Illustri Sconosciuti: Taira Masakado (3.3): I vincitori e gli immortali

Sono tempi di migragna qui alla Fortezza, ma il bello di essere in dottorato in Sotria è che, quale che sia il merdaio in cui ti trovi, sei costretto a leggere di gente messa peggio e mortamale.

Case in point: siamo finalmente giunti al gran finale della rocambolesca avventura di Masakado, il Ribelle del Bandō!

Per chi si fosse perso le puntate precedenti (recuperatevele, sono obbligatorie, poi vi ci interrogo), la grande rivolta delle ere Jōhei e Tengyō (935-940) parte come scazzo familiare tra Masakado, notabile locale senza funzione o rango, e i suoi zii e cugini, gente con funzioni amministrative e appigli politici.

Per anni questi ultimi tentano di cancellare Masakado della faccia della Terra, e per anni Masakado li riempie di calci nel culo, senza però prendersela con i rappresentanti della Corte. Masakado bada bene a non compiere azioni che possano essere percepite come aperta ribellione nei confronti dello Stato.

Dopo anni di guerriglia e un numero imprecisato di villaggi rasi al suolo, il nostro è riuscito a eliminare i suoi avversarsi, tranne l’infingardo cugino Sadamori.

Il teatro del dramma

Taira Sadamori, funzionario alla Corte e abile oratore, è alla fine riuscito a farsi dare ragione dal Governo (che ha voltato gabbana già varie volte, riguardo alla faccenda) e, in compagnia del cugino Tamenori e del brigante rispulizzito Fujiwara Hidesato, è di ritorno nel Bandō per la resa dei conti.

Per la precisione, siamo in questa zona qui

Dopo questo ennesimo tira e molla della Corte, Masakado decide di prendere l’iniziativa: in meno di niente conquista l’intera fetta nordorientale di Honshū con l’intenzione di costringere il Governo a scendere a patti.

Governo che, ricordiamocelo, si trovava alle prese con una cruentissima piaga occidentale: il pirata e pazzoide piromane Fujiwara Sumitomo.

Dopo deliberazione, la Corte decide di scendere a patti con quel manico omicida di Sumitomo e di spedire un esercito contro Masakado.

E oggi riprendiamo le fila di questo disastro noto come i Disordini delle ere Jōhei e Tengyō!

Masakado distribuisce labbrate, dal pennello di Tsukioka Yoshitoshi (1839-1892)

Come accennato, la Corte decide di scendere in guerra contro Masakado.

Di certo vi sarà capitato migliaia di volte di vedere film o leggere libri in cui gli eserciti semplicemente appaiono in giro, di solito direttamente sotto il balcone dei protagonisti. Gli eroi stanno discutendo di come difendersi dal cattivo di turno e puf, una sentinella arriva di corsa urlando “siamo sotto attacco!”.

E’ un cliché che io odio con la rovente passione di mille bombe atomiche. E’ una cosa stupida da morire e una totale mancanza di rispetto per l’intelligenza dello spettatore/lettore.

Senza nemmeno entrare nel merito di trasporti, tempo di percorso, vettovaglie e terreno da attraversare, poche società pre-industriali hanno potuto contare su un vero e proprio esercito permanente. Non solo, anche concedendo che tale esercito esista, una spedizione non è qualcosa che si organizza in due ore.

Secondo i Codici, il corpus di leggi ultimato nel 701 e ancora in vigore nel X° secolo, per mobilitare una banda di gente armata superiore a 20 individui era necessario un Editto Imperiale.

La faccenda doveva essere prima sottoposta al Consiglio di Stato, che creava una commissione deliberativa. La commissione studiava la situazione e sottometteva un rapporto al Consiglio. Dopo aver letto il rapporto e se non c’erano ulteriori questioni da ponderare, il Consiglio scriveva un Editto che veniva poi sottoposto al Figlio del Cielo (era rarissimo che il Figlio del Cielo non ratificasse subito le decisioni del Consiglio).

A questo punto l’affare passava al Ministero degli Affari Militari, che valutava l’investimento in armi, uomini e fondi, nonché quali unità impiegare e quando. Si trattava più di un preventivo che di un piano strategico vero e proprio.

Il rapporto dettagliato del Ministero veniva poi rigirato di nuovo al Consiglio di Stato, che doveva quindi decidere se agire e in che modo.

In altre parole, ci volevano mesi solo per decidere se lanciare una spedizione, quali mezzi impiegare e quali uomini incaricare delle operazioni. E questo presupponendo che i membri del Consiglio o del Ministero fossero inclini a darsi una mossa: come si evince dai vari diari degli alti dignitari di Heian, la burocrazia dell’epoca era ulteriormente rallentata da un fanatismo nevrotico per il protocollo e dall’assenteismo dilagante.

Sì, perché oltre a tutte le normali pastoie che un sistema burocratico porta con sé, la Corte di Heian era piagata anche da millemila dettami magico-religiosi.

E’ morto qualcuno nella tua famiglia o nei dintorni? Non puoi recarti alla cittadella perché sei impuro.

E’ l’anniversario della morte di un imperatore? Gli affari di stato sono sospesi per scaramanzia.

Non solo: certe direzioni erano considerate nefaste in certi giorni, sicché talora roba importante e urgente (come la nomina dei governatori delle provincie) era rallentata di giorni e settimane perché il Ministro della Destra non poteva andare verso l’ufficio, o perché il Ministro della Sinistra aveva un oroscopo deludente.

Insomma, una qualsiasi decisione del Governo centrale richiedeva tempo, tanto tempo.

Che fare quindi se, ad esempio, nello scorso mese hai perso ogni controllo su un terzo del Paese?

C’erano loopholes grazie a cui la Corte poteva muoversi con un pochettino più di celerità.

Intanto c’era una grande tolleranza per la regola dei “20 uomini”. Nella pratica, se smuovevi 100 uomini per uccidere un ribelle e garantire l’arrivo regolare delle carovane di tributi, eri pressoché impunito.

