Storie che precorrono i tempi: Gaslight

Contrariamente a quanto si possa pensare, la Tenger non è stata arrestata per traffico illecito di foto di gatti, si è solo trovata imburbata in un ginepraio di grane di cui 65% legate all’Obsolescenza Programmata degli anziani del clan.

Per celebrare le fine di questo intervallo di grane, ho deciso di parlare di un argomento leggero e piacevole: la tortura psicologica.

Oggi parliamo di Gaslight.

gaslight!

Public Service Announcement: gaslighting

In molti avrete sentito questo termine buttato in giro: gaslighting. La American Dialect Society lo aveva selezionato come “Most Useful/Likely to Succeed” come parola dell’anno per il 2016.

In fin dei conti vinse “dumpster fire” (lol), ma è vero che gaslighting è diventato molto popolare da quando Trump è al governo (incredibile, lo so).

Trumpismo a parte, gaslighting è comunemente usato per descrivere situazioni di maltrattamento coniugale, sette religiose e propaganda politica per mentecatti.

Il termine gaslighting indica una serie di comportamenti che mirano a invalidare e demolire la percezione della realtà dell’interlocutore, i suoi sentimenti e i suoi limiti.

In un articolo del 22 gennaio di quest’anno, Psychology Today elenca 11 segni allarmanti associabili con il galighting: tra questi spicca mentire in modo sfacciato, negare l’evidenza, l’uso del ricatto affettivo come arma, una discrepanza marcata tra le parole e le azioni…

“Lo sai che ti amo tantissimo e voglio solo proteggerti, non ho mai detto che non mi fido di te, e non è vero che ti ho dato della puttana, pensa a come ci resterebbero i bambini se dovesse succederti qualcosa, e hai considerato come mi sento io quando vai fuori vestita così? TORNA QUI, MALEDETTA PUTTANA!”

Insomma, ci siamo capiti.

A tutti è successo di essere vittime di una o più di queste tecniche, nell’intimità della propria famiglia, in ufficio o in pubblico. Chi si ricorda quel momento magico in cui Kellyann Conway, consigliere della Casa Bianca, coniò il termine alternative facts?

Il termine comincia a essere usato in Psicologia negli anni ’60: nel 1969 Barton e Whitehead lo usano per descrivere dei casi in cui tecniche del genere sono state impiegate per ottenere che un parente molesto fosse diagnosticato matto e rinchiuso.

In realtà già negli anni ’50 questo tipo di rapporto patologico interessava i ricercatori. Nel 1954 Revitch parla di “paranoia coniugale”, ovvero un fenomeno in cui nella coppia l’individuo con sintomi ansiosi è quello sano e il vero malato è quello che pare del tutto asintomatico.

Nel1955 Arieti si preoccupò di studiare i meccanismi perversi attraverso cui un soggetto patologico riesce a “far impazzire il partner”, in particolare creando situazioni tali da scatenare stati psicotici in qualcuno di sano mentre la persona veramente malata (all’origine della situazione) non mostra alcun segno di psicosi.

Il gaslighting richiede 2 soggetti: chi lo pratica, e una vittima suscettibile (per qualsivoglia ragione) di interiorizzare ciò che il gaslighter proietta su di loro. In “The Gaslighting Syndrome”, comparso nel Canadian Journal of Psychiatry nel 1982, Kutcher afferma che caratteristiche essenziali per questo fenomeno in seno a una coppia sono: una relazione sadomasochistica tra i coniugi, gelosie sessuali e un tentativo deliberato, da parte del partner aggressivo, di porre fine alla relazione facendo ricoverare il congiunto.

Come sottolineato da Sweet in “The Sociology of Gaslighting”, uscito l’anno scorso nell’American Sociological Review, il gaslighting non ha solo una dimensione psicologica, ma sfrutta il contesto culturale e sociale contingente, come ad esempio un’associazione culturalmente radicata tra femminilità e irrazionalità. Certi contesti si prestano più di altri a questo tipo di tortura psicologica.

E’ però interessante notare che il termine non nasce nel contesto della medicina psichiatrica.

“Gaslight” o “Gaslighting treatment” era un’espressione gergale in America già negli anni ’50, comparendo per la prima volta in televisione in un episodio di The Burns Allen Show del 1952

Ma da dove viene il termine?

La risposta più succinta è: da un teatro londinese. Ma andiamo con ordine.

Gaslighting: What You Need to Know – HAWC

E’ il 1944, e sul grande schermo esce Gaslight, un film gotico di ambientazione vittoriana, protagonista la giovane Paula (Ingrid Bergman) e il suo esotico e misterioso marito Gregory (Charles Boyer).

Il gotico è un genere che nasce nel romanzo nel XVIII° e resta particolarmente popolare per più di duecento anni, specie tra le donne. E’ generalmente caratterizzato da una protagonista femminile che si trova confinata in una magione, attorniata da minacce misteriose, di solito associate in qualche modo alla sfera sessuale.

Tra 1940 e 1948 il cinema americano produce una notevole sventagliata di filmoni gotici, da Rebecca (1940) a Sleep My Love (1948). Le storie di questo tipo hanno spesso elementi ricorrenti: una protagonista giovane e innocente incontra un uomo affascinante, misterioso (spesso più anziano), per cui prova attrazione e timore. Dopo un breve ed appassionato corteggiamento, la pollastra sposta il Bello Misterioso e i due rifluiscono in una Casa Gigante e Antica legata in qualche modo al passato o al lignaggio di uno dei due. Lei si trova quindi smarrita e imprigionata nel palazzo, dove si manifestano fatti sempre più strani e inquietanti, che la portano prima a dubitare dell’amore del Bello Misterioso, e poi a chiedersi se il tizio non voglia farla fuori.

Rebecca (1940) | Rhyme and Reason
-In che storia siamo?
-Una dove la fanciulla giovane e naive sposa il bello ricco e misterioso. incontrato ieri

-Voglio scendere!

Il fatto che gli anni ’40 conoscano un revival di questo genere di esplorazione freudiana del sesso non deve sorprendere: questi film tendono a essere popolari presso le donne, e durante la guerra le donne diventano un pubblico pagante moto importante per l’industria.

Non solo: il gotico ha spesso un potenziale sovversivo non indifferente. Il genere è stato spesso interpretato come un’allegoria della donna che, trovandosi stretta nel suo ruolo tradizionale di mogliettina ingenua e obbediente, cerca di liberarsi dal controllo del marito-padrone (letteralmente la donna imprigionata in una casa antica e cadente).

Negli anni ’40, molte donne si trovano a dover abbandonare quello che era considerato il loro ruolo tradizionale di casalinghe, finiscono in fabbrica, finiscono nell’esercito. Come era già accaduto durante la Prima Guerra Mondiale, si apre un periodo di transizione in cui i ruoli sociali sono rimessi in discussione e molte si ritrovano a svolgere mestieri considerati fino ad allora prettamente maschili.

A questo proposito consiglio un video del mio divulgatore preferito, Indy Neidell.

La situazione evolve bruscamente quando, finita la guerra, centinaia di migliaia di donne si trovano ricacciate a pedate nei loro vecchi ruoli, cosa che lascia molte confuse, insoddisfatte, e con la netta sensazione di essersi fatte fregare.

