The Babadook

Sulla strada dell’ospedale per avere il suo primo bambino, Amelia e suo marito Oskar sono coinvolti in un incidente stradale. Oskar muore, ma il marmocchio si salva. Sette anni dopo, Amelia è una vedova solitaria, che lavora a una casa di riposo e cerca di allevare Samuel, un mostriciattolo appiccicoso e problematico.

Samuel è ossessionato dai mostri (possono annidarsi dappertutto!), fa spesso incubi e passa il suo tempo ad architettare armi e trappole. Incapace di dormire e di avere una vita sociale normale, Amelia è incastrata col marmocchio in una grande casa vuota di periferia, rosicchiata dallo stress e dalla mancanza di sonno.

Un giorno, Samuel chiede ad Amelia di leggergli una storia. Il libro, che lei non ha mai visto prima, è intitolato Mister Babadook, e racconta di un essere mostruoso che bussa alla tua porta. Se lasci entrare il Babadook, non te ne libererai mai più.

Samuel, spaventatissimo, si fissa sul Babadook, rendendo la vita di sua madre ancora più complicata e faticosa, finché strani fatti non cominciano a verificarsi.

Vetri rotti nel cibo, incubi, e il libro, che non può essere distrutto o buttato via.

Sola nella sua casa di suburbio, tormentata dall’insonnia, abbandonata da amici e parenti, Amelia si trova del tutto isolata, incastrata col mostro. E come nella vita reale, i demoni peggiori sono quelli che vivono nella tua testa.

The Babadook è un horror australiano del 2014, della regista Jennifer Kent. E’ il suo primo lungometraggio per il cinema. Kent cominciò a scrivere il copione nel 2009, ma dovette rimaneggiarlo in modo radicale almeno quattro volte prima di essere soddisfatta. Il film ha un budget relativamente basso e fu in parte finanziato don Kickstarter. Uscito nei cinema, ha incassato per ora circa il doppio del proprio budget originale.

Quando Jennifer Kent decise di scrivere questa storia, il suo scopo principale era di esplorare “le tenebre che si celano in noi”.

So cosa state pensando. “OssanBelenos cheppalle!”

Sbagliate. Babadook è un eccellente film. Ma andiamo con ordine.

La storia ruota intorno ad Amelia e Samuel, e una grande attenzione è messa sui personaggi. Amelia è la protagonista, interpretata da Essie Davis, che è bravissima. C’è chi ha paragonato la sua performance in questo film a quella di Jack Nocholson in The Shining o di Anthony Perkins come Norman Bates in Psycho. Concordo. Davis è superlativa, anche perché il personaggio che deve interpretare è tutto fuorché semplice.

Una madre scoppiata

Amelia non è mai riuscita a superare la morte di suo marito. Ama suo figlio Samuel, ma allo stesso tempo il marmocchio è Problematico con la P e lei non può che provare risentimento per qualcuno che, ogni volta che compare, le ricorda del peggior giorno della sua vita.

Man mano che la storia procede cominciamo a capire perché Samuel è un bimbetto così incasinato e dannoso. L’attore che lo interpreta è Noah Wiseman, forse il miglio attore-bambino che abbia mai visto sullo schermo. Samuel è appiccicoso e petulante, adora sua madre ma la mette sempre in imbarazzo con le sue manie sui mostri e la sua fame di attenzioni. Ogni suo sforzo per legare con sua madre è controproducente, e più si sforza, più Amelia lo allontana, più lei lo allontana più i suoi sforzi diventano accaniti.

La dinamica malsana tra madre è figlio è ciò che permette al Babadook di entrare. Amelia è una professionista nell’ignorare i problemi. Nei sei anni e passa di lutto, l’unica strategia che ha adottato rispetto alla disgrazia, alla perdita e alla difficoltà di crescere un figlio da sola è stata “fai finta che non sia successo niente e te ne dimenticherai”, al punto che Samuel non ha mai festeggiato il proprio compleanno nel giorno giusto (ovvero l’anniversario della morte del padre), ma sempre insieme alla cuginetta, come se la data del suo compleanno nemmeno esistesse. Non gli viene permesso di abbordare il soggetto del padre morto, né di entrare nella stanza dove si trovano gli scatoloni del defunto. Il lutto è stato un aspetto importante nella vita di Samuel e nel suo rapporto con la madre, ma gli viene impedito di riconoscerlo. Negando il problema, Amelia sta negando Samuel. E col procedere del film si capisce che quelli che sembrano gli spasmi di un marmocchio capriccioso e petulante sono tentativi disperati di connettere davvero con sua madre.

E sua madre non ne vuole sapere. Il tema del rifiuto è ricorrente. Quando la sorella di Amelia le dice che dopo sette anni dovrebbe aver superato la faccenda, l’unica cosa che lei riesce ha rispondere è “l’ho superata, non parlo più di lui!” (I have moved on! I don’t mention him. I don’t talk about him.)

Solo Che, come dice il Babadook nel suo libretto, “I’ll make you a bet, the more you deny, the stronger I get.”

The Babadook è un ottimo film sulla maternità.

