari era vicino alla via Appia. Nonostante questa sia stata una delle arterie principali nel periodo tardoantico, in epoca imperiale stava perdendo relativamente di importanza rispetto alla via Traiana. Secondo Small, questo fattore incoraggiò lo sviluppo di comunità cerealicole nella zona: nel primo e medio periodo imperiale, notiamo un moltiplicarsi dei siti, in particolare di piccole fattorie, che prima erano in declino. I vici del periodo non vivevano in autarchia, ma in una rete di scambi e contatti con gli altri centri della regione e del paese.

Nella parte nord del sito è emerso un insediamento databile al periodo tardo-repubblicano. Il villaggio declina bruscamente con la fine della Repubblica, ma rifiorisce alcune decadi dopo, con un picco di costruzioni intorno al I° secolo d. C.

Sul limite settentrionale è stato ritrovato un edificio imponente, in pietra. A sud di questo, una seconda costruzione per la lavorazione di metalli, attiva probabilmente durante il III° secolo. Altri indizi suggeriscono la lavorazione di cereali e la fabbricazione di tegole.

Insomma, si delinea come quello che doveva essere un centro industriale piuttosto importante in questa zona.

Secondo Carroll Maureen, in questo periodo l’Imperatore acquistò numerosi terreni nella regione. E’ possibile che Vagnari sia un’azienda di proprietà del sovrano.

Nel rapporto del 2015 Christopher Smith afferma che il posto pare lavorare diversi tipi di materiali, con una specializzazione nel lavoro del piombo. Sono stati estratti circa un centinaio di oggetti in piombo, tra cui pesetti a forma di conchiglia, placche rettangolari, frammenti.

L’industria del piombo è notoriamente tossica, e gli abitanti di Vagnari pativano senza dubbio dell’inquinamento che ne derivava.

Non bisogna però immaginarsi Vagnari come un posto miserabile, al contrario: frammenti di pannelli di marmo e altri segni di lusso indicano che gli edifici erano tutt’altro che tuguri di disperati. Nel corso del I° secolo il centro sembra crescere e le attività aumentare, al punto che viene perfino costruita una cella vinaria completa di dolia importati da Roma.

Dolium

Vagnari era anche un centro agricolo, dove si allevavano maiali, capre e pecore, e dove si coltivavano cereali: sono state trovate trace di grano duro, avena, avena selvatica, orzo e monococco. Questi cereali venivano stacciati, e la pula è stata ritrovata mischiata all’argilla che riveste le pareti interne dell’edificio settentrionale.

L’insediamento entra in crisi col finire del III° secolo. I segni di attività diminuiscono e gli edifici come la cava vinaria vengono abbandonati e gradualmente smantellati per recuperare i materiali.

La zona resterà comunque abitata anche dopo il collasso dell’Impero, ma il villaggio sarà trasferito sulla parte meridionale, dove i Vagnaresi continueranno a vivere e lavorare fino al VII° secolo.

La necropoli

Il cimitero è la parte più interessante della faccenda, perché a noi della Fortezza pacciono le cose morbose!

Cominciamo col dire che non saltano fuori epitaffi, quindi i morti di Vagnari restano anonimi. A fine 2012 lo scavo della necropoli copre un’area di 30m x 15m, ma la superficie totale è stimata a circa 2.100 metri quadrati.

Sono emerse un centinaio di tombe, suddivisibili in 4 tipi:

  • Inumazione semplice
  • Inumazione alla cappuccina
  • Tombe dotate di un canale per libazioni
  • Cremazioni

Non c’è bisogno di spiegare l’inumazione semplice: fai un buco, ci tiri il cadavere, copri il buco. Solo 8 sono inumazioni semplici.

La tomba “alla cappuccina” significa una fossa non troppo profonda dove il morto viene steso col proprio corredo funerario (se ne ha), coperto di tegole piatte (tegulae) a formare un V rovesciato, e sepolto. Esistono molte varianti sul tema: a volte il morto è steso direttamente in terra, a volte su uno strato di tegole; a volte ha delle tegole semi-cilindriche (imbrex) a mo’ di “colmo” sopra quelle piatte; a volte ha un imbrex sotto la nuca a mo’ di cuscino, ecc.

La stragrande maggioranza delle tombe sono “alla cappuccina”.

Le tombe con canale per libazioni sono simili a quelle “alla cappuccina”, ma in più hanno una sorta di canala che affiora dalla terra, talvolta realizzata con due imbrex. Questa “condotta” tra il morto e il mondo dei vivi permetteva di fare offerte e libazioni.

Le tombe con un morto cremato sono solo 2, risalenti al II° secolo, e in una le ceneri sono state poi coperte “alla cappuccina”. In effetti, col periodo imperiale si comincia a privilegiare l’inumazione, almeno in certe parti della penisola. Le tombe con morti cremati sono l’eccezione e hanno un corredo funebre più ricco della media, il che lascia supporre che gli individui inceneriti fossero di uno status sociale più alto degli altri.

Nell’insieme, le tombe di Vagnari sono modeste.

Solo 9 tombe non presentano nessun oggetto funerario.

Scordatevi però i sontuosi tesori dei giganteschi tumuli coreani: l’oggetto più comune ritrovato a Vagnari è l’umile e proletario vaso di terracotta, solitamente rotto prima dell’inumazione (la rottura del vaso prima della deposizione è ricorrente nella pratica funeraria romana). Nel 91% dei casi è l’unico tipo di bene funerario rinvenuto.

Tuttavia non abbiamo trovato solo quello: già dai primi scavi saltano fuori pezzi di ceramica sigillata, e più in particolare ARS (African Red Slip), prodotta per lo più nel nordafrica e molto apprezzata. Emergono anche lampade e frammenti di contenitori in vetro, monete, perfino alcuni contenitori in bronzo.

La concentrazione e la qualità degli oggetti è più alta rispetto ad altri cimiteri rurali dello stesso periodo, il che suggerisce da subito che la gente di Vagnari viveva un’esistenza modesta, fatta di duro lavoro, ma non miserabile.

In diverse tombe, peraltro, troviamo un chiodo, dritto o piegato, spesso associato a un vaso. Anche questa non è una novità nella pratica funeraria del periodo: il chiodo aveva senza dubbio una funzione magica, o come talismano o per tenere “inchiodate” sottoterra forze maligne. Il chiodo magico anti-fantasma è stato trovato in 43 delle 98 tombe studiate finora. In 35 di questi casi, era associato a un vaso.

Toynbee parla di questa pratica nel suo libro del 1971, Death and burial in the Roman World. Non l’ho consultato per questo articolo perché le biblioteche sono oltre i passi innevati e su Amazon costa un po’ caruccio, quindi sarà per il prossimo Natale.

In molti casi, il chiodo e il vaso sono accompagnati da una lampada: su 30 delle tombe indisturbate e contenenti un chiodo, 26 avevano anche lampade, il che lascia presupporre che la lampada, il chiodo e il vaso giocassero un ruolo magico sinergico nel separare il morto dai vivi e guidarlo nel suo percorso.

Scavo nella necropoli

Gli oggetti erano do solito deposti accanto ai piedi, le gambe o le mani del morto, raramente vicino alla testa. Questo è particolarmente vero per le lampade, solitamente posate accanto ai piedi, che erano probabilmente deposte accese e poi coperte con le tegole, allo scopo di rischiarare il percorso del defunto.

Monili modesti come collanine, anelli in bronzo, o perfino un paio di piccoli orecchini in oro, sono pure stati ritrovati. Dalla posizione, è probabile che il morto li indossasse al momento di essere seppellito. I defunti venivano quindi adornati prima di essere consegnati all’Oltretomba.

In alcuni casi il morto era accompagnato da utensili, senza dubbio i suoi strumenti di lavoro in vita.

In “Burial practices and patterns of distribution in the Vagnari cemetary”, Brent e Prowse notano che, generalizzando, gli infanti (0-6 anni) hanno meno doni funerari. I defunti di più di trent’anni hanno di media 5,6 oggetti, i giovani tra i 15 e i 30 ne hanno di media 6, mentre i pargoli di meno di 1 anno ne hanno di media 2,5.

E’ probabile che gli oggetti scelti per costituire il corredo fossero rappresentativi del ruolo, mestiere o posizione sociale della persona, tutte cose che un bambino non ha avuto il tempo di ottenere. Ad ogni modo anche i bimbi lattonzoli portano con loro collanine o spille, traccia dell’affetto, la cura e il dolore dei genitori di Vagnari.

Per quanto riguarda gli adulti, c’è una leggera differenza tra i sessi: le tombe maschili contengono una media di 6,1 oggetti, le tombe femminili una media di 5,4. Le donne sembrano quindi avere avuto un ruolo subalterno (SORPRESA!), ma non drammaticamente inferiore agli uomini.

Ovvio, non possiamo avere la certezza che lo status in morte sia davvero corrispondente allo status in vita.

Ci sono differenze secondo i sessi anche nella qualità degli oggetti trovati: alcuni oggetti, come monete o contenitori in vetro, si ritrovano in modo abbastanza uniforme nelle tombe, mentre 12 tombe maschili e solo 5 tombe femminili contenevano resti di scarpe. Di nuovo, constatiamo una probabile differenza nel rituale per uomini e donne.

Altri oggetti, come i braccialetti, si trovano solo nelle tombe di individui al di sopra di una certa età, il che mostra un cambiamento di status sociale legato all’età.

Sono saltati fuori anche dei contenitori in bronzo, ma solo in 6 tombe, all’occorrenza 6 delle tombe più ricche, con un bottino funebre di 15,3 oggetti di media! Di questi sei pezzi grossi, 4 erano maschi, 1 era femmina, e 1 un mucchietto di cenere.

Brent e Prowse notano che in altri cimiteri dello stesso periodo, come quello di Musarna vicino a Viterbo, uomini e donne hanno un corredo funebre abbastanza equivalente. Queste 6 tombe suggeriscono che a Vagnari, all’interno della comunità operaia e contadina, c’erano degli strati sociali distinti, e che questo status relativamente elevato rispetto agli altri abitanti era per lo più occupato da uomini.

Esempio di ceramica sigillata

Le ceramiche estratte dal cimitero hanno depositi notevoli di sali di calcio rispetto a quelli estratti fuori dal cimitero, il che lascia supporre a Small che la sepoltura includesse l’uso di calce viva, per accelerare la decomposizione.

Della serie “parti coi nostri regali, ma parti alla svelta!”.

Sometimes dead is better!

Prowse ha analizzato gli scheletri e determinato segni di usura interpretabili come danni inflitti dal lavoro pesante. Gli scheletri dei subadulti mostrano spesso lesioni al cranio di solito causate da mancanza di ferro, che può essere provocata da una malattia o da una dieta sbagliata. Infine, nonostante i denti siano mediamente in condizioni relativamente buone, Prowse rileva una ricorrente usura degli incisivi. Ciò può significare in alcuni casi che i denti erano usati come strumento per tagliare/spezzare qualcosa, o più in generale che il cibo consumato era particolarmente tosto.

Insomma, a Vagnari si mangiava il pane da battaglia dei nani!

Antica specialità pugliese, Pane da Battaglia nanico

Più precisamente però: che tipo di gente abitava a Vagnari?

E’ qui che il sito ci riserva una sorpresa, ma una cosa alla volta!

Prowse nota che l’area di Vagnari era densamente popolate nel IV° secolo a. C., ma che la densità di popolazione declina tra il III° e il II° secolo a. C. In questo periodo troviamo solo un piccolo insediamento nella porzione nord del sito.

Come abbiamo visto, questo cambia in periodo imperiale, ma chi abitava e lavorava in questo centro agricolo e industriale?

L’unico documento scritto ritrovato è costituito da una tegola databile tra il 50 a. C. e il 50 d. C., su cui è stampigliato “ GRA[ti]…/CAES[aris]”, ovvero “Gratus, schiavo di Cesare”, il che supporta l’ipotesi che Vagnari fosse una tenuta di proprietà dell’Imperatore.

Bisogna però sottolineare che questa tegola è stata trovata vicino a un forno e non nella necropoli. Quindi non sappiamo se il buon Grato viveva e lavorava a Vagnari o se risiedeva altrove: dopotuto Vagnari produceva tegole, magari forniva tegole funerarie ai centri vicini. In effetti nella necropoli non sono saltate fuori tegole stampigliate.

L’ipotesi di una tenuta imperiale resta però valida: è possibile che il vicus fosse quindi popolato da schiavi, liberti e operai liberi che abitavano, lavoravano e morivano in situ.

Il punto è: ci nascevano pure?

Per rispondere a questa domanda Prowse ha usato due metodi:

L’analisi degli isotopi stabili: varianti di elementi (come carbonio, azoto o ossigeno) che vengono incorporati nei tessuti durante la vita e che non decadono dopo la morte. A seconda dell’elemento, quest’analisi può fornire indicazioni sulla dieta dell’individuo, o sulla sua provenienza geografica (in particolare determinando l’acqua che ha bevuto durante l’infanzia). Questi dati possono essere estratti dalle ossa o dai denti.

Un altro dato utile è il DNA mitocondriale (mtDNA), che sopravvive alla decomposizione ed è trasmesso per linea matrilineare.

Esistono delle variabili individuali di mtDNA, e quando determinate variabili sono presenti in determinate combinazioni, è possibile individuare degli aplogruppi. In pratica, questo permette di tracciare, attraverso il mtDNA, l’origine geografica del lignaggio materno della persona.

Stando a Prowse, la maggioranza degli individui di Vagnari appartengono agli aplogruppi H, J K e T, ovvero l’Eurasia occidentale. In altre parole, la maggioranza della gente era di varie origini, ma tutte definibili come “europee”. Alcuni dei gli abitanti condividono lo stesso aplogruppo, ergo il loro lignaggio è originario della stessa regione, ma non condividono lo stesso aplotipo, ovvero non sono imparentati per parte di madre!

Quella di Vagnari appare quindi come una comunità composta da gente di origini diverse. Quando analizziamo il mtDNa di scheletri sepolti vicini (clusters), notiamo che non solo non sono parenti per parte di madre, ma che talvolta non appartengono nemmeno allo stesso aplogruppo. Le origini materne non sembrano quindi giocare un ruolo determinante nella costruzione dell’identità dell’individuo in morte.

Per quanto riguarda l’analisi degli isotopi, indicano che la maggioranza degli abitanti, pur avendo ascendenze etniche variabili per parte di madre, è nata è cresciuta a Vagnari o nelle colline circostanti. Se vogliamo paragonare a un altra necropoli dello stesso periodo, Isola Sacra, 1/3 dei “residenti” era forestiera (non si sa bene da dove provenisse), ed è arrivata nella zona di Isola Sacra nell’infanzia.

Anche a Vagnari possiamo determinare che alcuni degli abitanti sono arrivati da bambini. Le fonti spesso parlano di migrazioni e spostamenti di uomini adulti, ma è chiaro che donne e bambini si spostavano (o erano spostati).

Ad ogni modo, circa 25% dei residenti non erano né di Vagnari né dei dintorni, ma venivano da altre regioni dell’Impero.

3 individui, 2 uomini e una donna, venivano da zone più distanti, probabilmente altre regioni affacciate sul Mediterraneo.

Infine, tra i vari aplogruppi esumati, troviamo 2 individui particolari.

Un uomo apparteneva all’aplogruppo L, ovvero la sua linea materna risaliva alla regione subsahariana. E’ stato peraltro possibile determinare che il signore non è nato e cresciuto a Vagnari né nei dintorni, ma che proveniva probabilmente da un’altra zona del Mediterraneo, forse il Nord Africa. Quest’uomo è stato seppellito accanto a un uomo e una ragazza di aplogruppo europeo e di origine locale, indicando che provenienza ed etnia non erano fattori rilevanti in questo contesto.

Ciò non è molto strano, visto che ci sono stati per secoli frequenti traffici tra Roma e varie regioni Africane (checché ne dicano quegli scoppiati degli identitari). E’ però indicativo della varietà di backround che accomunava gli abitanti di questo villaggio dell’entroterra pugliese.

Infine un’altra sepoltura presenta caratteristiche ben più bizzarre.

Si tratta della sepoltura F37. La donna appartiene all’aplogruppo D.

Ovvero l’aplogruppo dell’Asia Orientale.

F37, una donna adulta, è l’unico esempio conosciuto a oggi di individuo appartenente all’aplogruppo D e ritrovato sul territorio italiano per questo periodo.

Purtroppo non è stato possibile eseguire l’analisi degli isotopi, e non possiamo quindi sapere se F37 è arrivata dalla lontanissima Asia Orientale, o se la migrante era sua madre, sua nonna, sua bisnonna, ecc. Considerato il suo aplotipo,è stato possibile verificare cinque match compatibili, tutti e cinque in Giappone.

Questo ovviamente non significa che F37 fosse Giapponese: come accennato in questo articolo l’etnogenesi dei giapponesi è molto più complicata e variegata di quanto possa parere. Dopotutto l’aplogruppo ingloba tutta la regione. Ma è possibile che le origini di F37 siano da ricercare nelle popolazioni coreane o Malgal.

Sappiamo che aveva probabilmente 45-49 anni, che il suo scheletro mostra leggeri danni alle articolazioni degli arti inferiori e che aveva la scoliosi (come yours truly, yeeeee!). E’ vissuta tra il II° e il III° secolo. Il suo scheletro è relativamente ben conservato. E’ sepolta in una tomba “alla cappuccina” rinforzata da pietre e con un colmo di imbrex a coronare le tegulae. Il corpo non è deposto direttamente a terra, ma su tre tegulae piatte, una delle quali è stata piazzata ad un angolo deliberato. Le tre tegulae su cui è stesa F37 sono decorate: le due alle estremità con archi impressi con le dita, una con una linea ondulata.

Gli oggetti funerari sono stati deposti vicino ai suoi piedi: una ceramica africana a bordo annerito, rotta, e il fatidico chiodo magico.

La tomba di F37 non è delle più ricche, né delle più povere. E’ una sepoltura curata ma modesta, per una donna che svolse un lavoro pesante e che, chissà, magari nemmeno sapeva delle proprie remote origini. E’ sepolta con gli altri e come gli altri: la sua etnia era esotica, il suo status sociale a Vagnari sembra essere stato lo stesso delle altre donne.

Il mistero delle origini di F37 è complicato dal fatto che Roma non aveva rapporti diretti con la Cina, men che meno con Corea e Giappone.

Troviamo menzione della Cina (nota come Seres) negli scritti di Pausania.

Pausania visse tra il 120 e il 180 d. C., quindi allo stesso tempo di F37. Parla della Cina come di un paese estremamente remoto e lo nomina nel contesto della produzione della seta: secondo Pausania il nome di Seres viene dal baco da seta, in greco ser. Si tratta secondo lui di un coleottero che i nativi allevano per 4 anni prima di farlo crepare di indigestione. Il bacarozzo si ingozza tanto che letteralmente scoppia, rivelando una pancia piena di filo di seta.

Dopo questa perla di entomologia, Pausania indica che Seres è un’isola del Mar Rosso, o di un fiume chiamato pure Ser, e che gli abitanti sono tutti Etiopi, o di una razza imbastardita frutto di un miscuglio di Sciti e Indiani.

Insomma, ci siamo capiti: i romani non avevano la più pallida idea di come si allevava il baco da seta, di dove si trovasse la Cina, o di che faccia avessero i cinesi. Sapevano però dell’esistenza di un grosso stato a oriente.

Conoscevano la seta da secoli: già dal V° secolo a. C. Cos produceva un tipo di seta a base di bozzoli sfarfallati. Cruelty free!

A partire dal I° secolo a. C. però, Roma favorì la seta cinese, importata attraverso l’India e l’Asia Centrale. La Cina, origine del prodotto, restava un posto misterioso e irraggiungibile.

