La Prima Guerra Mondiale è stata senza dubbio una delle più colossali catastrofi che abbiano segnato la Storia europea. E’ un fenomeno di una vastità e di una complessità straordinarie, con ramificazioni sconfinate che continuano a riecheggiare tutt’oggi nel discorso politico, culturale e artistico. Ancora oggi leggo interventi di gente che cerca di rispulizzirla, di girarla in positivo, tipo “ha cimentato l’Italia come stato-nazione”. Che è un po’ come dire che il bombardamento di Tokyo ha risolto l’annoso problema del traffico, ma vabbé.
Oggi non intendo entrare troppo nella polemica della propaganda nazionalista e low key guerrafondaia, perché questo onore lo lascio tutto al protagonista della nostra storia: il soldato Jean Dartemont!
L’autore
Chevallier is watching you
L’autore dietro le disavventure di Dartemont è Gabriel Chevallier. Chevallier nasce nel 1895 in una famiglia della borghesia Lionese. Ha 19 anni quando scoppia la guerra ed è chiamato alle armi. Appena finito l’addestramento, il nostro viene rimpinzato di schegge e finisce in ospedale. Ristabilito, viene rispedito al fronte, dove si fa il resto della guerra.
Chevallier torna tutto d’un pezzo e campa il resto della vita facendo una serie di lavori, dall’illustratore al giornalista al commesso viaggiatore… allo scrittore.
Chevallier comincia a scrivere nel 1925, basandosi sulla sua esperienza di veterano. Il suo primo romanzo, che ha come narratore il soldato Dartemont (l’autore sotto mentite spoglie), La Peur, è pubblicato nel 1930.
Il romanzo viene ricevuto malissimo.
Il genere
Nel suo saggio Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Rieuneau ha studiato l’immagine della Grande Guerra che emerge dai romanzi dell’epoca. Un migliaio di scrittori si sono trovati sotto le armi, e il loro contributo alla letteratura francese è ricco e variegato.
In particolare, a noi interessa quella che Rieuneau definisce “L’epoca dei testimoni”, ovvero testi scritti da reduci che parlano della loro esperienza diretta.
Il tipo di “romanzo-testimonianza” si diffonde a partire dal 1916. Un esempio emblematico è il famosissimo Le Feu di Henri Barbusse.
Nella ventina di romanzi rappresentativi di questa corrente, vediamo cicciar fuori spesso gli stessi posti, fatti, esperienze. Anche le motivazioni degli autori paiono simili: il bisogno di raccontare la propria storia, e il desiderio che questa storia sia ricordata.
Questo bisogno di parlare del proprio trauma, di vederlo riconosciuto dagli altri, è pressoché universale. E’ uno dei temi principali del documentario The Look of Silence, di Oppenheimer: l’impossibilità di parlare del proprio dolore, di vederlo riconosciuto dai nostri simili, è un ostacolo insormontabile nel processo di lutto che caratterizza, in modo più o meno intenso, il superamento di ogni trauma.
Il fatto che questi romanzi abbiano tutti temi e fatti in comune non significa però che siano libri simili. Come dice Sicard, possiamo distinguere quattro grandi categorie del genere:
- La testimonianza pura, dritta dritta dalle pagine di diario del combattente
- La letteratura della smobilitazione, dove non si parla più dell’esperienza diretta del combattimento ma della guerra in generale, come concetto, come fenomeno, la sua natura e ciò che fa agli uomini che ne sono coinvolti
- Il culto dell’eroismo, ovvero storie che celebrano la guerra come una sorta di catalizzatore esplosivo che fa emergere le migliori virtù dell’uomo. Un caso celeberrimo in questo ambito è quel matto di Montherlant, con La Relève au Matin (1920) o Le Songe (1922)
- La letteratura di protesta. Ovvero quelli che a Motherlant avrebbero cacciato volentieri uno stivale nel culo. Si tratta di opere diversissime tra loro (Sicard cita Les Drapeaux di Paul Reboux, Le Sel de la Terre di Raymond Escholier o Les Suppliciés di René Naegelen), ma accomunate da un rifiuto della guerra, un’attitudine disincantata o ostile alla prosopopea nazionalista, se non proprio uno slancio internazionalista
Rieuneau identifica questo tipo di romanzo come tipico del decennio 1919-1929. La Peur è un po’ più tardivo, essendo uscito nel 1930, ma si inserisce perfettamente in questo filone.
Nel romanzo, Chevallier rivisita le sue esperienze con lo pseudonimo Jean Dartemont. Attraverso le parole di Dartemont, il nostro racconta la follia della guerra, la paura onnipresente, l’assurdità della propaganda nazionalista, il senso di impotenza e ingiustizia del soldato semplice davanti alla colossale catastrofe del conflitto mondiale.
Il romanzo non è un resoconto pedissequo delle sue disavventure, ma è chiaramente una rielaborazione che mischia esperienze reali e riflessioni politico-filosofiche. Passaggi descrittivi crudi e sinceri si alternano a brani narrati con toni quasi caricaturali, a dialoghi che ricordano i dibattiti platonici, dove Dartemont dichiara le proprie convinzioni. La Peur non è semplicemente una testimonianza, La Peur è un romanzo dichiaratamente, violentemente politico. Ma di questo parleremo più in dettaglio.
Il libro
Je vais vous dire la seule occupation qui compte à la guerre: J’AI EU PEUR
A 19 anni, Jean Dartemont parte soldato. Non è un convinto nazionalista, ma non è nemmeno un pacifista. E’ giovane e curioso, vuole vedere come una vera guerra è combattuta (perché si sa, a 19 anni siamo tutti immortali).
La curiosità di Dartemont sarà soddisfatta fin troppo alla svelta. Per quattro anni.