C’è anche il fatto che in questo periodo è ormai sviluppata la banda di guerra come unità tattica. Questo offre un’interessante zona grigia per quel che riguarda la regola dei 20 uomini. Se ad esempio io mobilito 15 dei miei gregari, sono all’interno della regola. Poi magari ognuno di quei gregari si porta dietro 3 fratelli, 6 cugini e 8 gregari armati. Ma quelli sono i loro uomini, no? E magari ognuno di quegli uomini è accompagnato da altri guerrieri a piedi o a cavallo, e via di questo passo.

Se però il lassismo non dovesse bastare, la Corte disponeva di Ordini di Persecuzione e Cattura, che davano via libera al ricevente di tale documento di mobilitare ogni mezzo disponibile per poter perseguire e catturare (o uccidere) la persona oggetto dell’Ordine stesso.

Chi viene investito di questo Ordine non solo può smuovere ogni mezzo a sua disposizione per eseguirlo, ma può anche esercitare punizioni e ricompense sugli uomini a lui sottoposti e può pretendere appoggio e rifornimenti da parte dei funzionari delle provincie specificate nell’Ordine.

Masakado aveva ricevuto un ordine del genere, ma i funzionari provinciali avevano fatto resistenza passiva e non avevano offerto alcun aiuto (anzi) nella caccia al gaglioffo Sadamori.

A questo giro l’Ordine viene conferito a Sadamori e a Fujiwara Hidesato.

Mentre quindi la Corte prende il tempo di mettere insieme un esercito ufficiale, nella provincia Hidesato riceve la benedizione imperiale per prendersela con Masakado.

Masakado che, pur avendo preso un terzo del paese in meno di niente, non ha avuto il tempo (né probabilmente l’intenzione) di unire i guerrieri locali sotto il proprio controllo o creare una struttura amministrativa alternativa. La propria fama di ottimo guerriero e capo benevolente è l’unica cosa che tiene insieme il suo esercito, composto da un’accozzaglia di bande eterogenee e spesso nemiche tra loro.

E’ il terzo anno dell’era Tengyō (940), la fine del primo mese, che per noi corrisponde agli inizi di marzo. Masakado ha dovuto congedare il grosso del suo esercito (è la stagione dei lavori agricoli) e si è ritirato in Shimōsa, dove si trovano le sue basi, con un migliaio di armati.

Appostati in Shimotsuke, Hidesato e Sadamori decidono di agire: radunano un esercito di 4000 uomini e partono contro il ribelle.

I cerchietti segnano la posizione delle capitali provinciali, ormai disertate dai funzionari salvo scribi, segretari e altri sbalterni

Come accennato a inizio articolo, gli eserciti non compaiono in giro a cazzo di cane, e il primo giorno del secondo mese Masakado viene avvertito che bande nemiche stanno marciando contro di lui. Masakado raduna i suoi e si dirige a sua volta verso Shimotsuke. L’avanguardia del suo esercito viene affidata a due dei suoi capibanda più importanti, tali Tsuneakira e Katsutaka.

Sono questi due matti a incocciare in Hidesato e Sadamori per primi. Dallo Shōmonki:

Qui Tsuneakaira, che si era guadagnato nomea di essere un uomo che da solo ne valeva mille, non deve far altro che osservare i nemici. Ora, senza informare il Nuovo Imperatore [Masakado, sulla diatriba riguardo al “nuovo imperatore”, vedere la settima puntata], avvicina la banda dell’ōryoshi Hidesato e l’attacca. Hidesato, che da lungo tempo ha esperienza della guerra, con facilità sconfigge e incalza l’esercito di Harumochi [Fujiwara Harumochi, alleato e generale in seconda di Masakado]. Il generale in seconda [Harumochi] e i soldati sono presi alla sprovvista dai tre guerrieri [Hidesato, Sadamori e Tamenori] e sono dispersi nella landa nelle quattro direzioni. Coloro che conoscono la via fuggono dritti come frecce scoccate. Coloro che non conoscono la via girano in tondo come ruote di carro. Solo pochi sopravvivono, molti sono quelli che muoiono.

E’ la prima sconfitta che Hidesato infligge a Masakado.

Perché Tsuneakira decide di attaccare senza prima chiedere al suo capo?

Ci sono molti fattori in gioco.

Tanto per cominciare Friday dice che probabilmente la superiorità numerica della gente di Hidesato rispetto all’avanguardia sotto Harumochi non era poi così schiacciante come lo Shōmonki vorrebbe farci credere. Dopotutto Masakado è all’apice del suo potere e, con tutto l’Ordine imperiale, Hidesato non ha ancora provato di essere all’altezza della situazione. Da come la faccenda è presentata nel Fusō ryakki, sembrerebbe in effetti che il grosso della truppaglia di Hidesato fosse composta da gente a piedi, mentre Tsuneakira era alla testa di arcieri pesanti a cavallo. Questo potrebbe avergli dato un’immeritata impressione di superiorità. Il che sarebbe ironico visto che il suo capo Masakado ottenne una delle sue più famose vittorie proprio con l’uso intelligente di arcieri a piedi contro gonzi a cavallo.

Un altro fattore è l’indipendenza di cui godevano i capibanda. Senza telefoni o radio, era impossibile chiedere il parere del capoccia per ogni decisione. La strategia generale e la tattica globale erano decise in anticipo, ma la guerra resta un affare imprevedibile e i capibanda dovevano poter prendere decisioni sul momento per evitare un disastro o sfruttare una ghiotta opportunità.

A difesa di Tsuneakira, se fosse riuscito subito a gettare scompiglio nella banda di Hidesato, avrebbe inflitto un danno di immagine gravissimo al partito lealista.

Purtroppo per lui, Hidesato non era una pera cotta come Sadamori, e il vecchio brigante riempie di legnate Tsuneakira, Harumochi e tutto il resto dell’avanguardia.

Quello che resta della gente di Harumochi ripiega precipitosamente, inseguita da Hidesato.

Verso le tre del pomeriggio, i fuggiaschi riescono a raggiungere il villaggio di Kawaguchi, dove si trova Masakado con il grosso dell’esercito ribelle.

Il più famoso guerriero del Bandō riveste le proprie armi e, sciabola in pugno, cavalca incontro a Hidesato alla testa dei propri uomini.