Non solo: subito prima dell’entrata in guerra gli Stati Uniti avevano registrato un boom senza precedenti di matrimoni affrettati. E ora che Johnny torna dalla guerra bello spettinato dallo shellshock e pieno di malattie veneree fino agli occhi, arriva il boom dei divorzi e delle separazioni. Pure questo ha contribuito al successo del motivo dello “sposare uno sconosciuto e trovarsi imprigionata in una situazione orribile” così comune nel gotico.

In generale, il gotico parla di una donna che si trova in una situazione nuova e potenzialmente pericolosa che non sa bene come interpretare. La sua percezione del mondo è valida? I suoi sospetti sono giustificati? O è solo una fanciulla confusa (e un po’ frigida) che semplicemente non capisce?

Il famoso ma sono io che sbaglio?

Un sentimento che doveva accomunare molte donne in quel decennio.

Nei film gotici di inizio decennio, i sospetti di lei si avverano di solito errati, come in Rebecca (1940) o in Suspicion (1941). No, il marito non la odia/non sta cercando di ucciderla, è lei che ha frainteso. Il lieto fine viene quindi concesso a un prezzo: l’invalidazione dell’esperienza della protagonista. Il nemico non è mai stato il marito (anche se magari questi compie atti oggettivamente aberranti durante il film): il nemico sono le insicurezze che offuscano la testolina innocente di lei. Il film è visto dal punto di vista di lei, ma, per nostra fortuna, c’è un personaggio maschile (il marito), che ha la capacità di correggere i vizi nella percezione di lei e svelare l’inghippo.

La cosa interessante è che nel contesto culturale dell’America del 1941, non proprio il picco del femminismo, molti spettatori non apprezzano questo tipo di twist. Probabilmente essendo stati portati a vedere il mondo dal punto di vista di lei, la facile risposta “no, va tutto bene, sei tu che sei insicura e non capisci” non poteva essere soddisfacente. In altre parole, gli sceneggiatori facevano del gaslighting nei confronti del pubblico, e ciò non è mai soddisfacente.

Nel 1941 ancora non esisteva una parola per descrivere questo ribaltamento arbitrario della realtà, ma Hollywood percepisce presto che una fetta del pubblico pagante non è contento. Nei film di durante e dopo la guerra, la struttura del film cambia, si risolve con una validazione dell’esperienza di lei. Sia in Shadow of a Doubt (1943) che in Sleep, My Love (1948) i sospetti di lei sono più che fondati.

Fino a Rebecca il Bello Misterioso, l’Eroe “Byroniano”, è qualcuno che sotto gli spigoli ama teneramente l’eroina (lei è troppo immatura per rendersene conto, poverella). Ma con la guerra la musica cambia.

Il comportamento rude e paternalistico, segno di affetto e di mascolinità fino al 1941, cessa di essere considerato tale. Non è un tratto mascolino, è un campanello di allarme che suggerisce gravi turbe nel personaggio maschile.

In questa seconda fase i mariti sono predatori che stanno deliberatamente demolendo la sanità mentale delle mogli, distruggendo la loro fiducia in loro stesse e nel proprio giudizio. Non solo: spesso in questi film il marito sfrutta il vantaggio sociale ed economico offertogli dal contesto per imprigionare e maltrattare la moglie, aggiungendo una sottile critica politica.

Hitchock Pitches 'Curve Balls' During Film Festival | WGLT
-Credimi, sono una brava persona!
-Uh oh, nice guy alert…

Ma non crediate: questi film sono comunque tirati fuori da Hollywood, e il messaggio potenzialmente sovversivo del gotico viene ovviamente stemperato e smorzato: è sempre un personaggio maschile a confermare l’esperienza dell’eroina, a confermare che i suoi sospetti sono legittimi. Come si accennava in questo articolo, alla fine la narrativa dominante è comunque la narrativa della classe dominante.

Nei film americani spesso questo deuteragonista positivo è giovane e figo e con un interesse romantico più o meno credibile verso la protagonista. Il messaggio implicito è che il sistema patriarcale in cui si svolge la storia (che pure ha permesso al cattivo di angariare la protagonista per due ore di film) non ha niente che non va, è lei che ha scelto male il marito. Al secondo giro andrà tutto certamente meglio. Si capisce che questo nuovo arrivato è più gentile, che sarà comunque il partner dominante (ovvio!), ma che sarà meno tirannico e autoritario dell’altro.

Ti senti oppressa da una società patriarcale? Prova il Patriarcato-light!

La versione americana di Gaslight si situa perfettamente in questa vena.

Le origini

Gas Light - Wikipedia

Gas Light nasce il 5 dicembre 1938 nel Richmond Theater di Londra: si tratta di un thriller in tre atti ambientato nel 1880, frutto della penna di Patrick Hamilton.

Hamilton, commediografo e romanziere, è anche l’autore della pièce originale Rope (1929), adattata da Alfred Hitchcock nel 1948 e già citata da questo blog in riferimento alla tecnica della finta scena-continua, perfezionata in modo straordinario nel recente 1917.

Nella pièce, Bella è la moglie infelice e nervosa di Jack Manningham, un marito tirannico, distante e infedele che non perde mai occasione di bistrattare la moglie e i suoi bizzarri comportamenti. Comportamenti di cui Bella non ha assolutamente memoria, ma che Jack insiste essere frequenti e molesti.

Ogni notte, Jack esce senza offrire troppe spiegazioni. Bella nota che durante l’assenza del marito, le luci a gas della casa baluginano in modo inconsueto, ma Jack è categorico: non c’è nessuna anomalia nell’impianto, Bella vede roba che non esiste, Bella sta diventando pazza ed è ormai una un fardello senza valore sulle sue spalle.

La crudeltà di Jack è resa efficace non solo dal contesto storico e sociale in cui si svolge il dramma (in quanto moglie, Bella è letteralmente alla mercé di suo marito), ma fa leva sulle debolezze e il trauma pregresso di Bella: la madre di lei è impazzita, e Bella teme di finire nella stessa maniera. Un timore che Jack conosce e sfrutta senza ritegno.

Gas Lighting in the Victorian Age | Ringling House Bed and Breakfast
Luce a gas in casa: in miglior modo per leggere la sera o morire avvelenati nella notte!

Bella comincia a credere di star davvero impazzendo, quando si presenta alla porta un poliziotto: Rough, lo sbirro, le racconta che la casa dove abita era una volta la residenza di una ricca donna di nome Barlow, assassinata da qualcuno che certamente cercava i suoi famosi e preziosi gioielli. Né l’assassino né i gioielli sono mai stati trovati, ma Rough ha il forte sospetto che Jack sia legato a questo vecchio crimine.

La pièce ha successo, e arriva trionfante in America col nome di Angel Street, dove per 3 anni di fila è ripetuta a Broadway, recitata da niente meno di Judith Evelyn (Rear window, 1954; Giant, 1956) e il leggendario Vincent Price (A Royal Scandal, 1945, Abbott and Costello Meet Frankenstein, 1948, House of Wax, 1953, House of Usher, 1960… insomma, una frana di film, molti horror, è Vincent Price, Rattigan in The Great Mouse Detective, sapete chi è!).