La storia, grosso modo, è questa. Non c’è una vicenda strutturata, un arco vero e proprio, se non una progressiva realizzazione dell’assurdità della guerra, la rabbia e la frustrazione all’idea che stai per morire a 19 anni senza nessuna buona ragione, e un’analisi penosa dell’effetto della paura estrema e cronica a cui il fante di linea viene sottoposto.
Chevallier non nega coraggio e l’eroismo, ma non celebra le grandi virtù guerriere, il romanticismo di morire per la Patria. Dartemont e i suoi compagni non sono esempi di eroismo classico. Quello che Chevallier pensa della narrativa romantica nazionalista e militarista è chiaro fin dalle prime pagine:
[NOTA: le citazioni sono prese dalla traduzione italiana, precisazioni in bibliografia]
Quando si è vista la guerra come l’ho vista io viene da chiedersi: «Perché mai si accetta una cosa simile? In nome di quale tracciato di confini, di quale onore nazionale la si può legittimare? Come si può travestire da ideale ciò che è pura delinquenza, e fare in modo che venga approvato?».
Ai tedeschi hanno detto: «Avanti con questa guerra nuova e lieta! Nach Paris e Dio è con noi, per una Germania più grande!». E quei bonaccioni dei tedeschi, che prendono tutto sul serio, si sono messi in marcia per la conquista trasformandosi in bestie feroci.
Ai francesi hanno detto: «Ci attaccano. È la guerra del Diritto e della Rivincita. Tutti a Berlino!». E i francesi pacifisti, i francesi che non prendono niente sul serio, hanno interrotto le loro fantasticherie di agiati borghesi per andare a combattere.
È successa la stessa cosa agli austriaci, ai belgi, agli inglesi, ai russi, ai turchi e poi agli italiani. Nel giro di una settimana venti milioni di uomini civilizzati, intenti a vivere, ad amare, a far soldi, a costruire il futuro, hanno ricevuto l’ordine di piantare tutto in asso per andare a uccidere altri uomini. E quei venti milioni di individui hanno obbedito perché li avevano convinti che quello era il loro dovere.
Venti milioni, tutti in buonafede, tutti d’accordo con Dio e con il loro sovrano… Venti milioni di idioti… Come me!
E ancora:
Dopo un anno di vita militare mi capita di pensare che sono un pessimo soldato e di rammaricarmene come una volta mi rammaricavo di essere un pessimo studente. È chiaro, non riesco a piegarmi ad alcuna regola. Devo biasimarmi? L’incapacità di accettare i princìpi che mi hanno insegnato è forse un vizio? In linea di massima credo che sia un bene, e che quei princìpi siano nefasti. Ma a volte, quando vedo tutti gli altri coalizzati contro di me e sicuri delle loro idee, inizio a dubitare: anch’io ho le mie debolezze, come chiunque, e mi arrendo all’opinione comune… Temo di non essere adatto a questa guerra che richiede solo passività e spirito di sopportazione. Non sarebbe meglio per la mia tranquillità se io fossi un combattente privo di incertezze, come ce ne sono tanti (ma io ne ho mai conosciuti?), che lotta con accanimento per la patria nella convinzione che la morte di ogni nemico ucciso gli valga un’indulgenza presso il suo dio? Ho la sfortuna di riuscire ad agire solo in virtù di un motivo approvato dalla mia ragione, e la mia ragione rifiuta certe costrizioni che le si vorrebbero imporre. Gli insegnanti, un tempo, mi rimproveravano di essere troppo indipendente; poi ho capito che temevano il mio giudizio, e che la mia logica di adolescente sollevava problemi che loro avevano deciso di accantonare. Ma oggi le costrizioni sono più forti, e chi le esercita forse mi farà ammazzare.
Le descrizioni offerte da Chevallier sono vivide, a tratti surreali. Quando il fronte si avvicina, l’impressione non è tanto quella di una lotta tra uomini, ma di un cataclisma. C’è un’ironia fatalista e orrida nell’idea di essere a un soffio dalla morte, e questo senza nessuna buona ragione, senza nessun modo di svincolarsi. E’ una situazione orrida, è una situazione assurda.
Una vampata che sembrava investire il mondo intero ci strappò al torpore. Avevamo appena superato una cresta, e il fronte, davanti a noi, ruggiva con tutte le sue bocche infuocate, fiammeggiando come una fucina infernale i cui mostruosi crogioli trasformavano in una lava di sangue la carne degli uomini. Ci veniva la pelle d’oca all’idea di essere solo una palata di carbone destinata ad alimentare quella fornace, al pensiero che dei soldati, laggiù, lottavano contro la tempesta di ferro, contro l’uragano di fuoco che faceva ardere il cielo e tremare le fondamenta della terra. Le esplosioni erano così ravvicinate da produrre l’impressione di un unico bagliore e di un boato ininterrotto. Sembrava che qualcuno avesse buttato un cerino sull’orizzonte zuppo di benzina, e che un genio malefico continuasse a versare del punch su quelle diaboliche fiammate e sghignazzasse lassù celebrando la nostra distruzione. E perché nulla mancasse a quella macabra festa, perché un contrasto ne accentuasse ulteriormente l’aspetto tragico, vedevamo razzi leggiadri innalzarsi verso la cima di quell’inferno e sbocciare come fiori di luce, per poi ricadere, moribondi, con uno strascico da cometa. Eravamo abbagliati da quello spettacolo, il cui angosciante significato era chiaro solo ai veterani. Fu la prima visione che ebbi della furia scatenata del fronte.
Come dice il titolo stesso del romanzo, un tema domina le pagine: la paura.
Chevallier racconta la paura con un candore spietato. La paura è una sorta di infezione, una febbre che aggredisce l’uomo fin dall’inizio e lo rode ogni giorno, senza dargli mai pace.