Il Nuovo Imperatore lancia un grido e tosto va, spada alla mano, si batte di persona. Sadamori leva gli occhi al cielo e dice:

“La banda privata è tale il fulmine sopra le nubi. I soldati del governo sono come gli insetti sul fondo della latrina. Eppure, se io non ho dalla mia parte la legge, il governo ha dalla sua parte il Cielo. I tremila soldati [ai nostri ordini] non saranno codardi, non diserteranno.”

L’esercito di Hidesato ha la superiorità numerica a questo punto, ma Masakado li prende a capocciate nei denti con furia inaspettata. La battaglia dura fino a notte, ed è solo ad altissimo prezzo che Hidesato riesce a prevalere. Al calar del buio, i ribelli si ritirano e i lealisti possono piantare il campo e leccarsi le ferite.

Tira una brutta aria. Quella che doveva essere una vittoria folgorante è stata strappata a stento. Masakado è in ritirata e in svantaggio, ma il suo onore resta intatto. Gli uomini sono stanchi e preoccupati e gli alleati che si sono uniti a Hidesato possono da un momento all’altro mollarlo e cambiar campo.

Hidesato non è felice della situazione. E’ un volpone e un buon tattico, ma non un mago, non può fare miracoli.

-Non preoccuparti.- fa Sadamori.-Sarò una pera cotta sul campo, ma ho un’arma che finora non mi ha mai deluso.

-E sarebbe?

-Le chiacchiere!

Così Sadamori riunisce gli astanti e li alletta con dolci parole [amaki], organizza i ranghi e raddoppia i loro numeri, e il tredicesimo giorno del secondo mese la potente banda giunge al confine di Shimōsa.

Mai sottovalutare il potere delle chiacchiere.

A me Sadamori sta sulle scatole (credo si sia inteso), ma resta un uomo assolutamente interessante. Non è un buon tattico, e nello Shōmonki non ci fa nemmeno una bella figura come essere umano, ma è un uomo intelligente. Non è un buon arciere, le sue armi sono le parole. Con la sola forza del proprio ingegno è riuscito a sopravvivere e restare in cresta in un mondo crudele fatto di violenza e sopraffazione. E’ riuscito a non farsi macinare né da suo cugino (un guerriero mille volte migliore di lui) né dall’indifferente e opportunista Corte di Heian. E ora, là dove l’astuzia e l’abilità bellica di Hidesato non bastano, l’arguzia e le capacità retoriche di Sadamori salvano la spedizione. E’ un momento degno del miglior Martin (vi ricordate quando Game of Thrones era ben scritto e ricco di dialoghi ben costruiti? Sì, lo rimpiango anche io).

Dal canto suo, Masakado decide di aspettare riposato un nemico stanco e costringe Hidesato e Sadamori a inseguirlo nel proprio territorio, mentre lui aspetta accampato sul lago Hiroe, nel distretto di Sashima. Ormai gli resta una banda di appena 400 fedeli. Harumochi e il Principe Okiyo, i suoi alleati più importanti, non compaiono nelle fonti a questo punto. Forse hanno preferito scappare.

E’ una brutta situazione per tutti in realtà: ogni giorno che passa le diserzioni dall’esercito di Masakado aumentano. Allo stesso tempo Sadamori e Hidesato non sono messi molto meglio: l’8 l’esercito ufficiale si è messo in marcia dalla Capitale. Il generale Tadabumi ha ordine di reclutare uomini in diverse provincie. Se Hidesato e Sadamori si fanno sorprendere da Tadabumi, saranno costretti a cedergli i propri uomini e la propria fetta di merito. Non solo: con ogni giorno che passa il rischio di diserzioni aumenta anche per loro! I loro alleati o sottoposti possono decidere di tornare a casa ai loro campi, o unirsi direttamente all’esercito di Tadabumi.

Hidesato ha scommesso tanto sulla testa di Masakado, se Tadabumi gli soffia la gloria non avrà di che ricompensare i propri uomini e la sua carriera di capo guerriero sarà conclusa in un gran mucchio di niente.

Il nostro ha bisogno di provocare uno scontro. Cerca di attirare Masakado in campo aperto appiccando fuoco alle sue residenze.

Funziona: Masakado decide di rischiare il tutto per tutto sulle pendici del monte Kita, nel distretto di Sashima.

In alto a sinistra, il Monte Kita

Il 14 del secondo mese del terzo anno dell’era Tengyō (aprile 940), alle tre del pomeriggio, Masakado viene raggiunto da Hidesato e Sadamori.

E’ piovuto poco, la terra è arida. Il vento soffia forte sulle pendici dell’altura, trascina nugoli di polvere smossa dagli zoccoli dei cavalli, dai sandali dei guerrieri a piedi. Masakado ha scelto di piazzarsi spalle al vento per dare un vantaggio ai propri arcieri, come nella prima battaglia dei Disordini, l’agguato di Nomoto.

Fa piazzare i mantelletti per riparare le sue linee, ma le folate glieli scuotono. Alcuni vengono rovesciati dalla bufera. A sud, gli uomini di Hidesato lottano per piazzare i loro, ma il vento e la polvere rendono l’impresa difficile. L’esercito lealista decide di non accanirsi sulle difese e avanzare verso i ribelli. Dopotutto i nemici sono in terribile svantaggio numerico, cosa può andare storto?

Fedele alla tradizione di pessime scelte tattiche, Sadamori, al comando del corpo centrale, tenta una manovra furba cambiando l’angolo di attacco. Questo crea disordine nella formazione, e Masakado ne approfitta.

Carica a capofitto nel cuore dell’esercito nemico, taglia attraverso la truppa di Sadamori come una palla di cannone. Sadamori cerca di difendersi, ma le sue frecce sono deviate dal vento. 80 dei suoi guerrieri di spicco mordono la polvere in pochissimo tempo, ridotti a puntaspilli dalla banda ribelle. Gli alleati, i soldati provinciali, gli amici del bel tempo e gli avventurieri sono presi dal panico. Davanti alla carica furibonda del più celebre guerriero del Bandō, quasi tremila guerrieri rompono in una fuga a rotta di collo. L’esercito di Sadamori e Hidesato si disintegra.