Partendo dalle premesse dell’incidente, uno potrebbe immaginare che la nascita di un bel bimbo sano sia fonte di gioia e forza per Amelia. Non lo è. E’ fonte di rancore, rimpianto e senso di colpa.

E’ raro che il cinema affronti ammodo storie di “maternità difficile”. In molti film l’esperienza pare essere avvolta da una specie di bozzolo di positività. Sì, possono esserci dei momenti terribili, guerre, kattyvy, alieni, ma è rarissimo che il rapporto madre-bambino sia il vero nido di mostri.

Quando l’argomento viene abbordato, è di solito come parte del background del protagonista. Sua mamma era alcolizzata, o drogata, o kattyva e basta, e lo picchiava/rinchiudeva/trascurava. Su quanto sia feroce la majala di to’ mae’ e di come sia colpa sua se sei diventato un serial killer, il cinema abbonda.

Un film in cui la madre non è una carogna o una psicolabile, ma una donna infelice che non riesce ad avere un rapporto sano col proprio bambino, questo è molto più raro.

Nella realtà, purtroppo, è molto più frequente. Gravidanza e maternità possono avere un impatto psicologico grave sulla vita di una donna. E’ il momento in cui tutti i problemi che non hai risolto dalla tua infanzia in poi risaltano fuori, in cui tutti i nodi vengono al pettine. E’ uno di quei momenti in cui il Karma decide di tirar fuori l’artiglieria pesante. E se per caso ti buschi una solida depressione, allegra, ci sono pletore di nonne, zie, amiche, cugine, tutte pronte a dirti che i figli non si allevano così, che non dovresti far questo o quello, che hai solo bisogno di una buona nottata di sonno, quando il tuo infante urla senza interruzione da 8 ore consecutive sena nessuna buona ragione.

Diventare madre vuol dire farsi nove mesi di nausee, zero alcolici, zero caffè, mettere al mondo con sangue e dolore, e poi passare i seguenti 18 anni in un lavoro a tempo pieno solo per sentirti rinfacciare in seguito tutti gli orribili sbagli che hai commesso e la pena indicibile che hai inflitto alla tua progenie senza nemmeno rendertene conto. Insomma, io non ho ancora capito com’è che ci sono signore là fuori pronte ad affrontare una roba del genere.

Io se mai vorrò eredi li adotterò. Così non appena mi rompono le scatole posso ricattarli moralmente, che se non era per me sarebbero a morire di fame in Bangladesh. Ovvio, soffriranno orridi traumi psicologici per via di ciò, ma… sarebbero potuti morire di fame in Bangladesh! Che è comunque peggio, no?

Tornando a noi, i personaggi di Kent sono eccellenti. Sia Amelia che Samuel sono buone persone, ma sono persi in un ginepraio e non sanno come cavarsene. Con l’aggravante, per Amelia, che lei nemmeno ci prova a cavarsene, dacché affrontare i propri demoni sarebbe troppo doloroso. Il conflitto è aumentato dall’isolamento in cui si trovano, anche se a poco a poco capiamo che è Amelia stessa a crearsi il vuoto intorno senza rendersene conto.

Amelia non è una donna cattiva e non odia suo figlio, ma è una donna disperata, e la disperazione è la madre di tutti i mostri.

Samuel non è solo un bimbetto pestifero, ci sono delle solide ragioni se si comporta come si comporta, ed è molto verosimile come personaggio.

In un film all’apparenza simile, come Sinister, i due marmocchi erano assolutamente insopportabili! Erano verosimili, in quanto i mocciosi pre-adolescenti sarebbero da chiudere in un campo di rieducazione nordcoreano fino a conseguimento della maturità, ma non hanno nessun lato davvero positivo o ragione speciale per essere insopportabili: solo solo due rompicoglioni che battibeccano in continuazione. Sono bimbetti 100% normali, 100% bravi, 100% fastidiosi. I soli elementi di conflitto che li riguardano (“oh no, traslochiamo di nuovo, devo cambiare scuola!”) sono visti e rivisti mille volte, e finché l’elemento soprannaturale non interviene non hanno niente di interessante! I genitori sono anche peggio, con una madre appena abbozzata e un padre che è una persona ripugnante a prescindere.

Samuel e Amelia sono molto più studiati e meglio tratteggiati. Prima ancora che il Babadook entri in scena, la storia e la dinamica tra i due è già interessante, e il mostro s’inserisce in modo molto spontaneo e naturale in questo gioco al massacro.

BWAAAAAAARGH!

Parliamo del Mostro! Il Babadook è stato pensato come una specie di “mostro bon à tout faire“, un boogie man, un bau bau. Il design ricorda molto il Nosferatu, ma nella maggior parte del film lo si vede appena. Come negli incubi, si intravede la sua ombra, i le sue mani artigliate, o il suo cappello cade dalla cappa del camino nella stanza in cui sei rinchiusa…

L’atmosfera di questo film è ottima, come anche l’uso della luce e dei colori. Il senso di solitudine, vacuità e angoscia arrivano come una martellata. Tutto nella vita di questa donna è deprimente e faticoso, senza essere caricato o esagerato.

The Babadook mi ha ricordato di certi classici horror degli anni ’60 o ’70, tutti giocati sull’atmosfera e il sottinteso, come The Haunting (1963), The legend of Hellhouse (1973) o anche The changeling (1980).