Quest’angoscia costante è mista a un complicato ventaglio di emozioni contraddittorie. Chevallier parla senza remore del risentimento, dell’incertezza, del disperato desiderio di vivere e del senso di colpa dell’essere ancora vivo. In quello che lui stesso descrive come uno dei ricordi peggiori che il fronte gli lascia, Chevallier racconta il suo primo incontro ravvicinato con dei cadaveri freschi:
A un tratto il soldato che mi precedeva si accovacciò e iniziò a trascinarsi sulle ginocchia per infilarsi sotto un ammasso di materiali che ostruivano il passaggio. Mi accovacciai anch’io e lo seguii. Quando si rialzò mi apparve davanti un uomo di cera, supino, che spalancava una bocca senza respiro e occhi senza espressione, un uomo freddo, irrigidito, che probabilmente si era rifugiato sotto quell’ingannevole riparo di assi e lì era morto. All’improvviso mi trovavo a tu per tu con il primo cadavere recente che avessi mai visto. Il mio volto passò a pochi centimetri dal suo, il mio sguardo incrociò il suo sguardo, spaventoso e vuoto, e la mia mano sfiorò la sua mano, ghiacciata e illividita dal sangue che gli si era gelato nelle vene. Durante il breve faccia a faccia che mi impose, ebbi la sensazione che il morto mi incolpasse della sua fine e minacciasse vendetta. È una delle impressioni più tremende che ho riportato dal fronte.
Ma quel morto era il custode di un regno di morti. Quel primo cadavere francese precedeva centinaia di altri cadaveri francesi: la trincea ne era piena.
[…]
Intravidi da lontano il profilo di un piccoletto barbuto e calvo, seduto sulla banchina di tiro, che sembrava ridere. Era il primo volto rilassato e rassicurante che incontravamo, e andai verso di lui spinto da un moto di gratitudine, chiedendomi: «Che avrà poi da ridere?». Rideva della propria morte! Aveva la testa tranciata perfettamente in due. Oltrepassandolo feci un balzo all’indietro nel rendermi conto che a quel viso allegro mancava l’altra metà.4 Il cranio era completamente vuoto. Il cervello, saltato via in blocco, si trovava proprio accanto al cadavere – come un pezzo di trippa sul banco di un venditore di frattaglie –, vicino alla mano, che lo indicava. Quel morto ci aveva giocato un macabro scherzo. Forse rideva per quello. Lo scherzo raggiunse il colmo dell’orrore quando uno dei nostri lanciò un grido strozzato e scappò via come un pazzo facendosi strada a spintoni.«Che ti prende?».
«Credo che sia… mio fratello!».
«Guardalo da vicino, santo cielo!».
«Non ce la faccio…» bisbigliò il soldato mentre si allontanava.
Dartemont combatte e uccide per salvare la propria pelle. Dartemont prova simpatia per i prigionieri o i disertori tedeschi, perché si riconosce in loro più che non nei propri ufficiali.
A volte il nemico più terrificante è il cecchino, a volte è il tuo colonnello, a volte la cosa più pericolosa che puoi fare è andare a la latrina durante un bombardamento. Accucciato tra le rocce Dartemont deve valutare se vale la pena rischiare la pelle o cagarsi addosso. Sono episodi umilianti, che Chevallier racconta senza pudore.
Cadaveri di Verdun, scaraventati sulle chiome degli alberi da un’esplosione
In uno dei passaggi più celebri del romanzo, Dartemont è all’ospedale, pieno di schegge. A un’infermiera patriottica che gli chiede com’è il combattimento, Dartemont risponde:
Vi dirò la sola occupazione che conta in guerra: HO AVUTO PAURA.
La cosa che domina in prima linea non è il pensiero della Patria o l’onore o lo slancio guerriero, ma la paura. Miserabile, abbietta, oscena paura.
Entriamo in agonia.
L’attacco è sicuro. Ma siccome dobbiamo rinunciare agli assalti frontali, che non riescono a sfondare, avanzeremo lungo i camminamenti. Il mio battaglione deve attaccare gli sbarramenti tedeschi con le bombe a mano. Io, come granatiere, andrò tra i primi.
Non conosciamo ancora l’ora prevista per l’attacco. Verso mezzogiorno ci dicono: «Sarà stasera o stanotte».
Dalle latrine, che sono rialzate, si scorgono le linee nemiche. La pianura, leggermente in salita, è circondata in lontananza da quello che resta di un bosco martoriato, il Bois de la Folie, che, a quanto sembra, il comando si prefigge di occupare. Corre voce che abbiamo di fronte la guardia imperiale tedesca, pronta ad accoglierci con proiettili esplosivi.
Che fare fino a sera? Non conto granché sulle bombe a mano, che non so usare. Smonto il fucile, lo pulisco con cura, lo ingrasso e lo avvolgo in uno straccio. Controllo anche la baionetta. Non so come si combatte dentro un camminamento, avanzando in fila indiana. Ma dopotutto il fucile è un’arma, l’unica che conosco veramente, e devo pur prepararmi a lottare per la vita. Nemmeno sul coltello conto granché.
Soprattutto non devo pensare… E a cosa poi? A morire? Non posso pensarci. A uccidere? È un’incognita, e di uccidere non ho nessuna voglia. Alla gloria? La gloria non si conquista qui, ma standosene nelle retrovie. Ad avanzare di cento, duecento, trecento metri nelle linee tedesche? Ormai so fin troppo bene che questo non cambierebbe di una virgola l’andamento della guerra. Non sono mosso né dall’odio, né dall’ambizione, né da altri stimoli. Eppure devo andare all’attacco…
Ho un unico obiettivo: schivare i proiettili, le bombe a mano e le granate, salvare la pelle, che si vinca o si perda. D’altra parte: vinci se resti in vita. E questo è l’unico obiettivo di tutti, qui.
Il capitolo sulla permanenza in ospedale è una lunga sezione verso metà del libro, ed è una delle più “costruite”. Si perde completamente il sapore spontaneo e realistico degli aneddoti di trincea, per una specie di messa in scena dialettica tra Dartemont, giovane istruito e segnato dalla guerra, e le infermiere, incarnazioni della visione borghese e nazionalista, donnette con la testolina piena di propaganda che non sanno, non possono sapere ciò che succede al fronte.