Hidesato, Sadamori e Tamenori battono in ritirata. Delle migliaia di uomini che si erano uniti a loro dietro lo stendardo imperiale, ne restano solo 300. Il vantaggio numerico è andato, il morale è annientato, Masakado è alle loro calcagna ed ha vinto di nuovo.

Ma in guerra tutto l’ingegno e il valore non valgono quanto una buona botta di culo.

I tre compari raggiungono una posizione dove il vento gira. Ora è Masakado a trovarsi col vento contrario. Hidesato coglie immediatamente l’occasione, l’ultima, e dà battaglia.

La collera del Cielo […] coglie [Masakado] […]. Il Nuovo Imperatore è colpito da una freccia guidata dal Cielo, tale Chiyō che solo crollò al suolo combattendo sul campo di Zhoulu. [Chiyō è un eroe mitico cinese, capo delle Nove Tribù Li, morì combattendo contro Huangdi, l’Imperatore Giallo, nel 2500 a.C., NdTenger].

Una freccia.

Una freccia fortunata che prende il capo nemico in faccia e lo stende secco sul campo di battaglia.

Quando il corpo di Masakado schianta nella polvere, i suoi sono presi dal panico e dalla disperazione, e fuggono. Sul colle polveroso restano poche centinaia di lealisti stremati e il cadavere del più celebre guerriero orientale.

La Storia non si fa coi se e coi ma, e qualsiasi what if è pura speculazione e fantasia. Tuttavia è indubbio che Masakado era a un soffio dal vincere anche quella battaglia, e uno non può che pensare: cosa sarebbe successo in quel caso?

Forse sarebbe riuscito finalmente a uccidere Sadamori, forse no. Di certo Hidesato e Sadamori non sarebbero riusciti a rimettere insieme una banda armata degna di questo nome. Che avrebbe fatto allora Tadabumi, il generale inviato dalla Corte?

Si sarebbe impantanato in una serie di operazioni militari o avrebbe cercato un compromesso?

Per averlo studiato, posso dire con relativa sicurezza che, a mio modesto parere, Masakado non aveva alcuna intenzione di creare un regno indipendente. Masakado, per quel che ho potuto capire, voleva costringere la Corte a reintegrarlo nella società. Voleva essere lasciato in pace coi suoi cavalli, i suoi gregari e la sua famiglia.

Forse avrebbe trattato con Tadabumi, forse no. Quel che è certo è che la Storia avrebbe avuto un decorso molto diverso se Masakado avesse vinto.

E’ impressionante pensare che, in quell’istante, il futuro dell’Impero fosse legato a una sola freccia, a un solo tiro di un solo arciere.

Quale arciere?

Non lo sapremo mai.

La testa del Nuovo Imperatore fu spedita alla Capitale il 25 del quarto mese (probabilmente conservata nel sale). 197 alleati di Masakado morirono sulle pendici del Monte Kita. I vincitori recuperarono dal campo di battaglia 300 mantelletti, 199 faretre, 51 sciabole e dei “documenti di tradimento” di misteriosa natura.

La testa di Masakado esposta alla folla

Nel decreto di Persecuzione e Cattura contro Masakado l’Imperatore aveva offerto l’immunità ai ribelli che si sarebbero arresi senza combattere, e in diversi lo fecero. Quanto ai capi della rivolta (Harumochi, il principe Okiyo, i fratelli di Masakado), furono uccisi alla spicciolata nei mesi che seguirono.

E’ la fine della rivolta, è il tempo dei castighi e delle ricompense.

I tre a ricevere maggiore beneficio furono Fujiwara Hidesato, Taira Sadamori e Minamoto Tsunemoto (il primo a dare l’allarme sulla ribellione).

Minamoto Tsunemoto fu promosso al quinto rango inferiore minore, entrando così a far parte della chiusissima casta dell’alta aristocrazia. Fu nominato keigoshi (ufficiale di persecuzione e cattura nelle regioni occidentali) e poi aggiunto minore del Governo Militare di Kyūshū. Poco tempo dopo, fu uno degli ufficiali che servirono sotto Ono no Yoshifuru nella repressione della rivolta del pirata Sumitomo. Fu lui a inaugurare una tradizione militare che doveva contraddistinguere la famiglia: Tsunemoto è l’antenato dei Seiwa-Genji, il ramo principale coinvolto nella Guerra di Genpei e che produsse il primo grande shōgun Minamoto Yoritomo.

Taira Sadamori era stato quello che più aveva sofferto della guerra. Suo padre era stato ucciso, sua moglie brutalizzata, le sue basi messe a ferro e fuoco, i suoi contadini sterminati, i suoi gregari decimati. Come compensazione ricevette il quinto rango superiore maggiore e fu nominato vicedirettore dell’Ufficio dei Cavalli. Qualche anno dopo fu nominato chinjufu shōgun nell’Est e, in vecchiaia, governatore di Tanba e Mutsu. Da lui discendono due lignaggi illustri:

  • gli Hōjō, tra cui Hōjō Masako, moglie di Yoritomo e una delle personalità politiche più importanti della Storia del Giappone

  • i Taira di Ise, ovvero il ramo di Taira no Kiyomori in persona, il Religioso Ministro che portò per la prima volta i guerrieri all’apice della gerarchia di Corte.

Ad ultimo, Fujiwara Hidesato è quello che raccolse i premi più gustosi, un po’ perché si era dimostrato il guerriero migliore e un po’ perché era un delinquente pericoloso ed era bene tenerselo buono. Il nostro fu elevato da bandito dell’est a niente meno che quarto rango di corte, con allegato un bel pacchetto di terre “ereditabili per sempre”. Divenne poi governatore di Shimōsa. La sua stirpe di pendagli da forca rimase radicata nel Bandō, e a sua volta risalta fuori nella Guerra di Genpei.