I cinesi per contro hanno una mezza idea dell’esistenza di Roma. Dopotutto nel II° secolo d. C. sono riusciti a sconfiggere i ferocissimi Xiongnu e si sono allungati a ovest includendo nel loro sistema tributario il bacino del Tarim. Per intendersi, le propaggini occidentali di questa zona toccano i confini orientali di quelli che sono oggi Kirgyzistan e Tajikistan. La loro influenza diplomatica si allungò fino al Golfo Persico.

Insomma, gli Han incocciano nei Parti. E lì si fermano.

Vaghe informazioni circolarono tra i due imperi, portate dai mercanti, ma non sembra che ci sia mai stato un contatto diplomatico diretto.

Dico “sembra” perché alcuni indizi suggeriscono il contrario: Floro (70/75-145 d. C.) afferma che la Cina avrebbe mandato degli ambasciatori al tempo di Augusto (Epitoma Libro II, Capitolo 34). La cosa però non compare nelle fonti cinesi e sembra molto poco probabile. Dopotutto circa due secoli dopo Pausania non sembra avere la minima idea di dove sia la Cina o che faccia abbia un cinese. E’ possibile che la gente “mezza Scita e mezza Indiana” indichi piuttosto i mercanti Yuezhi che facevano da tramite attraverso il Tibet.

C’è però una nota interessante nello Hou Han Shu: nel 166 d.C. L’Imperatore Huan riceve la visita di un gruppo di uomini che si presentano come ambasciatori del re Andun di Da Qin.

Da Qin è il nome che i cinesi davano a Roma.

Non somiglia manco per il cazzo a “Roma”?

Beh, i romani chiamavano la Cina “Seres”, quindi non si possono lamentare.

Tornando a noi, “Andun” è chiaramente una trascrizione fonetica. Noi in Italia conosciamo Andun come Marco Aurelio Antonio (121-180).

La cosa interessante è che questa visita avviene subito dopo una compagna di Lucio Vero contro i Parti. Che Marco Aurelio sia stato il primo ad allacciare un tenue contatto diretto con la leggendaria Seres?

I sedicenti ambasciatori sono arrivati a piedi dopo essere sbarcati a Rinan, commanderia Han piazzata sulla costa centrale del Vietnam. Portano con loro zanne di elefante, corno di rinoceronte e gusci di tartaruga, a loro dire doni da parte di Andun.

Huan degli Han riceve cortesemente il paniere di benvenuto, ma non è molto convinto.

-‘Sta roba non è esotica nè preziosa.- confida al Ministro. -Possibile che il re dall’altra parte del mondo mi mandi ‘ste quattro cazzate che trovo al mercato sotto casa? Secondo me sono mercanti, levameli di giro.

La nota di Pausania su Seres è del 174. E’ possibile che l’abbia scritta basandosi sulle storie riportate dal sedicente ambasciatore del 166. Ed è molto probabile che quel volpone di Huan ci avesse visto giusto: detto ambasciatore non era probabilmente altro che un mercante con la bocca piena di favole.

Quindi no, nessun contatto diretto ufficiale, solo contatti indiretti attraverso i mercanti.

Quindi è impossibile che F37 sia arrivata dalla remota Asia Orientale, si trattava senza dubbio di una straniera di seconda o terza generazione.

O FORSE NO!

Il fatto che non esistessero relazioni diplomatiche ufficiali non significa che contatti diretti tra cittadini romani e cittadini cinesi non siano avvenuti! Semplicemente, se non hanno coinvolto le autorità, non sono stati trascritti nelle fonti ufficiali.

“Ah, ma Tenger!- sento già obiettare qualcuno -Questa è pura speculazione! Non hai nessuna prova né indizio di un contatto diretto tra un cinese della Cina e un Romano de Roma!”

No, è vero.

Ho di meglio!

Le avventure di due Cinesi a Londra

Scheletro esumato a Lant Street

Londra, Lant Street, gli archeologi di Durham esaminano gli scheletri di un cimitero romano utilizzato tra il II° e il IV° secolo. E ben due di costoro sono originari della Cina Han.

A oggi, si conoscono 3 o 4 esempi del genere nell’Impero Romano. Tutti scoperti di recente. E’ possibile che scavi futuri cambino ancora la visione che abbiamo dei rapporti tra la lontana Seres e la fiera Da Qin.

E sì, se due cinesi sono riusciti a venire a morire a Londra, è possibile che F37 abbia seguito lo stesso percorso, e sia morta di mal di schiena, dopo una vita faticosa ma onesta, nella valle del Basentello, in Puglia.

THE END

Vi ricordate quando ho detto che in questi giorni di terribili tensioni volevo dedicarmi a qualcosa di totalmente apolitico?

Ho mentito.

Prima che a qualcuno vadano a fuoco le mutande: certo, due ritrovamenti archeologici non sono politici. Gli scambi tra la Cina e Roma non sono politici. Sono fatti.

Il problema è che troppo spesso le civiltà del passato sono raccontate come omogenee, unite e coerenti. Isole che coesistono, ogni tanto combattono, ma che in generale possono essere descritte come fenotipi alla D&D.

La ridicola diatriba scoppiata quando la BBC osò disegnare un legionario nero, o le minacce subite dalla ricercatrice Sarah Bond quando ebbe l’ardire di notare che i Romani non erano tutti bianchi né possedevano il concetto di “razza bianca” dimostrano a che punto la società consuma un’idea distorta della realtà Storica.

In particolare Roma e la Scandinavia sono due miti fondatori dell’odierno suprematismo bianco, che da un punto di vista storico fa un sacco ridere, ma poi ‘sta gente tenta un colpo di stato e di botto è molto meno divertente.

La ragione principale per cui ho voluto parlare di Vagnari è perché lo trovo un sito interessante, e una buona maniera di familiarizzarmi con tecniche archeologiche contemporanee.

La seconda ragione è perché trovo assolutamente affascinante e uberganzissimo rilevare un collegamento seppur tangenziale tra un’operaia della campagna pugliese e la Cina degli Han, forse perfino il Giappone.

Per ultimo, senza fretta né affanno, per ricordare che la gente si è sempre spostata, le società non sono mai state omogenee, né conformi, né impermeabili. Il nostro concetto di identità etnica è contingente al nostro periodo storico e non è necessariamente applicabile al modo di vedere e di sentire del passato.

E’ importante conoscere il proprio passato, ma è ancora più importante non farsene un ritratto stereotipato, superficiale e falso. E’ importante usare la Storia per capire, non per dimostrare a posteriori. E questo a prescindere dal credo politico che ognuno di noi detiene: la realtà sarà sempre più complicata degli slogan.

MUSICA!


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Fonti antiche:

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Publio Annio Floro, Epitoma, Libro II, Cap. 34

Emishi, gli eterni sconosciuti

Non si può studiare la storia giapponese pre-XIII° senza incappare in questo strano termine.

Emishi.

Fin dalle prime fonti storiografiche autoctone, nell’VIII° secolo, questo nome compare, e quasi sempre in circostanze drammatiche. Gli emishi si sono ribellati, gli emishi hanno bruciato i fortini di frontiera, gli emishi hanno teso un agguato al governatore e se lo sono mangiato con le fave e un buon chianti…

Bruciare fortini in particolare sembra essere stato un gran passatempo.

Person Who Speaks A Language Other Than Geek Is This A Barbarian ...

Nonostante gli emishi abbiano bruciato fortini imperiali per secoli, le informazioni al loro riguardo sono paradossalmente poche e confuse. Anche perché non scrivevano, che è una cosa che mi rende sempre molto triste.

La prima domanda che sorge spontanea a questo punto è: chi erano questi piromani impenitenti?

Chi erano gli emishi?

Emishi - Wikiwand

Emishi rendono omaggio al Principe di Sangue Shōtoku (il tizio a cavallo che sembra dire “‘sto frustino po’ esse’ de piuma o po’ esse’ de fero”), dallo Shōtoku taishi eden emaki, XI° secolo

La parola “emishi” (蝦夷 in un delle sue grafie più correnti) compare per la prima volta nel Nihon shoki, in riferimento al secondo mese del ventisettesimo anno del regno dell’Imperatore Keikō (98 d.C.). Un tale Takeshiuchi no Sukune torna da un viaggio delle regioni orientali e riferisce:

Tra i barbari orientali, c’è il pese (国) di Hitakami (日高見). In quel paese, uomini e donne legano i propri capelli in forma di martello, si tatuano e la gente è valorosa. Sono chiamati emishi. La terra è fertile e vasta, può essere presa con un attacco.

“Ho scoperto questo nuovo paese.”

“Figo, ma lo possiamo saccheggiare o no?”

Tutto il mondo è paese.

Ad ogni modo è importante sottolineare che Keikō è un sovrano semi-leggendario che secondo la tradizione avrebbe regnato tra il 71 e il 130 d.C. Non solo a quell’epoca non esisteva nessun “impero”, ma è relativamente certo che le isole giapponesi fossero un coacervo di tribù agrarie che si aggregavano e si disgregavano. In altre parole, non solo non esisteva l’impero, non esisteva nemmeno lo stato. Quella qui riportata è una leggenda trascritta agli inizi dell’VIII°, e non può essere assolutamente presa in parola.

L’idea che i fantomatici abitanti dell’est avessero costituito uno stato, Hitakami, è pure molto improbabile. L’esistenza di questo “paese” è propugnata anche da fonti cinesi, in particolare il Tongdian (通典), completato agli inizi del IX° secolo. E’ però più che probabile che i Cinesi tenessero queste informazioni dagli inviati Giapponesi, quindi la fonte cinese non “conferma” l’informazione, piuttosto “ripete per sentito dire”

Una cosa però è sicura: gli emishi vivono nella parte orientale e nordorientale di Honshū.

E’ anche importante notare che “emishi” non è l’unico termine usato per parlare della gente del nordest: ebisu, emisu, ezo, ecc. Sono pure termini usati in diversi contesti e periodi, ma non è chiaro in base a cosa e una discussione filologica esaustiva sull’argomento rischia di essere complicata (vorrei tenere questo articolo sotto le 3.500 parole, possibilmente!) [Edit: ho miseramente fallito]

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Il Tongdian non è la sola fonte cinese che fa riferimento a delle popolazioni insediate nel nordest del regno di Yamato. Lo Xin Tangshu (新唐書) o Nuovo Libro dei Tang, scritto nell’XI° secolo, descrive un’ambasciata del 668 dove l’inviato Wa è accompagnato da gente orientale. Costoro sarebbero dotati di una gloriosa barba di quattro piedi (120 cm!) e di un’incredibile abilità con arco e frecce.

Una delle teorie sulle origini del termine “emishi” è appunto che sia una distorsione della parola yumishi, (弓人 o弓師), “arciere” o “maestro d’arco”. Il secondo kanji di emishi è dopotutto “夷”, che può essere interpretato come una fusione del kanji di “arco” (弓) e “grande” (大).

Un’altra spiegazione attribuisce invece l’origine alla parola che gli Ainu usavano per riferirsi a loro stessi, ovvero emchu o enchu. E’ verosimile che questa parola, all’orecchio dei Wa della regione centromeridionale, suonasse qualcosa come emisu o emishi.

Quale di queste sarà la spiegazione corretta?

A dire il vero una non esclude l’altra, dacché i kanji possono essere stati usati per trascrivere una parola fonetica e scelti in base al loro significato implicito. In parole povere, può darsi che dovendo scegliere quali ideogrammi usare per trascrivere “enchu” i Giapponesi abbiano optato per i segni che indicavano le abilità di arcieri degli emishi.

Quindi voilà, la prova che gli emishi erano Ainu, giusto?

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Diciamo pure che “emishi” viene proprio da una parola Ainu e indicava gli Ainu.

Se Ainu = emishi, non è affatto detto che tutti gli emishi = Ainu.

Un altro passaggio del Nihon shoki, un po’ più affidabile stavolta, viene dal capitolo sul regno dell’Imperatrice Saimei (655-661). Il settimo mese del quinto anno (670) del regno dell’imperatrice, la corte spedì un’ambasciata alla corte dei Tang in Cina (al potere dal 618). Il brano è molto più vicino alla data di compilazione del Nihon shoki e si basa sui diari lasciati da due membri della spedizione.

Stando alla fonte, i Giapponesi portano al Figlio del Cielo un uomo e una donna emishi.

L’ambasciata è avvenuta davvero, dacché è confermata dalle fonti cinesi. Queste però non menzionano buffi primitivi a seguito dell’ambasciatore Wa, quindi non siamo proprio sicurissimi di come si sia svolta davvero l’udienza con Gaozong [Edit: erroneamente chiamato Gaozong nella versione precedente].

Stando al Nihon shoki, l’imperatore Gaozong li riceve il decimo mese intercalare. Dopo aver chiesto come sta Saimei, bene grazie, e i nipoti, bene anche loro, mi raccomando salutamela e tante buone cose, Gaozong s’interessa finalmente dei due emishi.

L’Imperatore quindi chiese: -Questo paese degli emishi, dove si trova?

Risposero rispettosamente: -E’ nel nordest.

L’Imperatore quindi chiese: Quanti tipi di emishi esistono?

Come nel primo passaggio, gli emishi sono gente nordorientale. Considerato che lo stato di Yamato è ancora giovane nel 670, può darsi che con “nordest” si intendesse il nord di quella che è oggi la prefettura di Miyagi.

Miyagi Prefecture - Wikipedia

La prefettura di Miyagi, anticamente parte della Privincia di Mutsu

E’ chiaro che Gaozong interpreta il termine “emishi” non come il nome di un popolo particolare (come gli Ye o gli Han o i Wa), ma come un termine generico per indicare gente non meglio specificata che vive in una certa regione (e chiede quindi “quanti tipi di emishi esistono”).

Dalla risposta degli ambasciatori giapponesi capiamo che questo è esattamente il modo in cui il termine viene usato:

Risposero rispettosamente: -Ce ne sono di tre tipi. Quelli che sono molto lontani sono chiamati Tsugaru (都加留), quelli dopo Ara-emishi (粗蝦夷) e i più vicini sono i Nigi-emishi (熟蝦夷). Questi emishi sono Nigi-emishi. Ogni anno inviano un tributo alla corte.

Tsugaru, normalmente scritto “津軽”, è una penisola nell’estremo nord dell’isola di Honshū. Quanto agli altri due, non è offerta nessuna indicazione geografica particolare. Gli Ara sono lontani, i Nigi sono vicini e portano un tributo. Secondo Hanihara, gli Ara (termine che evoca l’idea di violenza e riottosità) sono gli stronzi che non si piegano all’auto-evidente superiorità degli Yamato, mentre i Nigi sono bravi e mandano un tributo.

In altre parole, Ara e Nigi indicano due gruppi politici, non etnici.

Nel 1960, Inoue presentò l’ipotesi che i Nigi fossero gruppi stanziati nelle regioni più prossime al territorio controllato da Yamato, ovvero quelli che sono oggi i dipartimenti di Miyagi, Yamagata o Fukushima.

La discussione con Gaozong continua.

L’Imperatore chiese: -Questo paese conosce i cinque cereali?

Risposero rispettosamente: No. Mangiano carne.

L’Imperatore chiese: -Questo paese ha abitazioni?

Risposero rispettosamente: -No. Vivono nel cuore delle montagne sotto gli alberi

Per citare il Barbagli “ gente che andava nuda a caccia di marmotte quando noi già s’accoltellava un Giulio Cesare.”

Sappiamo grazie a dati archeologici che queste informazioni sono fake news: la risicoltura arriva nel nordest con uno o due secoli di ritardo rispetto a Kyūshū, ma era già ampiamente diffusa dal I° secolo d.C. almeno. Dato l’ambiente montuoso e il clima rigido, è probabile che la gente del nordest abbia comunque dato più spazio a caccia e pesca rispetto ai burrosi contadini del Kinai, ma dire che non coltivavano è falso. Stesso vale per le case: abbiamo ritrovato case seminterrate molto simili al tipo di tugurio senza finestre in cui dormivano i glebani delle ricche regioni occidentali.

Insomma, da un punto di vista archeologico, i poracci dei barbari campavano più o meno allo stesso modo dei poracci dell’Impero (male e poco). Sai che sorpresa.

International Workers’ Day

Poracci of the world UNITE!

Lo scopo di questo passaggio nel Nihon shoki non è quello di descrivere con accuratezza etnografica gli emishi, ma di distinguerli dai sudditi di Yamato. Yamato è un regno, è civilizzato, usa la scrittura, coltiva, costruisce capitali, proprio come i cinesi!

Quindi gli emishi sono barbari, scimmie che dondolano dagli alberi e non sono capaci di coltivare! Uomini e donne si pettinano alla stessa maniera, perfino. Cioè. Bah. Sai che si è arrivati al picco della bestialità quando va di moda il gender neutral.

Tirando le somme, emishi è un termine vago che indica popolazioni del nordest di Honshū che non riconoscono appieno l’autorità del clan Yamato (che è disceso dalla Dea del Sole, quindi devi proprio essere scemo per non capire che bisogna fare come dicono loro!).

La domanda che spesso sorge a questo punto è: ma gli emishi saranno mica gli Ainu?

Famiglia Ainu di Hokkaidō

Per chi non ha pratica, gli Ainu sono una popolazione etnicamente diversa dai giapponesi e che occupa principalmente l’isola settentrionale di Hokkaidō. Hanno una lingua diversa, costumi e riti completamente differenti, e un aspetto distinto rispetto al resto dei cittadini giapponesi.

Per un lungo periodo si è supposto che gli Ainu fossero gli aborigeni del Giappone, ricacciati gradualmente sempre più a nord via via che popolazioni di ceppo mongoloide arrivavano dalla Corea con la loro agricoltura figa, i loro cavalli e le loro belle armi di ferro.

Queste teorie non sono più attuali, ma ad ogni modo, gli emishi erano Ainu?

La risposta veloce è

Fact Check: Was there an increase in Violent Crime in Colorado ...

La risposta lunga è, comunque no, ma facciamo un minimo di chiarezza.

E’ importante notare che la cultura Ainu ha ricevuto riconoscimento e tutela solo molto di recente. Gli Ainu di oggi sono i sopravvissuti della feroce politica di assimilazione attuata a partire dal governo Meiji. E con “assimilazione” intendo un tentativo pianificato e sostenuto di cancellare del tutto la popolazione, via soppressione della cultura, distruzione dei luoghi di culto, violenza omicida e stupri sistematici.

Gli Ainu di oggi portano l’eredità delle atrocità commesse contro di loro e queste sono ormai parte integrante del loro attivismo culturale, politico e sociale. L’argomento è davvero interessante e merita uno spazio a sé: in questo articolo voglio parlare della popolazione Ainu prima che questo tentato genocidio impattasse in modo così drammatico la loro esistenza. Ci tenevo però a segnalarlo perché se mai vi incuriosisce la cultura promossa dalla comunità Ainu dovete essere coscienti di questo terribile capitolo nella loro storia.

Com’era la situazione prima che il governo giapponese decidesse di uniformare la popolazione?

Cominciamo col dire che differenze tra il sudovest e il nordest del Giappone sono sempre esistite: la ceramica di tipo Jōmon, ad esempio, compare circa 12.500 anni fa in Kyūshū, e procede lentamente arrivando in Hokkaidō solo 8.500 anni fa.

Tradizionalmente il lungo periodo Jōmon è considerato finito quando l’agricoltura (in particolare la risicoltura) diventa un’attività economica centrale, intorno al III° secolo a.C. Questa progressione è accettata per le isole di Kyūshū, Shikoku, e per buona parte di Honshū, ma non per il resto del paese. Più o meno nello stesso periodo in cui avviene la transizione Yayoi, in Hokkaidō e nel nordest di Honshū si passa nel Periodo Zoku-Jōmon (o Epi-Jōmon), ovvero un periodo in cui troviamo un nuovo tipo di ceramica ma che presenta una grande continuità col periodo precedente.