Questo film non è una qualunque storia di fantasmi o di possessione demoniaca, come gli infiniti Amityville (quanti cazzo che ne sono di quelli?), Sinister o il più recente The conjuring.

L’elemento soprannaturale, anche quando ben integrato (come in The conjuring) è una presenza prepotente. E’ una calamità che capita a qualcuno, non lo sviluppo inevitabile di dinamiche malate. In questo film, il tarlo viene da dentro, non da fuori. E le scene sono più realistiche e più efficaci.

Infine, una nota di merito va al finale. Io ho amato il finale. Non voglio spoilerare, dico solo che la conclusione agrodolce segue molto bene il tema del film. Niente chiusura con musichetta allegra come negli anni ’80, niente twist drammatico come in Insidious.

You can’t get rid of the Babadook. Certe cose non andranno mai via, ma si può almeno provare a farci pace.

Il soggetto

 

La storia

 

Il Babadook

 

Gli attori

 

I personaggi

 

Luce e atmosfera

 

Finale

 

Essie Davis è spettacolare, come anche il ragazzino. La storia è solida, la caratterizzazione dei personaggi magistrale.

So che a qualcuno questo film non è piaciuto affatto. Una delle critiche è che “è la solita storia di tizia posseduta in una casa sinistra”. Non lo è. The congjuring è una storia di possessione. La madre è una donna sana e contenta che viene attaccata da un parassita estraneo. Stesso si dica per Insidious.
The Babadook è un horror psicologico. Non c’è nessun essere demoniaco, nessun alieno, nessun cimitero su cui è costruita la casa.

Un’altra critica che gli viene fatta, è che non fa paura. Non saprei. Io l’ho trovato inquietante, ma non mi ha fatto paura. C’è da dire che io mi spavento molto difficilmente. Come il succitato The changeling, è un film di atmosfera più che non un film di tensione come può esserlo Ghastly o quella bischerata astronomica di The ring. Si accomuna più a The shining, ma senza tutto il cappello di “ah, non hai idea del casino che è successo qui negli anni scorsi!”. Non è la casa ad avere un problema, è Amelia stessa.

A me è piaciuto molto. Non sarà un film da strapparsi le mutande dall’entusiasmo, ma è caldamente consigliato. E’ uno dei migliori horror che abbia visto di recente.

MUSICA!

Archeologia sperimentale e stupidaggini estemporanee

Bentornati in questo luogo di pena e tedio.

La Santa Pasqua si appropinqua e molti di voi si staranno preparando a grandi spanciate. Io, per festeggiare questo giorno di giubilo e rinascita, ho deciso di lamentarmi e pestare i piedi sul lavoro altrui. Perché le stagioni vanno e vengono, i Messia nascono e muoiono, ma la polemica è FOREVAH!

Per festeggiare, Jokke con orecchie da coniglietto rosa batuffolose

Vorrei parlare oggi di “archeologia sperimentale”.

So che non è un termine che garba a tutti. Nello specifico, si tratta di cercare di riprodurre e testare ipotesi archeologiche. In altre parole, si tratta di ricreare con mezzi d’epoca un dato artefatto per sottoporlo a varie prove.

Un esempio può essere l’esperienza che Timothy Dawson racconta nel suo interessante Armour never wearies: scale and lamellar armour in the West from the Bronze Age to the XIX° Century. Ricostruendo uno dei modelli, provò a seguire il disegno ufficiale ipotizzato dalla storiografia al momento, in cui le cinghie che passavano sopra le spalle erano perpendicolari all’armatura. Questo sistema si avverò doloroso e poco pratico. Dawson cambiò l’angolo delle cinghie ottenendo un risultato molto migliore.

Un altro esempio sono le varie spedizioni oceaniche di Thor Heyerdahl, un norvegese pazzo che per provare le sue bizzarre teorie era pronto a remare attraverso il Pacifico su zatteroni assurdi messi a punto dopo lunghi e complicati studi comparativi.

Il Kon-Tiki

Su un piano più prossimo all’hobby, l’idea di base è simile a quella dalla ricostituzione storica, e nei cassi migliori la ricostituzione seria e l’archeologia sperimentale possono sovrapporsi. Il problema è quando a pasticciare con esperienze del genere ci si mettono dilettanti e casinisti.

Reenacting, you’re doing it wrong

Sia chiaro, questo genere di “ricreazione e verifica” del passato NON otterrà MAI risultati scientificamente inoppugnabili. Nel migliore dei casi possibili, ci sarà sempre un margine aleatorio di speculazione.

Per certi versi questo dipende dalla scarsità dei reperti di base o di fonti precise. In altri casi, certe esperienze o certi oggetti non possono essere ripetuti. Certi materiali non si trovano più, o sono vietati.

Quando poi ci si avventura sul pericoloso terreno delle performances di armi o animali, allora lì la faccenda si complica ancora di più.