In altre parole, ritroviamo nei Disordini di Jōhei e Tengyō non solo il primo grande esempio di ribellione orientale, ma le origini dei 2 lignaggi guerrieri più importanti della Storia Giapponese. La Guerra di Genpei, su cui abbiamo una serie ongoing, fu una rivoluzione, un cambiamento epocale che trasformò profondamente e per sempre il Giappone, la sua cultura, la sua Storia, la sua struttura più profonda. La Guerra di Genpei è ciò che catapulta il Paese sotto il “Governo della tenda” dopo sei secoli continui di dominio incontrastato dell’aristocrazia civile.

E questo evento epocale ha origine sulle pendici del Monte Kita, sulle sponde del lago Hiroe, sulle rive del Mare Katori. La Rivolta di Masakado è la fornace in cui i Taira e i Minamoto furono forgiati.

Epilogo: l’immortalità dei perdenti

Forse l’eredità più duratura fu lasciata da Masakado stesso.

Dopo che la sua testa arrivò alla Capitale Heian (odierna Kyoto) fu esposta (primo caso documentato di esposizione di teste, a chiosa).

Stando a una leggenda, gli abitanti del quartiere furono colpiti da una serie di terribili sventure, presto attribuite allo spettro irato di Masakado. Per cercare di calmarlo, il ribelle fu elevato a divinità col nome di Kanda Myōjin. Kūya stesso, un celebre monaco del X° secolo, avrebbe eretto una stele a memoria del guerriero sconfitto. La nicchia in questione è ancora visibile.

Secondo un’altra leggenda narrata nel Zen-Taiheiki, la testa era stata appesa ai rami di un albero a un incrocio di Kyoto. I giorni passavano, ma la testa non si decomponeva: lo spirito irato del guerriero non poteva abbandonarla. I suoi occhi erano aperti, i suoi denti digrignati, e la notte la si poteva sentir ringhiare: “dove sono le mie membra, dov’è il mio corpo? Che mi raggiungano, per continuare a combattere!”

Un giorno la testa si scosse dall’albero e volò verso i resti del proprio corpo, abbandonato nell’Est, schiantandosi sul bordo di una risaia nel villaggio orientale di Shibazaki, che è oggi il quartiere di Ōtemachi in Tokyo. Terrorizzati, gli abitanti del luogo gli costruirono un cenotafio e fecero di Masakado il loro nuovo “dio delle risaie” (Kanda Myōjin).

Nel 1307 il monaco Shinkei avrebbe costruito un tumulo per la testa di Masakado, per proteggere gli abitanti della zona dalla vendetta dello spettro.

Masakado/Kanda continuò a essere trattato con riguardo, tanto che nel 1603 Tokugawa Ieyasu in persona fece spostare il santuario presso al castello di Edo per ottenere la protezione del terribile spettro. Ieyasu era un uomo di rara intelligenza e si guardò dal toccare il tumulo della testa, che restò ad Ōtemachi.

Nel 1923 degli archeologi ritrovarono il tumulo, con al suo interno una camera funeraria vuota.

Stiamo parlando del Giappone Moderno, il Giappone Potenza Mondiale, libero da superstizioni e arcaismi ridicoli. Il primo ministro dell’epoca autorizzò la distruzione del tumulo: al suo posto sorse il Ministero delle Finanze.

Nei due anni che seguirono il ministro delle finanze e 14 impiegati morirono di subitanee e strane malattie o in incidenti bizzarri. Decine di altri impiegati finirono feriti o si ammalarono.

Lo spettro di Masakado era tornato.

Guerrieri combattono contro Masakado e il suo esercito di spettri, dal pennello di Yoshikazu (attivo tra il 1850 e il 1870)

In realtà il tumulo distrutto era una tomba del 7° secolo che nulla aveva a che fare col noto guerriero, ma non ha importanza, perché la leggenda del Nuovo Imperatore era riaffiorata nella memoria degli abitanti di Tokyo.

I fantasmi non sono cose che esistono a prescindere, sono creati dai vivi. La cosa bella dei fantasmi è che, una volta che i vivi li hanno evocati, esistono. No, non ci sono anime con le catene che vanno in giro. Ma c’è il pensiero fisso, il timore, l’ossessione paranoica, il senso di colpa e vulnerabilità che avvelenano ogni ora della giornata. Di fatto, l’effetto degli spettri è reale, ed era molto reale per gli impiegati del ministero delle finanze di Tokyo.

La situazione divenne talmente drammatica che il governo decise di trasferire il ministero nel 1927, ricostruire il tumulo e fare una grande cerimonia per calmare lo spirito.

Sì, sul serio.

Nel 1927.

E non è finita.

Nel 1940 una folgore colpì il nuovo ministero delle finanze, bruciando quello e altri 9 ministeri adiacenti.

1940, ovvero 1000 anni esatti dalla morte di Masakado.

A quanto pare il Nuovo Imperatore non era ancora contento. Una nuova cerimonia fu eseguita per cercare di calmarlo, ma Masakado non è un uomo, Masakado è lo spettro che si annida nella cuore di un Paese in guerra.

Nel 1945 Tokyo fu bombardata, ma il tumulo di Masakado rimase intatto, un monumento beffardo ritto nelle rovine fumanti dell’Impero del Giappone.

Gli americani si installarono nel quartiere e decisero di spianare tutto per farci un bel parcheggio.

Di certo uno spettro del lontano passato giapponese non può tener testa al moderno bulldozer di un calvinista occidentale, giusto?

Sbagliato.

Il bulldozer urtò il tumulo e si rovesciò, uccidendo il conducente sul colpo.

Pensa te l’ironia: sei sopravvissuto alla guerra, sei nell’esercito d’occupazione di un paese che odi, e proprio quando stai per goderti un po’ di sana demolizione vieni assassinato dal fantasma di un guerriero morto più di mille anni prima.

I residenti spiegarono della leggenda e della maledizione di Masakado agli americani, che decisero che erano tutte cazzate superstiziose ma che ad ogni buon conto non valeva la pena verificare. Il monumento è sempre lì.

I’M STILL HERE BITCHES!

Sono andata a trovare Masakado due volte durante il mio soggiorno a Tokyo, con un mazzo di fiori. Entrambe le volte ho dovuto aspettare il mio turno, perché la fila dei fedeli con offerte è sempre lì.