Making the Unbelievable Believable: Vincent Price on Playing the Villain,  Elizabethtown, KY, 1980 | Seeker of Truth
Vincent Price e Judith Evelyn

Visto che era andata così bene a teatro, gli inglesi decidono di adattarla per il cinema.

Il primo film

Gaslight (1940) - IMDb

Nel 1940 Gaslight esce in sala sotto la direzione del prominente regista Thorold Dickinson (alcuni lo conosceranno per The Queen of Spades, 1948). Nel ruolo dei due personaggi principali abbiamo Anton Walbrook (Victor and Victoria, 1933, The Life and Death of Colonel Blimp, 1943, The Queen of Spades, 1948, I Accuse!, 1958) e Diana Wynyard (On the Night of the Fire, 1939, Kipps, 1941).

Entrambi sono già attori famosi nel 1940. Walbrook è di origini austriache, e questo viene inserito nel film, dove il marito, ora chiamato Paul Mallen, parla con un indefinibile accento e ha misteriose origini forestiere. E’ ormai cominciata la Seconda Guerra Mondiale, e sia nel film originale che nel remake americano il cattivo diventa uno straniero, un continentale.

Gaslight (1940 and 1944) | Movie classics
“I fart in your general direction!”

L’originale inglese segue molto da vicino la pièce teatrale. Ms. Boyer è una ricca zitella. Tra i suoi vari beni, un pugno di rubini che da soli valgono migliaia e migliaia di sterline.

Una notte, un ladro aggredisce Ms. Boyer e la uccide, ma, pur mettendo a soqquadro la casa, è chiaro che non riesce a trovare i rubini. Sconfitto, l’assassino strappa al cadavere un medaglione e fugge.

Anni dopo, il detective Rough esce di messa in Angel Street, accanto alla casa del crimine, e nota che la villa è di nuovo abitata. I nuovi inquilini sono un uomo dall’aria familiare e la moglie, una donna dallo sguardo nervoso, infelice e sfuggente. Rough era nella squadra che per prima investigò l’omicidio in Angel Street, e il delitto irrisolto gli è sempre rimasto di traverso, anche perché Rough aveva un sospetto: il nipote della vittima. Purtroppo l’indagine si era conclusa in un nulla di fatto.

I nuovi arrivati però risvegliano la vecchia ossessione di Rough, che decide di ficcanasare con discrezione.

Viene presto a sapere che si tratta effettivamente di una coppia sposata: Bella e Paul Mallen, e che lei, a detta della serva, è un po’ pazza. Si dimentica cose, è cleptomane, nasconde oggetti a caso per poi scordarsi dove li ha messi…

Molto presto scopriamo che in realtà Paul Mallen sta attivamente minando la salute mentale di sua moglie. E’ Paul che nasconde gli oggetti, ed è Paul che alza la voce, si mostra ferito e offeso quando lei protesta la propria innocenza, è Paul che relega la moglie in casa e la isola dalla famiglia, perfino dal cagnolino di lei, l’unica creatura che le è rimasta come compagnia.

Nel suo pezzo “Two or three things I know about Gaslight”, Sarris afferma che i personaggi della pièce e del film non sono veri e propri personaggi quanto “tipi”: la mogliettina virtuosa e vittima, il marito malvagio, la cameriera zoccola…

In realtà i profili psicologici di Bella e Paul sono estremamente raffinati, e corrispondono alle caratteristiche descritte dalla psicologia 30 anni dopo il film.

Bella è cresciuta in un contesto estremamente patriarcale. Capiamo che è orfana e che è cresciuta con dei cugini, cosa che può averla resa particolarmente vulnerabile al love-bombing di un abile manipolatore. Sappiamo che ha sposato Paul nonostante i suoi cugini disapprovassero, e che si è trovata gradualmente isolata e allontanata da amici e parenti. Sola e lontana da ogni altro contatto umano che non sia il marito, Bella esita perfino a comparire a una finestra, per paura di indispettire Paul, da cui ormai è del tutto dipendente (economicamente ma anche emotivamente). L’unico suo affetto è ormai un cagnolino, ma pure questo non va bene, e Paul le vieta di tenerlo in carte stanze, spesso con la velata minaccia di sbarazzarsene proprio.

Bella non crede di essere pazza, Bella sa di non aver nascosto oggetti, ma non ha altri riferimenti che Paul. Rinchiusa in casa, privata di ogni possibile contatto umano, Bella gradualmente deperisce.

Il personaggio di Paul è uno dei migliori antagonisti che mi sia capitato di vedere in un melodramma.

Paul è freddo e calcolatore, ma assolutamente capace di apparire affezionato e gioviale. Paul alterna la tortura psicologica a momenti di apparente tenerezza e attenzioni. Paul scherza, sorride, suona il pianoforte per sua moglie, e per un attimo possiamo capire come Bella si sia innamorata di lui. E’ bello, sicuro di sé, protettivo, sagace.

Ma non è che una strategia, volta a rinforzare la dipendenza psicologica di sua moglie. Da un momento all’altro, Paul cambia. Umilia Bella flirtando apertamente con la cameriera, la accusa di essere una cleptomane, mente spudoratamente e nega di aver mentito anche davanti all’evidenza, torreggia su Bella, la minaccia, ma soprattutto la incolpa. E’ colpa di Bella se il loro matrimonio non funziona, è colpa di Bella se lui si arrabbia, è Bella che lo costringe a prendere certi provvedimenti.

In un passaggio particolarmente angoscioso, Bella supplica il marito di permetterle di andare a trovare i cugini. Paul ovviamente è irremovibile, ma per consolarla le propone di uscire. E’ qualcosa che non fanno da tantissimo tempo, e che riempie Bella di gioia. Ma è subito chiaro che Paul non ha un momento di compassione, e che si tratta dell’ennesimo trucco.

Lo scopo di Paul è presto chiaro: far ricoverare Bella.

Come accennato, il contesto storico e culturale entra in gioco: quando il cugino di Bella si presenta alla porta, preoccupato per lei, Paul ha ogni diritto di impedire l’incontro, ed è precisamente ciò che fa. Bella sembra non avere scampo.

Il titolo del film, come quello della pièce originale, deriva dal baluginio dei lumi a gas. Nottetempo, Paul sgattaiola nell’attico della casa, dove è ammucchiata la roba della morta, e cerca i rubini. Questo provoca rumori di passi e una fluttuazione nella fiamma dei lumi, che Bella nota subito. Quando Bella prova a parlarne con Paul, Paul semplicemente nega e la tratta come una pazza.

Fuori dalla casa, Rough e la famiglia di Bella si organizzano per soccorrerla prima che il marito provochi troppi danni e prima che la faccia rinchiudere in un grullocomio.

Come si intuisce presto, Rough scopre che Paul è molto probabilmente il nipote e l’assassino di Ms Boyer e che è tornato con un nuovo nome per cercare i rubini.

In un’ultima scena, Bella ha l’occasione di prendere la sua rivalsa sul marito, ed è alla fine di questo momento culmine che i ruoli si ribaltano completamente. Appare finalmente chiaro che Paul non è solo una carogna, Paul è malato. E’ pazzo da legare. E’ sempre stato pazzo da legare, lo era quando ha strangolato Ms Boyer e lo era mentre torturava sua moglie.