Alcuni conosceranno la serie Deadliest warrior. E’ molto divertente, ma spero sia superfluo dire che i risultati sono rilevanti come l’opinione dei Marcianò sui fenomeni atmosferici qualsiasi cosa. Senza entrare nel merito delle armi, il problema principale sono gli uomini: gli esseri umani non sono tutti uguali. Poniamo caso io voglia studiare il peso dell’equipaggiamento degli opliti tra il 480 e il 323 a.C. Chiamo un mazzo di atleti, gli faccio provare le varie ricostruzioni di armature e ne osservo le performances.

Il mio esperimento è falsato di partenza. Un atleta, anche qualcuno che pratica sport marziali, ha una resistenza al dolore e alla fatica risibili rispetto a un buon guerriero professionista del V° secolo a.C. Tanto per cominciare abbiamo perso la selezione naturale: nella mia famiglia, nessuno di noi sarebbe sopravvissuto alle Forche Caudine della vita senza vaccini e medicina moderna. Io in primis, se anche fossi sopravvissuta a nefrite e malnutrizione, senza osteopati e dentisti mi troverei a mangiare zuppa con la gobba, a 27 anni.

[EDIT: Come mi è stato fatto notare, in questo paragrafo mischio due cose, le prestazioni del militare professionista e del tapino medio (soggetto alla selezione). Ci tengo a correggere quindi il tiro.]

Spesso questo ragionamento attraversa la testa dello storiografo dilettante o del suo amico romanzaro. Costoro però ne traggono spesso le conclusioni sbagliate: se le cose stanno così, allora in altre epoche il numero di donne ventisettenni gobbe e senza denti doveva esser altissimo!

Non è affatto detto. Può essere che sì, ma è molto più facile che no, dato che chi è debole muore o comunque non si riproduce in una società preindustriale.

La classe sociale, il posto e il periodo storico poi contano moltissimo sulla salute e resistenza degli individui. In certi posti a certi momenti la denutrizione cronica può essere tanto grave da rendere interi gruppi rachitici, in altri casi ciò non avviene. I fattori in gioco sono moltissimi, tra cui variabili climatiche, sociali, ambientali, tecnologiche, demografiche, ecc.

E non mi addentro nemmeno troppo sulle diverse reazioni chimiche e fisiologiche. Un lottatore sul ring può avere l’adrenalina a 1000, ma non sarà mai come trovarsi nel fango fino al ginocchio, in mezzo ai corpi smembrati di quelli che erano i tuoi compagni, con i timpani esplosi e un crucco che fa capolino nella buca, baionetta in pugno.

In certi casi l’odierna necessità di non mettere a rischio (o non uccidere) i soggetti rende una rievocazione accurata impossibile. Quando a Rochefort hanno ricostruito l’Ermione, non hanno potuto rifarla identica alla nave di Lafayette pur sapendo al centimetro com’era costruita l’originale, e questo per ragioni di sicurezza. Problemi simili sono stati incontrati sul cantiere di Guédelon nella manipolazione di calce e nella costruzione di ponteggi et similia.

Guédelon, costruito da 0 con metodi d’epoca (nel limite del possibile)

Con gli animali è uguale se non peggio. In un esperimento del 1990 della rete giapponese NHK si caricò un cavallo col peso di un guerriero in armatura completa e si constatò che la bestia si stancava subito. E grazie al cazzo. Un cavallo da guerra, come il guerriero, è stato selezionato e da subito addestrato per una funzione specifica. Pretendere di misurare le performances di un destriero da battaglia con un ronzino da passeggio è come voler testare il rendimento del T-15 con un pandino.

Perché tutta questa lunga tirata?

Per colpa di questa gente qui.

Qualcuno a Vice ha pensato che sarebbe stata una buona idea scrivere un articolo sull’igiene medievale. E sono lieta che lo abbiano fatto, perché ci offre l’occasione di discutere su come NON si conducono certi studi.

Cominciamo con ordine.

Stando a quanto affermano Hollywood, i libri di storia, e le credenze comuni, il Medioevo è stato un periodo segnato dalla sporcizia, in cui si andava in giro coperti di pulci e melma e la classe sociale delle persone poteva essere definita dall’odore che emanavano.

Primo: “Hollywood” e “libri di storia” non dovrebbero mai essere usati nella stessa frase. MAI.

Secondo: “le credenze comuni”, ah, quelle idee corrette e accurate dacché frutto del nostro fenomenale sistema educativo. Le stesse credenza comuni che vogliono che prima di Cristoforo Colombo la gente credesse nella Terra Piatta o che le crociate siano state una guerra di civiltà tra Oriente e Occidente.

Se credete a una sola delle summenzionate, no, non sono corrette. Ma chi sono io per discutere.

Terzo: Medioevo. Non c’è niente di meglio per mandare a fanculo qualsiasi credibilità o verosimiglianza, “medioevo”.

Mi sanguina il cuore all’idea che sia ancora necessario specificarlo, nel 2015, ma visto che ci siamo: “medioevo” è un termine completamente privo di qualsivoglia sostanza, che ci trasciniamo dietro come scomoda eredità da un passato in cui studio e ricerca non erano sviluppati come oggigiorno.

“Medioevo”, cito dalla Treccani, è

Età intermedia tra l’antica e la moderna. Secondo l’accezione più diffusa è il periodo compreso fra la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476) e la scoperta dell’America (1492).