Nusamai type pottery

Ceramica Nusamai datata 2.700-2.400 anni fa e ritrovata nello scavo dell’Abitazione 13 nel sito di Sakaeura II, nel nord di Hokkaidō (dalla collezione di materiali archeologici del bacino inferiore del fiume Tokoro). Il sito di Sakaeura II appatiene alla Cultura di Okhotsk, distintamente non Giapponesi.

Da un punto di vista archeologico, abbiamo quindi una Cultura che si generalizza in quasi tutto l’arcipelago, fino al III° secolo a.C., quando inizia una sorta di “speciazione”, tra la cultura del sudovest e del centro, e quella del nordest e di Hokkaidō. Mentre nel sudovest e nel centro si sviluppa una società stratificata e un primo embrione di stato, in Hokkaidō e nel nordest troviamo tracce di differenziazione sociale (piccoli tumuli con ceramiche Sue e spade di ferro, ecc.), ma nulla che lasci supporre una stratificazione vera e propria.

SakuraeII_House1

Abitazione 1 in Sakurae II, esempio di cultura Satsumon

House3_Hiraide

Abitazione 3 del sito di Hiraide nella prefettura di Nagano (Honshu centrale), esempio di cultura Haji (dal tipo di ceramica del periodo, diffusasi dal IV° secolo d.C.). P1,2,3,4 indicano i buchi lasciati dai pilastri del tetto.

La fase successiva nella storia di Hokkaidō, chiamata Cultura Satsumon (VIII°-XIII° secolo), comprende agricoltura e utensili in ferro, ma anche una spiccata influenza della cultura Okhotsk, smaccatamente marittima. Sia siti Satsumon che siti Okhotsk coesistono per secoli sulle coste settentrionali dell’Isola di Hokkaidō.

Tokoro_chashi

Abitazione 1 dal sito di Tokoro Chashi in Hokkaidō, uno degli esempi meglio documentati di Cultura Okhotsk

Si tratta di Ainu?

In realtà non possiamo davvero parlare di Ainu prima del XIII° secolo.

Ancora negli anni ’70 era oggetto di dibattito se gli Ainu fossero gente Jōmon rintuzzata a Hokkaidō dai Wa meridionali, o gente arrivata nel XIII° dal nord. Aikens e Higuchi ipotizzano che gli Ainu siano diretti discendenti della cultura Satsumon.

Ad ogni modo l’archeologia conferma una divergenza culturale sud-sudovest-centro VS nordest-Hokkaidō, con i due estremi geografici che presentano la più grande diversità.

L’archeologia non è l’unico approccio alla questione: come accennavo nel mio articolo sullo stato, il concetto di “razza” è ormai riconosciuto come il pasticcio pseudoscientifico che è, ma checché ne dicano i “race realists” e altra feccia simile, questo non significa assolutamente che le differenze somatiche tra gruppi vengano ignorate o negate. In altre parole, le differenze somatiche esistono (dato oggettivo), la razza (concetto intellettuale che interpreta tale dato) è stato superato in favore di un approccio nettamente migliore e più scientifico (e che quindi si presta meno a bizzarre interpretazioni politiche).

A questo proposito, Hanihara sostiene che morfologicamente non c’è nessuna differenza tra gli scheletri del periodo Satsumon e i moderni scheletri degli Ainu. In altre parole, la gente di Satsumon aveva già l’aspetto dell’Ainu moderno. In contrasto, il sud-ovest del Giappone mostra, a partire dalla fine del periodo Jōmon, una somiglianza crescente con altre popolazioni del Nord-est Asiatico. Questa somiglianza è particolarmente evidente in Kyūshū e diminuisce progressivamente che ci si sposta verso il nordest dell’isola di Honshū.

In altre parole, la gente del nordest e di Hokkaidō mantiene le caratteristiche somatiche della popolazione Jōmon molto più a lungo rispetto ai gruppi che vivevano in altre regioni.

E che ne è della lingua?

La lingua Giapponese e quella Ainu sono diverse, ma hanno anche similitudini strutturali e lessicali importanti. Secondo Aikens e Higuchi, si tratta in entrambi i casi di lingue Altaiche, e secondo il metodo glottocronologico avrebbero cominciato a separarsi tra i 5.000 e gli 8.000 anni fa (più o meno quando il Giapponese iniziò a distinguersi dal Peninsulare da cui deriva anche il Coreano). I dialetti regionali odierni sono pure separabili in due ceppi distinti, che spaccano il paese in Nordest e Sudovest.

The best dialects memes :) Memedroid

Non sembra, ma Americano e Australiano sono lingue molto vicine

In realtà Robbets fa notare che non c’è per niente consenso sulla parentela genealogica del Giapponese, Coreano e altre lingue Trans-Eurasiatiche. Cioé, è apparente che Giapponese e Coreano sono legati, e pare che le lingue Tungusiche delle regioni vicine siano il parente prossimo più probabile, ma queste similitudini sono genealogiche (queste lingue hanno un antenato in comune) o semplicemente frutto della vicinanza geografica e dell’inevitabile meccanismo di appropriazione?

Nota rilevante: quando si parla di “lingue Altaiche” non si intende che gli Altai furono effettivamente la regione di origine di questa comunità linguistica. Già negli anni ’20 il linguista Ramstedt, un colosso della linguistica altaica, situa la possibile zona di origine  più a est, sui monti Da Hinggan.

Nel 1996 Juha Janhunen ipotizzò che, nonostante Mongolo, Tunguso, Coreano e Giapponese non fossero geneticamente legate, le comunità linguistiche rispettive avevano probabilmente origine nella stessa zona geografica che va dalla Corea alla Manciuria Meridionale. Da un punto di vista culturale, queste comunità sarebbero legate a quella che è definita oggi la Cultura di Hongshan.

Hongshan

Zona della Cultura di Hongshan

La comunità linguistica del proto-Giapponese e proto-Coreano sarebbe situata nel nord della Penisola Coreana.

Secondo Robbets esiste bel et bien una relazione genealogica tra il Giapponese, il Coreano e altre lingue Trans-Eurasiatiche (chiamate anche Altaiche). In altre parole, la lingua dei Wa e quella dei coreani sono strette parenti.

Pin on Owls and Pussycats

 

Quindi, che conclusioni possiamo trarre?

Già dagli inizi del periodo Jōmon notiamo delle differenze economiche e culturali tra la gente che viveva nel nordest di Honshū e Hokkaidō, e quella che viveva nel sudovest di Honshū e Kyūshū (Shikoku compare sempre pochissimo perché, per qualche oscura ragione, non se la fila mai nessuno!). Somaticamente la popolazione sembra molto uniforme nell’Arcipelago. E’ molto probabile che, oltre alle differenze culturali, economiche e religiose, i vari gruppi parlassero lingue diverse ma vicine tra loro.

Dalla fine del Periodo Jōmon iniziamo a notare una distanza progressiva sia a livello culturale che economico che politico che somatico.

Secondo Hanihara, gli isolani del periodo Jōmon, gli Ainu e gli abitanti delle isole Ryūkyū sarebbero geneticamente distinti dalla popolazione agricola del Periodo Yayoi e dai giapponesi moderni. In particolare, i geni della gente Jōmon e Ainu mostrano spiccate similitudini col genoma degli abitanti del Sudest Asiatico, mentre la gente Yayoi e i moderni giapponesi sono geneticamente simili a popolazioni del Nordest Asiatico.

Esistono anche nette differenze morfologiche tra la popolazione Yayoi e quella Jōmon. Stando agli scheletri, possiamo ipotizzare che la gente Jōmon fosse probabilmente alta di media 1,50m, con spalle larghe e una struttura robusta, nasi pronunciati e denti piccoli. La gente Yayoi pare avesse un’altezza media di 1,60m, fosse più slanciata, con nasi più piccoli e denti più grandi.

Questo supporta la teoria di ondate di immigrazione che si intensificano agli inizi del Periodo Yayoi e che avrebbero spinto la gente Jōmon verso la periferia.

Occhio però: c’è stata anche tanta mescolanza, e Hanihara non suggerisce assolutamente che Giapponesi e Ainu siano due popolazioni perfettamente distinte. Al contrario, i Giapponesi moderni hanno, chi più chi meno, similitudini con gli Ainu. In altre parole, gli Ainu derivano dai Jōmonesi, mentre i Giapponesi derivereddero da una commistione (più o meno importante) di Jōmonesi e immigrati continentali del Periodo Yayoi. Le similitudini tra Giapponesi e Ainu aumentano nelle regioni nordorientali di Honshū, dividento il paese in due regioni etniche tra Kyūshū e Hokkaidō, con una vasta zona grigia nel mezzo. La regione del nordest di Honshū e Hokkaidō mantengono una maggiore continuità col Periodo Jōmon per un lasso di tempo più lungo che non la regione del sudovest, che aveva frequenti e vivaci contatti con la penisola coreana e la Cina.

Un’ulteriore divisione avviene a partire dall’VIII° secolo: in Hokkaidō appare la cultura Satsumon, mentre il nordest di Honshū è progressivamente colonizzato da gente della regione centrale e meridionale. Come accennato a inizio articolo, questo si è accompagnato a migrazioni, deportazioni e guerre. Ciò nonostante, come abbiamo visto, la popolazione del nordest di Honshū non viene del tutto assimilata dai Wa: mantengono tratti linguistici, somatici e culturali nettamente distinti da quelli della regione centrale. Allo stesso tempo, adottano caratteristiche delle popolazioni centromeridionali, differenziandosi dagli Ainu di Hokkaidō ma sensa essere del tutto assorbiti dai Giapponesi meridionali.

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Quindi, tornando alla nostra domanda: gli emishi  sono Ainu?

No, gli emishi vengono prima degli Ainu.

Gli emishi e gli Ainu hanno origini comuni?

Sì. In realtà pare proprio che tutti gli abitanti delle isole giapponesi siano discendenti dei Jōmonesi, e che si siano sviluppati in modo diverso a seconda delle correnti culturali e migratorie a cui erano soggetti.

Quindi con emishi si intende un qualche tipo di gruppo proto-Ainu, in opposizione coi Wa della regione centro-meridionale?

No.

Possiamo affermare con relativa sicurezza che il nordest era abitato da gente diversa dal sudovest.

Ma è importante ricordare che emishi è un termine politico, non etnografico.

Come abbiamo visto, esistono varie tradizioni culturali, somatiche e linguistiche nell’arcipelago giapponese. Il termine “emishi” non indica un gruppo particolare, ma una regione. In principio, indicava “quelli che non sono sudditi del re di Yamato”, con gli anni lo troviamo affibbiato anche a funzionari del governo, che magari erano “discendenti di quelli che non sono sudditi del re di Yamato”.

In altre parole, gli “emishi” sono i “barbari orientali”.

Da un punto di vista etnico, la sola cosa che possiamo dire di loro è che i futuri Ainu discendono da (alcuni degli) emishi, ma non tutti gli emishi erano proto-Ainu.

Emishi comprende proto-Ainu, ma anche immigrati coreani provenienti dalla federazione di Gaya, o dal regno di Silla, o addirittura dal temuto regno di Goguryeo, comprende sudditi di Yamato che si sono dati alla macchia, gente che ha vissuto nel nordest per millenni, e gente che è arrivata dal Kantō per non dover sottostare al nuovo governo centralizzato.

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Non abbiamo modo di definire gli emishi con certezza. Le uniche fonti che ne parlano sono quelle di Yamato, che usano la parola “emishi” con lo stesso vago razzismo inconsistente con cui certi mentecatti italiani usano la parola “rifugiato”. Sembra che si stiano riferendo a qualcosa di specifico, ma nei fatti il significato assegnato alla parola è “quell’orda di gente aliena in contrasto con noi, società civile ed evoluta”.

E’ probabile che gli Yamato abbiano adottato questo tipo di tono e narrativa dai Cinesi. Nello Shan Hai Ching (山海経), il Classico delle montagne e dei mari, opera già in circolazione al tempo degli Han Occidentali (206 a.C.-9d.C.), compare il termine “毛民”, letteralmente “popolo peloso”, riferito a un popolo barbarico del nordest, che abita in delle isole del Pacifico ed è descritto come basso, peloso, primitivo, che vive in case scavate nel terreno.

Sounds familiar?

Uno dei termini che i Giapponesi usarono per riferirsi ai “barbari orientali” o emishi è ebisu “毛人”, “gente pelosa”, o mōteki “毛狄”, “nemici pelosi”.

Familiar yet?

In realtà i termini giapponesi si distinguono in senso ed uso da quelli cinesi, ma è possibile che lo Shan Hai Ching o la tradizione cinese in generale siano la fonte d’ispirazione per la scelta di detti termini.

Questo non significa che Ainu ed emishi non avessero nulla a che fare. Al contrario, hanno molto a che fare ed esistono importanti continuità culturali, linguistiche e somatiche tra gli abitanti del nordest e gli Ainu.

Il punto è che la realtà culturale ed etnografica dell’Arcipelago Giapponese è molto più complessa di un semplice Giapponesi VS Ainu.

Tra VIII° e XIII° secolo, periodo della “pacificazione” della regione nel nordest di Honshū, possiamo stabilire che gli emishi avevano sì tratti comuni con gli Ainu, ma pure tratti comuni con i Wa della regione centrale, e benché non si fossero coalizzati in una società stratificata di tipo statale come la corte di Yamato, il loro livello tecnologico era più o meno lo stesso di quello delle truppe imperiali.

Quanto alla loro organizzazione economica, c’erano ovvie differenze con le attività delle regioni più calde, ma gli emishi praticavano l’agricoltura, estraevano il ferro e allevavano cavalli proprio come i loro antipatici vicini colonizzatori (probabilmente allevavano più cavalli perfino, ma questa è un’altra storia).

Da quello che possiamo estrapolare, gli emishi erano stanziati in vari territori che gli imperiali chiamano mura, e organizzati su base clanica o tribale, in gruppi che potevano federarsi o dissolversi a seconda delle necessità, e che non di rado erano in guerra tra loro. In altre parole, un’organizzazione non troppo diversa da quella che si suppone aver caratterizzato il resto del Giappone prima del processo del secondary state formation che ha portato al regno di Wa.

Re_Yamato

Il re di Wa secondo le haniwa funerarie

E’ più che probabile che questo discorso sugli emishi non sia più attuale di qui a qualche anno. Le uniche fonti scritte di cui disponiamo sono estremamente parziali e povere in dettagli. Non solo: a differenza della Cina, la corte giapponese non ci ha lasciato nessuna opera “etnografica” degna di questo nome. Non solo non abbiamo testimonianze dirette, ma non abbiamo nemmeno un punto di vista esterno che sia ragionevolmente neutrale: la letteratura di questo periodo è estremamente politica.

Con il progresso della scienza, delle tecniche archeologiche e delle metodologie sociologiche ed etnografiche, è molto possibile che il nostro punto di vista su questa strana gente nordorientale cambi ancora, come già è avvenuto in passato.

Ora, volevo concludere col caveat che questo si tratta di un articolo molto superficiale sull’argomento, e che siete invitati ad approfondire, e che il dibattito storiografico non si conclude mai.

Ma ho di recente visto l’ennesimo video di un Tuttologo cianciare di Neomarxismo Postmodernista (se vi sembra una contraddizione in termini, non siete i soli), di come nelle Università sia praticamente IMPOSSIBILE dibattere di cose e di come tutti, studenti e ricercatori, DEBBANO confermarsi all’immutabile e definitiva sentenza dell’”accademia”.

E sapete che? Mi garba questo fantasioso mondo alternativo.

Quindi scordate gli ultimi paragrafi: Io sono il vostro profeta, ogni singola parola da me scritta è assolutamente corretta perché l’ho detto io, chiunque non sia d’accordo è Nazista e, per citare Karl Marx: “be gay, do crime!”.

MUSICA


BIBLIOGRAFIA

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YAGI Mitsunori, Kodai emishi shakai no seiritsu, Dōseisha, Tōkyō, 2010

La collezione di materiali archeologici del bacino inferiore del fiume Tokoro

 

 

 

Dello Stato: dotti bisticci su uova e galline

Sono passati mesi dal mio ultimo articolo. La ragione principale è una full immersion nella mia tesi dottorale, che dovrò ben finire un giorno o l’altro. Oh my, non vedo l’ora di raggiungere la crescente schiera di disoccupati ultraqualificati sotto i ponti di Parigi!

Per questo articolo, l’idea in principio era di scrivere una lungagnata mostruosa sullo stato di Yan o sul misterioso regno di Buyeo, dove i morti sono accompagnati da maschere di bronzo che urlano per sempre nel buio.

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Maschere mortuarie dal sito di Maoershan, National Museum of Korea, Seoul

Tutta roba molto figa, però mi sono resa conto che per una comprensione migliore era necessario un verboso e noioso preambolo sui termini impiegati dalla storiografia e dall’archeologia. Uno dei concetti che cicciano fuori sempre quando si parla di Buyeo (o anche di Wa) è quello di stato.

Quando una società primitiva si trasforma in Stato, perché, come?

Tutti impieghiamo il termine “stato”, di rado ci poniamo la questione del significato. Quindi oggi parleremo di questo: cosa chiamiamo stato? Come nasce e perché?

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Questions!

Lo stato: un appassionante dibattito sui termini

Prima d’impelagarci sulla natura dello stato è necessario introdurre prima il concetto di polity.

Polity viene definita da Yale Ferguson e Mansbach Richard come una qualsiasi entità politica o gruppo di persone aventi un’identità collettiva, che siano in grado di smuovere risorse e che siano organizzati in una qualche forma di gerarchia istituzionalizzata.

Spesso il termine polity viene impiegato per indicare gruppi umani organizzati senza sbilanciarsi troppo attribuendo loro caratteristiche anacronistiche o scorrette.

Anche il termine polity può però essere anacronistico, dacché presuppone un senso di identità collettiva. A che punto possiamo dire che un gruppo mostra segni di identità collettiva e cosa vuol dire “identità”?

Il principale problema quando si studiano gli esser umani è che non sono animali: non agiscono in base a condizioni oggettive, ma si comportano in buona parte sulla base di percezioni e sentimenti. E le percezioni e sentimenti non lasciano chiare tracce archeologiche.

Da un punto di vista meramente materiale, la razza umana è un continuum: possiamo riconoscere tratti etnici o culturali comuni, ma non possiamo identificare netti confini o usare detti tratti per isolare scientificamente una popolazione dall’altra. In altre parole, la realtà non è un Fantasy per adolescenti: le razze non esistono.

Quella che però esiste è l’identità. Esistono gruppi che si identificano come separati da altri. Questa distinzione non ha necessariamente base su dati oggettivi, ma ha effetti sulla realtà oggettiva, il che la rende reale.

In Storia si cerca di aggirare questo spinoso problema basandoci sul concetto di culture piuttosto che su quello di etnie.

Abbiamo “la gente della ceramica Mumun”, “quelli che fanno i tumuli a forma di buco di serratura” o “quelli che coltivano il riso in risaie allagate”. Il vantaggio è che ci possiamo basare su cose che la gente fa, che è il meglio che si possa sperare in contesti dove gli uomini non hanno lasciato documenti scritti in cui parlano della propria identità.

Ovvio, questo approccio porta con sé il suo ballino di problemi: una cultura archeologica è una convenzione diagnostica che riguarda particolari set di cultura materiale (come detto, il tipo di ceramica, o di arma, ecc.).

In archeologia occidentale c’è stata in passato la tendenza a dare per scontato che la gente all’origine di una determinata cultura archeologica in una determinata regione appartenesse anche a una determinata etnia.