Un pazzo che pur avendo sposato una bella donna innamorata, obbediente e ricca, è rimasto fissato in modo maniacale sui famosi rubini. Quando riesce a liberarsi, Paul non cerca di scappare o di aggredire Bella: Paul si getta sui rubini. La recitazione di Walbrook è eccellente in questo frangente e veicola in modo efficace la profonda malattia di Paul.

Il remake

Gaslight (1944) Official Trailer - Charles Boyer, Ingrid Bergman Movie HD -  YouTube

Il film non fu preso molto sul serio dalla critica, ma al pubblico piacque. Dopo il discreto successo della pièce a Broadway, i diritti per il film furono comprati dalla Metro-Golwyn-Mayer, che pretese la distruzione di tutte le copie esistenti dell’originale inglese. Altro che cancel culture!

Per nostra fortuna, la MGM non riuscì ad annientare l’originale, che restò praticamente introvabile fino agli anni ’70.

Nella versione americana, proiettata nel 1944, i personaggi sono ribattezzati Paula (Ingrid Bergman) e Gregory Anton (Charles Boyer). Ah, e la cameriera zoccola è interpretata da una giovane Angela Lansbury!

A Penchant for the Master: Angela Lansbury in Gaslight – Pale Writer
“Da grande voglio fare l’assassina seriale la romanziera di gialli”

Il regista a questo giro è il leggendario George Cukor, conosciuto in particolar modo per la maestria con cui riusciva a mettere in scena i personaggi femminili. Per molti si tratta di un vero e proprio “regista delle donne” (che non era un complimento ai tempi e lui non era proprio entusiasta di questo appellativo).

Di sicuro molti conosceranno almeno alcuni dei film di Cukor: Little Women (1933), fu il primo regista di Gone With the Wind (1939, poi rimpiazzato da Victor Fleming), My Fair Lady (1964), Love Among the Ruins (1975)…

Charles Boyer aveva già avuto una carriera degna di nota, tra cui alcuni classici come Break of Hearts (1935) o Hold Back the Dawn (1941), spesso nei panni dell’amante sensuale e vagamente esotico. Quanto a Ingrid Bergman, la nostra aveva pure all’attivo una serie di film notevoli, tra cui Dr Jekyll and Mr. Hyde (1941), Casablanca (1942) e For Whom the Bell Tolls (1943), per il quale era stata anche nominata come Miglior Attrice. Niente Oscar per la Bergman nel 1943, ma niente paura, arrivò nel 1944 proprio per il suo ruolo in Gaslight!

Il remake resta molto simile al film originale, ma cambia numerosi elementi di contorno che conferiscono un carattere molto diverso alla storia. Tanto per cominciare il film americano è più lungo di ben 30 minuti rispetto all’originale inglese. Nell’originale la storia comincia a un punto in cui Paul ha iniziato a maltrattare e isolare la moglie già da un po’. La manipolazione e il love-bombing sono insinuati, intuibili.

Il remake mostra invece l’inizio della relazione. Se da un lato non si sente la mancanza di questo preambolo nel film inglese, dall’altra questa parte del film americano è narrata in modo sottile ed elegante. Rispetto a quello inglese, il film americano ritarda moltissimo la rivelazione che Gregory non è una così brava persona. Allo stesso tempo gli indizi sono presenti sin dalle primissime scene.

All’inizio della loro relazione, Paula ha dei dubbi: tutti sta andando troppo velocemente. Decide quindi di prendersi una settimana di solitudine per riflettere a mente fredda se vuole davvero posare un uomo incontrato 15 giorni prima oppure no. Gregory sembra accettare questa pausa senza fare una piega, ma quando Paula arriva alla stazione di Como lui è già lì ad aspettarla. Un gesto apparentemente romantico, che Paula prende benissimo, ma che chiaramente viola un limite che lei aveva posto.

Anche dopo il matrimonio diventa presto chiaro che sotto la patina di premura e protezione, Gregory infantilizza e isola sua moglie. Presto, Gregory crea situazioni che causano grande ansia a Paula, ma da cui lei non può districarsi senza contravvenire alle norme sociali del contesto. E alla fine, manipola la conversazione finché non è Paula a chiedere scusa a lui.

L’originale inglese è estremamente circoscritto: a parte pochissime scene al commissariato, in una villa o in un cabaret, la quasi totalità della storia si svolge nella casa o nella piazzetta antistante. Il film americano invece si sbraca su numerose location diverse, da Venezia, alla Torre di Londra.

Uno dei cambiamenti più radicali è però il personaggio del detective: nell’originale Rough è un panciuto sbirro determinato a intervenire per una questione di giustizia e per soccorrere una donna che non conosce (e che non ha particolare intenzione di conoscere) ma che si trova nei guai fino al collo. Rough è disinteressato e umano.

Ma in America, per citare Hellzapoppin’!, ci vuole una storia d’amore eterosessuale e monogama, sennò Gesù piange. Quindi il vecchio Rough viene tosto sostituito dal giovane e cavalleresco Brian Cameron, detective anche lui, con una cotta molto improbabile per Paula (che ha visto di sfuggita una volta per la strada e con cui non ha mai parlato, ma bon, è la Bergman, un po’ si capisce).

La fine

Il film inglese si chiude a chiasmo con l’inizio: in una delle prime scene, Bella appare da dietro una finestra chiusa, per fare timidamente segno a un venditore di muffins. Alla fine, solo lei, suo cugino e Rough restano a casa. Rimasta sola con chi la ama e la rispetta, Bella apre le tende ed esce sul balcone, lasciando entrare la luce del giorno, sul suo viso un misto di sgomento e sollievo. Il suo matrimonio è finito, ma Bella non è sola, è libera di ricostruirsi.

Il film americano si chiude con Brian e Paula sul tetto della casa. Il cielo è buio e nuvoloso, ma Brian le assicura che l’alba si avvicina. Le chiede di poterle fare visita in futuro, e Paula accetta di buon grado. Il film si chiude con un bit comico da parte dell’impicciona del posto, che reagisce alla scena con pettegola sorpresa.

Come interpretare questo cambio radicale di fine?

Come nota Hagberg in Stanley Cavell on Aesthetic Understanding, la fine del film di Cukor può essere interpretata come positiva… o anche no. Hagberg nota che la scena ricorda moltissimo quella in cui Paula incontra Gregory alla stazione (anche in quel caso troviamo il personaggio comico dell’impicciona), e sottolinea che Brian, come Gregory, non conosce davvero Paula: sta proiettando su di lei una fantasia romantica del tutto infondata. L’implicazione sarebbe quindi che il pattern è destinato a ripetersi, perché la cultura e la società in seno a cui si è svolta la vicenda non sono cambiate, e si prestano quindi a una ripetizione del fenomeno. Paula non può davvero liberarsi dell’influenza di uomini che non la conoscono davvero: in un sistema ingiusto possono esistere solo cattive scelte.

A mio modesto parere si tratta invece di un finale positivo, almeno in principio. Paula si trova sì in un posto buio e solitario, ma Brian le promette la luce: compagnia, un nuovo inizio. L’apparire dell’impicciona potrebbe essere semplicemente un elemento comico che alleggerisce il tono drammatico delle ultime scene. La reazione positiva di Paula e la musica celebrativa che segue con i titoli di coda suggeriscono che Brian sarà un buon partner, il patriarca-light di cui si è parlato prima.