Questa parte è insieme una delle più difficili e più interessanti da leggere. Dartemont non è sempre un narratore congeniale, e in queste pagine emerge tutto il suo classismo e il sessismo spicciolo che per il lettore attuale può risultare davvero stridente. Allo stesso tempo si tratta anche di un momento di quiete narrativa in cui Chevallier può elaborare il suo messaggio politico, il suo risentimento verso una società guerrafondaia e intellettualmente inetta.
Le infermiere si stupiscono nel constatare che al dovere così come lo intendono loro si possono opporre altri doveri, che esistono ideali sovversivi più elevati, di più ampio respiro e più proficui per l’umanità.
Comunque, la signorina Bergniol ha concluso:
«Non educherò i miei figli secondo le sue idee».
«Lo so, signorina. Voi, che potreste essere portatrici di fiaccole oltre che di creature, trasmetterete ai vostri figli solo la tremolante candela che avete ricevuto, da cui cola la cera che vi brucia le dita. Sono le candele che hanno incendiato il mondo invece di illuminarlo. Sono i ceri con cui domani, di nuovo, un’umanità cieca accenderà i bracieri sui quali si consumeranno i frutti delle vostre viscere. Il loro dolore a quel punto non sarà altro che cenere; e nel momento stesso in cui il sacrificio si compirà, lo sapranno e vi malediranno. Con i vostri princìpi, se se ne presenterà l’occasione, sarete a vostra volta delle madri disumane».
Come si può constatare, questi passaggi sanno più di comizio che di autobiografia. Come dicevo, La Peur è un romanzo politico, ma di nuovo, torneremo sull’argomento.
La parte in ospedale non è una mera parentesi educativa e polemica: anche in queste pagine l’esperienza diretta fa capolino. Qui possiamo vedere cosa succede agli “eroi”, l’impatto che ferite e trauma hanno sui combattenti. Un personaggio spicca tra gli altri: Charlet, un conoscente che Dartemont ritrova in ospedale, addetto a raccattare i pitali pieni di merda dei feriti.
Al soldato infermiere abbiamo affibbiato un soprannome impietoso: Popò. So che lui ne è amareggiato. Lo so perché ho conosciuto André Charlet prima della guerra, all’università, dove figurava tra gli studenti migliori, quelli pieni di curiosità e di idee. Pubblicava sulle riviste giovanili certi brillanti sonetti che rappresentavano la vita come un immenso campo di conquista, una foresta divina e stupefacente in cui si addentrano gli esploratori scelti per poi tornarne carichi di frutti meravigliosi dai sapori sconosciuti, di donne dalla bellezza esotica e di mille barbarici oggetti dal ricercato gusto primitivo. Durante la mobilitazione si era arruolato tra i primi ed era stato gravemente ferito nel corso dell’anno seguente.
L’ho ritrovato qui, abbattuto, senza energie e sporco. Pochi mesi di guerra lo hanno trasformato, gli hanno conferito questa aria irrequieta, questa magrezza e questa pelle giallastra. L’esperienza del fronte gli ha lasciato addosso un terrore folle, che gli si legge negli occhi. Pur di restare all’ospedale ha accettato un simile incarico, con le sue ripugnanti incombenze. Interpretando il ruolo di Popò, riesce a prolungare di tre mesi la sua permanenza qui, in virtù di non so quale ordinanza militare che autorizza gli ufficiali medici ad avvalersi temporaneamente di assistenti. D’altronde è molto probabile che in seguito venga assegnato alle truppe ausiliarie, se non addirittura riformato. Lui però preferisce evitare di sottoporsi a una commissione se non in ultima istanza, perché teme che il suo corpo non sia abbastanza malconcio da giustificare un’esenzione che gli eviti il ritorno al fronte. Ma è il solo ad avere questo timore; quanto a noi, lo riteniamo destinato alla morte per tubercolosi, più inesorabile delle granate.
[…]
Presto o tardi doveva succedere. Mi stupisco che le anomale trasformazioni avvenute in lui non me l’abbiano fatto intuire. Per quanto demoralizzato, un uomo giovane si riprende in fretta; Charlet invece si incupiva sempre più.
Prima, quando è entrato in corsia, le dita contratte, i tic che gli alteravano i lineamenti, l’andatura a scatti tradivano uno stato di forte tensione nervosa. Ha comunque iniziato il suo turno come al solito, ma senza nemmeno salutarmi.
Verso l’una mi è improvvisamente comparso davanti. Aveva una faccia spaventosa, terrea, con delle chiazze scure e gli occhi cerchiati di rosso. Mi ha messo il braccio sotto il naso:
«Annusa! Annusa, dài!».
«Be’, che c’è?».
Spingeva il braccio verso di me con violenza. Mi sono fatto indietro.
«Allora, lo senti? Lo senti l’odore?».
Mi fissava con occhi scintillanti, furibondi, da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Avvicinando il suo volto al mio fino a toccarlo, mi ha detto queste parole incredibili:
«Sono una merda».
«Via, Charlet, sei impazzito?».
«Insomma, annusa!».
Più ancora della sua rabbia, mi ha spaventato la bava che gli stava colando dalla bocca. Per fortuna lo hanno chiamato:
«Ehi, Popò!».
Si è lanciato in direzione di Peignard gesticolando in modo scomposto:
«Mi chiamo Merda, chiaro? E non sopporterò oltre i vostri volgari insulti!».
Ho capito che era andato fuori di testa e subito ho temuto per i feriti più malconci: Peignard con il suo piede, Diuré con i suoi tubi di drenaggio, il povero bretone. Ho chiamato gli altri, quelli più in forze, che lo hanno attorniato mentre qualcuno andava a cercare aiuto. Lui, in piena crisi, tentava di scappare e gridava:
«Vi tengo in pugno, farabutti! Tutti gli uomini sono miei sudditi! Io sono la verità, il padrone del mondo!».