Tutto intorno si costruisce, ma la stele non sarà toccata: è un cubo alberato nel mezzo dei cantieri

Tutto attorno sorgono grattacieli di grandi firme, e i loro impiegati sono tenuti a presentare doni a Masakado ogni tanto, per evitare di attirare la vendetta dello spettro sull’azienda. Chi non lo fa rischia di essere additato o mutato in capro espiatorio se gli affari vanno male. Quindi, in modo tipicamente giapponese, nessuno ammette di crederci davvero, ma tutti continuano a tenersi buono l’iroso guerriero che non si sa mai.

Trovarmi davanti al suo cenotafio mi ha fatto un grande effetto.

Ho studiato a lungo la vita di Masakado, al punto che ho quasi l’impressione di conoscerlo. Negli anni dei miei studi mi sono trovata davanti a ostacoli molto tosti. Poter portare dei fuori al monumento del ribelle è stato un traguardo.

Mi dispiace che sia morto in quel modo. I personaggi storici sono sempre così lontani per noi che talvolta ci appaiono come personaggi inventati, protagonisti di favole. Ma erano esseri umani, volevano bene e odiavano, temevano e speravano, prevaricavano e cercavano di sopravvivere.

Se solo Masakado potesse vedere, dopo mille anni e più, la fila di gente che continua a rendergli omaggio…

Chissà se questo lo avrebbe consolato. Non posso saperlo perché alla fine è impossibile conoscere davvero i morti (o i vivi, se è per questo).

Ma mi fa piacere aver visitato il monumento, e mi fa piacere vedere i grandi capitalisti che continuano a portare doni a Taira Masakado, il Nuovo Imperatore, la cui memoria continua a infestare la vita dei vivi con molto più vigore della memoria di mille imperatori legittimi prima e dopo di lui.

E’ ironico e un po’ tragico: un uomo che voleva solo vivere in pace è diventato un Immortale suo malgrado.

MUSICA!


Puntate precedenti

Prima puntata

Seconda puntata

Terza puntata

Quarta puntata

Quinta puntata

Interludio

Sesta puntata

Settima puntata

Ottava puntata


Approfondimenti

Il pirata Sumitomo

Breve storia del sistema militare giapponese, dalle origini a Masakado

La banda di guerra


Bibliografia

YANASE Kiyoshi, YASHIRO Kazuo, MATSUBAYASHI Yasuaki, SHIDA Itaru, INUI Yoshihira,Shōmonki, Mutsu waki, Hōgen monogatari, Heiji monogatari, Shōgakukan, Tōkyō, 2002, p.7-130

FUJIWARA Tadahira, Teishin kōki (Notes journalières de l’ère Teishin), Iwanami shōten, Tōkyō, 1956

KAWAJIRI Akio, Shōmonki wo yomu (Lire le Shōmonki), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2009

KAWAJIRI Akio, Taira Masakado no ran (La révolte de Taira Masakado), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2007

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FAURE Eric, Histoires japonaises de moines, de maîtres du Yin-Yang et de guerriers, L’Harmattan, Paris, 2003

Vera gente da romanzo: Nikolai Bystrov

Questo blog non parla spesso di Storia contemporanea, e non ho intenzione di cambiare la cosa: tutti sanno che dopo il 1400 è tutta discesa.

Ciò detto, certi fatti o certa gente sono semplicemente troppo interessanti per essere lasciati ad ammuffire. Certi fatti o certa gente sembrano uscire dritti da un romanzo d’avventura, ed è bello ricordare ogni tanto che la realtà ha sempre più fantasia di noi.

Nella fattispecie, era un po’ che volevo parlare di questo signore. Più o meno da quando sono incespicata sul tatuatore e smerciatore di panzane, Nicolai Lilin. Già sapete cosa penso della sua storiella fantasy e di come mi deprima l’idea che tanti italiani prendano sul serio certe bischerate. Lilin ha fatto la galera due volte, Lilin era nell’esercito russo, Lilin è stato cecchino in Cecenia, Afghanistan e Iraq…

Lilin è anche andato su Marte insieme a Barbagli per sedare la grande rivolta dei Mimimmi.

La cosa mi infastidisce in particolar modo (che volete, noi zittelle acide ci infastidiamo almeno 8 ore al giorno tutti i giorni salvo domenica e festivi, è sul contratto), ma per non essere sempre quella negativa e rosikona che smonta favole, ho deciso di essere proactive, e raccontare la storia di un uomo che esiste davvero, e che davvero è stato soldato russo, e che davvero ha combattuto in Afghanistan.

Il suo nome è Nikolai Bystrov, ed è stato guardia del corpo di Massoud, il Leone del Pnashir.

Un piccolo quadro storico

Tadjik Ahmed Shah Massoud è stato uno dei più strenui nemici dei Sovietici prima e dei Talebani poi. La sua storia è affascinante, ma non è il soggetto dell’articolo, ergo ci limiteremo ad un breve riassunto.

In principio abbiamo l’aprile del 1978, quando il Partito Democratico Popolare d’Afghanistan (PDPA, infami bolscevichi) prende il potere con un colpo di stato. Tempo di accomodarsi e rinforzare la cooperazione coi compagni russi, che è già settembre, e il gran visir primo ministro Hafizullah Amin trova bene di far fuori il presidente.

In meno di niente, 18 delle 26 provincie sono in rivolta. Amin chiede aiuto a Mosca.

Mosca non resta indifferente. Il 25 dicembre un bel pacco di Natale varca il confine afghano, nella forma di 50.000 soldati. Due giorni dopo, Amin è morto, perché deludere Madre Russia è un errore molto, molto pericoloso. Dopotutto se Madre Russia vuole un pasticcio inverecondo, è capacissima di provvedere da sola.

Una dimostrazione del successo tattico dei russi in Afghanistan

Detto fatto, sedare rivolte in Afghanistan si avvera più ostico del previsto e il nostro Massoud, pio sunnita, si consacra alla guerra contro l’invasore miscredente. Nella sua bella valle del Panshir, dimostra di avere uno straordinario talento per picchiare sulle capocce sovietiche.