Personalmente preferisco la fine inglese per due ragioni:

1-E’ palese che l’ossessione di Gregory per i gioielli è morbosa e irrazionale. Si capisce che, tra lui e Paula, quello patologico è sempre stato lui. Ma Gregory resta comunque padrone di sé fino alla fine, al punto da razionalizzare la propria situazione fino all’ultimo: “tra noi due ci sono sempre stati qui gioielli”. Gregory non perde mai la sua compostezza.

Al contrario, nel finale inglese Paul si rivela essere un vero e proprio squilibrato. Appena rimasto solo con sua moglie, Paul non le chiede subito di liberarlo: le prime parole che pronuncia sono “i rubini”. Paul non è un delinquente affetto da una malsana ossessione: Paul è del tutto disconnesso dalla realtà.

La Psicanalisi ci dice in effetti che spesso, in casi di gaslighting, quando la vittima smette di essere ricettiva al trattamento, è il gaslighter (la persona davvero patologica nella coppia) che sviluppa sintomi. Uno di questi casi è proprio citato da Calef e Winshel nel loro articolo del 1981.

E’ straordinario constatare che la risoluzione di un film del 1940 sia così vicina alla teoria ufficiale della Psicoanalisi di 30 anni dopo!

2-Mentre l’intervento di Rough è disinteressato e motivato da uno slancio puramente altruistico, quello di Brian non lo è. Brian ha una cotta per Paula, ergo un interesse personale non indifferente. Non che ci sia niente di male con un personaggio che fa la cosa giusta per interesse personale, ma è una storia che ciccia fuori troppo spesso per i miei gusti, Preferisco di gran lunga una storia in cui il personaggio fa la cosa giusta perché è la cosa giusta.

Fine spoiler

Resta il fatto che i due film restano eccellenti e consiglio la visione di entrambi. Si tratta di storie che letteralmente precorrevano i tempi: questo tipo di manipolazione, così studiata a partire dagli anni ’60, viene perfettamente analizzata e mostrata.

Gaslight 1940

Recitazione Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.pngQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png
Analisi psicologica dei personaggiQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png 
SceneggiaturaQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png 
Narrazione densa e concisaQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png 
FinaleQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png 

Gaslight 1944

RecitazioneQuesta immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png 
Analisi psicologica dei personaggi Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png
Descrizione elegante della fase iniziale della relazione Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png
Sceneggiatura Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png
Narrazione più elaborata e dettagliata Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png
Brian Bad_grumpy
Scena clou subito prima del finale Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è good_grumpy.png

MUSICA!


Bibliografia e letture aggiuntive

Il fenomeno del gaslighting

BARTON Russell, WHITEHEAD J. A., « The gas-light phenomenon », The Lancet, 1969

CALEF Victor, WEINSHEL Edward M., « Some Clinical Consequences of Introjection: Gaslighting », The Psychoanalytic Quarterly, gennaio 1981

KUTCHER S.P., « The Gaslight Syndrome », The Canadian Journal of Psychiatry, 1982

SMITH C., SINANAN K., « The ‘Gaslight Phenomenon’ Reappears: A Modification of the Ganser Syndrome », British Journal of Psychiatry 1972

SWEET Paige L., « The sociology of Ghaslighting », American Sociological Review, 2019

YAGODA Ben, How old is gaslighting

11 segno di gaslighting: https://www.psychologytoday.com/us/blog/here-there-and-everywhere/201701/11-warning-signs-gaslighting

https://www.theringer.com/2017/2/21/16038252/the-origin-of-gaslight-the-buzzword-for-trumps-america-c1131a1afa2a

Il film

Gaslight 1940

CLARENS Carlos, « The Cukor Touch », Film Comment 19, no. 2, 1983

HAGBERG Garry L., Stanley Cavell on Aesthetic Understanding, Palgrave MacMillan, Harfield, 2018

LEITCH Thomas M., « Twice-Told Tales: The Rhetoric of the Remake », Literature/Film Quarterly 18, no. 3, 1990

ROSEN Marjorie, « How The Movies Have Made Women Smaller Than Life », Journal of the University Film Association 26, 1974

SARRIS Andrew, « Two or three things I know about Gaslight », Film Comment 12, no. 3, 1976

SUH Judy, « Women, Work, and Leisure in British Wartime Documentary Realism », Literature/Film Quarterly 40, no. 1, 2012

WALDMAN Diane, « “At Last I Can Tell It to Someone!”: Feminine Point of View and Subjectivity in the Gothic Romance Film of the 1940s », Cinema Journal 23, no. 2, 1984

La pagina wiki della pièce originale

La pagina wiki di Patrick Hamilton

La pagina wiki del primo film

La pagina wiki del remake

La pagina wiki di Thorold Dickinson

La pagina wiki di Anton Walbrook

La pagina wiki di Diana Wynyard

La pagina wiki di George Cukor

La pagina wiki di Charles Boyer

La pagina wiki di Ingrid Bergman

La gloriosa rivoluzione di Croda

E’ il 1916, un giovane operaio e un giovane contadino sono costretti a penare sotto l’oppressiva dittatura dell’Imperatore. Afflitti dal bieco capofabbrica, stanchi, affamati, sono però ispirati dal misterioso Spirito Guida del Socialismo.

Se oggi Croda è un paradiso socialista esemplare per il mondo intero, lo deve prima di tutto all’indefesso lavoro dei suoi due padri fondatori.

Questa è la Storia di Croda.

E’ il 1982, e a Bologna un gruppetto di artisti di strada e animatori di centri estivi mette insieme il Gran Pavese Varietà. Nel gruppo troviamo quelle che diventeranno facce note della televisione degli anni ’80 e ’90: Patrizio Ruggeri, Susy Blady o Stefano Bicocchi.

E troviamo Luciano Manzalini ed Eraldo Turra, in arte Gemelli Ruggeri.

Il gruppo intraprende una buona carriera televisiva, partecipando a programmi di varietà come Drive In o Il Lupo Solitario. Si occupano anche di cinema, in particolare con La voce della luna, di Fellini.

E’ il 1987 quando i Gemelli Ruggeri esordiscono in televisione con dei nuovi personaggi: dei corrispondenti di Croda, un improbabile staterello dell’est Europa. Tema ricorrente: la generale pezzenteria di Croda, caricatura del degrado post-sovietico.

Finora niente di particolarmente notevole: sono comici di varietà che fanno i comici di varietà.

E poi arriva il 1988.

Ruggeri e soci si imbarcano con il regista Cammarota e girano Storia di Croda, un film in 9 puntate.

Il risveglio del proletariato rurale

Storia di Croda è pensato come un film di propaganda bolscevica girato negli anni ’20 e tradotto in un italiano maccheronico per diffondere il messaggio socialista nell’Italia ancora preda dell’artiglio monarchico e capitalista.

In questo somiglia molto a Fascisti su Marte, pure pensato come finto film d’epoca.

L’ispirazione principale è senza dubbio La corazzata Potyomkin di Sergei Eisenstein.

Per chi non avesse visto Fantozzi, si tratta di un film di propaganda bolscevica del 1925 che narra dell’ammutinamento sulla Potyomkin e delle proteste di Odessa, represse nel sangue.