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Ceramica Mumun, esempio di cultura archeologica coreana

In altre parole, se nella valle dell’Arno venivano trovati piselli di terracotta fabbricati nella stessa maniera e associati alla stessa forma di capanna di fango, si supponeva che la Gente dei Piselli fosse tutta della stessa etnia (il Popolo dei Glebani, per esempio).

Questo approccio cultura dei piselli = popolo dei piselli è ancora vero per certi archeologi cinesi. E si capisce: è comodo. Ho dei dati oggettivi che mi dicono che questa gente faceva la stessa roba (per lo meno in certi ambiti), magari i resti umani che ho si somigliano pure, ne deriva che sono la stessa gente!

E’ qui che la percezione e l’identità entrano in gioco.

Per restare in toscana, Fiorentini e Pisani hanno più o meno lo stesso aspetto, mangiano roba simile, costruiscono case simili e parlano lingue molto affini (ho sentito che ogni tanto si accoppiano pure tra di loro). Resta però il fatto inoppugnabile che Pisa merda.

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Scherzi a parte, non ha davvero importanza se ‘sta gente cucina, costruisce muore allo stesso modo: se si considerano di gruppi diversi questo avrà un effetto sulle loro azioni e sulla loro storia. Non solo: molti elementi culturali lasciano poche tracce archeologiche (musica, filosofia, credenze, dialetti, ecc).

Più etnie possono condividere la stessa cultura archeologica, o una sola etnia può manifestare numerose culture archeologiche. Insomma, questa corrispondenza cultura/etnia non può essere data per scontata.

Ma cosa si intende per etnia?

Nel 1969 Barth Fredrik propose che per delimitare un gruppo sociale l’accento non doveva essere messo sui tratti culturali, ma sugli ethnic boundaries, le delimitazioni etniche. Queste delimitazioni, questa identità etnica, sarebbe secondo Barth qualcosa che persiste attraverso diverse culture e sopravvive a fenomeni come le migrazioni.

La caratteristica dell’identità etnica è che non nasce da sé. Non esiste da sola: è qualcosa che viene sempre elaborato in funzione di qualcos’altro.

L’identità si costruisce in opposizione a qualcosa o a qualcuno. Si conviene che il nostro gruppo ha determinati attributi che gli altri non hanno (o hanno in modo diverso), e questo a prescindere dalla forma dei pitali o delle tombe.

Nel 1986 Smith Anthony ha offerto una definizione utile di etnia: si tratta di una comunità accomunata da un senso di unicità culturale e comunione storica:

A named human population with shared ancestry and myths, histories and cultures, having an association with a specific territory and a sense of solidarity. (The Ethnic Origins of Nations)

Una determinata popolazione umana che condivida ascendenze e miti, storie e culture, che abbia un’associazione con un territorio specifico e un senso di solidarietà.

Notare il miti e le storie: la narrativa è il modo con cui le società umane costruiscono il proprio mondo (o per lo meno la visione che ne hanno, che nella pratica è la stessa cosa).

Che conseguenze ci sono quindi per gli archeologi?

Gli esseri umani esprimono la propria identità attraverso la propria cultura materiale. Deve esserci un modo di raccattare indizi basandosi sui resti!

Dagli anni ’70 l’archeologia occidentale ha cercato di correggere il tiro individuando non tanto elementi culturali, ma insiemi significativi di elementi culturali e lo stile (stile inteso come la forma e non la sostanza di un oggetto) di detti elementi.

Lo stile diventa particolarmente riconoscibile quando si ha a che fare con società-stato, o per usare un anglicismo state-lever societies.

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Il tumulo attribuito all’Imperatore Nintoku. La forma, la taglia delle tombe e la ricchezza e qualità del corredo funerario sono indicatori molto usati per elaborare ipotesi sulla società Wa di prima dei Codici

Lo stato non è sempre stato un termine ben definito in Scienze Sociali.

Cohen ha individuato 3 tipi di definizione di stato, che optano per porre l’accento su 3 caratteristiche diverse:

  • Le definizioni basate sulla stratificazione sociale: mettono l’accento sulla correlazione tra l’emergere dello stato e la nascita di una società a classi stabili. Una stratificazione in classi presuppone che gruppi diversi godano di un diverso accesso alle risorse.
    Il primo ad articolare un discorso moderno sull’argomento è Rousseau, ma è il magico duo Marx-Engels ad avere l’impatto maggiore. Per quelli che sposano questo tipo di definizione, lo stato è il frutto di una società stratificata in cui la classe dirigente ottiene il controllo dei mezzi di produzione. Lo stato è elaborato per mantenere questo controllo e difendere i privilegi dell’élite.
    Fried Morton sposa questa posizione: per lui lo stato è un sistema di governo centralizzato che emerge inevitabilmente da un sistema di ineguaglianze istituzionalizzate in cui i capi hanno un accesso privilegiato alle risorse.

  • Le definizioni basate sulle strutture dello stato stesso: questo approccio si rifà a pensatori del XIX° come Herbert Spencer, Lewis Henry Morgan e Henry Maine. E’ stato ripreso a inizio XX° da gente come Hobhouse, Wheeler e Ginsburg, che definiscono lo stato come un sistema di relazioni di autorità gerarchiche in cui le unità politiche locali perdono autonomia e finiscono subordinate a un’autorità centrale.
    Cohen schiaffa nella stessa categoria le definizioni offerte da Wright e Johnson, che si focalizzano sul mezzi attraverso cui l’informazione è processata in uno stato. Adams invece mette l’accento su come l’energia è ottenuta e usata dal governo centrale. Per costoro le interazioni sociali sono transazioni o flussi di informazioni in cui strati più alti decidono e influenzano strati più bassi. Questo approccio è particolarmente usato dagli archeologi per trovare indicatori e poi catalogare le società sulla base di come trasferiscono informazioni o su come ottengono e distribuiscono l’energia.

  • Infine ci sono definizioni a posteriori che si concentrano su tratti diagnostici: quali sono gli elementi che accomunano i primi stati centralizzati? Il problema di questo approccio è che non si può ottenere un set standard di caratteristiche che sia applicabile a più di un pugno di società. Alcune fanno sacrifici umani altri no, alcuni chiedono totale fedeltà altri lasciano spazio alla semi-subordinazione, ecc.

Ma come si arriva allo stato?

In generale gli studiosi convengono che c’è una progressione da una società più semplice verso una società più complessa.

In antropologia occidentale, i modelli tassonomici principali sono quelli di Service e Fried.

Tra parentesi, questi due non erano d’accordo su un sacco di cose ma scrivevano comunque libri insieme. E’ uno spasso!

(Vabé, mi diverto male, ma se non mi divertivo male col cazzo che finivo in dottorato).

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Il modello di Service ipotizza un’evoluzione dalla banda, alla tribù, al chiefdom (il livello sopra quello puramente tribale, con un territorio controllato da un capo principale) e infine lo stato.

Per Fried, che riprende le teorie di Engels di lotta tra classi, si passa da un contesto primitivo con una società relativamente egalitaria e si procede verso società sempre più complesse: società a ranghi, società stratificata e società statale.

Personalmente non amo troppo il termine “egalitario” quando si parla di società umane, che sono sempre gerarchiche in una qualche misura. Quello che però si intende qui non è tanto che i Cromagnon fossero una democrazia, quanto che c’è una differenza sostanziale tra un anziano nel gruppo di cacciatori raccoglitori che funge da memoria storica del gruppo, e un re Yamato che può smuovere decine di migliaia di operai per costruire la sua tomba monumentale.

C’è anche da notare che la differenza tra una società complessa non statale e una statale non è netta.

Per Cohen il tratto che distingue lo stato da altri tipi di organizzazioni è la capacità della società statale di restare unita.

I non-stati tendono a spaccarsi in unità simili tra loro: una banda cresce fino a un certo punto, oltre il quale un gruppo decide di staccarsi e allontanarsi, costituendo una nuova banda simile alla prima. Stesso vale per le tribù e i chiefdoms. Lo stato è l’unica struttura che invece è costruita per resistere a questa tendenza centrifuga. Lo stato si può espandere senza dividersi, fagocitare altre polities, diventare eterogeneo e crescere senza i limiti stringenti di strutture meno complesse.

Questo perché lo stato ha la capacità di coordinare lo sforzo umano in azioni collettive di portata generale. Per ciò fare, lo stato evolve una classe dirigente o burocrazia governativa. I burocrati, come gerarchia ufficiale, fungono da collante tra i non-funzionari e il regime.

Nei chiefdoms la situazione è differente: anche loro possono avere funzionari e centri di organizzazione del potere, ma ogni nodo della rete è una replica dell’ufficio al centro del sistema. Quando la pressione è troppa, i nodi possono spezzarsi e sono già strutturati per essere repliche indipendenti capaci di eseguire funzioni governative.
Al contrario, negli stati antichi i funzionari al centro hanno funzioni uniche che non vengono svolte da nessun altro nel sistema. I centri di potere locali sono costruiti sul modello di quello centrale ma non ne sono una replica.

Byington cerca di offrire una definizione complessiva di stato: è una polity complessa, caratterizzata da una significativa stratificazione sociale, con almeno 2 classi (i governanti e i governati), un governo centralizzato con una burocrazia professionale, un corpus di leggi e un monopolio dell’uso legittimo della forza.

Ma viene prima la società stratificata, o la stratificazione è un effetto dello Stato?

Nasce prima l’uovo o la gallina?

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Nasce prima il Tuatara

Ci sono due modelli principali su come lo stato nasce: il modello di Service mette avanti l’integrazione e la cooperazione organizzata tra diverse parti della società; Fried d’altro canto mette avanti il conflitto, la lotta e la forza coercitiva dello stato.

Per chi spinge la teoria del conflitto, la centralizzazione deriva dalla competizione: gruppi lottano per il controllo di risorse limitate e alla fine uno dei contendenti vince stabilendo il controllo (almeno per un periodo) sulle risorse. Il punto è l’ineguale accesso alle risorse.

Per Fried l’ineguale accesso alle risorse è ESSENZIALE per la formazione di uno stato: un gruppo conquista l’accesso privilegiato a una risorsa e si trova quindi nella necessità di difendere detto accesso. La centralizzazione e il potere repressivo che mantiene la stratificazione sociale sono elaborati a questo scopo.

Fried distingue inoltre tra primary (pristine) states, ovvero stati che si sono spontaneamente evoluti, e secondary states, ovvero stati che si sono evoluti sotto l’influenza di stati vicini preesistenti.

Va da sé, i secondary states sono la forma più comune di state formation.

Service d’altro canto focalizza invece sull’aspetto di integrazione. Sì, lo stato ha conflitti, ma lo stato ha anche una capacità straordinaria di organizzare e coordinare grandi numeri di persone, spesso di diversi background etnici o ecologici. L’idea che lo stato sia tenuto insieme solo o soprattutto dalla minaccia della forza coercitiva da parte dell’autorità centrale è riduttiva: la gente in uno stato spesso supporta lo stato. Per Service quello che tiene insieme lo stato non è la violenza, ma la reciprocità e la legittimità.

Si può argomentare che non esiste legittimità senza una qualche forma di reciprocità, ma questo è un ginepraio per un altro articolo!

Da un punto di vista pratico, Service nota che un governo centralizzato offre protezione e sicurezza, strumenti per gestire le dispute, accesso a risorse in cambio di accettazione dell’autorità.

La principale opposizione tra Service e Fried sembra filosofica e porta sullo stato stesso, visto come un’entità benefica che richiede un prezzo per un vantaggio sociale generale (Service) o una struttura oppressiva nelle mani delle classi dirigenti volta a mantenere le classi subalterne nella loro condizione di sfruttamento (Fried).

Dall’alto della mia inesistente esperienza di ricercatrice io dico che entrambe sono vere. Ormai si considera che entrambi i punti di vista hanno limiti e meriti, e una posizione non esclude necessariamente l’altra.

Han Fei (?-233 a.C.), fondatore del Legismo e grande fan dell’uso della forza repressiva da parte dello Stato, perché gli uomini sono belve e solo uno Stato autocratico e severo può impedire ai glebani di sbranarsi tra di loro. Odiava la plebe e morì suicida.

Ma parliamo della storia, di come mai certe società diventano stati altre no.

Come per ogni fenomeno storico, è necessario un contesto che lo renda possibile, ed è necessaria l’interazione di un certo numero di fattori.

Fino agli anni ’70, il discorso accademico ha cercato di individuare i “fattori decisivi”, i prime movers all’origine della statalizzazione. Tradizionalmente questi si dividono in fattori sociali e fattori ambientali. Alcuni esempi di ipotetici prime movers possono essere l’aumento demografico, la circoscrizione di una società in un ambiente definito, una guerra di conquista, lo sviluppo di un complesso sistema di irrigazione, il commercio su lunga distanza, ecc.

Nel 1972 L’archeologo Flannery Kent intervenne nel dibattito su questo miracoloso “fattore catalizzante” criticando l’approccio semplicista alla questione e auspicando una visione più “multi-variabile” che tenesse conto di numerosi fattori contemporaneamente, inseriti in un contesto socio-ambientale.

L’intervento di Flannery fu preso sul serio e nel 1978 Cohen propose un nuovo modello che vede la formazione dello stato come un processo sistemico (ovvero avente un effetto su tutto il sistema/organizzazione) e multi-causale.

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Sta geremiade è quasi finita, tenete duro!

Come accennato prima, Fried ha introdotto la distinzione tra pristine states e secondary states. Nel 1992 Rhee Song Nai propone una nuova categoria, ovvero quella si stato autoctono.

Se il pristine state è un’evoluzione spontanea e il secondary state è l’effetto di una diretta influenza subita da parte di uno stato vicino, come spiegare la formazione di stati in regioni che non erano in diretto contatto con stati preesistenti?

Nella penisola coreana, ad esempio, possiamo constatare che polities si “statalizzano” sotto l’influenza di enti come la Cina dei Wei, pur non subendo una diretta minaccia o un contatto continuo.

Per Rhee, che parlava nello specifico del regno di Goguryeo, lo stato autoctono si forma sotto l’influenza di stati distanti. Alcuni dei fattori in gioco in questo caso sono il commercio su lunga distanza e la circoscrizione.

Il commercio è spesso un elemento importante nella nascita degli stati o nell’evoluzione delle società in generale: il commercio può introdurre una nuova tecnologia che stravolge del tutto le abitudini, può consolidare il potere dell’élite o può provocare uno slittamento del potere (per esempio la nascita di una prospera classe mercantile).

C’è un nesso tra la differenziazione organizzativa di una società e la sua abilità di mantenere reti di scambi commerciali: per esistere, il commercio necessita surplus, concentrazione dei beni, logistica, ecc.

Per quanto riguarda la circoscrizione, il termine indica un limite al territorio o all’accesso alle risorse. Se queste limitazioni portano a urti coi vicini, questo può incoraggiare il senso di identità di cui parlavamo a inizio articolo o anche a una centralizzazione dell’autorità (un’autorità centralizzata semplifica l’organizzazione della difesa).

Le pressioni esterne possono controbilanciare le tensioni interne a una società, spingerla a stratificarsi e statalizzarsi. Niente di meglio di un nemico per stimolare il senso di identità. Come dice Byington, the clear notion of “us” depends largely on a “them” to which draw contrast.

La pressione esterna, la scarsità di risorse, la necessità di organizzare e gestire strutture complesse come commercio o irrigazione sono tutti fattori capitali nella creazione di uno stato, pristine, secondary o autoctono. Nessuno di questi elementi è però sufficiente, preso da solo.

Come tutto ciò che riguarda le società umane, non esiste una formula matematica sempre applicabile.

Esistono mille tipi di autorità e strutture sociali, e le loro forme sono determinate da innumerevoli fattori (ambiente, storia, cultura, livello tecnologico, mezzi di produzione, ecc.). La natura delle società fa sì che di solito è impossibile determinare con certezza cosa sta influenzando cosa: se è il commercio a incoraggiare la stratificazione sociale e la specializzazione o se il commercio si sviluppa perché c’è stratificazione e specializzazione.

Personalmente trovo che la discussione sull’uovo e la gallina abbia un interesse relativo: questi fattori si influenzano l’un l’altro, evolvono e cambiano insieme.

A parer mio la costante che caratterizza ogni forma gerarchica umana non è tanto il potere coercitivo o l’accesso privilegiato a risorse strategiche (che, to be fair, sono spesso fattori), quanto la legittimità del potere politico.

Le società sono adattamenti evolutivi e hanno determinato la nostra sopravvivenza in un mondo dove quasi tutto cercava di ucciderci. Ma le società si basano principalmente su una serie di convenzioni. Anche il sentimento identitario, alla fine, non è che un accordo su un certo numero di convenzioni.

Il fatto che siano convenzioni non le rende meno importanti: una convenzione può essere inventata di sana pianta e basata sul nulla assoluto, ma il fatto che sia condivisa da un certo numero di individui fa sì che abbia un effetto, e quindi sia reale.

La legittimità è pure una convenzione, a mio modesto parere tra le più arcaiche e radicate nella nostra psiche.

La legittimità può essere costruita, manipolata o minata, ma nessuna classe dirigente ha mai avuto un controllo totale e duraturo su di essa. La legittimità del potere politico è la chiave di volta necessaria a tenere insieme e una qualsiasi gerarchia, e abbiamo numerosi esempi di classi dirigenti che, pur avendo il monopolio del potere coercitivo, non sono riuscite ad evitare lo sgretolamento della loro società. La legittimità è quella cosa che i cinesi chiamavano il Mandato del Cielo.

Ma questo è argomento per un altro verboso articolo!

Per ora mi limito a parlare di stato, che ritengo di aver punito a sufficienza i miei lettori (per ora!).

WE ARE BACK IN BUSINESS BITCHES!

MUSICA!


Bibliografia

BYINGTON Mark E., The Ancient State of Puyo in Northeast Asia, Harvard University Press, Cambridge, 2016, p.279-306

COHEN Ronald et SERVICE Elman R., Origins of the State : The Anthropology of Political Evolution, Institute for the Study of Human Issues, Philadelphia, 1978

WEBSTER David, “Warfare and the Evolution of a State: A Reconsideration”, in American Antiquity, vol.40, n° 4, Cambridge University Press, Cambridge, 1975, p.464-470

Letture aggiuntive

BARTH Fredrik, Ethnic Groups and Boundaries, 1969

FLANNERY Kent, “The Cultural Evolution of Civilization”, in Annual Review of Ecology and Systematics 3, 1972

FRIED Morton, The Evolution of Political Society: an Essay in Political Anthropology, 1967

RHEE Song Nai, “Secondary State Formation: The Case of Kuguryo State”, in Pacific Northeast Asia in Prehistory: Hunter-Fisher-Gatherers, Farmers, and Sociopolitical Elites, 1992

SERVICE Elman, Primitive Social Organization: An Evolutionary Perspective, 1962

VERMEULEN Hans e GOVERS Cora, The Anthropology of Ethnicity: Beyond “Ethnic Groups and Boundaries”, 2000

A pagare e a morire: brevi cenni sul sistema fiscale sotto i Codici

E’ il VII° secolo, il Giappone si trova tagliato fuori dalla Penisola Coreana e confrontato con una nuova dinastia cinese aggressiva e organizzata: i Tang.

E’ un secolo di grandi lavori e grande innovazione, di cui abbiamo già parlato in diversi articoli. Per chi si fosse perso le puntate precedenti: i nostri amici isolani si trovano a dover modernizzare il loro governo in fretta e furia onde non finire come sfigati satelliti di paesi più avanzati.

Non sarà l’ultima volta che capita.