La guerra continua, si stiracchia, s’infogna. Sempre ottimisti, nell’86 i russi cercano di riappattumare il casino installando un altro dei loro a capo del governo: l’ex-capo dei servizi segreti, Najibullah. Najibullah sarà l’ultimo vassallo di Mosca.

L’anno dopo, i russi si disincagliano con lentezza e metodo dal merdaio. Altri due anni, e sono fuori dall’Afghanistan con la coda fra le gambe.

Il bilancio di questa bella avventura è di (circa): 14.500 sovietici, 18.000 soldati afgani, tra i 75.000 e 90.000 resistenti, tra 85.000 e 1,5 milioni di civili.

Nell’aprile del ’92 l’Afghanistan diventa uno stato islamico. Gaudio. Più o meno. Ad ogni modo la pace dura più o meno 5 settimane.

Massoud meditabondo

“Bombardare o non bombardare?” Massoud e i dilemmi di ogni giorno.

Massoud è ora Ministro della Difesa sotto il governo Rabbani. Per dieci anni filati ha dato prova di grandi capacità tattiche, è riuscito a tenere la sua valle, a mettere d’accordo sgozzacapre locali, a proteggere al meglio la propria popolazione civile.

Con un uomo così capace al Governo, le cose dovrebbero andare lisce.

O forse no.

Le fratture etniche e tribali sono troppo profonde, e ora che i sovietici si sono levati dalle palle niente impedisce ai nostri di fare quello che sanno fare meglio: la guerra tra di loro.

Tra il 1992 e il 1996 la guerra civile continua a bollire, mentre Hekmatyar (sostenuto dall’etnia dominante Pashtun) e Massoud si cannoneggiano a vicenda nella zona di Kabul.

Intanto, sostenuti ai Pakistani, i Pashtun partoriscono quelle simpatiche blatte bipedi conosciute col nome di Talebani. Si mangiano l’Ovest del paese, chiudono su Kabul. Massoud li respinge una prima volta, ma alla fine si risolve ad abbandonare la città: il 26 settembre del 1996, Kabul viene presa dai Talebani. Due anno dopo, i pazzoidi hanno virtualmente vinto la guerra.

Massoud decide di tornare a far quello che sa far meglio: tenere il Panshir.

Il 9 settembre del 2001 due tunisini bombaroli riescono ad ucciderlo. Più di vent’anni di guerra, e a farti fuori sono due ritardati senza un futuro. Iste mundus furibundus falsa prestat gaudia

Quanto all’Afghanistan, è sempre in guerra (Spoiler).

La singolare storia di Nikolai Bystrov

Mentre Massoud si avvicinava ai circoli islamisti sunniti nella torrida Kabul, nel nord del Caucaso cresceva Nikolai Bystrov, figlio di due cosacchi che sgobbano nel kolchoz. A 18 anni viene arruolato nell’esercito e dopo sei mesi di addestramento lo spediscono al fronte. Non sa perché, non sa nemmeno l’Afghanistan dove cazzo si trova, ma c’è la guerra, e cosa di meglio per un cosacco di diciannove anni che una guerra, una vera guerra?

Lo slancio romantico di Nikolai non dura un granché. Essere soldatino sovietico è un mestiere ingrato, ancorché a lui non va poi così male: lo schiaffano a guardia dell’aeroporto di Bagram, dove può approfittare dell’ottimo clima e della squisita cortesia degli ufficiali.

Un bel giorno, alcuni di loro dicono a lui e due dei suoi compari di andare fino al villaggio Tale e Tale per comprare dell’hashish. L’hashish è vietato, ma non si dice di no a un ufficiale. Nikolai e soci si trovano quindi in un buco sperduto di seminomadi a chiedere in giro dove abita lo spacciatore. Dei bambini gli indicano una strada.

Solo che nel dialetto locale “spacciatore” e “fucilate” suonano quasi uguali.

I tre russi finiscono dritti in un agguato, una joint venture organizzata da gente di Massoud e Hekmatyar. Tutti e tre vengono feriti. Nikolai è colpito a un piede, ma riesce ad alzarsi quando glielo ordinano. Anche uno dei suoi compagni si tira su. Il terzo è ferito a entrambe le gambe. mujaheddin lo freddano sul posto. Dopodiché, secondo l’antica tradizione afghana, i tizi iniziano a scannarsi per decidere chi deve prendersi i prigionieri. Dopo tante proposte interessanti (“ammazziamoci tra di noi per decidere”, o “e se li tagliassimo in due e ognuno ne prendesse metà?”), Nikolai viene imbarcato dalla gente di Massoud, mentre il suo compagno viene preso dall’altro gruppo.

Al primo villaggio, il nostro viene trascinato in una piazzetta dove sono stesi i cadaveri di altri rissi. I mujaheddin li indicano e sberbreticano in una lingua che non conosce, ma il messaggio è abbastanza chiaro: farà la stessa fine. Se lo aspetta. Nell’esercito gli hanno raccontato degli orrori indicibili che i mujaheddin infliggono ai prigionieri (storie peraltro fondate).

Nikolai non ha nessuna voglia di morire o di farsi torturare: appena lasciato solo, cerca di scappare. Riesce a uscire dalla cella e percorrere la straordinaria distanza di “di là dal cortile”, prima di essere ripreso e rovinato di botte. Gli afghani gli fanno saltare i denti, gli rompono le costole, ma non lo uccidono.

Nei giorni successivi, lo trascinano da un posto all’altro. Nikolai tenta di scappare di nuovo, con eguale fortuna. I suoi carcerieri gli fanno capire che se non l’abbozza lo appendono a un albero per il collo e lo lasciano agli avvoltoi.

Dopo qualche giorno di marcia arrivano in un posto chiamato Badarak, dove Nikolai viene rinchiuso in un bugigattolo. Non cerca più di scappare ormai: non ha la minima idea di dove si trova e non ha più fiato di provare. Peraltro, anche se riuscisse a evadere e ritrovare i suoi, che trattamento gli riserverebbero i russi?

Arrendersi è considerato tradimento, e i prigionieri recuperati sono trattati male o peggio, dalla semplice condanna sociale ai sei anni di lavori forzati. Lì dove si trova, nessuno lo mena finché obbedisce, non ha freddo né fame e si è convinto che probabilmente non hanno intenzione di ucciderlo. Forse sta meglio lì, dimenticato dal mondo, che coi suoi.