Al di là della vena propagandistica un pelino pesante, il film è giustamente considerato un caposaldo dell’arte, con uno stile drammatico molto riconoscibile. I primi piani, lo zoom su dettagli simbolici, l’uso innovativo del montaggio e la scelta dei piani, lo stile di Eisenstein è tanto memorabile quanto parodiabile.

Storia di Croda pure narra di come lo spirito rivoluzionario si accese nel cuore del popolo.

La trama

Croda è sotto il controllo del bieco Imperatore (Stefano Bicocchi): stupido, crudele, ingordo, è un ritratto quasi accurato di Nicola II.

L’infame Imperatore

[Prima che qualcuno venga ad agitare il ditino nei commenti dicendo che sto esagerando, dirò UNA cosa buona su Nicola, così possiamo passare ad altro: è stato uno dei pochi leader a essere davvero, davvero opposto all’idea di una guerra nel 1914. E se un fesso come Nicola aveva fiutato il disastro, immaginate il livello di ubriacatura pazzoide su cui viaggiavano Tedeschi, Francesi o Austriaci.

Per il resto, sono prontissima a credere che Nicola fosse troppo stupido per essere volutamente crudele, ma era un tiranno, un inetto che -nella migliore delle ipotesi- non ha protetto i suoi sudditi, e in generale una pessima persona. Per queste ragioni dichiaro il blog una Nicholas II Free dunking zone. Ogni battuta o lazzo sarà condonata con materno pat-pat sul capino. Sua moglie è inclusa nella dunking zone]

Relegati ai bassifondi della città vivono un giovane operaio e un contadino a cui i malvagi Cosacchi hanno rubato l’unico pollo. Il film non dà loro nomi, ma per semplicità li chiameremo rispettivamente Lebin e Stalimb.

Un giorno, dopo l’ennesima prepotenza subita dal capofabbrica, Lebin ha una visione: gli appare Karl Marx con una cuccuma di caffé fumante.

kaffeeeee?

Ispirato dal letterale Fantasma del Comunismo, Lebin inizia a organizzare riunioni e sobillare rivolta, aiutato dall’amico Stalimb, che non è proprio un uomo di pensiero quanto d’azione, ma sa adattarsi.

Le cose precipitano quando, dopo una soffiata del malvagio capofabbrica, i nostri sono denunciati ai Cosacchi. Davanti ai fucili spianati, un rivoluzionari chiede loro se sono davvero pronti a uccidere un fratello, in una scena molto reminescente della mancata fucilazione ne La corazzata Potyomkin.

Davanti ai moschetti dei soldati! (Potyomkin)
Davanti ai moschetti dei Cosacchi! (Croda)

A Croda la risposta è “sì”.

E come ne La corazzata, il sangue del martire scatena la rivoluzione.

I nostri sequestrano un treno per poter portare il messaggio di ribellione nel resto del paese. Ma come fare? Nessuno sa guidare la locomotiva.

Si presenta il capofabbrica pentito, e viene accolto a braccia aperte, perché:

“La rivoluzione sa anche perdonare. Chi sa manovrare la locomotiva.”

Michail Nikolaevič Tuchačevskij - Wikipedia
Well, la rivoluzione non perdona proprio TUTTI quelli che sanno manovrare la locomotiva… vero Mikhail?

Come accennato, i riferimenti ad Eisenstein sono tantissimi. I primi piani sulle espressioni e sugli occhi. Il simbolismo smaccato, come quando i protagonisti consumano il magro pasto e ombre di catene ondeggiano sui loro visi. Il malvagio oppressore che, braccato dai rivoluzionari, si arrampica sul pianoforte per scappare. Numerose scene sembrano dirette citazioni.

“Bing, bang!” fa il revolver
del bieco servo del potere!

Per molti versi Storia di Croda sembra progettato per apparire come la versione più povera e raffazzonata de La corazzata. Una sorta di “imitazione crodese” del cinema russo.

Il malvagio Imperatore
Il crudele comandante della Potyomkin
L’ombra delle catene a Croda
Il sottile simbolismo di Eisenstien

Non si tratta però di una semplice parodia di Eisenstein. Storia di Croda fa anche numerosi riferimenti a fatti storici, come la prigionia di Gramsci o il ritorno di Lenin nel 1917.

Peraltro lo stesso anno uscì una miniserie proprio su Lenin, prodotta dalla Rai e ispirata al romanzo Lenin’s mistress: The life of Inessa Armand, di Micheal Pearson. La serie si intitola, guarda caso, Il treno di Lenin. Nei panni di Lenin troviamo nientemeno che Ben Kingsley, mentre dietro la cinepresa c’era Damiano Damiani.

I più colti lettori lo riconosceranno certamente come il regista di perle del cinema italiano come El Chuncho quien sabe, Il giorno della civetta o l’immortale capolavoro Alex l’Ariete.

La faccia del pubblico quando Alberto Tomba prova a recitare

Altre aggiunte sono macchiette caricaturali anni ’20: Susy Blady è “La Piccola Anarchica”, che arringa la folla e sparge propaganda rivoluzionaria travestita da uomo.

Patrizio Ruggeri è invece il poeta futurista, uno dei miei personaggi preferiti, che viene tosto pestato dagli operai:

“Pim, pum, pam, pam! Rullano i pugni educativi del realismo proletario!”

E questo ci porta a uno degli aspetti migliori: come anche Fascisti su Marte, Storia di Croda conta su una voce narrante in stile ventennio assolutamente deliziosa.

L’accento russo e l’italiano aleatorio sono sufficientemente marcati da essere spassosi, senza essere troppo caricati. E la sceneggiatura è pure curata nei dettagli. Ogni puntata, seppur durando pochi minuti, ha almeno una battuta memorabile, a cominciare dalla prima, quando Lebin deve affrettarsi ad andare a lavoro perché “non c’è tempo per il lamento, la fabbrica non esige ritardi”.

E il finale è pure interessante.

Dico solo che quando l’ho visto con Nursie, il suo commento è stato: “Io me la ricordavo diversa, la storia…”

Beh Nursie, te la ricordavi diversa perché sei stata a sentire la calunniosa propaganda del grasso occidente capitalista!

Foto di Tenger che rieduca le coinquiline, contaminate dall’infame menzogna capitalista

Storia di Croda dura sì e no 40 minuti. E’ particolarmente divertente se avete una qualche pratica dei film di Eisenstein o se siete vagamente familiari con la propaganda russa del periodo, ma non è indispensabile.

Si trova per intero su YouTube.

Anche La corazzata Potyomkin si trova per intero su YouTube, è un’ora e dieci ed è un film storicamente rilevante, quindi se siete in vena di farvi randellare la capoccia da sfacciata propaganda, guardatevi anche quello. Ma Storia di Croda è più corto e, tutto sommato, fa più ridere.

MUSICA!

(Non è metal, ma è appropriata!)


Links

Pagina wiki dei Gemelli Ruggeri

Pagina wiki del film Battleship Potyomkin

Articolo dello Smithsonian sul viaggio di Lenin

L’ammutinamento della Potyomkin

Il pogrom di Odessa del 1905

La Paura, un romanzo coraggioso

La Prima Guerra Mondiale è stata senza dubbio una delle più colossali catastrofi che abbiano segnato la Storia europea. E’ un fenomeno di una vastità e di una complessità straordinarie, con ramificazioni sconfinate che continuano a riecheggiare tutt’oggi nel discorso politico, culturale e artistico. Ancora oggi leggo interventi di gente che cerca di rispulizzirla, di girarla in positivo, tipo “ha cimentato l’Italia come stato-nazione”. Che è un po’ come dire che il bombardamento di Tokyo ha risolto l’annoso problema del traffico, ma vabbé.