Imperatori giapponesi: ogni 10-15 secoli si svegliano e modernizzano il Paese a pedatoni nel didietro

E’ il 645 quando iniziano i lavori per la grande riforma dell’era Taika. Le più brillanti menti dell’Arcipelago si riuniscono per trasformare un coacervo di staterelli, tribù e territori contesi in un Impero come dio comanda.

Una delle priorità pressanti era stabilire un governo burocratico passabile. Ora, la cosa che ai burocrati riesce meglio è magnare. Uffici, segretari, impiegati, tutto il circo ha bisogno di risorse. Tante risorse: il Governo Centrale arrivò a contare anche 50.000 funzionari!

Un nuovo sistema di tasse si imponeva, ed è questo nuovo sistema che compare nei Codici, il corpus di leggi pubblicato nel 701.

Lo studio di queste leggi e regolamenti è una forca caudina a cui nessuno storiografo sfugge, e quindi mi son detta: perché soffrire da sola? Come Sadako in RIngu, posso diffondere l’orrore!

Se vi cascano le palle alla sola idea della dichiarazione dei redditi, rallegratevi: oggi si parla di fisco!

Nazionalizzando i mezzi di produzione, il sistema dell’handen (班田)

Il primo passo per spintonare il povero glebano isolano dal vecchio sistema basato sui clan al nuovo concetto di suddito imperiale, è appropriarsi dei mezzi di produzione, ovvero la terra coltivabile. Se vuoi gente nuova, devi forgiare un nuovo sistema economico.

Coi Codici, la Corte si arroga il monopolio delle risaie, e con esso il privilegio di concedere il diritto di sfruttamento.

L’oggetto del contendere qui non è proprio la proprietà della terra, quanto il diritto d’uso delle particelle.

La Corte fa quindi manbassa di tutte le risaie del Paese, che sono divise in unità di superficie. L’unità base del nuovo sistema è il chō (), che misura grosso modo un ettaro (12.960 mq). Il chō è a sua volta suddiviso in 10 tan ().

A seconda del proprio status e della propria funzione, ogni suddito riceve il suo bel pacchetto di diritti di sfruttamento con correlato fardello fiscale, ma andiamo con ordine!

Il secondo passo, dopo l’appropriazione dei mezzi di produzione, è la riorganizzazione della popolazione.

I sudditi degli Yamato vengono tolti ai clan per essere ripettinati in un sistema che li suddivide in diverse categorie fiscali. La massa della plebe si divide per cominciare in liberi (ryōmin, 良民) e non-liberi (nuhi, 奴婢).

I liberi si dividono di nuovo in uomini e donne. Solo gli uomini sono imponibili, perché certuni se ne scordano ma i sistemi patriarcali sono una pena nel culo anche per la maggioranza dei maschietti.

Gli uomini sono divisi in base all’età:

  • I bambini: tra i 3 e i 6 anni (prima dei 3 manco contavi come essere umano).

  • I ragazzi: tra i 16 e i 21 anni.

  • I giovani: tra i 20 e i 21 anni.

  • Gli uomini validi: tra i 21 e i 61 anni, erano quelli a sopportare il grosso del fardello fiscale.

  • Gli uomini maturi: tra i 61 e i 69 anni.

  • Gli anziani: dai 69 anni in su.

Tra costoro ci sono gli uomini soggetti a tasse e corvées, chiamati seitei (正丁), e quelli troppo vecchi, troppo giovani o troppo malati per poter essere sfrusfttati strizzati imponibili e che beneficiano quindi di sgravi più o meno grandi (jitei, 次丁).

A seconda del sesso e del conseguente carico fiscale, a ogni suddito viene concesso il diritto di sfruttamento di un certo numero di lotti di risaie.

A partire dai 6 anni, i bambini maschi ricevono 2 tan di risaie (2.592 mq), mentre le bambine hanno diritto a 2/3 di questa superficie (1.728 mq), perché nei sistemi patriarcali le femminucce non sono esseri umani alla stregua dei maschietti.

Anche i servi sono tenuti di conto: hanno ancora meno delle bambine, circa 864 mq.

Per avere un’idea, la superficie data ai maschi era considerata quella minima necessaria per produrre abbastanza da mantenere un uomo per un anno.

Come vedremo, i maschi adulti erano oberati da un’infinità di tasse accessorie e servizi, quindi non bisogna immaginare che ognuno potesse campare della propria risaia di Stato e basta. La verità è che senza un nucleo familiare (moglie, sorelle, bambini, genitori, parenti, ecc.) pronto a coltivare la terra di Stato quando necessario, a portare avanti i campi asciutti, o a organizzare una qualche altra attività economica di contorno, un uomo non poteva sopravvivere del proprio lavoro sul lotto a lui assegnato. Nel Giappone classico, un uomo da solo muore.

Queste risaie assegnate dallo Stato ai sudditi erano chiamate kubunden (口分田), “risaie pro-capite”.

Oltre a queste, un individuo poteva ricevere ulteriori appezzamenti. Un uomo poteva, ad esempio, vedersi attribuire come ricompensa un lotto aggiuntivo per il resto della vita (shiden, 私田, questi caratteri possono significare cose diverse a seconda il contesto). Se un uomo aveva una funzione, gli erano inoltre attribuite delle “risaie di funzione” (shikiden, 職田) la cui rendita fungeva da stipendio.

Infine, una provincia poteva ritrovarsi con “risaie in eccesso” (konden, 墾田), o “risaie non attribuite”, che erano assegnate dalle autorità locali a un contribuente in cambio di una quota del prodotto.

Nella teoria, la popolazione, le varie tipologie di risaie e i lotti assegnati erano tutti pedissequamente annotati in appositi registri e le distribuzioni venivano aggiornate ogni 6 anni.

Cela va sans dire, questa cosa dei registri non ha mai funzionato a dovere.

Sia chiaro, al di là di quanto questo sistema abbia funzionato nella propria forma originale (poco), in certe regioni si diffuse con grande ritardo, tipo due secoli di ritardo. In altre invece fu una faccenda rapida, come in quel di Kibi, sul Mare Interno, dove abbiamo trovato tracce archeologiche della divisione delle risaie in tan. L’applicazione dei Codici non è mai uniforme sul territorio.

Ovvio, tutta ‘sta faccenda deve aver richiesto sforzi titanici di riorganizzazione e razionalizzazione delle superfici agricole.

Secondo Hall, è molto probabile che il sistema di lottizzazione non fosse proprio una novità, ma fosse già impiegato prima del 646 almeno in parte del Paese. Plus, in questo periodo non esiste ancora un vero e proprio concetto di “proprietà privata” (che, con buona pace di certa destra economica, è un costrutto culturale) relativo alla risaia: la risaia è un bene della comunità, sia che la comunità sia il clan, sia che la comunità sia il Governo.

Per lo Stato (che non aveva un’economia monetaria), una standardizzazione delle coltivazioni era necessaria per poter elaborare un sistema fiscale che fosse almeno lontanamente equo.

Sempre secondo Hall, è probabile che questa riforma sia stata in origine appoggiata da una buona fetta della popolazione. Tanto per cominciare la cosa riguardava solo le risaie umide (lasciando le terre asciutte, gli orti e lo sfruttamento delle foreste al di fuori del sistema fiscale), e in secondo luogo forniva un qualche tipo di protezione dei diritti di sfruttamento.

Questi vantaggi sono presto stati superati dai difetti: il carico fiscale e le corvée civili e militari richieste ai sudditi erano immani.

Questo perché il focus del sistema fiscale della Riforma non era davvero la terra, ma la forza lavoro. Quello che lo Stato voleva non era una rendita, ma il monopolio sull’individuo.

Ogni dannato chicco di riso, ogni dannata goccia di sudore

Contabile perde la salute calcolando calcolanda.

Sì, nel periodo Nara i giapponesi avevano sedie. Non so perché abbiano deciso di dismetterle. Ho il sospetto che l’abbiano fatto per far soffrire me in particolare.

L’abito disfatto è ispirato all’abito del contabile che interviene nel litigio tra i bambini nel Ban dainagon ekotoba.

L’uomo libero doveva allo Stato 4 tipi di contribuzione:

(), tassa in riso sulle risaie attribuite ai sudditi

Chō (調), tassa individuale in prodotti vari (importati e assortiti)

, (), corvée, che poteva essere soddisfatta pagando un pizzo (il pizzo si chiamava pure , )

Heishi-yaku (兵士役), servizio militare

Abbiamo già accennato alla leva e ai reggimenti provinciali nell’articolo sul sistema militare, quindi ci limiteremo a dire che ogni uomo doveva servizio alla provincia, 1 anno di servizio alla Capitale e 3 anni alla frontiera.

Quanto al resto, con ordine:

La tassa constava in origine di una percentuale relativamente bassa della produzione delle kubunden: da 3% al 5%.

La quota aumentò col tempo e fu aggravata da una nuova diavoleria: il prestito coatto in riso, suiko (出挙), a interesse. In pratica il glebano era costretto a prendere in prestito semi dall’autorità provinciale e rendere con interesse il debito dopo il raccolto. In altre parole era un modo per costringere il contribuente a coltivare i semi pubblici in cambio di molto poco.

Le corvées richiedevano 10 giorni l’anno di sevizio alla Capitale e 60 giorni l’anno di servizio alla capitale provinciale. I coscritti di corvée erano a disposizione per qualsiasi lavoro fosse necessario: scavare nuovi canali, cuocere tegole, costruire città… qualsiasi cosa!

A chiosa, ricordiamo che a questo stadio non esistono capitali fisse: in toeria, alla morte dell’Imperatore si sbaracca tutto e ci si sposta un po’ più in là. Perché la domanda che spinge avanti la Storia non è mai “perché?” ma “perché no?”.

La corvée era commutabile in tessuti. Del tessuto di canapa poteva sfangarti il servizio alla provincia, ma per il servizio alla Capitale un uomo doveva sborsare 26 shaku di seta (ovvero una pezza lunga 7m70 e larga 65cm). Per farsi un’idea al cambio attuale di quanto una pezza del genere potesse costare, basti sapere che sul mercato dell’epoca era considerata l’equivalente di 30 giorni di lavoro.

Ovviamente non tutti sono tenuti a fornire corvées.

Sono esentati:

  • i funzionari provinciali di terza classe (主政)

  • gli assistenti provinciali (主帳)

  • i membri del reggimento provinciale da soldato semplice a colonnello (大毅)

  • i capi archivisti dei pascoli di stato (長帳)

  • gli impiegati del servizio di posta (駅子)

  • gli uomini dei fuochi di segnalazione (烽子)

  • i dottori dell’Ufficio degli Studi Superiori

  • i medici

  • gli studenti

  • le persone di più di 80 anni (侍丁)

  • i capi-villaggio (里長)

  • i portatori di tributi (貢人)

  • gli uomini con un rango-ricompensa (勲位) fino al 9°

  • gli uomini con il rango di Corte iniziale (初位)

  • gli infermi

Sono pure esentati dalle corvées aggiuntive (雑徭)

  • i capi di circoscrizione urbana (坊長)

  • gli stimatori che lavorano all’Ufficio dei Magazzii di Corte (内蔵寮), del Dipartimento del Tesoro (大蔵省) e del Bureau del Mercato (市司).

Le corvées sono un gran fardello sull’uomo giapponese, ma la vera chicca sono i tributi in prodotti vari, chō.

Il primo articolo del capitolo sui tributi (賦役) elenca l’infinita lista:

Per ciò che riguarda i tessuti, ogni uomo adulto pienamente imponibile deve fornire:

  • 8 shaku e 5 sun di pongée di seta (2m52 x 65cm)

  • 8 shaku e 5 sun di tessuto di seta (2m52 x 65cm)

  • 6 shaku e 5 sun di seta della provincia di Mino (1m92 X 65cm)

  • 8 ryō di filo (111gr)

  • 1 kin di borra di seta (222gr)

  • 2  e 6 shaku di pezza di canapa (7m70 x 65cm)

  • ¼ di 1 tan di seta tessuta nel distretto di Mōda nella provincia di Kazusa (3m85 x 71cm)

Ognuno deve anche fornire una quantità ridicola di “prodotti importati” (雑物輸)

  • 10 kin di acciaio (2,22Kg)

  • 3 ferri di zappa (2Kg di ferro in totale)

  • 3 to di sale (7,2 l)

  • Circa 17Kg di molluschi (lunga dettagliata lista che vi risparmio)

  • Circa 82 l di molluschi (perché questi sono misurati a volume e non a peso? Ma che ne so…)

  • Circa 31Kg di pesci assortiti, essiccati e non.

  • Circa 30 l di pesci assortiti essiccati e non (vedi su)

  • Circa 208Kg di alghe assortite

  • 24 l di alghe che vanno misurate in volume per qualche ragione.

  • 14,4Kg di carni essiccate con ossa e tutto

  • Circa 58 l di erbe

  • 14,4 l di molluschi con conchiglia

  • Più 22 Kg di qualcosa di cui non sono riuscita a trovare il segno in nessun dizionario fino ad ora (vi terrò informati che so che ci tenete).

Di tutta questa roba, gli uomini parzialmente esentati (jitei) pagavano la metà e i ragazzi un quarto. Nella versione Yōrō i ragazzi pagavano un contributo in prodotti agricoli ed erano esentati dai prodotti importati.

Ma hey, mica finisce qui!

Per i fortunati contribuenti c’era anche una tassa in prodotti supplementari (調副物):

  • Circa 193gr di pigmenti

  • Circa 4,33Kg di prodotti vegetali

  • Circa 2,26 l di altri prodotti vegetali, ma calcolati in volumi

  • 280ml di wasabi

  • 6 fogli di carta (60cmx30cm)

  • 22ml di lacca

  • 222gr di cotone di varia provenienza

  • 0,24 l di sale (sì, di nuovo)

  • 0,96 l di prodotti animali assortiti

  • 1 paio di corna di cervo

  • 1 mola

E non è ancora finita!

  • 2 adulti devono fornire 1 stuoia in paglia di riso

  • 3 adulti devono fornire 1 stuoia in paglia

  • 14 adulti devono fornire 1 barile dalla capienza di circa 7 l

  • 20 adulti devono fornire 1 barile dalla capienza di circa 10 l

  • 35 adulti devono fornire 1 barile della capienza di circa 12 l

Non tutti erano soggetti alla “tassa in prodotti”. A sfangarsela erano

  • i toneri (舎人, uomini del seguito, termine che copriva una vasta gamma di funzionari subalterni, civili e militari)

  • i commessi alle scritture (史主)

  • i Tomobe (伴部, discendenti degli antichi vassalli del re di Wa che servivano nelle provincie o come supervisori degli atelier di artigiani)

  • le Guardie dei Gendarmi (兵衛府)

  • le Guardie della Cinta (衛士府)

  • gli uomini che già prestavano corvée alla Capitale (仕丁)

  • gli uomini in servizio alla frontiera meridionale (防人)

  • gli ufficiali in servizio alla Capitale (長内)

  • gli uomini di servizio nelle case degli alti dignitari (資丁)

  • gli assistenti personali annuali (事力)

  • i capistazione delle stazioni di posta (駅長)

  • i responsabili dei fuochi di segnalazione (烽長)

  • gli uomini con un rango di corte o con un rango-ricompensa uguale o superiore all’8°

  • i custodi delle tombe imperiali (陸戸)

  • i lavoratori subalterni (雑戸)

  • i lavoratori liberi impiegati dal Governo (品戸)

<br/><a href="https://i0.wp.com/oi64.tinypic.com/20pc9io.jpg" target="_blank">View Raw Image</a>Tomba imperiale (ne abbiamo parlato qui)

Il carico, tra le tasse, i prodotti, le corvées e il servizio militare, era enorme.

La gente disertava i propri villaggi mettendosi al servizio di privati in grado di difenderli. I funzionari consegnavano tributi danneggiati o incompleti e poi fuggivano dalla Capitale prima che i contabili potessero verificare i carichi. Disertori del servizio militare si davano al brigantaggio. Funzionari provinciali dichiaravano il falso o maneggiavano i registri per poter evadere le tesse. Cani e gatti vivenao insieme, ISTERISMO DI MASSA!

Ok, no, sto scherzando. Il sistema non è mai stato applicato in modo coscienzioso e non ha mai funzionato a dovere, ma non è collassato su se stesso come ci si potrebbe aspettare.

I burocrati si attivarono da subito per cercare di rattoppare le falle.

Già pochi decenni dopo la promulgazione, il sistema fiscale viene infatti modificato: le tasse vengono pagate sempre più in tessuti e riso, le corvées vengono ridotte e il servizio militare viene gradualmente abolito in gran parte del Paese.

Gli aggiustamenti e le correzioni sono rallentati da un rosario infinito di crisi di governo, scazzi alla frontiera e tentati colpi di stato (di cui parleremo con calma in articoli specifici).

Nonotante gli ostacoli e gli intoppi, verso la fine dell’VIII° secolo il servizio militare rimane solo in certe regioni nevralgiche ed è per il resto riservato a volontari presi di preferenza nella piccola aristocrazia provinciale o tra i cadetti della medio-bassa nobiltà. Non solo: ci furono vari tentativi, nel corso della seconda metà dell’VIII° secolo, di correggere il tiro, ridurre le sinecura, adottare un sistema di ridistribuzione un minimo più equo.

Niente di questo bastò a salvare l’ideale di Stato moderno e burocratizzato.

La ricchezza ha un tropismo verso l’1%, come è noto, e il Giappone Classico non fa eccezione. Nell’arco del secolo si costituirono latifondi privati, chiamati shōen, posseduti dall’alta aristocrazia. E tanta salute al monopolio dei mezzi di produzione da parte dello Stato.

Lo shōen è spesso citato come elemento indicativo del progressivo confondersi delle sfere pubblica e privata. L’accentramento del potere economico, l’assenza di una vera e propria ridistribuzione, come anche di una vera e propria burocrazia meritocratica, portano alla privatizzazione delle funzioni pubbliche. In altre parole, la funzione viene svuotata del proprio significato e si costituiscono dinastie di famiglie che monopolizzano determinate mansioni.

E’ la morte dello Stato inteso come struttura istituzionale trascendente gli individui.

Truppa di funzionari contempla con orrore la complessa imponenza del sistema fiscale dei Codici (forse).

Ban dainagon ekotoba

Non che i Codici siano stati aboliti o sommersi dal crescente cancro del nepotismo e dell’ingerenza privata. In realtà le leggi del 701 si sono trascinate in arrancante agonia fino al XII° secolo. Un po’ come le Capitali senza mura, le cose in Giappone hanno una strana tendenza a restare in giro nonostante ogni variabile in gioco si scagli contro di loro.

E’ il fascino di questo paese. Richiede Sospensione Volontaria dell’Incredulità per accettare fatti storici assodati.

Prossimamente parleremo degli shōen e dei legami personali che comportavano. Legami personali che contribuirono all’elaborazione del rapporto di vassallaggio che è alla base del successivo sistema feudale.

Per ora non voglio dilungarmi troppo, che si tratta di temi di molto noiosi e non voglio che qualcuno si addormenti con la faccia sulla tastiera.

MUSICA!


Bibliografia

HALL John Whitney, Government and local power in Japan – 500 to 1700, Princeton University press, Princeton, 1966

HERAIL Francine, Recueil de décrets de trois ères méthodiquement classés, livres 8 à 20, DROZ, Ginevra, 2008

INOUE Mitsusada, TSUCHIDA Naoshige, AOKI Kazuo, Ritsuryo, Imanami, Tokyo, 1976

KITAYAMA Shigeo, Ōchi seiji shiron, Iwanami shoten, Tokyo, 1970

Farmacopea creativa: il muschio alla Corte di Heian

Sulle montagne dell’Himalaya vive un caprioletto. E’ piccolo, poco più di mezzo metro al garrese, non ha corna ma ha due zanne da vampiro che scendono giù oltre il muso. Non è un cervo, ma un Moschidae. Vive felice nella boscaglia, si nutre soprattutto di foglie, sta da solo sul suo territorio e gira soprattutto di notte.
Quando è stagione e il Mosco maschio ha voglia di scopare, la ghiandola sotto la sua pancia secerne pallette dall’odore pungente e caratteristico. Se gli va bene, una femmina le trova e s’arrapa.
E’ la fine del X° secolo, e il mosco non sa che gruppi di sicari professionisti stanno scalando le montagne alla sua ricerca. Chi vorrà mai attentare alla vita di un animale che per definizione si fa sempre e solo i cazzi suoi?
La risposta è: Fujiwara Michinaga, l’uomo più potente del Giappone.