Finalmente tre marcantoni sono saliti dagli scantinati e lo hanno trascinato via.
Ci riverremo, ma quando lessi questo passaggio pensai al periodo in cui il libro fu pubblicato: 1930.
Chi è un minimo familiare con la Storia del periodo conosce il colossale stigma sociale associato con il tracollo mentale dei combattenti. Lo stress post-traumatico, o shell shock com’era chiamato nel primo dopoguerra, era considerato più vergognoso della Sifilide. Basti pensare che a due riprese, nell’agosto del ’43, il Generale Patton prese a schiaffi due dei suoi soldati affetti da shell shock.
Nel 1930 Chevallier raccontava l’effetto della paura, lo rivendicava, lo esponeva.
Rieuneau definisce Chevallier come “l’anti-Montherlant”, qualcuno che non solo sfata i miti della propaganda, ma che odia con ogni fibra del suo corpo la glorificazione della guerra.
«Nègre, vorrei farti una domanda che continua a tormentarmi. Che ne pensi del coraggio?».
«Ancora! La questione è stata definitivamente archiviata. Gli specialisti se ne sono occupati nel silenzio dei loro laboratori. Te lo dico una volta per tutte: il francese è coraggioso per natura, ed è l’unico a esserlo. I tecnici hanno dimostrato che per mandare il tedesco in battaglia bisogna fargli inalare dell’etere. Questo coraggio artificiale non è coraggio. E tu che mi racconti?».
«Io? Detto tra noi: mi sono rotto i coglioni!».
Incastrato nelle trincee, Dartemont prova un incontenibile senso di ribellione. Uno slancio che però non ha nessuna speranza di sfogare: se non gli sparano i tedeschi, saranno i suoi a farlo. Costretto in un gioco truccato contro di lui, Dartemont può solo cercare di sopravvivere, per poter un giorno raccontare la sua esperienza.
Quella notte pensai al destino del soldato sconosciuto che avevamo appena importunato nella sua tomba, e che altri avrebbero nuovamente calpestato. Immaginavo un uomo simile a me, cioè giovane, pieno di progetti e di ambizioni, di amori ancora indefiniti, appena affrancatosi dall’infanzia e sul punto di sbocciare. La vita, per come la vedo io, assomiglia a una partita che inizia a vent’anni e la cui posta si chiama successo: i soldi per i più, la fama per qualcuno, la stima degli altri per pochissimi. Vivere, durare non è niente; realizzare è tutto. Chi muore giovane è paragonabile a un giocatore che abbia appena ricevuto le sue carte e a cui venga proibito di giocare. E per quel giocatore, forse, si trattava di una rivincita… Vent’anni di studi, di sottomissione, di desideri e di speranze, tutta la somma di sentimenti che un essere umano porta dentro di sé e che costituisce il suo valore avevano trovato in quell’angolo di trincea il loro punto di arrivo. Se dovessi morire adesso non direi: «è spaventoso» o «è terribile», ma: «è ingiusto e assurdo», poiché non ho ancora tentato niente, fatto niente se non aspettare la mia occasione e la mia ora, limitandomi a conservare le forze e a pazientare. La vita secondo la mia volontà e le mie inclinazioni è appena cominciata, o meglio deve ancora cominciare, visto che la guerra ne ha rinviato l’inizio. Se soccombo adesso, sarò stato solo dipendente e incolore. Quindi sconfitto.
Tutti i temi dei romanzi rivoluzionari e pacifisti si ritrovano mischiati e confusi nella storia caotica di Dartemont.
Chevaillier racconta gli orrori macabri del campo di battaglia, ma senza attardarcisi troppo. Dopotutto altri prima di lui avevano sviluppato quell’angolo: Barbusse, Dorgelès, Naegelen…
La parte che più parla di combattimenti è quella dedicata all’offensiva sul Chemin des Dames.
Per gli italiani, la faccenda è più nota come “Seconda battaglia dell’Aisne”, una massiccia offensiva avvenuta tra l’aprile e l’ottobre del 1917. Non entro nei dettagli perché si tratta di una roba degna di un intero saggio (se vi interessano i massacri sull’Aisne, ai tempi avevo raccontato dell’Affaire de Crouy). Qui basti sapere che le operazioni primaverili, dirette dal generale Nivelle, si conclusero in un sanguinosissimo disastro condito con ammutinamenti.
Chevallier partecipò all’offensiva.
Non conosco ripercussioni morali paragonabili a quelle provocate dal bombardamento su chi si è rintanato in un ricovero. La sicurezza si paga al prezzo di un crollo interiore, di un logorio dei nervi davvero tremendi. Non conosco niente di più angosciante di quel martellamento sordo che ti bracca sottoterra, tenendoti sepolto in una fetida galleria che può diventare la tua tomba. Per riemergere dall’abisso è necessario uno sforzo che, se non si è superato lo spavento fin dall’inizio, la volontà non è più in grado di compiere. Bisogna lottare contro la paura ai primi sintomi, altrimenti ti irretisce, e allora sei spacciato, trascinato in una catastrofe che l’immaginazione accelera con le sue spaventose invenzioni. Una volta scossi, i centri nervosi trasmettono comandi del tutto incongrui e, con le loro assurde decisioni, rischiano di contravvenire persino all’istinto di conservazione. Il colmo dell’orrore, che rende lo scoramento ancora più grave, è che la paura non toglie all’uomo la facoltà di giudicarsi. Egli vede se stesso sull’ultimo gradino dell’ignominia e non riesce a risollevarsi, a giustificarsi ai suoi stessi occhi.