Sono 1016 anni. Imperi sono nati, paesi sono spariti, popoli interi si sono spostati, aggregati, sterminati a vicenda. Lingue sono scomparse, culti sono apparsi, dei sono stati dimenticati. Trattare questo lunghissimo e affollatissimo periodo come un’entità unica secondo la logica “scatolone dei calzini spaiati” è ridicolo.

Sono tutte stronzate. Lo so perché ho passato le ultime due settimane seguendo un regime igienico premoderno ea parte sgommate sulle mutande, piaghe inspiegabili, quintali di forfora e smegma, e un probabile Fuoco di Sant’Antonio, è andato tutto bene. Ora vi racconto.

Ma anche no, tientelo per te.

“Regime premoderno”. Mi ricorda quando mio fratello giurato se ne uscì con “Non ricordo che periodo era, ma c’avevino i cavalle e le spade, era i’mmedioevo”. E mio fratello giurato stava scherzando.

Quale regime premoderno? Di dove? Stiamo parlando dei Franchi di Carlo Magno, degli islandesi della fine del landnàm, degli infami bizantini sul cantiere di Haya Sofia? E di che classe sociale? In che contesto?

Bello anche come l’autore sembri ignorare del tutto le differenze di fisiologia o abitudini alimentari che corono tra un milanese di oggi e… oh, più o meno chiunque altro non viva ora in Europa Occidentale. Perché sì, quello che mangi cambia il tuo odore. Dove abiti cambia il tuo odore e la rapidità con cui ti sporchi.

Sì, mi rendo conto che accanto a perle come “regime premoderno” questi siano dettagli, ma sapete com’è, sono cagacazzi.

Thomas Morton ha contribuito a Vice con pezzi di reale interesse, tipo il documentario sui rapimenti di ragazze in Kirghizistan, che per quanto possa essere discutibile porta all’attenzione di tutti un problema reale. Il perché si sia buttato a scrivere ‘sta boiata infame proprio non lo so.

Ho indossato gli stessi vestiti per tutti e 14 i giorni. Ho optato per un completo totalmente bianco, in modo che la sporcizia potesse lasciare segni evidenti. Inoltre, pensavo che avrebbe dato all’impresa un taglio avventuriero alla Fitzcarraldo, ma solo ora che la cosa è finita sono in grado di confermarlo.

Bravo. In base a cosa abbiamo stabilito questi 14 giorni?

Il mistero si fa fitto, le ragioni e il senso di questo articolo sempre più fumosi, e siamo solo all’inizio.

Peraltro, fotte poco di che colore fosse l’abito: di che materiale è? Perché il materiale più usato per gli abiti di tutti i giorni presso il popolo minuto è spesso stato la lana. Ora, nella mia personale esperienza, laddove sintetico e cotone iniziano a puzzare alla svelta se a contatto col sudore, la lana ha un odore molto meno forte. Può darsi che questo dipenda dalla mia fisiologia personale, ma altri conoscenti dediti a lunghe passeggiate in montagna mi hanno confermato esperienze simili. E se “io e gli amici miei” vi sembra ridicolo come bacino di studi, well, siamo sempre più numerosi che “Thomas Morton” e basta.

Non sono esattamente un “maniaco” dell’igiene personale, quindi diciamo che per i primi tre giorni il vero cambiamento è avvenuto solo per ciò che ha a che vedere con l’urinare. All’inizio avevo pensato che avrei potuto fare i miei bisogni all’aperto, una cosa alla quale sono perfettamente allenato dopo le innumerevoli sbornie notturne. Ma poi mi sono reso conto che fare pipì in strada, sobrio, alle 10 di mattina, non sarebbe stato il massimo. Così ho optato per un vaso da camera.

Ah, allora stiamo parlando di città. No, perché il vaso da camera non è mai stato usato dalla popolazione rurale, che fino alla rivoluzione industriale costituiva la stragrande maggioranza della gente.

I vasi da camera sono un’invenzione geniale per pisciare, quasi come la vescica. Ci sono state un paio di cosette a cui ho dovuto abituarmi, come tenere il vaso vicino all’inguine invece di cercare di centrarlo, e non iniziare con un flusso continuo. Ma dopo aver asciugato per un paio di volte per terra con le maniche, praticamente l’intero appartamento è diventato il mio cesso.

“Con le maniche” perché l’intera faccenda non era abbastanza ridicola, e poi di certo farà un sacco ridere gli alunni della 3°E delle Scuole Medie Ugo Guidi.

L’unico problema era come svuotare la tazza. Rovesciarla direttamente dalla finestra non sarebbe stato accettabile, dato che vivo proprio sopra il mio padrone di casa (inoltre, la pratica è stata definita illegale fin dal 500 d.C., grazie al decreto romano su effusum vel deiectum). La maggior parte delle mattine quindi depositavo i liquidi in un tombino tra due macchine o, se mi sentivo un po’ più civile, in quello sul retro del caseggiato. Mi ci sono voluti tre giorni per capire come riuscirci senza schizzarmi i pantaloni.

Aha, quindi ci siamo documentati! O forse anche no, perché tutta questa baracconata non ha senso. Complimenti però per aver imparato a versare liquido in un tombino.