Un mosco himalayano. Notare i dentini.

Nato nel 966, Michinaga è il cadetto di un potentissimo clan aristocratico. Dopo la morte intempestiva di suo fratello maggiore, Michinaga diventa capo del clan e si adopera affinché la sua famiglia resti alla guida dell’Impero per le generazioni a venire. Per cominciare, fa in modo che le sue figlie diventino spose imperiali e che i futuri imperatori siano scelti tra i pargoli delle madri Fujiwara. In questo modo il capo del clan sarà sempre nonno o zio materno del Figlio del Cielo.
In una società in cui la famiglia materna è dominante nei primi anni dell’infante, questo significa che il capo del clan sarà sempre l’uomo più potente del Paese. Di fatto, Michinaga amministra l’Impero come se fosse suo, tanto da usare le strutture burocratiche della propria famiglia invece che le istituzioni governative stabilite dai Codici.
C’è tantissimo da dire su Michinaga e il suo tempo, ma oggi parleremo di un aspetto molto preciso: i cosmetici.
Se c’è una cosa su cui i nobili di Heian erano assolutamente fissati, era il protocollo. Dovevi avere un certo tipo di carro, un certo abito, abilità in un certo tipo di musica, danza, poesia, ecc. E’ importante sottolineare che questa roba per l’alto aristocratico di Heian non era “contorno alla politica”, era LA politica!
In un contesto del genere, cosmetici, medicine e profumi erano importantissimi, oggetto di prestigio, scambio politico e dono diplomatico tra la Corte giapponese e quella cinese.
Tra questi prodotti ricercatissimi e uber-lussuosi, c’era anche il muschio.
Cos’è il muschio e a che serve?

Intanto chiariamo: con “muschio” qui non si intende la borraccina del Presepe. Si tratta di pallette pelose, contenenti una sostanza simile al grasso e molto odorosa, rilasciate dal nostro piccolo caprioletto himalayano via una sacca che si trova tra il pene e l’ombelico.
Si tratta di roba molto rara: per ottenere 1Kg di muschio sono necessari 30 o 40 moschi. Piuttosto che andare a caccia di minuscoli pallini per le valli del K2, i cacciatori di solito ammazzano il nostro caprioletto vampiro per strappargli la sacca del muschi da sotto la pancia. Estratto fresco, il muschio ha un odore insopportabile e deve essere ulteriormente trattato per poter essere veduto.
Come si può intendere, questo complicato processo fa del muschio una sostanza pregiatissima. Per avere un’idea di quanto prezioso fosse, basta un esempio dal diario di Michinaga, in cui racconta di alcuni doni ricevuti dal Figlio del Cielo in persona il terzo giorno della seconda luna del secondo anno dell’era Chōwa, ovvero nel 1015:

[Sua Maestà] mi consegna 8 pezze di broccato, 23 pezze di saia, 100 once di chiodo di garofano, 5 ghiandole di muschio, 100 once di pigmento blu e 3 libbre di Nardostachys.

Pallette di muschio in tutto il loro splendore!

Come si evince, una sola palletta di ‘sta roba era cosa da principoni. Ma cosa ci facevano i nobili con queste frattaglie essiccate?
Le sostanze appaiono spesso nelle fonti, ma senza troppi dettagli riguardo al loro uso. Ad esempio, negli Engishiki (i regolamenti dell’era Engi) si stabilisce che, tra le vettovaglie previste per il pellegrinaggio della principessa consacrata di Ise, dovessero esserci delle dosi di shimi (四味). Non è spiegato di cosa si tratta, letteralmente significa “quattro sapori/essenze”, ma pare chiaro che il muschio fosse un ingrediente fondamentale.
Il muschio compare anche nello Honzō wamyō, un’opera enciclopedica sulle “cose viventi” compilata nel 918. Anche in questo caso, non sappiamo di preciso come questa sostanza era utilizzata.
Una luce ci arriva però dallo Ishinpō, il più antico trattato medico giapponese. E’ stato scritto da Tanba Yasuyori nel 984 basandosi su trattati medici della Cina dei Sui e dei Tang.
Il primo riferimento al muschio appare nel sesto capitolo del primo rotolo (sono trenta in tutto) e si capisce che il gustosissimo palloccolo di sugna era previsto per delle pillole. Il capitolo non parla della funzione del farmaco, ma si concentra sulle precauzioni tecniche per manipolare il materiale: è fondamentale che il farmacista non abbia attorno signore, bimbetti o donne incinte, che si sa mandano radiazioni gender e sciupano la carica yang degli elementi.
Nel terzo capitolo del ventiseiesimo rotolo abbiamo finalmente un uso pratico: le pillole di ghiandole sono usate per profumare la persona!
E siccome vi voglio bene, qui l’utilissima ricetta!
Tre once (circa 42 grammi) di:

  • Chiodo di garofano
  • Menta coreana (Agastache rugosa)
  • Psychotria reevesii (un tipo di rubicaceae)
  • Nerdostachys
  • Basilico (tanto per gradire)

Un’oncia (circa 14 grammi) di:

  • Angelica anomala
  • Angelica polymorpha
  • Cannella
  • Noce di Betel

E infine mezza oncia (circa 7 grammi) di muschio!

Il muschio conta per poco meno del 3% del prodotto completo (circa 275 grammi di mappazzone). Dovete macinare tutto, filtrarlo attraverso un panno di seta fine, mischiarlo a del miele e dargli 1000 martellate. No, non scherzo. Occhio a non perdere il conto, che poi è la fine.

Michinaga si compiace mentre l’olezzo muschiato gonfia il suo abito di Corte

Dopo questo processo, potete plasmare delle pillole della taglia di un nocciolo di giuggiola e farle sciogliere sulla lingua, una a botta durante il giorno e tre a botta durante la notte (perché di notte è più facile strozzarsi) per un totale di 12 pillole al giorno.
Questo portentoso preparato, oltre a favorire la carie dei denti, dovrebbe profumarvi l’alito e, sul lungo periodo, il corpo. L’effetto è crescente: dopo 5 giorni le vostre ascelle dovrebbero olezzare di cannella e bestia morta, e dopo 30 dovreste profumare così tanto da appiccicare l’odore addosso al prossimo con un semplice abbraccio. Che mi pare una splendida idea.
A chiosa, ciò dovrebbe far bene a “tutte le malattie” (tranne che al tartaro, immagino), basta astenersi dal mangiare roba agra come cipolle e aglio. Siam messi male, io senza aglio non vivo.
Un altro rimedio di sicura efficacia è spiegato nel quindicesimo capitolo: mettete in un sacchetto zenzero, muschio e zolfo, e sarete protetti dai serpenti e dai morsi in generale! Ma fate attenzione: dovete tenerlo sulla destra se siete uomini e sulla sinistra se siete donne (non vi confondete che sennò non funziona).

Un serpente

Infine, sappiamo che il muschio era un componente fondamentale di un rimedio cinese molto apprezzato in Giappone: la “neve di porpora”. Questo prodotto era usato un po’ in tutti i casi di febbre, sia essa puerperale, da infreddatura, da dissenteria, ecc.
To be fair, in questo caso il muschio probabilmente aveva effetti benefici, in quanto il suo odore pungente, mischiato ad altri aromi, può avere un effetto rinfrescante e alleviare la sofferenza del malato.
In Giappone il muschio aveva un uso soprattutto nei profumi. Secondo Von Verschuer in Le commerce extérieur du Japon, la maggior parte della medicina isolana si affidava più a piante locali che non a complicate importazioni cinesi. Siamo onesti, spesso o prendevi un malanno leggero o morivi, tanto valeva andare al creatore senza spendere una fortuna.
Michinaga si era assicurato il controllo quasi esclusivo degli scambi col Continente. Il muschio, come altri prodotti di stralusso-che-levati, era molto importante per il protocollo di Corte, ma anche come moneta di scambio. Poteva essere usato per acquisire roba davvero utile. Gente come Michinaga doveva nutrire e vestire un numero esorbitante di gente tra servi, intendenti, figli, nipoti, nipotini, amanti, guardie, falconieri, cuochi, paggi, mezzadri, ecc. Tre pallette di muschio potevano diventare una notevole quantità di riso o miglio, per fare un esempio.
Potevano anche essere usati come doni politici, per sugellare e rinforzare alleanze.
Infine, il muschio essendo un materiale di straordinaria rarità, era un elemento di bling. E’ importante essere ricchi sfondati, ma è ancora più importante apparire come ricchi sfondati, oggi come al tempo di Michinaga.
E per soddisfare questi bisogni, la domanda spingeva i suoi tentacoli oltre l’Oceano, fin nelle remote valli himalayane. Non so voi, ma per me è buffo pensare che un povero bestio sia freddato sull’Himalaya perché in Giappone un vecchio maneggione doveva darsi il deodorante. E questo, secoli prima della Globalizzazione che fa tanto arrabbiare Diego Fuffaro.
A chiosa, sapete quanto ci vuole a ricercare una cazzata del genere? GIORNI. Se qualcuno a voi caro decide di buttarsi nella ricerca umanistica, fategli leggere questo articolo finché non rinsavisce.

MUSICA!


Bigliografia

ELLERMAN J. R., MORRISON-SCOTT T. C. S., Checklist of Paleartic and Indian mammals, 1758 to 1946, British Museum, Londres, 1965, p. 353-354
FUJIWARA no Michinaga, Midō Kanpakuki, Chōwa 1/5/20 – Chōwa 2/2/3
HERAIL Francine, Histoire du Japon, POF, Paris, 1986, p.136-143
KURUTA Katsumi, HAYASHI Yuzuru, Engi-shiki, Yoshikawa kōbunkan, Tōkyō, 1938, p.124-125
MAKINO Tomitarō, HONDA Masaji, Genshoku makino shokubutsu daizukan, Hokuryūkan, Tōkyō, 1982
NAGASHIMA Washitarō, Honzō wamyō, Nihon koten senshuukan, Tōkyō, 1926
SAKAI Cécile, STRUVE Daniel, TERADA Sumie, VEILLARD-BARON Michel, Les rameaux noués, VON VERSCHUER Charlotte, « Le coffret de toilette (tebako) de la fille de Fujiwara no Chikataka », Institut des Hautes Etudes Japonaises, Collège de France, 2013, pp. 153-176 ; p 163, 164, 167
SCHROCKIO Luca, Historia Moschi, ad Normam Academiae Naturae Curiosorum, Augsburg, 1682, p.1-17
TANBA Yasuyori, trad. HSIA Emil C. H., VEITH Ilza, GEERTSMA Robert H., The essentials of medicine in ancient China and Japan, vol I et II, Leiden-E.J.Brill, Pays-Bas, 1986, p.313/241
TANBA Yasuyori, Ishinpō, Renmin weisheng chubanshe, Pékin, 1993, p.15-19 ; p.599-610
UCHIDA Seinosuke, Genshoku dōbutsu daizukan, Hokuryūkan, Tōkyō, 1981, n° 293 p. 135
VON VERSCHUER Charlotte, Le commerce extérieur du Japon, des origines au XV° siècle, Maisonneuve & Larose, Paris, 1988, p.52-63
WISEMAN Nigel, FENG Ye, A practical dictionary of Chinese Medicine, Paradigm Pubns, 1998, p.945

Siti internet

http://www.hi.u-tokyo.ac.jp/english/db/db_use-e.html

http://www.arkive.org/himalayan-musk-deer/moschus-leucogaster/

http://www.treccani.it/enciclopedia/muschio/

Storie di documenti: specchi imperiali e tabelle di conversione

Una delle cose che mi fan salir l’Inquisizione è incrociare gente per cui la Storia non è altro che una fila di date, un incedere Magnifico e Progressivo di nozioni da mandare a memoria. Questa visione è un abisso di ignoranza atroce.

Credete che lo storiografo sia solo un masochista che si diverte a ricordare stronzate?
No cari miei, uno storiografo E’ MOLTO PIU’ MASOCHISTA DI QUANTO PENSIATE!

E oggi voglio dimostrarvi di cosa è fatto il quotidiano dei disadattati che si iscrivono in dottorato.

Oggi affrontiamo la storia dei materiali.

Può apparire come un argomento sterile e noioso rispetto ad altri settori, tipo la storia della filosofia, la storia politica o religiosa, ecc. Tuttavia la storia dei materiali, come quella militare, ha diramazioni vastissime. Possiamo immaginare l’impatto ambientale di una società dal modo in cui costruiva i tetti, e grazie a ciò possiamo interpretare con molta più sicurezza le fonti.

Tutti i furbi che studiano avvincenti rivolgimenti sociopolitici non possono evitare di fare i conti, di quando in quando, col sudicio, col rancio degli schiavi, con l’artigiano o col tipo di scarpe usate dai soldati.

E quindi oggi non parliamo di eccitanti gesta guerriere. Oggi parliamo di specchi.

Specchio imperiale conservato allo Shōsō-in

No, non si tratta di vezzosi accessori per signorine di buona famiglia. Siamo nella seconda metà dell’VIII° secolo, e gli specchi di questo periodo riflettono poco e male. Non sono optional frivoli, ma oggetti magici e simboli di potere.

Senza entrare nel merito del ruolo dello specchio sul Continente, basti sapere che, fin dall’alba della Storia Giapponese, questo oggetto ha avuto un’importanza capitale nell’Arcipelago.

Dalla prima comparsa del Giappone nelle fonti, nel Libro dei Wei, composto verso la metà del VI° secolo, notiamo la rilevanza di questo artefatto. Nel capitolo dedicato ai barbari delle isole, lo Wajinden, si parla difatti di Yamatai, un regno prominente in mezzo a una marmaglia di staterelli bellicosi. Yamatai, embrione dello stato nipponico, è governato da una regina-sacerdotessa, Himiko, che vive reclusa in un santuario.

Secondo il testo, Himiko avrebbe mandato un’ambasceria a Daifang nel 280. Da lì, gli inviati sarebbero stati rimbalzati alla capitale Wei di Luoyang. Il sovrano Wei aveva proclamato Himiko “regina dei Wa, amica dei Wei”, e le aveva rispedito indietro vari doni, tra cui spade, perle, stoffe e 100 specchi di bronzo.

Il ritrovamento archeologico di specchi cinesi nei grandi kofun del Kinai è un elemento a favore della veridicità della storia. Sempre l’archeologia ha permesso di vedere come interi stocks di specchi di uno stesso atelier siano stati seppelliti in tombe disseminate ai quattro angoli del Paese. L’interpretazione dominante di questo fatto è che l’invio di specchi in dono facesse parte del cerimoniale diplomatico che legava capi regionali alla nascente Corte di Yamato.

Lo specchio è portatore di un forte valore religioso: compare anche nel Kojiki nel celeberrimo episodio della caverna, in cui la dea solare Amaterasu fugge dal cielo (un mito molto simile a quello greco di Demetra alla ricerca di Persefone).

Nel corso della Storia, lo Specchio è diventato, assieme alla Spada e al Gioiello, uno dei tre regalia della Corte Imperiale. Avere il controllo di questi tre oggetti sacri significava avere il controllo della Dinastia. Un imperatore poteva essere sostituito, lo Specchio Imperiale no. Tanto è vero che alla battaglia di Dan no Ura i Taira cercarono di affondare i tre regalia piuttosto che lasciarli cadere in mano ai Minamoto (ma di questo parleremo un’altra volta).

 

Ok, ok, cominciamo!

Tagliando corto sull’importanza storica, spirituale, politica e magica dello specchio, veniamo a noi!

Il documento che studieremo oggi risale al 762 e viene dal tesoro dello Shōsō-in. L’edizione su cui lavoreremo non è manoscritta (GRAZIE A DIO), ma è tratta dalla collezione Dai Nihon komonjo (volume 15).

Prima di saltare nella lettura di questo APPASSIONANTE pezzo però occorre munirsi degli strumenti adatti. In particolare, parlando qui di quantità e misure, sarà necessario dotarsi di una tabella di conversione. Non abbiamo dati diretti del periodo in esame, ma abbiamo la next best thing: una serie di cifre tratte dai Regolamenti dell’era Engi (Engishiki) redatti all’inizio del X° secolo. Si tratta di una codificazione successiva, ma che con ogni probabilità riporta senza troppe variazioni le misure stabilite dai Codici Ritsuryō di fine VII°-inizi VIII°. La nostra edizione è quella curata da Torao Toshiya (vol. 1, 2000).

Misure di lunghezza:

1 () = 2,97 m

10 shaku ()
100 sun ()

1 shaku = 29,7 cm [o 35,6 cm se si parla di “grandi shaku]

10 sun

100 fun ()

1 sun = 2,97 cm

10 fun

1 fun = 3mm

Misure di distanza

1 ri () = 534 m circa [salvo nel caso specifico di misure di terreno agricolo, ma non complichiamoci troppo la vita! NdTenger]

300 bu ()

1.800 shaku

1 bu = 178 cm CIRCA

6 shaku

Misure di superficie

1 chō () = 12.000 mq

10 tan ()

3.600 bu

1 tan = 1.200 mq

360 bu

1 bu = 3,33 mq

Misure di capacità

1 koku (/) = 80 l CIRCA

10 to ()

100 shō ()

1000 ()

1 to = 8 l CIRCA

10 shō

100

1000 shaku ()

1 shō = 0,8 l CIRCA

10

100 shaku

1000 satsu ()

1 = 8 cl CIRCA

10 shaku

100 satsu

1 shaku = 8ml CIRCA

Misure di peso peso, le Grandi Libbre

1 tai-kin (大斤) = 674 g

3 shō-kin (小斤)

16 dai-ryō (大両)

64 dai-bun (大分)

180 monme ()

1 dai-ryō = 42,125 g

4 dai-bun

11 monme

24 dai-shu (大鉄)

1 dai-bun = 10,53 g

2,75 monme

6 dai-shu

1 monme = 3,75 g

2,14 dai-shu

1 dai-shu = 1,75 g

Le Piccole Libbre

1 shō-kin (小斤) = 225 g

16 shō-ryō (小両)

64 shō-bun (小分)

180 monme

1 shō-ryō = 14,06 g

4 shō-bun

11 monme

1 shō-bun = 3,51 g

2,75 monme

Con la tabella alla mano, attacchiamo il testo!

Come prima cosa a destra leggiamo la data: Quindicesimo giorno del primo mese del sesto anno dell’era Tenpyō-hōji [762, NdTenger]

Segue l’oggetto del testo: Ordine per la fusione di quattro specchi imperiali [il carattere “” è un onorifico, NdTenger]

I caratteri in piccolo sono l’equivalente di una nota a pie’ di pagina e danno le dimensioni: ogni specchio dovrà avere un diametro di 1 shaku (29,7 cm ) e uno spessore di 5 fun (1,5 cm)

Quanto alla materia prima:

  • Rame puro: 70 kin [il testo dice Grandi Libbre, ma non è possibile, verrebbero specchi da 20 Kg! Un esemplare dell’epoca conservato allo Shōsō-in ne pesa scarsi 4. NdTenger] (15,75 Kg). Di queste, 48 (10,8 Kg) saranno forniti dall’atelier che si occupa del lavoro, e 22 (4,95 Kg) saranno fornite da diverse fonti.