Questo è lo stato in cui mi trovo…
Sono rotolato in fondo al baratro di me stesso, in fondo alle segrete dove si nasconde la parte più riposta dell’anima. Un’immonda cloaca, una tenebra vischiosa. Ecco cos’ero senza saperlo, ecco cosa sono: uno che ha paura, una paura incontrollabile, una paura da mettersi a piangere, che ti annienta… Per farmi uscire dovrebbero cacciarmi fuori a calci. Ma accetterei di morire qui, credo, pur di non essere costretto a salire quei gradini… Ho paura al punto da non tenere più alla vita. Del resto, per me provo solo disprezzo. Per resistere contavo sulla stima di me stesso, e ora l’ho persa. Come potrei ostentare ancora sicurezza adesso che so chi sono veramente? Come potrei mettermi in luce, brillare, dopo quello che ho scoperto? Forse riuscirò a ingannare gli altri, ma sarò sempre consapevole di mentire, e questa messinscena mi dà la nausea. Penso a Charlet, alla compassione che provavo per lui all’ospedale. Sono caduto in basso come lui.
[…]Sotto i sacchi per la sabbia del mio giaciglio ho trovato una bottiglia vuota da un litro, con il tappo, e la mia vigliaccheria se n’è rallegrata. Ogni tanto mi giro su un fianco e piscio lì dentro, a piccoli getti, in modo che nessuno sorprenda questa inconfessabile manovra. Durante la giornata la mia principale preoccupazione è versare l’urina a terra un poco alla volta, in modo che sia assorbita dal suolo. Ah, sono proprio uno schifoso!
La morte sarebbe preferibile a questo supplizio avvilente… Sì, se deve durare ancora a lungo, preferisco morire.
Direi che è andata bene ^_^
Quando hai un vantaggio numerico di 2 a 1 e totalizzi un glorioso punteggio di 120.000 perdite e 0 vittorie
La verve rivoluzionaria del romanzo non si esaurisce in un ritratto spietato della vita del soldato semplice. Chevallier denuncia anche i propri ufficiali, gli attacchi inutili spinti per soddisfare i pruriti di gloria di questo o quello, le condanne a morte assolutamente ingiuste e crudeli. Nel romanzo si menziona, ad esempio, l’omicidio la condanna di Lucien Bersot.
Si tratta del famoso e infame incidente “del pantalone rosso”: Bersot era un soldato che fece richiesta per un nuovo paio di braghe. Gli furono date quelle di un morto, ancora lacere e sporche di sangue. Bersot si rifiutò di portarle e fu arrestato. Questo scatenò indignazione e rivolta tra i suoi compagni, al che fu deciso di fare di Bersot un esempio, e il soldato fu fucilato.
Crimini di questo genere purtroppo non sono stati rari. I lettori italiani sono probabilmente familiari con la storia di Alessandro Ruffini.
Sono episodi del genere che confermano per Chevallier il fatto che i suoi superiori non hanno nessun riguardo per la vita dei loro subordinati. Per i soldati semplici, questa gente è altrettanto pericolosa, altrettanto nemica del tedesco.
Un reduce francese vittima di Shell shock si ritrae con terrore alla vista del berretto di un ufficiale
Ma Chevallier non ce l’ha solo con l’esercito. Dopotutto se quest’inutile massacro è stato possibile, ciò lo si deve anche al sostegno e alla partecipazione della società civile. E Chevaillier ne ha tante da dire sulla borghesia nazionalista. Già dalle prime pagine appare chiaro un ritratto di revanchisti che ancora non hanno ingollato la disfatta di Sédan, gente piena di mediocre risentimento che celebra una guerra che non saranno loro a combattere, gente pronta a sacrificar decine di migliaia di uomini per una catarsi emotiva.
In una scena del libro, un passante che non dà prova di un livello accettabile di fervore patriottico viene pestato sulla pubblica via. Quando Dartemont torna a casa in licenza, dopo essersi fatto l’ospedale, viene prima criticato da suo padre per non aver già scalato i ranghi, e poi portato in giro e mostrato ad amici e conoscenti. Avere un figlio che è per un pelo scampato a un combattimento è oggetto di vanto, una fonte d’orgoglio per ricchi borghesi che fanno la guerra seduti al bar con un bicchiere di kir.
La società borghese è conformista, ipocrita, benpensante, una società che si balocca con storie fasulle e caricaturali di una guerra eroica, romantica e giusta. E Chevallier non cela il proprio disprezzo per costoro.
Il tempo è sereno. Ogni notte, adesso, sentiamo dei ronzii. Le squadriglie tedesche che vanno a bombardare Parigi sorvolano le nostre linee. Non abbiamo i mezzi per sbarrargli la strada. Ma salutiamo il passaggio di quegli aerei invisibili dicendo:
«Mi sa che stavolta se la beccano i patrioti, la batosta!».
«Gli servirà di lezione. Ci vorrebbe proprio, per i civili, qualche ora di bombardamento sulla capoccia!».
«Così forse la smettono di gridare: “Avanti, fino alla morte!”».
«Peccato solo rovinare i monumenti».
«Ma sentitelo! E la nostra pelle, allora? Vale meno di un monumento? Mica gliene importa niente a nessuno se ci sbudellano!».
«Così quelli della capitale le assaggiano pure loro, le bombe!».
«Sai che risate se i crucchi mollano una bella scoreggia dritto dritto sul ministero della Guerra!».
«Sta’ zitto, disfattista!».
«Ma sentitelo, ’sto venduto, ’sto brocco, ’sto volontario di merda!».
«Tanto per cominciare,» dice Patard, il telefonista dell’artiglieria «in guerra bisogna distruggere. Così finisce prima».
Patard è uno dei numerosi personaggi irriverenti che costellano il romanzo. Canaglie costrette a marciare come tutti gli altri, ma che non si bevono la storia dell’etica eroica, della gloria francese. Questi personaggi non sono sviliti come disfattisti o traditori, sono celebrati. La loro insolenza è l’eroismo in questo contesto, le loro trasgressioni sono celebrate, piccole rivolte contro un sistema ingiusto. Sono eroi in quanto resilienti.