Dopo due giorni di trascuratezza, la placca sulle mie gengive ha iniziato a diventare da gialla a color ocra, e la quantità di resti di cibo incastonato tra i denti è aumentata in modo esponenziale. La mia ragazza ha decretato che il mio alito stava a metà tra puzzo di immondizia e feci umane.

Perché mai tu abbia dovuto trascurare i denti quando in diversi posti in diverse epoche sono stati elaborati diversi modi di pulirli, lo sai solo te. Peraltro, vista l’assoluta inutilità intellettuale di questo esperimento, io non capisco perché la tua ragazza abbia sopportato tutto ciò.

Il siwak è uno strano bastoncino che il Profeta Muhammad amava così tanto che avrebbe anche potuto sposarlo.
Non è altro che un semplicissimo antenato dello spazzolino, eppure negli Hadith viene citato ogni tre per due e gli esportatori continuano a descriverlo come uno strumento che “rinforza chi lo usa,” “allontana i cattivi pensieri” ed è “la cura per ogni male, eccetto la morte.”

Dopo averlo utilizzato un paio di volte ho imparato che il sapore del siwak si avvicina molto all’odore delle pastiglie per igienizzare il WC. Successivamente, seguendo un’antica ricetta egiziana, ho sminuzzato in una ciotola zoccoli di bue, pomice, gusci d’uovo, mirra e ho mischiato tutto insieme con un po’ di sputo fino ad ottenere un impasto granuloso. Sembrava di pulirsi i denti con la sabbia, ma indovinate un po’? È praticamente come un moderno dentifricio, solo senza il fluoro.

Stuzzicadenti, mele, erbe, risciacqui, tutta roba da sempre usata per l’igiene dentale in Europa. Ma sono troppo mainstream, andiamo a mangiare rami esotici. L’antica ricetta egiziana invece fa un sacco ridere il club di calcetto del Liceo Giosué Carducci, perché questo è un articolo per tutte le età!

Sono un po’ stitico, quindi per i primi tre giorni ho avuto un Medioevo piuttosto spensierato. Successivamente sono—ahimè—stato costretto a rompere il sigillo e lasciare un ricordino. Ed è stato terribile perché, come ho subito scoperto, liberarsi della puzza è praticamente impossibile.
Almeno, cagare nel vaso è stato molto più facile di quel che pensassi. L’unica cosa che bisogna essere certi di fare è rannicchiarsi nel punto giusto, liberarsi della propria dignità per un paio di secondi, e lasciare che cada lentamente. Vi sembrerà illogico, ma penso sia utile avere un po’ di pipì sul fondo del vaso—non così tanta che possa schizzare fuori, ma abbastanza perché non rimangano residui marroni sui bordi. Ho considerato questa scoperta alla pari dell’invenzione dei moderni impianti idraulici, visto che ha trasformato l’intero processo da un terrificante travaglio di cinque-dieci minuti in un banale pit stop.

La cacca è sempre un sacco buffa! Peraltro, il signor Morton affronta qui un problema che in altri contesti e in altri tempi non avrebbe avuto. In un mondo in cui la legna è il principale mezzo di riscaldamento e cottura, mettere della cenere sul fondo e sui bordi del cantero evita le fastidiose macchie marroni. Un cantero un po’ più grande che il vasino di Timmy il cuginetto può anche dimostrarsi più confortevole.

Quanto al lavare il tutto, il signore non ha a disposizione torrenti o pozzi, ma visto che chiaramente profitta del riscaldamento moderno, usare un po’ d’acqua corrente non mi pare uno strappo così terrificante alla regola. Dopotutto detta regola non ha né capo e né coda…

All’inizio di Gargantua e Pantagruel di Rabelais, il giovane Gargantua si ingegna per capire quale sia il “nettaculo” migliore al mondo, per poi scoprire che si tratta del collo di un papero ben piumato. La lista includeva lenzuola, un gatto marzolino, pelle di vitello,  una mascherina di velluto da damigella, diversi cuscini e un cappuccio da penitente.
Non ho potuto mettere le mani su nessuna di queste trovate, ma ho cercato di sostituire la maglietta con le lenzuola del letto. Passarsi tra le chiappe un tessuto soffice è una delle sensazioni più lussuoriose sulla terra, ma solo finché hai il culo pulito. Dopodiché si rimane bloccati, indecisi se buttare il panno incrostato di merda nel vaso da notte o cercare di ripulirlo pisciandoci sopra, come piaceva fare ai Romani. Avevo già svuotato la vescica e non mi andava di conservare la maglietta nella doccia per dopo, quindi ho spostato il mio stronzo caldo per farle un po’ di posto nel vaso. Non è stato divertente.

Avrebbe potuto regalare la maglietta alla Croce Verde, ma non faceva ridere.