  • Stagno bianco [si presume una lega brillante di stagno e piombo, NdTenger]: 5 kin e 16 ryō (1,35 Kg).

Totale del metallo: 17 Kg (con una proporzione grossolana di 90% rame e 10% lega di stagno), ovvero 4,27 Kg a specchio.

Veniamo al resto del materiale necessario per la fusione e la finitura!

  • Cera: 1 dai-ryō (674 g)

  • Polvere di ferro: 4 dai-ryō (168, 5 g)

  • Lingotti di ferro: 2

  • Tela di seta a tessitura semplice: 1 (2,97 m)

  • Tela di seta grezza a tessitura semplice: 2 shaku (59,4 cm)

  • Borra di seta: 2 ton (337 g)

  • Tela di canapa: 1 (2,96 m)

  • Cote a grani grossi: 2

  • Cote piccole a grani fini: 2 sacchetti

  • Olio di sesamo: 1 gō (8cl)

  • Carbone di legna: 12 koku (960 l)

  • Carbone da forgia: 6 koku (480 l)

  • Calce: 1 tai-kin (674 g)

  • Frecce: 20

La funzione dei vari materiali non è spiegata, ma sappiamo che gli scribi hanno tendenza ad aggruppare le diciture per tema.

La cera serve senza dubbio per creare lo stampo dello specchio (l’argilla non compare nella lista ma viene nominata in una nota più avanti).

Le frecce sembrano uno strano ingrediente. E’ possibile che la parola sia usata qui in senso lato, per indicare asticelle di bambù cave (simili all’asta di una freccia) che permettano l’uscita dell’aria durante la colata.

Non abbiamo dettagli per quel che riguarda l’uso della stoffa e del ferro, ma notiamo che sono elencati assieme alle pietre per lucidare. Se guardiamo altri tipi di artigianato, tipo la creazione di oggetti laccati, l’artefatto viene lucidato con l’uso di polvere di ferro impastata nell’olio e chiusa in un panno di diversa grana. E’ probabile che lo stesso valga per gli specchi: il tocco finale di lucidatura veniva forse dato alla stessa maniera.

Artigiani in un atelier dell’VIII° secolo

A partire dalla linea 8 si parla del personale necessario e delle “unità” che sono assegnate ad ogni uomo. Queste “unità” non sono spiegate, ma si tratta senza dubbio di “razioni giornaliere”. Notiamo che alcuni professionisti ne hanno più di altri, di certo perché il loro lavoro richiedeva più giorni di servizio.

In tutto si parla di 124 razioni, ovvero di 124 giornate lavorative complessive.

  • 5 fonditori (64 razioni). Si considera che passeranno 8 giornate a fondere e 56 a rifinire.

  • 1 cesellatore (15 razioni)

  • 1 tornitore (2 razioni)

  • 2 tornitori aggiuntivi (2 razioni)

  • 1 fabbro (3 razioni)

  • 2 assistenti di forgia (40 razioni). Riguardo al servizio di questi due tizi si considerano 12 giorni per andare a recuperare l’argilla a Nara, 2 come assistenti agli intagliatori, 3 di assistenza presso i vari artigiani e 23 come factotum.

Abbiamo un totale di 12 persone. Possiamo supporre che costoro impieghino una ventina di giorni in tutto per terminare i 4 specchi.

Nel frattempo questa gente deve mangiare, e il documento elenca con precisione chi ha diritto a cosa!

 

  • Riso: 2 koku, 4 to e 8 shō (195,2 l), ogni uomo riceve di media poco meno di 2 l al giorno. Tale riso poteva essere mangiato o scambiato per altri prodotti nei mercati della Capitale.

  • Sale: 4 shō, 9 e 6 shaku (3,97 l), ovvero ogni uomo riceveva circa 32 ml di sale al giorno (sempre di media).

  • Alghe: 13 kin e 10 ryō (circa 9 Kg), ovvero 74 g di alghe al giorno per uomo, se si conta in Grandi Libbre. Se odiamo i nostri artigiani possiamo ipotizzare Piccole Libbre, il che darebbe un totale di circa 3 Kg in totale per 25 g di alghe al giorno, ma sembra un tantinello esagerato.

  • Alghe Arame: 10 kin e 8 ryō (circa 7 Kg) per 84 razioni (certa gente lavora più a lungo di altra), per una media di 84 g di alghe a capoccia per 84 giorni.

  • Carne/pesce salati: 8 shō e 4 (6,72 l), razioni per 3 artigiani per 84 giorni, ovvero un misero 80 ml al giorno a capoccia di media.

  • Aceto: 4 shō e 2 (6,56 l) per 84 giorni lavorativi, 78 ml al giorno di media.

  • Stuoie di paglia: 2

  • Stuoie [di pianta non identificata]: 2

  • Stuoie di bambù sottile: 2

  • Cuscini rotondi: 6.

E gli specchi sono realizzati!

Una dozzina di artigiani, un atelier, una ventina di giorni, cibo e risorse, per ottenere magnifici oggetti di prestigio ad alto valore diplomatico.

L’impatto ambientale di questi artefatti comprende carbone di legna (prodotto particolarmente dannoso), trasporto di materiale e cibo fresco, produzione di seta (coltivazione di gelsi e allevamenti di bachi), produzione di cera, ecc. Si tratta di oggetti che, oltre a richiedere capacità particolari e manodopera specializzata, necessitano un notevole investimento di risorse.

Occorre anche considerare che la frenetica attività e la concentrazione demografica avevano disboscato buona parte del Kinai, che in questo periodo comincia a risentire del sovraccarico umano. Ciò rende la fabbricazione di oggetti d’arte come questi più onerosa, ma sempre meno che importare i dannati oggetti direttamente dalla Cina!

 

Specchio ritrovato nel tumulo di Yanoura nel dipartimento di Saga

La lettura di documenti del genere può apparire arida e noiosa. Non è di certo eccitante come il resoconto della rivolta di Masakado, ma io ho una passione malsana per numeri e nomenclature. Sono diretti, precisi, ordinati. Offrono una finestra nella vita quotidiana del tempo e un contesto necessario alla produzione artigianale del periodo. Quando si passa allo studio di ambascerie e doni imperiali, è importante che il dato “TOT specchi” (o simili) non sia semplicemente una cifra sulla carta, ma che comporti per lo meno una nozione del lavoro e dell’investimento che tali oggetti comportavano.

Peraltro, ora avete un’idea migliore di cosa significa lo studio dei documenti. Roba del genere è all’ordine del giorno QUANDO TUTTO VA BENE. Pensateci due volte prima di cacciarvi in questo ginepraio.

MUSICA!

(Ok, l’argomento è stato scelto anche per poter linkare questa canzone a fine articolo, che ce posso fa’)


Bibliografia

Il testo è stato analizzato durante il seminario della professoressa Von Verschuer Charlotte

Dai Nihon komonjo, Shōsō-in monjo, vol.15 p.182-183, VIII° secolo

FARRIS William Wayne, Sacred Texts and Buried Treasures, University of Hawai’i Press, Honolulu, 1998

Population, Disease, and Land in Early Japan, 645-900, Harvard-Yenching Institute Monograph Series 24, 1995

TORAO Toshiya, Engishiki, Shuueisha, vol.1 , 2000

Von Venrschuer Charlotte, Le riz dans la culture de Heian – mythe et réalité, Collège de France, 2003

Storie di documenti: Ashikaga Yoshimasa e la colletta della Befana

Il 2 gennaio 2015 scrissi:

Il 2015 è finito, finalmente. E’ stato un anno molto grumpy, e ho alte aspettative per il 2016.

Le mie aspettative non sono state deluse. Riuscirà il 2017 a essere ancora più grumpy del 2016?

Noi della Fortezza diciamo di sì.

Per attaccare questo nuovo anno di fastidio e antipatia, ho deciso di presentare un articolo un po’ diverso dal solito. Non voglio parlare di battaglie e ammazzamenti, ma analizzare un dettaglio pratico, un tipo di documento con cui lo studioso di Storia si trova alle prese. Nella fattispecie, una lettera diplomatica dello shōgun al re di Corea. Perché? Così avrete un’idea di che tipo di documento il ricercatore si trova a leggere e analizzare.

Il quadro storico

Il Padiglione d’Argento, in cui Yoshimasa passò buona parte del suo tempo (buon per lui)

All’inizio del XV° secolo il governo giapponese non ha relazioni ufficiali e dirette con la Corea, ovvero non ci sono lettere ufficiali tra l’Imperatore e la dinastia di Joseon (1392-1910). Alo stesso tempo, le grandi famiglie giapponesi non esitano ad avere scambi privati con la corte coreana, di solito usando grandi mercanti come intermediari.

La lettera di cui ci occupiamo oggi è tratta dallo Zenkoku hōki, una raccolta di missive scambiate tra lo shōgun e il re di Corea, ovvero tra Ashikaga Yoshimasa (1436-1490) e re Sejo (1417-1468).

Chi è Yoshimasa?

Ashikaga Yoshimasa, dal pennello di Tosa Mitsunobu

E’ l’ottavo shōgun della dinastia Ashikaga e detiene il titolo dal 1449 al 1490. Manco a dirlo, il XV° è un brutto periodo. Non che la vita in Giappone sia mai stata una festa, ma con Yoshimasa è particolarmente rognosa.

Non che sia solo colpa sua, beninteso. Per cominciare il Paese si cucca un bel rosario di rovesci climatici che sputtanano i raccolti. Da una parte gli usurai si fanno tondi, dall’altra contadini e guerrieri di provincia cominciano a ribellarsi.

Per fare un esempio, nel 1462 la gente del dominio Niimi (guidata da piccoli guerrieri locali) decide: “sai che? Moriremo tutti di fame e di peste, tanto vale cavarsi qualche sasso dalla scarpa”.

Vanno dall’amministratore del dominio, lo ammazzano e danno fuoco a ogni cosa. Gli ufficiali che si recano sul posto trovano una scritta cubitale in sangue e frattaglie: WORTH IT.

E mentre avvenimenti di questo genere si diffondono per tutto il Paese, le famiglione al potere decidono che è il momento perfetto per scannarsi tra loro Genpei style. Un anno dopo la redazione della lettera che ci apprestiamo a leggere sarebbe scoppiata la Guerra di Ōnin, un bagno di sangue di proporzioni epiche che sprofonderà il Paese nel Periodo Sengoku (altresì conosciuto come “150 anni di guerre civili e bordello così atroce che se fossero sbarcati i Klingon nessuno ci avrebbe fatto caso”).

E Yoshimasa in tutto questo che fa?

Verrebbe da dire “nulla”, ma purtroppo non è così. A parte sputtanare miliardi in regge e giardini, il nostro fa danni, immischiandosi in scazzi ereditari e politici ma senza implicarsi davvero, dando appoggio a tizio o a caio secondo l’umore, e lasciando briglia sciolta al suo savio mentore.

Non è proprio un personaggio simpatico.

Ma aveva gran gusto estetico e intellettuale! E’ grazie a lui che vediamo fiorire arti come la Cerimonia del The, il Nō e quant’altro.

Ma torniamo a noi. Non voglio dilungarmi troppo nel contesto, le cose saranno spiegate via via.

La lettera

Primo anno dell’era Bunshō, segno del Cane ramo maggiore del Fuoco

Come ogni documento ufficiale che si rispetti, la lettera comincia con la data. Il primo anno dell’era Bunshō corrisponde al 1466 nel calendario gregoriano. Il resto è dedotto secondo il ciclo sessagesimale del calendario cinese, che si articola in 60 “binomi” ottenuti associando due serie, una di dieci “Tronchi Celesti” (gli “agenti” taoisti) e una di dodici “Rami Terrestri” (i segni zodiacali).

Minamoto no Yoshimasa del Giappone

Porge i suoi rispetti a sua eccellenza il re di Corea.

(L’autore di questa lettera è Menkoku)

Le lettere ufficiali dovevano essere scritte il cinese. Questo perché il cinese è una delle invenzioni migliori di sempre.

Re Sejo riceve la lettera di Yoshimasa. Ed è già grumpiness…

Pensateci. In un alfabeto fonetico come può essere il nostro, ogni simbolo corrisponde a un suono. Nel caso degli ideogrammi, ogni simbolo corrisponde prima di tutto a un concetto. Questo che significa?

Che non hai bisogno di conoscere il cinese per leggere il cinese. Una volta che hai imparato un pugno di regole per l’ordine di lettura, dato che ogni segno è un concetto, puoi leggere il testo nella grammatica che più ti è congeniale (io leggo il cinese in giapponese, per esempio). Per un impero multiculturale come era (ed è sempre stata) la Cina, questo era uno strumento straordinario, al pari dell’acciaio e della ruota.

Non hai bisogno di costringere i tuoi sudditi a imparare la tua lingua. Basta insegnar loro a leggere quello che tu scrivi nella loro lingua! La comunicazione diventa molto più semplice e offri meno appigli al risentimento separatista. E’ pratico, è collaudato, è geniale.

Tuttavia c’è un piccolo caveat: chi scrive il documento deve sapere il cinese, e deve saperlo bene. Una minoranza di letterati poliglotti resta quindi necessaria. Yoshimasa, che di certo scriveva benissimo, si affidava quindi a dei professionisti per la redazione delle lettere ufficiali. Il signor Menkoku, misterioso autore di questo documento, era senza dubbio un monaco letterato.

Ma veniamo al nome che il nostro Generalissimo usa. I Minamoto sono il clan di cui la famiglia Ashikaga fa parte ed è con questo nome che Yoshimasa interagisce con altri leaders stranieri. Da notare che lo shōgun non include il proprio titolo nella lettera, ma prende cura di usare un linguaggio di raffinata cortesia e rispetto nei confronti di Sejo.

Di rimando, nelle risposte, il Re di Corea ha la cortesia di indirizzare le proprie lettere al “re del Giappone” (intendendo lo shōgun).

Al di là delle formule di buona creanza, i due paesi hanno relazioni egalitarie, in quanto entrambi si considerano come regni indipendenti ma satelliti del Grande Ming.

Il Grande Ming

Nonostante i nostri due Paesi siano separati da 1000 li, dal Grande Oceano, lo scambio di inviati ci rende vicini. Ogni volta che abbiamo richiesto qualcosa, ce lo avete sempre accordato senza fallo. La nostra gratitudine è inesprimibile.

Yoshimasa non perde troppo tempo in salamelecchi: lui e Sejo sono uomini occupati, quindi non meniamo il can per l’aia e andiamo al sodo. Caro collega, voglio chiederti qualcosa.

Nella nostra capitale meridionale [Heijō] c’è un tempio. Il suo nome è Yakushi-ji.

Yoshimasa sta parlando del tempio dedicato al Bodhisattva Yakushi, patrono dei rimedi. Fu costruito nel 680 in Fujiwara-kyō dal grande imperatore Tenmu, con lo scopo di invocare la misericordia di Yakushi e salvare la vita della sua consorte, gravemente ammalata. La consorte in questione, la principessa Unosarara, era figlia del defunto imperatore Tenji.

A chiosa, Tenji era fratellastro di Tenmu. Quindi Unosarara era nipote di suo marito. Ma bon, i nobili di Corte hanno sempre avuto un comportamento altamente endogamico.

Il tempio di Yakushi dopo i finanziamenti coreani

Unosarara guarì dalla malattia (spoiler). A dire il vero, guarì così bene che sopravvisse Tenmu e gli succedette come l’Imperatrice Jitō (e vale la pena notare che in giapponese la parola che significa “imperatore”, tennō, non ha nessuna connotazione di genere ed è utilizzato per indicare sovrani uomini o donne senza distinzioni).

Tornando al tempio, all’inizio dell’8° secolo lo Yakushi-ji fu spostato all’allora capitale Heijō e oggi fa parte della conurbazione di Nara.

Quest’anno è stato danneggiato, scosso e squassato da una bufera. [La bufera] Era tale l’urlo di un drago, il grido di un elefante. A questo soggetto, abbiamo deliberato assieme alla folla [degli alti dignitari, Yoshimasa era una persona seria e non aveva giurie popolari, NdTenger].

Il passaggio sul drago-elefante è interessante perché pone un problema comunissimo quando si maneggiano questo genere di documenti. Non è difficile capire cosa Yoshimasa intenda quando tira in ballo bestie mitologiche o pseudo-tali: vuol dire che la bufera faceva un chiasso mostruoso. L’uso bizzarro della figura retorica è probabilmente un vezzo di stile dell’autore, una citazione a qualche passaggio o commentario cinese di cui oggi non siamo più a conoscenza.

Ma assodato che il senso generale è chiaro, come tradurre senza che risulti ridicolo al lettore moderno?

Non c’è una soluzione perfetta, purtroppo. A volte certe espressioni non possono essere restituite in altre lingue.

Il nostro tesoro è esaurito, non abbiamo le forze e il restauro è impossibile. Se il Vostro Grande Paese non intende aiutarci, che altro mezzo ci resta per risolvere questo problema? Con questa lettera Vi chiediamo di intervenire.

Tombola. Yoshimasa scopre le carte: vuole soldi.

Pertanto abbiamo mandato come Inviato in capo Yuen e come Inviato aggiunto Sorai, per visitarVi e trasmetterVi i nostri pensieri. Se Sua Maestà volesse accordarci la Sua assistenza, potremmo intraprendere i restauri, invero l’Oriente non è forse unito nel Buddismo? La Terra Pura è il tesoro di vicini amichevoli.

I due tizi nominati non sappiamo chi siano. Si tratta sicuramente di monaci letterati capaci di affrontare l’etichetta della corte coreana senza perdere la faccia.

Notare il simpatico richiamo all’amicizia universale nella religione, sempre molto utile quando hai bisogno di quattrini.

I tributi della nostra terra sono elencati in allegato.

Yoshimasa è un uomo di mondo, non un mendicante. Una richiesta di fondi non si fa con una letterina elegante e un paio di teste pelate adepte di Confucio. Assieme a lettera e messaggeri, lo shōgun invia ovviamente una serie di doni (qui chiamati “tributi” per umiltà), sperando di ricevere in cambio o un valore maggiore o beni di alto valore d’uso.

In questo periodo il Giappone è infatti esportatore di oggetti di estremo lusso: oggetti d’arte come scatole laccate, paraventi, ventagli decorati, sciabole da parata e quant’altro, molto apprezzati sul Continente.

Il secondo mese infine si riscalda. La sola cosa che desidero è che prendiate cura della Vostra salute.

Anno del segno del Cane ramo maggiore di Fuoco, secondo mese, ventottesimo giorno

Minamoto no Yoshimasa del Giappone.

E così si conclude la lettera. Sappiamo che il re di Corea rispose con cortesia e che mandò finanziamenti e beni. E’ una missiva molto breve che non perde tempo in inutili girti di parole. Dal nostro punto di vista può apparire fin troppo diretta e sfacciata. Peraltro, la straordinaria vita di lusso e arte che lo shōgun conduceva era ben nota, ma ciononostante è perfettamente accettabile, da parte sua, fare la questua presso un re straniero per rappezzare i templi scoperchiati dal vento.

Il corpus di lettere tra Yoshimasa e i re coreani è estremamente ricco e tocca diversi soggetti, dai sigilli diplomatici, alle importazioni, a missioni per procura del tipo “il mio ambasciatore ha sbudellato un funzionario Ming, puoi chiedere te se l’Imperatore se l’è presa?” o argomenti di interesse comune tipo “ci sono più pirati che pesci nel Mar della Cina, ne sai qualcosa?”.