[Patard] È il più temibile ladruncolo che si sia mai visto, il terrore delle cucine, degli spacci e dei magazzini. La sua impresa più celebre è stata quando ha fregato i pantaloni e gli stivali al generale di divisione. Il fatto ha avuto luogo sullo Chemin des Dames. Patard, in fondo a un ricovero, confezionava bustine fuori ordinanza che pensava di vendere ai soldati del suo reggimento. Ma gli mancava il nastro per adornare quei berretti. Per procurarselo si è offerto di andare sotto le bombe fino al comando di divisione a sostituire un telefono guasto. Lì, curiosando in giro, ha trovato dei bei pantaloni di panno fine appesi a un chiodo, dei pantaloni rossi, proprio il colore che gli serviva. Visto che accanto c’erano degli stivali, ha preso anche quelli ed è ritornato in trincea. Il generale ha scatenato un pandemonio, ma non ha mai sospettato che i suoi pantaloni fossero finiti, ridotti in striscioline, sulle teste dei suoi uomini, né poteva immaginarsi di salutarli ogni volta che incrociava un artigliere.
Patard è un eroe perché riesce a sopravvivere senza impazzire nel costante terrore che perseguita il soldato.
E Dartemont?
Di certo non si racconta come un eroe. La guerra non è qualcosa che Dartemont fa, è qualcosa che Dartemont subisce. C’è un solo episodio in cui Dartemont appare sinceramente fiero del proprio valore: durante un bombardamento, Dartemont vede un altro portaordini arrivare di corsa sotto il tiro degli obici tedeschi.
Resta un unico portaordini, e non se ne manda mai uno da solo sotto le granate. Il maresciallo esita… In quel momento vediamo un soldato che attraversa il burrone di corsa e si arrampica su per il pendio. Poco dopo arriva, coperto di sudore, ansimante. È Aillod, dell’undicesima. Trae un sospiro che significa: «Sono salvo!». Ma il maresciallo sceglie proprio lui:
«Adesso vai alla nona con Julien».
«Però, sempre gli stessi!» risponde Aillod sommessamente, davanti a me.
Noto l’espressione del suo viso, in cui il terrore prende il posto della gioia, e incrocio il suo sguardo, che è quello di un cane che aspetta di essere preso a bastonate, di un uomo che è appena stato condannato a morte. Quello sguardo mi fa vergognare. È davvero un’ingiustizia. Allora grido senza riflettere:
«Ci vado io!».
Vedo gli occhi di Aillod ravvivarsi, pieni di riconoscenza. E vedo pure lo stupore del maresciallo:
«D’accordo, vai!».
Durante questa missione, per cui Dartemont si è portato volontario in uno slancio di solidarietà non proprio ragionato, il nostro riesce per la prima volta a conquistare la paura.
Più tardi, di nuovo al riparo, Dartemont ha la possibilità di pensare a ciò che gli è successo.
È ancora presto quando vado a stendermi sulla mia branda, al buio. Rifletto sui fatti di questa sera. Insomma, per essere coraggioso ho a disposizione un mezzo semplice ed efficace: accettare la morte. Ricordo che già una volta, nell’Artois, quando dovevamo affrontare in campo aperto le mitragliatrici, mi ero abituato a questa idea per qualche ora. Poi gli ordini erano cambiati.
Quelli che cercano di farsi coraggio dicendosi: «Non mi succederà niente» sono del tutto irrazionali (eppure sono la maggioranza). Una simile convinzione non può essermi di aiuto, perché so fin troppo bene che i cimiteri sono pieni di gente che aveva sperato di tornare a casa sana e salva, persuasa che le pallottole e le granate scegliessero i loro bersagli. Tutti i morti si erano affidati alla protezione di una provvidenza personale, intenta a vegliare su di loro e del tutto indifferente agli altri. In quanti, sennò, sarebbero venuti a farsi ammazzare?
Mi sento del tutto incapace di mostrare coraggio se non sono deciso a dare la vita. In alternativa a questa scelta c’è solo la fuga. Ma una decisione del genere la si può mantenere per un breve momento, non per settimane o mesi. Lo sforzo morale è troppo grande. Ecco perché il vero coraggio è così raro. Di solito accettiamo una specie di compromesso zoppicante fra il destino e la volontà, che non soddisfa la ragione.
Per ora ho fatto due volte l’esperienza del coraggio assoluto. Sarà stata questa, alla fin fine, la mia azione di guerra più gloriosa.
Poi penso alle parole di Baboin: «È meglio non fare tanto i gradassi…». Oggi ho fatto il gradasso, e se voglio «portare a casa la ghirba» mi converrà resistere a simili impulsi…
Rieuneau nota che nel romanzo Chevallier non se la prende coi “vigliacchi”. Non è da vigliacchi provare paura, è naturale. Il terrore abbietto e umiliante non è mancanza di carattere, non è frutto di un difetto, non è una colpa, è la normale reazione di un uomo a cui viene inflitta la guerra.
In questo Chevaillier rivendica la vulnerabilità degli uomini in faccia a una narrativa disumanizzante che li vuole gagliardi combattenti pronti al sacrificio.
La pubblicazione
Tutti gli articoli sulla WWI devono avere un riferimento a Black Adder Goes Forth, sorry
Come potrete immaginare, in un’Europa in pieno sussulto nazionalfascista come quella del 1930, un romanzo come La Peur non fu ricevuto proprio benissimo. Non è da escludere che il clima nazionalista e guerrafondaio e la salita al potere di movimenti fascisti siano stati tra i fattori che spinsero Chevallier à scrivere il suo libro, una visione della guerra che sputa in faccia alla prosopopea fascistoide.