Oggi non intendo entrare troppo nella polemica della propaganda nazionalista e low key guerrafondaia, perché questo onore lo lascio tutto al protagonista della nostra storia: il soldato Jean Dartemont!

L’autore

Gabriel Chevallier (@gabrielchevall2) | Twitter

Chevallier is watching you

L’autore dietro le disavventure di Dartemont è Gabriel Chevallier. Chevallier nasce nel 1895 in una famiglia della borghesia Lionese. Ha 19 anni quando scoppia la guerra ed è chiamato alle armi. Appena finito l’addestramento, il nostro viene rimpinzato di schegge e finisce in ospedale. Ristabilito, viene rispedito al fronte, dove si fa il resto della guerra.

Chevallier torna tutto d’un pezzo e campa il resto della vita facendo una serie di lavori, dall’illustratore al giornalista al commesso viaggiatore… allo scrittore.

Chevallier comincia a scrivere nel 1925, basandosi sulla sua esperienza di veterano. Il suo primo romanzo, che ha come narratore il soldato Dartemont (l’autore sotto mentite spoglie), La Peur, è pubblicato nel 1930.

Il romanzo viene ricevuto malissimo.

Il genere

Nel suo saggio Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Rieuneau ha studiato l’immagine della Grande Guerra che emerge dai romanzi dell’epoca. Un migliaio di scrittori si sono trovati sotto le armi, e il loro contributo alla letteratura francese è ricco e variegato.

In particolare, a noi interessa quella che Rieuneau definisce “L’epoca dei testimoni”, ovvero testi scritti da reduci che parlano della loro esperienza diretta.

Il tipo di “romanzo-testimonianza” si diffonde a partire dal 1916. Un esempio emblematico è il famosissimo Le Feu di Henri Barbusse.

Nella ventina di romanzi rappresentativi di questa corrente, vediamo cicciar fuori spesso gli stessi posti, fatti, esperienze. Anche le motivazioni degli autori paiono simili: il bisogno di raccontare la propria storia, e il desiderio che questa storia sia ricordata.

Questo bisogno di parlare del proprio trauma, di vederlo riconosciuto dagli altri, è pressoché universale. E’ uno dei temi principali del documentario The Look of Silence, di Oppenheimer: l’impossibilità di parlare del proprio dolore, di vederlo riconosciuto dai nostri simili, è un ostacolo insormontabile nel processo di lutto che caratterizza, in modo più o meno intenso, il superamento di ogni trauma.

Il fatto che questi romanzi abbiano tutti temi e fatti in comune non significa però che siano libri simili. Come dice Sicard, possiamo distinguere quattro grandi categorie del genere:

  • La testimonianza pura, dritta dritta dalle pagine di diario del combattente
  • La letteratura della smobilitazione, dove non si parla più dell’esperienza diretta del combattimento ma della guerra in generale, come concetto, come fenomeno, la sua natura e ciò che fa agli uomini che ne sono coinvolti
  • Il culto dell’eroismo, ovvero storie che celebrano la guerra come una sorta di catalizzatore esplosivo che fa emergere le migliori virtù dell’uomo. Un caso celeberrimo in questo ambito è quel matto di Montherlant, con La Relève au Matin (1920) o Le Songe (1922)
  • La letteratura di protesta. Ovvero quelli che a Motherlant avrebbero cacciato volentieri uno stivale nel culo. Si tratta di opere diversissime tra loro (Sicard cita Les Drapeaux di Paul Reboux, Le Sel de la Terre di Raymond Escholier o Les Suppliciés di René Naegelen), ma accomunate da un rifiuto della guerra, un’attitudine disincantata o ostile alla prosopopea nazionalista, se non proprio uno slancio internazionalista

Rieuneau identifica questo tipo di romanzo come tipico del decennio 1919-1929. La Peur è un po’ più tardivo, essendo uscito nel 1930, ma si inserisce perfettamente in questo filone.

Nel romanzo, Chevallier rivisita le sue esperienze con lo pseudonimo Jean Dartemont. Attraverso le parole di Dartemont, il nostro racconta la follia della guerra, la paura onnipresente, l’assurdità della propaganda nazionalista, il senso di impotenza e ingiustizia del soldato semplice davanti alla colossale catastrofe del conflitto mondiale.

Il romanzo non è un resoconto pedissequo delle sue disavventure, ma è chiaramente una rielaborazione che mischia esperienze reali e riflessioni politico-filosofiche. Passaggi descrittivi crudi e sinceri si alternano a brani narrati con toni quasi caricaturali, a dialoghi che ricordano i dibattiti platonici, dove Dartemont dichiara le proprie convinzioni. La Peur non è semplicemente una testimonianza, La Peur è un romanzo dichiaratamente, violentemente politico. Ma di questo parleremo più in dettaglio.

Il libro

La Peur - Poche - Gabriel Chevallier - Achat Livre | fnac

Je vais vous dire la seule occupation qui compte à la guerre: J’AI EU PEUR

A 19 anni, Jean Dartemont parte soldato. Non è un convinto nazionalista, ma non è nemmeno un pacifista. E’ giovane e curioso, vuole vedere come una vera guerra è combattuta (perché si sa, a 19 anni siamo tutti immortali).

La curiosità di Dartemont sarà soddisfatta fin troppo alla svelta. Per quattro anni.

La storia, grosso modo, è questa. Non c’è una vicenda strutturata, un arco vero e proprio, se non una progressiva realizzazione dell’assurdità della guerra, la rabbia e la frustrazione all’idea che stai per morire a 19 anni senza nessuna buona ragione, e un’analisi penosa dell’effetto della paura estrema e cronica a cui il fante di linea viene sottoposto.

Chevallier non nega coraggio e l’eroismo, ma non celebra le grandi virtù guerriere, il romanticismo di morire per la Patria. Dartemont e i suoi compagni non sono esempi di eroismo classico. Quello che Chevallier pensa della narrativa romantica nazionalista e militarista è chiaro fin dalle prime pagine:

[NOTA: le citazioni sono prese dalla traduzione italiana, precisazioni in bibliografia]

Quando si è vista la guerra come l’ho vista io viene da chiedersi: «Perché mai si accetta una cosa simile? In nome di quale tracciato di confini, di quale onore nazionale la si può legittimare? Come si può travestire da ideale ciò che è pura delinquenza, e fare in modo che venga approvato?».

Ai tedeschi hanno detto: «Avanti con questa guerra nuova e lieta! Nach Paris e Dio è con noi, per una Germania più grande!». E quei bonaccioni dei tedeschi, che prendono tutto sul serio, si sono messi in marcia per la conquista trasformandosi in bestie feroci.

Ai francesi hanno detto: «Ci attaccano. È la guerra del Diritto e della Rivincita. Tutti a Berlino!». E i francesi pacifisti, i francesi che non prendono niente sul serio, hanno interrotto le loro fantasticherie di agiati borghesi per andare a combattere.