Un giorno i suoi carcerieri lo tirano fuori. Uno di loro è un ingegnere, parla un po’ di russo. Lo portano in un cortile, dove sono attruppati una trentina di tizi barbuti. L’ingegnere gli dice di salutare.

Nikolai esita. Nel mazzo, uno degli uomini attira la sua attenzione in modo particolare. Come lui stesso racconta, non sa cosa di preciso lo colpisce, ma l’uomo emerge rispetto agli altri afghani. Si dirige su di lui.

Gli altri lo agguantano. Gli chiedono perché si stia avvicinando proprio al tizio, tra tutti quanti.

-Sembra il capo.- spiega Nikolai. -Ho pensato di salutare il capo per primo.

Il tizio è Massoud, che trova la cosa divertente, ricambia la stretta di mano e lo invita a mangiare alla sua tavola. Quando si dice affinità elettive.

Dopo l’incidente, Nikolai è portato in un altro villaggio dove viene rinchiuso insieme ad altri prigionieri sovietici. Nonostante sia felice di vedere dei connazionali, non si fida di loro, e loro non si fidano di lui. Non osa dir loro il suo vero nome, né da dove viene. D’altra parte, è sicuro come la morte che anche loro stiano mentendo. Sono rinchiusi insieme, ma alla fine ognuno di loro è solo.

Il tempo passa, e Massoud ricompare. L’offensiva è ripresa e tenere un pugno di prigionieri in gattabuia non conviene a nessuno. Offre loro la scelta: possono andarsene dove vogliono: in Russia, o in Pakistan, e poi in Francia, o in Svizzera, o dove diavolo vogliono.

Quasi tutti optano per partire. Nikolai ci pensa, ma si rende conto che ormai non vuole andare più da nessuna parte. Decide di restare con Massoud.

Un giorno il nostro si trova a viaggiare col comandante e le sue guardie del corpo. Stanno ascendendo un passo molto ripido, e Nikolai parte avanti, distanziando il gruppo. Arriva per primo in vetta e si siede ad aspettare.

Massoud gli ha dato un fucile mitragliatore cinese per il viaggio. Le rotelle nella testa sovietica di Nikolai si mettono a girare. Controlla. E’ carico.

In lontananza baluginano delle pistole di segnalazione. Significano “russi nelle vicinanze”. Nikolai ragiona. Potrebbe uccidere Massoud e tutti i suoi. Non ci vorrebbe niente, sa come fare. Potrebbe ucciderli e tornare dai suoi.

Solo che è stato Massoud a dargli quell’arma. Può sparare in faccia all’uomo che gli ha risparmiato la vita e lo ha liberato? All’uomo che si è fidato di lui nonostante tutto?

Nikolai resta seduto sul passo. Il gruppo lo raggiunge. Massoud gli sorride senza dire niente. Era una prova? Nikolai non lo sa e non lo saprà mai. Insieme alle altre guardie del corpo, prendono un té e ripartono. Nikolai è ormai arruolato.

Nelle interviste, il nostro racconta di come, col tempo, l’Afghanistan gli si sia appiccicato addosso: si lascia crescere la barba, si converte (anche se non rinnega mai il suo battesimo ortodosso), impara a conoscere il proprio capo e ad ammirarlo. In un’intervista comparsa su Guerres & Histoire, spiega: “lo amavo più di mio padre”.

Per anni Nikolai resta una fedele guardia del corpo. Viaggiano insieme, combattono insieme, mangiano nello stesso piatto. Quando Massoud è sicuro che Nikolai non ha nessuna voglia di tornare in Russia, si preoccupa di trovargli una moglie, una brava ragazza della sua tribù. Zarlasht è il nome della signorina, una comunista convinta ed ex-ufficiale dell’esercito afghano. Dopo la caduta di Najibullah, si era ritrovata nella brutta posizione di avere le poppe in un paese di talebani. Zarlasht non ha simpatia per i russi, ma Nikolai non ha quasi più niente di russo ormai. I due convolano, mettono su famiglia.

La storia la sappiamo e non va a finire bene. Nel 1995 Nikolai ha ormai tre figli, il paese è infognato a morte, i talebani premono su Kabul. Massoud gli consiglia caldamente di sloggiare e tornarsene in Russia. Davanti alla prospettiva di allevare i marmocchi in un paese dilaniato tra guerra civile e dittatura religiosa, Nikolai decide di seguire il consiglio di Massoud.

Afghanistan. Non ci andate. Lasciate perdere. Cioé… nope.

Sarà l’ultimo addio al suo capo, ma non l’ultimo addio al paese. Oggi Nikolai vive a Oust-Labinsk, facendo lavoretti occasionali. Torna regolarmente in Afghanistan per cercare i resti dei soldati sovietici caduti e riportarli alle famiglie.

Quando il giornalista gli chiede come sente la morte di Massoud, risponde in lacrime: “era il mio talismano, la sia morte è la più grande tragedia della mia vita”.

La storia di Nikolai Bystrov è una storia avventurosa e triste, interessante da diversi punti di vista. Non è l’unico esempio di prigioniero “convertito” alla causa del nemico, ma è notevole per come da straniero in catene sia arrivato a legare uno stretto rapporto personale col carismatico capo nemico. A oggi, non può togliersi dalla testa il dubbio: se fosse rimasto, sarebbe cambiato qualcosa? Se fosse rimasto, avrebbe potuto salvare la vita di Massoud, il Leone del Panshir?

Inshallah, suppongo.

MUSICA


Bibliografia

BRAITHWAITE Rodric, Afgantsky: The russians in Afghanistan 1979-89, Oxford University Press, 2013

MACLASHA Yacha, “Nikolai Bystrov, un Sovietique au service de Massoud”, in Guerres & Histoires n° 27, Mondadori france, ottobre 2015

Bystrov su The voice of Russia

Un’intervista a Bystrov

Il documentario di Christophe de Ponfilly, Massoud l’Afghan, 1998 (francese)