Per pulirmi ho fatto ricorso alla vecchia tecnica della frutta. Come primo tentativo, ho utilizzato un paio di banane sbucciate. Il mio primo istinto è stato quello di tenere la buccia dall’esterno e usare la polpa interna per pulirmi. Pivello. La sensazione era simile a quella provocata da una salvietta rinfrescante, ma alla fine mi sono ritrovato con uno spesso strato di banana attaccato ai resti delle feci. Inizialmente soddisfatto del risultato mi sono tirato su i pantaloni, ma quando mi sono seduto, qualche ora dopo, sembrava che l’interno delle mie mutande fosse stato immerso in una glassa da pasticceria.
Con le bucce d’arancia è andata un po’ meglio, anche se dopo essere rimaste per un’intera notte in mezzo agli escrementi hanno impestato il vaso di un fetore insuperabile. Quello che ho imparato è che le dimensioni della frutta non hanno importanza. La buccia di un pompelmo, ad esempio, potrebbe farvi evitare di ritrovarvi le dita marrone cioccolata, ma in ogni caso, se non portate un’intera cesta di frutta, rischiate comunque di andare in giro coi tarzanelli tra le chiappe. Ma magari è una cosa che succede solo a me.

In città oggigiorno trovare materiali “storicamente passabili” per nettarsi la risegola è impossibile. Ma tenuto conto del fatto che ha usato le banane, a questo punto poteva anche fare un’eccezione per della banale carta da culo: non è tanto più impossibile. Ciò detto, magari sbaglio io e l’esperimento è da riferirsi esclusivamente al regno di Gerusalemme sotto il savio controllo di Baldovino IV°: loro le banane credo che le avessero. Ma da quelle parti avevano anche il sapone, figurati te!

Al quarto giorno puzzavo come una capra. Niente di incredibile, ma era un odore abbastanza forte da far esclamare a chiunque mi si sedesse vicino: “Chi sta fumando erba?”, ogni volta che l’aria del ventilatore sulla scrivania del mio collega girava verso la mia ascella. Mentre gli uomini del Medioevo non davano grande importanza alla puzza, nell’Antico Egitto ci si deodorava con palline di farina d’avena. Visto che a quei tempi costruivano piramidi e non orribili chiese, ho deciso di adottare il loro stesso metodo.
Ho cucinato un po’ di porridge, l’ho fatto raffreddare e me lo sono passato sotto l’ascella. Dopo un po’ di secondi la melma di avena si è solidificata in una patina simile a colla, che è riuscita a coprire l’odore per ben due giorni. Peccato che la stessa si sia fusa con la mia pelle come fosse cemento.

Io non so che dire. Tutto ciò sta diventando triste. Ha sempre meno senso e diventa sempre di più la commedia avvilente di chi si spiaccica da solo la torta in faccia. Cioè, perché?

Per chi fosse interessato, non ho idea di che diavolo combinassero gli egiziani col porridge, ma facendo grandi generalizzazioni, di solito anche i contadini si lavavano almeno una volta la settimana, per andare a messa (con acqua fredda). Ovviamente in città i poveri avevano molte più difficoltà nel restar puliti, ma esistevano i bagni pubblici. Aquisgrana era una città termale. Parigi non lo era, ma i bagni esistevano, a periodi ne annoverava diverse decine.

“Ok Tengi, ma oggigiorno non ci sono più e lui non voleva rompere il “regime preindustriale”, sai com’è…”

Sie, sticazzi, ha cucinato il porridge su un fornello moderno. Ma si sa, poi non faceva ridere.

Mentre stendevo il secondo strato di porridge, qualche giorno dopo, ho notato che la mia maglietta era ricoperta di piccole macchioline di sangue. Mentre cercavo di capirne la causa, ho anche intravisto un’enorme vescica piena di pus poco sopra il gomito. Quasi nessuno le ha apprezzate, eppure io le portavo fiero, considerandole un misto tra stigmate e un tipico segno di bellezza medievale.

Vai da un dermatologo. No sul serio. Un’enorme vescica piena di pus per un po’ di sudore rappreso non è normale.

Il metodo romano di pisciare sui vestiti per pulirli è sufficientemente folle da funzionare (specialmente sapendo che l’urina contiene tracce di ammoniaca). Ho provato questo metodo sulla manica della camicia, ma per quanto strofinassi e risciacquassi, non sono riuscito a levare l’odore di urina. Immagino che ai romani non dispiacesse granché.

O forse il metodo romano non si limitava a pisciare su qualcosa. Di nuovo: il materiale principe del bucato all’antica è la cenere, e lo è rimasto in certe zone rurali d’Europa e d’Italia fino a mica tanti decenni fa. Ma di nuovo, pisciarsi a dosso fa un sacco ridere!

Arrivata la seconda settimana, i miei capelli sembravano quelli di Ally Sheedy in The Breakfast Club (ma privati della sua grazia), quindi ho deciso di ricorrere a qualche vecchio stratagemma.
Anticipando di 3000 anni lo stile dei loro discendenti, gli israeliti inventarono un semplice gel volumizzante per capelli fatto di cenere e olio di pino. Dopo aver sfregato il prodotto in piccole quantità sul mio cuoio capelluto, sembrava che mi fosse esplosa una bomba in mano come in un cartone animato. Inoltre, emanavo un odore molto simile a quello del cibo per criceti. Poco dopo ho scoperto che le leccate di mucca che avevo dato ai miei capelli con quella roba erano permanenti.