La lettura di documenti del genere offre numerosi spunti di approfondimento e, talvolta, preziosi attimi di WTF diplomatico. Come primo articolo di questo genere, ho preferito trattare qualcosa di semplice e innocente, come la restaurazione di un tempio. Un inizio molto pio e devoto, che sia mai qualche Bodhisattva si muove a pietà per questo 2017 che già me le fa girare.

MUSICA!


Bibliografia

Articolo basato sul seminario “Histoire et philologie du Japon Ancien et Médiéval”, Ecole Pratique des Hautes Etudes.

 

HASHIMOTO Yū, Itsuwari no gaikō shisetsu, Yoshikawa kōbunkan, Tōkyō, 2012 p.1-74

HERAIL Francine, Histoire du Japon, POF, 1986, p.242-277

KEENE Donald, Yoshimasa and the Silver Pavillion, Columbia University Press, New York, 2003, p.229

MORITA Kyōji, Ashikaga Yoshimasa no kenkyū, Izumi Shoin, Ōusaka, 1993, p.361

SOUYRI Pierre, The world turned upside down, Pimlico, Londre, 2002, p.142-217

VON VERSCHUER Charlotte, Le commerce extérieur du Japon, Maisonneuve & Larose, Paris, 1988, p.101-131

SCHOTTENHAMMER Angela, The East Asian Mediterranean: Maritime Crossroads of Culture, Commerce and human migration, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2008, IGAWA Kenji « Travels of Ambassies in Fifteenth to Sixteenth Century East Asia », p.273-288 ; HASHIMOTO Yū « The information strategy of the Imposter Evnoys from northern Kyūshū to Chōson Korea in the Fifteentth and Sixteenth century », p.289-316 ; OLAH Csaba « Trouble during trading activities between Japanese and Chinese in the Ming period », p.317-330

ZUKEI Shūhō, Zenrin kokuhōki, 1470 (edizione curate da ISHII Masatoshi, 1995)

Commercio e denaro: traffico di uomini e ricchezza tra VIII° e X° secolo

Messires et mes dames, spero abbiate passato un buono shabbat. Bentornati in questo luogo di frustrazione e invidia. Oggi noi esuli eravamo alle urne. Per festeggiare un avvenimento così avvincente come le elezioni europee, ho deciso di deliziarvi con un articoletto su qualcosa di altrettanto avvincente: commercio!
Si tratta di un articolo molto generale, volto a dare una visione generale degli scambi e magari demolire certi luoghi comuni.

Il crollo dell’Impero Romano è forse uno dei periodi più caotici e difficili della storia Europea. Se Costantinopoli se la cavò relativamente bene, in Occidente la botta fu molto più forte.

Tra IV° e VIII° secolo possiamo individuare alcuni grandi movimenti generali: rallentamento degli scambi e dell’economia monetaria, declino dei centri urbani e del potere politico, predominanza economica di agricoltura e ricchezza fondiaria (ergo sviluppo di una civiltà rurale e di aristocrazie locali).

Nel corso del IX° secolo, l’Occidente romano-germanico si ristrutturò, parato da Costantinopoli da un lato, ma esposto agli assilli di ungheresi, scandinavi e saraceni (che nonostante si fossero rotti le corna su Bisanzio e Poitiers avevano mantenuto una forte presenza nel Mediterraneo).

Il commercio pare anemico, e le fonti ne parlano molto poco. Con la spinta Mussulmana del VIII° secolo, l’Occidente aveva perso buona parte delle rotte del Mediterraneo occidentale: a differenza di quei bastardi dei Bizantini, i franchi non avevano il fiato e la flotta sufficienti per tenere i saraceni fuori dalle palle. I porti di Langue D’Oc e della Provenza cadono in letargia, dato che, a parte Giudei e Frisoni, sono pochi a praticare ancora il commercio marittimo. Stando a certi storici, l’Occidente franco resta imbottigliato.

In realtà il commercio non morì mai del tutto. Boutruche osserva che storiografi come Pirenne giudicano il traffico troppo vitale prima degli infedele e troppo morto dopo. Resta comunque il fatto che gli assi commerciali si spostarono più verso nord.

Il mondo Islamico, che collegava il Mediterraneo con l’Oceano Indiano, portò una frana di grane, ma anche qualche novità e un po’ di linfa al commercio Occidentale. I Mussulmani misero le mani su grandi regioni aurifere (come il Sudan) e misero nuovo oro in circolazione. La moneta d’oro si diffuse in Egitto, Siria, Africa del Nord e, dal X°, Sicilia e Spagna mussulmana. Dinar islamico e Nomisma bizantino erano le monete d’oro più correnti in Mediterraneo. Ergo se da un verso gli infedeli falciarono le gambe al traffico marittimo franco e dettero un gran fastidio a quello bizantino (ma lì facevano bene!), dall’altro commerciarono coi latini, reimmettendo oro nelle loro economia. Bisogna tener presente che la bilancia commerciale non era a favore dei franchi, il che era risultato in un lento drenaggio dell’oro verso gli infami del Bosforo.

Cosa fornivano i franchi ai loro dirimpettai maomettani o ai loro cugini invertit bizantini? Secondo Boutuche: schiavi, marmo, legno per navi, armi e metallo. Molto del bestiame umano era razziato in terre slave e lettoni al di là dell’Elba o comprato agli Anglosassoni, e molto del traffico finì per orientarsi sulla Spagna Islamica, visto che comunque in Mediterraneo Orientale erano ben riforniti.

In cambio, i franchi importavano stoffe preziose, spezie, profumi, incensi, avorio, cuoio lavorato e papiro, ma anche vino, olio d’oliva, miele, frutta e verdura secca.

Questo caprioletto vampiro è il Moscus Moschiferus, cervide himalayano che produce pallette odoranti, il muschio, estremamente apprezzate e ricercate in tutto il mondo. No, non è photoshoppato. Pensare che la Tigre dai Denti a Sciabola è estinta mentre questa bestiaccia ancora se la spassa…

Costoro non erano gli unici interlocutori commerciali dei franchi: dal VII° si aprono nuove rotte commerciali si svilupparono lungo i fiumi, come il Mosa, o nei paesi Renani, verso il Mare del Nord.

L’oro non aveva un gran corso in Europa occidentale: dal VII° le monete sono battute principalmente in argento.

Va precisato che non si tratta di un impoverimento delle classi alte, che basavano la loro ricchezza sulla terra, quanto di un abbassamento del livello di vita. Peraltro, l’uso era di non ridurre l’oro in banali lingotti o monete: i potenti di questo periodo preferivano farne oggetti d’arte, gioielli o paramenti sacri, eventualmente da portarsi nella tomba. Il forziere con i dobloni non si addice a un franco, che era più propenso a far fare un bel crocifisso o un diadema, un acquamanile o un vassoio sbalzato, onde poi fonderli se c’era bisogno di far la guerra a qualcuno. Perché immagazzinare banali dischetti gialli quando ci puoi fare qualcosa di carino? I franchi erano gente creativa.

Arrivati al potere, i carolingi si diedero daffare per migliorare le rotte commerciali e lottare contro l’anarchia monetaria e la frode endemica che ne conseguiva. Gli atelier monetari si davano alla pazza gioia. Se ne contano un centinaio all’epoca di Carlo il Calvo, specie in punti nevralgici del commercio internazionale e locale, o presso miniere di piombo argentifero, o presso saline. Nell’editto di Pitres (864), Carlo il Calvo cercò di ridurre a 9 il numero di atelier e ridurre anche il numero dei mercati.

Riassumendo, sotto i carolingi si battevano solo denari, monete d’argento a percentuale abbastanza debole. L’oro circolava solo come moneta araba o bizantina.

I sovrani franchi non riuscirono a risolvere del tutto il problema della, hum… creatività monetaria, ma risanarono non poco la situazione, a beneficio degli scambi interni, ma anche di quelli con Bisanzio, con la Spagna Mussulmana e col Nord. Fu stabilita una relazione di peso fissa tra il denaro franco, il dirham, il nomisma.

Tornando al commercio, abbiamo l’importante testimonianza di Ibn Khordadbeh, alto funzionario di Bagdad, che ci parla degli scambi tra Oriente e Occidente. A fare la spola sono in generale giudei rodaniti (“della strada”) installati in Gallia meridionale.

Una rotta portava i mercanti all’istmo di Suez, e da lì verso il Sind, la Cina e l’India. Al ritorno, i giudei passavano da Porto Said, Costantinopoli e tornavano dai franchi.

Una seconda rotta più meridionale passava verso la Siria, Bagdad, l’Oman, e ancora più a est.

A volte venivano predilette rotte terrestri, attraverso la Spagna, l’Africa Settentrionale, fino in Egitto e in Siria, per riallacciarsi all’itinerario precedente.

Infine, una rotta scendeva in Italia, passava da Bisanzio, saliva per i “paesi Slavi”, il Caspio, le regioni del basso Volga, l’Amu Daria, la Transoxiana e la Cina.

Purtroppo non abbiamo dettagli sulle transazioni, il volume d’affari o il ritmo dei viaggi.

Su distanze più modeste, nel X° c’era commercio con la Spagna Mussulmana, specie da parte dei mercanti di schiavi di Verdun, che vendevano negli emirati di Cordoba e tornavano con cuoio e tessuti preziosi. Altri, da Marsiglia, Arles e Narbonne andavano a Gaeta, Napoli, Salerno, Amalfi, dove trovavano stoffe preziose, artigianato, spezie e profumi importati da Costantinopoli e dalle zone mediterranee sotto controllo mussulmano.

Vi sento molto interessati a questo argomento!

Tornando nello specifico al commercio marittimo, i documenti parlano più di pirati che di mercanti (spesso le due categorie si cavalcavano), il che ci fa supporre che l’attività di questi ultimi fosse piuttosto debole. Sappiamo che i mercanti dell’Italia del sud commerciavano con Bisanzio sotto protezione dell’Imperatore d’Oriente, ma per quanto riguarda il nord-est, preferivano le vie terrestri via la Lombardia e le Alpi. C’è da dire che pirati e mercanti sono spesso la stessa gente.

A partire dal IX Venezia cresce. Esporta in Oriente prodotti italiani e schiavi dalmati, e riporta prodotti di lusso da Bisanzio, Marocco, Egitto, Sicilia o Siria.

Altre vie puramente terrestri erano nei paesi renani, tra la piana di Boemia e il nord dei Carpazi, con i mercanti del Mar Nero. Kiev era un altro crocevia molto importante, tra Baltici, Mare Nero, Caspio e Turkestan. La valle Danubiana era stata liberata dagli avari nell’VIII°, ma s’intasò di nuovo con gli ungheresi. Praga divenne un punto nodale del traffico di schiavi. Sale, bestiame, schiavi e armi andavano e venivano da queste regioni a quelle più occidentali grazie a mercanti giudei o franco-germanici.

Infine, dal IX° al XII° altre vie collegavano i paesi del Mar Nero, il Caspio e l’Asia centrale con le regioni scandinave e franche, tracciate in particolari dai Variaghi svedesi (il termine variago significa, in origine, “mercante”).

Gli svedesi commerciavano anche con Bizantini. Novgord e Kiev erano due centri di commercio internazionale. I mercanti scandinavi vendevano pellicce, miele, schiavi e ambra a mussulmani e bizantini. Riportavano prodotti da oriente e Russia meridionale.

Altri mercanti nati erano i frisoni (sottomessi ai carolingi nell’VIII° secolo), che giravano per il Mare del Nord, l’Atlantico fino al Golfo di Guascogna e la Manica. Commerciavano con Inghilterra, Danimarca e Svezia. Facevano anche traffico fluviale nei Paesi Bassi e in Fiandra. Portavano mercanzie dell’Ovest in Scandinavia via Reno, Mosa, Schelda, bacino di Parigi o fiumi della Germania settentrionale. Ridistribuivano nei pasi franchi prodotti dei baltici e drappi inglesi, spezie, profumi e stoffe preziose.

Nell’840, il traffico cominciò a soffrire delle invasioni normanne.

Centri come Dorestad declinano, altri, come Tiel, Etaples, Montreuil o Wissant, fioriscono. Birka cedette il posto a Sigtuna, Hedeby a Slesvig. Certe rotte commerciali s’interrompono, svaniscono e poi sono riaperte da nuovi uomini. Bisogna aspettare il X° secolo prima che il commercio si riprenda dalla batosta normanna.

Per l’Occidente del IX° e del X°, il Mediterraneo restò un centro di commercio abbastanza importante, anche se a periodi i mari erano così pericolosi che i mercanti preferivano fare lunghi giri o seguire le coste. L’asse principale di scambio restò comunque orientato a nord.

Insomma, nonostante l’idea preconcetta che abbiamo di “Medioevo”, l’Occidente non era ripiegato su se stesso: c’erano scambi, ma questi mancavano di una buona organizzazione tecnica ed erano controllati. I sovrani mussulmani controllavano i traffici e la circolazione monetaria, così faceva pure l’infame Bisanzio, con dogane, passaporti, divieto di esportazione di metalli preziosi, etc. I carolingi avevano politiche simili: accordavano dispense ai mercanti che rifornivano il Palazzo, le abbazie e le chiese.

Una grossa fetta della popolazione restava straniera al commercio su grande distanza ma non a transazioni locali e regionali. I prodotti scambiati in questo contesto sono molto meno raffinati: cereali, vini, prodotti dell’allevamento o della pesca, tessili, tessuti ordinari.

I mercati locali erano costituiti da qualche fiera o piccoli mercati frequentati dai vicini, dove giravano pochi denari. In effetti, nei villaggi e nel piccolo scambio la moneta è quasi assente: si preferiva il baratto. Quasi assente, ma non del tutto assente. In parte circolava, ed era raccolta ad esempio per pagare le tasse e le rendite. Presente o no, la moneta era comunque un étalon d’echange: il debitore pagava in natura, ma con prodotti stimati e valutati in rapporto a un valore monetario.

La cosa è un po’ diversa nel nord della Francia, Paesi Bassi, ovest e centro della Germania, dove una popolazione più densa favorì un maggiore sviluppo commerciale. Si creano faubourgs di commercianti e artigiani a Metz, Verdun, Tournai, Mayence, Cologne. I centri urbani si sviluppano gradualmente.

Il nocciolo “pre-urbano” era di solito un monastero, un’abbazia, un castello o un Palazzo. Alle volte cittadine nascevano dal nulla in riva a un fiume o su un estuario. I faubourgs di mercanti e agglomerazioni nuove dedicate agli scambi si chiamano portus. Alla fine del X° i porti sono sulla buona strada per diventare piccole città.

Quanto ai mercanti, se si fa astrazione dai vagabondi e i rivenditori ambulanti di pacottiglia, i legitimi mercatores erano in genere di 3 tipi : Giudei (principali fornitori dei Re e per prodotti orientali) ; Frisoni ; mercanti aborigeni con antenati rurali. I mercanti godevano di diversi privilegi locali (economici, giudiziari, ecc), ma la Chiesa li guardava con sospetto (gente che fa soldi, che schifo!). Ad ogni modo, a questo stadio sono di solito troppo pochi per costituire una vera classe.

In conclusione, c’è una vera differenza, in questo periodo, tra Oriente e Occidente. L’Occidente continua a basare la sua economia sull’agricoltura e sul dominio terriero. La specializzazione delle attività è appena abbozzata, le tecniche di produzione, trasporto e consumazione restano rudimentali, le nozioni di capitale, investimento ecc. sono anche quelle appena nate. I prezzi sono stabili ma elevati per il potere d’acquisto. Persistono pratiche che si basano sul metallo prezioso, ma le monete sono poche e il baratto domina. Inoltre, la gente cerca in genere di « vivere del suo ». I monasteri ricercano l’autosufficienza, come aveva consigliato il Concilio d’Orléans nel 538. La Chiesa aveva vietato ai cristiani il prestito a interesse dall’VIII° secolo (*), cosa che pone problema quando si vuol lanciare un buisness. Insomma, si tratta in generale di un’economia di consumo controllata dai Re e i capi locali. Spesso è in atto una vera e propria economia di guerra, che drena il surplus verso l’esercito.

N’empêche, anche se fragili e operati tra entità cellulari, gli scambi esistevano, e perfino i contadini potevano maneggiare moneta per comprare ogni tanto sale o metallo. In realtà, l’autarchia dei grandi signori era meno reale di quanto si pensi. Per dirla con le parole di Bloch:

La società d’allora non ignorava di certo né la compera né la vendita. Ma non viveva, come la nostra, di compera e di vendita. (La société féodale, p.108)

Il commercio non era il solo fattore di circolazione di beni. Le rendite per la protezione di un capo o roba simile giocavano un ruolo. Uguale per il lavoro umano, dacché la prestazione aveva più spazio dello scambio, nella vita economica.

Se da un lato la ricchezza era indissociabile dal comando, i potenti avevano una capacità di acquisto limitata, anche a causa della penuria monetaria e della taglia ridotta dei tesori. Piccoli e grandi vivevano in maggior parte sulle risorse del momento.

L’atonia della circolazione monetaria riduceva peraltro a quasi niente il ruolo sociale del salario. Questo infatti presuppone che la fonte del denaro non rischi di estinguersi a ogni due per tre. Era necessario quindi pagare con altro che non fosse il versamento periodico di soldi, condizione molto precaria in questo periodo.

Due soluzioni furono trovate: invece di pagare qualcuno in denaro, prendere il tizio presso di te, mantenerlo e fornirgli una “prevenda”. Altra soluzione: dargli della terra che possa sfruttare (o da cui possa esigere delle rendite) per potersi mantenere.

E’ chiaro che i legami erano diversi da quelli generati dal salariato. Da signore a uomo il legame è intimo, più che non da padrone a salariato, ma si dissolve alla svelta quando il beneficio del sottoposto diventa ereditario. La società feudale ondeggia tra il legame stretto da uomo a uomo e quello lento della tenuta terriera.

“Non hai ancora finito?”

Dello sviluppo e della natura del legame feudale parleremo un’altra volta! Lo scopo di questo articolo era solo di fare una rapida panoramica degli scambi e della circolazione monetaria in Europa. Spesso il commercio è un aspetto che viene sorvolato del World Building sciatto, e questo è MALE. La stessa roba non si trova ovunque, né tantomeno allo stesso prezzo. Pensateci la prossima volta che accozzate prodotti eterogenei nel villaggio contadino del PresceltoTM.

Ora, quale canzone potrebbe concludere un articolo su commercio e vil denaro?

Ma che domande

 

 

 P.S.

Il 16 giugno sarà l’anniversario della morte di Marc Bloch, ebreo francese, veterano decorato della Grande Guerra, cofondatore degli Annales, nume della storia Medievale, patriota e resistente, catturato, torturato e fucilato dai Nazisti. Morì con molto onore, rassicurando i suoi compagni di esecuzione. Secondo i testimoni, un ragazzo accanto a lui si lasciò sfuggire “ça va faire mal” (farà male). Bloch gli posò una mano sulla spalla e rispose “Mais non, petit, cela ne fait pas mal” (Ma no, piccolo, non fa male). Morì gridando “Vive la France”.

Giusto per ricordarlo. Bloch è stato uno studioso straordinario, un buon soldato, un patriota valoroso, un grande uomo. Merita di essere celebrato.

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Bibliografia

BOUTRUCHE Robert, Seigneurie et Féodalité, Ed. Montaigne, Parigi, 1968, p.1-64

BLOCH Marc, La société féodale, Albin Michel, Parigi, 1939, p.97-114

 

(*) Pietro Moroni mi fa notere che tale divieto si ammorbidì molto nell’XI°, permettendo anche ai Cristiani di prestar quattrini e (gulp!) guadagnarci sopra. Gli usurai per eccellenza restarono comunque gli ebrei, a cui i pesci grossi tiravano sòle con più agio. Fonte: Luciano Pellicani, La genesi del capitalismo e le origini della modernità (Marco editore).