I toni che usa sono tali che Olivier Cariguel commenta:
Se avesse confessato le sue riflessioni in piena guerra, Dartemont si sarebbe beccato senza dubbio un plotone d’esecuzione per aver attentato al morale dell’esercito e per antipatriottismo.
Dartemont è un antieroe che non ha vergogna a mettere a nudo il suo lato umano, quel lato che la narrativa cazzodurista disprezza.
Dartemont ha fame, ha freddo, ha paura.
Dartemont non è un eroe di guerra.
Dartemont definisce la Patria:
Né più né meno che una riunione di azionari, né più né meno che un aspetto della proprietà, dello spirito borghese e della vanità.
Non è una sorpresa se, nel 1930, solo giornali di sinistra come Le Canard Enchainé celebrarono La Peur come l’opera fondamentale e la testimonianza imperdibile che è.
Per citare Chevaillier stesso, nella prefazione all’edizione del 1951:
Il libro fu accolto da movimenti diversi, e l’autore non sempre fu trattato molto bene. Ma due cose sono da notare. Degli uomini che lo avevano ingiuriato sarebbero girati male in futuro, il loro valore s’era infatti sbagliato di campo. Quanto ai combattenti di fanteria, scrissero: “Vero! Ecco ciò che sentivamo e non potevamo esprimere”. La loro opinione contava molto.
Il pacifismo di Chevallier non è un puccioso mondo di “volemossebbene”. Nonostante la sua condanna della Grande Guerra sia inappellabile, Chevallier non esclude la guerra a priori. Nel 1939, ad esempio, si accordò col proprio editore per togliere il proprio romanzo dagli scaffali.
Per riprendere l’introduzione del 1951:
Quando la guerra ormai c’è, non è più il momento di avvertire la gente che si tratta di un’avventura sinistra dalle conseguenze imprevedibili. Bisognava capirlo prima e agire di conseguenza.
In altre parole, la guerra è una calamità che umilia, distrugge, degrada l’essere umano. Ma se la si vuole evitare occorre adottare politiche e attitudini appropriate: non ha senso voler fare i pacifisti quando la Divisione Fantasma trancia allegramente attraverso le Ardenne.
Nella stessa prefazione, Chevallier aggiunge:
Nella mia gioventù si insegnava – quando eravamo al fronte – che la guerra era moralizzatrice, purificatrice e redentrice. Abbiamo potuto constatare le implicazioni di questi slogan ripetuti in continuazione: smerciatori, trafficanti, mercato nero, delazioni, tradimenti, fucilazioni, torture, tubercolosi, tifo, terrore, sadismo e fame. E dell’eroismo, d’accordo. Ma la piccola, l’eccezionale proporzione di eroismo non riscatta l’immensità del male. D’altro canto pochi sono tagliati per l’eroismo. S’abbia la lealtà di convenirne, noi che ne siamo tornati.
La grande novità di questo libro, il cui titolo era una sfida, è ciò che dicevamo [al fronte]: ho paura.
Nei “libri di guerra” che avevo letto la paura era a volte menzionata, ma si trattava di quella degli altri. L’autore era un personaggio flemmatico, così occupato nel prendere appunti che se la rideva degli obici.
L’autore di questo libro considera che sarebbe improbo parlare della paura dei propri compagni senza parlare della propria. Ragion per cui ha deciso di prendersi la responsabilità della paura, prima tra tutte la propria. Quanto a parlare della Grande Guerra senza parlare della paura, senza metterla in primo piano, sarebbe stata fumisteria. Non si vive nei luoghi dove si può essere squartati in ogni istante senza provare una certa apprensione.
Capo, credo di star provando una certa apprensione
Al di là del messaggio politico di Chevallier, Dartemont è un personaggio notevole nell’orizzonte della narrativa maschile: lo era nel 1930 e lo è tutt’ora.
Come sa chi ha letto il mio commento a quella porcheria esilarante di Educazione Siberiana, spesso nei film di “Uominiveri per Uominiveri” il protagonista è uno tostissimo che fa cose tostissime per un’ore e mezza, e i romanzi non se la cavano granché meglio. Questo comporta due problemi: tanto per cominciare non può esserci vero coraggio se non c’è paura (sicché la storia raccontata è semplicemente inutile), e in secondo luogo questo tipo di storie, quando troppo pervasive, rinforzano un mito dannoso di forza e virilità, con conseguenze indirette negative sui lettori.
Dartemont è un personaggio che rivendica la propria vulnerabilità e la propria paura. E’ un personaggio che espone la propria fragilità umana senza pudore, con onestà e insolenza. E’ un personaggio che lotta per sopravvivere, ma che si mette a rischio quando riconosce la disperazione rassegnata negli occhi di un compagno.
Dartemont offre un modello dove la vera forza non è la violenza guerriera (che pure fa parte della vita in trincea), ma l’onestà di ammettere: ho freddo, ho fame, ho paura. Ed è accettando la propria paura e la legittimità del suo desiderio di restare in vita che Dartemont mantiene la propria sanità mentale e la propria vita.
Quella di Chevallier non è l’unica esperienza della Grande Guerra. Come accennato, altri reduci l’hanno vissuta in modo diverso. Ma allora come oggi La Peur resta un romanzo narrativamente e politicamente importante, che in troppo pochi hanno letto.
MUSICA!
P.S. nel 2015 i francesi hanno realizzato un film sul romanzo, ma non l’ho ancora visto quindi non so se consigliarvelo. Qui il trailer.
Bibliografia
CARIGUEL Olivier, Revue des Deux Mondes, 2008, p.182
CHEVALLIER Gabriel, La Peur, ed. Le Dilettante, Parigi, 2008
CHEVALLIER Gabriel, trad. CARRA Leopoldo, La Paura, Adelphi, 2011
RIEUNEAU Maurice, Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Klincksieck, Parigi, 1974
SICARD Claude, Revue d’Histoire Litttéraire de la France, vol. 76, n.3, 1976, p.500-507
Pagina Wiki su Chevallier (FR)