Un vagoo lucore di senso, fategli ciao che non tornerà più. In effetti olio e cenere sono stati spesso usati per tener puliti i capelli, assieme all’uso diligente di pettini . I capelli oliati non saranno fashonable, ma sono poco vulnerabili ai parassiti.

Dopo avere passato una settimana cagando pochissimo, ho deciso che era l’ora, come direbbero in Inghilterra, di “prendermi cura del mio didietro”. Nell’Antica Roma si usava una spugna bagnata in acqua salata e posta sull’estremità di un bastoncino.
Ricordate di conservare una parte della spugna asciutta per la passata finale.

Ma no, perché, con le banane andavi benissimo.

Banane

All’ottavo giorno la frase “Chi sta fumando erba?” era diventata “Chi sta friggendo merda di cane?”. Stavo continuando a spalmare il porridge sotto le ascelle, ma alla seconda passata l’odore di avena aveva iniziato a mischiarsi a quello di sterco, anziché limitarsi a coprirlo.

Ma la puzza delle ascelle non era neppure lontanamente paragonabile allo strato di sego che ricopriva le mie palle e che aveva reso la zona all’attaccatura del pene di un bel colore grigio. Risultato, ogni volta che mi sedevo su una sedia, il mio naso si trovava ad aspirare una fetida nuvola di formaggio d’uccello.

Pur di scrivere un articolo storico interessante buffo un casino che fa tanto ridere, questo ed altro!
Io non so come i suoi coinquilini abbiano tollerato questa farsa. Spero che il signor Morton sia stato pagato bene e che abbia spartito il malloppo coi suoi compagni di sventura.

Dato che le pratiche in uso ai tempi delle piramidi erano risultate fallimentare, ho deciso di andare avanti di un centinaio d’anni, fino alla Grecia Antica. Ispirandomi liberamente alla ricetta di un farmacista del primo secolo, Pedanius Dioscorides, ho creato un profumo con mirra e radici di alcuni fiori uniti a olio d’oliva bollente. Dopo essermi cosparso l’unguento su tutto il corpo (eccetto le palle—a quel punto erano veramente troppo sudicie per poterci aggiungere anche quello) ero pronto per uscire. Non sono un esperto di profumi, ma sembravo uscito direttamente da una fumeria. Probabilmente, la sostanza conteneva il ferormone che quei furbacchioni dei greci utilizzavano per accalappiare gli altri uomini, dato che nessuna ragazza è riuscita a parlarmi per più di 20 secondi per volta.

Oibò, ma il farmacista in questione non era un tizio dell’Asia Minore che esercitava a Roma nel primo secolo d.C.? “Grecia Antica” ma di che? Dopo Meleagro è solo decadenza moderna!

Peraltro, tutti, nel Medioevo, seguivano le ricette di un farmacista romano morto 5 secoli prima.

Alla mezzanotte del quindicesimo giorno—a causa dell’insistenza di ogni persona che conosco—mi sono infilato nella vasca da bagno e ho osservato le due settimane di duro lavoro scivolare lentamente dal mio corpo in rivoli marroni. Tutto sommato, credo di aver completato la missione. Purtroppo, l’unico odore che non sono riuscito a combattere è stato quello penetrante e acido del pregiudizio. Magari un bel giorno anche il resto del mondo riscoprirà il piacere delle antiche usanze, ma per il momento credo sia meglio unirmi alla massa e tornare a pulirmi il culo con la carta igienica.

Non c’entra niente. Ma sarà l’unica cosa che ricorderete alla fine di questo articolo.

Io non ho parole.

Sul serio, la prima volta che ho letto ‘sta monnezza non sapevo cosa dire. Non fa ridere, non ha senso, non trasmette nessuna informazione degna di nota, il metodo è inesistente e alla fine si chiude con un glorioso “ahah, gli antichi erano sudici”.

Morton, ti sei occupato di storie vere, checcazzo. Che senso ha tutto ciò?

Basandoci su questo articolo, gli antichi potevano essere sudici, o puliti, o cloni biomeccanici costruiti dai Rettiliani: nulla di quanto scritto finora ha una qualsivoglia rilevanza o valore. Sono solo azioni senza particolare nesso o rigore, eseguite senza particolare scopo o metodo.

L’articolo ha un tono spiritoso, e va bene. Ma se voleva essere un pezzo umoristico, non si poteva scegliere qualcosa di veramente divertente? Perché qualcuno che non si lava per 15 giorni può essere buffo, ma perché non complicare la sfida a questo punto?

Signor Morton, se il suo scopo è farci ridere con cacca e puzza, perché non alza un po’ la posta? 15 giorni senza carta igienica chiuso in una stanza con due puzzole antipatiche! Oppure perché non trasportare direttamente il ring in una stalla: quindici giorni di convivenza con le mucche! Le mucche fanno un sacco di cacca, le occasioni comiche sono infinite!

Ovviamente se lo fa voglio una percentuale di eventuali guadagni.

Quanto a colui che ancora sta leggendo: è Pasqua, che ci fai ancora qui? Vai a rubare le uova ai vicini!

Io me ne torno nel mio antro di cattiveria inutile e antipatia.

MUSICA! (qualcosa un po’ più midi per l’occasione)
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