È successa la stessa cosa agli austriaci, ai belgi, agli inglesi, ai russi, ai turchi e poi agli italiani. Nel giro di una settimana venti milioni di uomini civilizzati, intenti a vivere, ad amare, a far soldi, a costruire il futuro, hanno ricevuto l’ordine di piantare tutto in asso per andare a uccidere altri uomini. E quei venti milioni di individui hanno obbedito perché li avevano convinti che quello era il loro dovere.

Venti milioni, tutti in buonafede, tutti d’accordo con Dio e con il loro sovrano… Venti milioni di idioti… Come me!

 

E ancora:

Dopo un anno di vita militare mi capita di pensare che sono un pessimo soldato e di rammaricarmene come una volta mi rammaricavo di essere un pessimo studente. È chiaro, non riesco a piegarmi ad alcuna regola. Devo biasimarmi? L’incapacità di accettare i princìpi che mi hanno insegnato è forse un vizio? In linea di massima credo che sia un bene, e che quei princìpi siano nefasti. Ma a volte, quando vedo tutti gli altri coalizzati contro di me e sicuri delle loro idee, inizio a dubitare: anch’io ho le mie debolezze, come chiunque, e mi arrendo all’opinione comune… Temo di non essere adatto a questa guerra che richiede solo passività e spirito di sopportazione. Non sarebbe meglio per la mia tranquillità se io fossi un combattente privo di incertezze, come ce ne sono tanti (ma io ne ho mai conosciuti?), che lotta con accanimento per la patria nella convinzione che la morte di ogni nemico ucciso gli valga un’indulgenza presso il suo dio? Ho la sfortuna di riuscire ad agire solo in virtù di un motivo approvato dalla mia ragione, e la mia ragione rifiuta certe costrizioni che le si vorrebbero imporre. Gli insegnanti, un tempo, mi rimproveravano di essere troppo indipendente; poi ho capito che temevano il mio giudizio, e che la mia logica di adolescente sollevava problemi che loro avevano deciso di accantonare. Ma oggi le costrizioni sono più forti, e chi le esercita forse mi farà ammazzare.

Le descrizioni offerte da Chevallier sono vivide, a tratti surreali. Quando il fronte si avvicina, l’impressione non è tanto quella di una lotta tra uomini, ma di un cataclisma. C’è un’ironia fatalista e orrida nell’idea di essere a un soffio dalla morte, e questo senza nessuna buona ragione, senza nessun modo di svincolarsi. E’ una situazione orrida, è una situazione assurda.

Una vampata che sembrava investire il mondo intero ci strappò al torpore. Avevamo appena superato una cresta, e il fronte, davanti a noi, ruggiva con tutte le sue bocche infuocate, fiammeggiando come una fucina infernale i cui mostruosi crogioli trasformavano in una lava di sangue la carne degli uomini. Ci veniva la pelle d’oca all’idea di essere solo una palata di carbone destinata ad alimentare quella fornace, al pensiero che dei soldati, laggiù, lottavano contro la tempesta di ferro, contro l’uragano di fuoco che faceva ardere il cielo e tremare le fondamenta della terra. Le esplosioni erano così ravvicinate da produrre l’impressione di un unico bagliore e di un boato ininterrotto. Sembrava che qualcuno avesse buttato un cerino sull’orizzonte zuppo di benzina, e che un genio malefico continuasse a versare del punch su quelle diaboliche fiammate e sghignazzasse lassù celebrando la nostra distruzione. E perché nulla mancasse a quella macabra festa, perché un contrasto ne accentuasse ulteriormente l’aspetto tragico, vedevamo razzi leggiadri innalzarsi verso la cima di quell’inferno e sbocciare come fiori di luce, per poi ricadere, moribondi, con uno strascico da cometa. Eravamo abbagliati da quello spettacolo, il cui angosciante significato era chiaro solo ai veterani. Fu la prima visione che ebbi della furia scatenata del fronte.

Come dice il titolo stesso del romanzo, un tema domina le pagine: la paura.

Chevallier racconta la paura con un candore spietato. La paura è una sorta di infezione, una febbre che aggredisce l’uomo fin dall’inizio e lo rode ogni giorno, senza dargli mai pace.

Quest’angoscia costante è mista a un complicato ventaglio di emozioni contraddittorie. Chevallier parla senza remore del risentimento, dell’incertezza, del disperato desiderio di vivere e del senso di colpa dell’essere ancora vivo. In quello che lui stesso descrive come uno dei ricordi peggiori che il fronte gli lascia, Chevallier racconta il suo primo incontro ravvicinato con dei cadaveri freschi:

A un tratto il soldato che mi precedeva si accovacciò e iniziò a trascinarsi sulle ginocchia per infilarsi sotto un ammasso di materiali che ostruivano il passaggio. Mi accovacciai anch’io e lo seguii. Quando si rialzò mi apparve davanti un uomo di cera, supino, che spalancava una bocca senza respiro e occhi senza espressione, un uomo freddo, irrigidito, che probabilmente si era rifugiato sotto quell’ingannevole riparo di assi e lì era morto. All’improvviso mi trovavo a tu per tu con il primo cadavere recente che avessi mai visto. Il mio volto passò a pochi centimetri dal suo, il mio sguardo incrociò il suo sguardo, spaventoso e vuoto, e la mia mano sfiorò la sua mano, ghiacciata e illividita dal sangue che gli si era gelato nelle vene. Durante il breve faccia a faccia che mi impose, ebbi la sensazione che il morto mi incolpasse della sua fine e minacciasse vendetta. È una delle impressioni più tremende che ho riportato dal fronte.

Ma quel morto era il custode di un regno di morti. Quel primo cadavere francese precedeva centinaia di altri cadaveri francesi: la trincea ne era piena.

[…]
Intravidi da lontano il profilo di un piccoletto barbuto e calvo, seduto sulla banchina di tiro, che sembrava ridere. Era il primo volto rilassato e rassicurante che incontravamo, e andai verso di lui spinto da un moto di gratitudine, chiedendomi: «Che avrà poi da ridere?». Rideva della propria morte! Aveva la testa tranciata perfettamente in due. Oltrepassandolo feci un balzo all’indietro nel rendermi conto che a quel viso allegro mancava l’altra metà.4 Il cranio era completamente vuoto. Il cervello, saltato via in blocco, si trovava proprio accanto al cadavere – come un pezzo di trippa sul banco di un venditore di frattaglie –, vicino alla mano, che lo indicava. Quel morto ci aveva giocato un macabro scherzo. Forse rideva per quello. Lo scherzo raggiunse il colmo dell’orrore quando uno dei nostri lanciò un grido strozzato e scappò via come un pazzo facendosi strada a spintoni.

«Che ti prende?».

«Credo che sia… mio fratello!».

«Guardalo da vicino, santo cielo!».

«Non ce la faccio…» bisbigliò il soldato mentre si allontanava.

Dartemont combatte e uccide per salvare la propria pelle. Dartemont prova simpatia per i prigionieri o i disertori tedeschi, perché si riconosce in loro più che non nei propri ufficiali.

A volte il nemico più terrificante è il cecchino, a volte è il tuo colonnello, a volte la cosa più pericolosa che puoi fare è andare a la latrina durante un bombardamento. Accucciato tra le rocce Dartemont deve valutare se vale la pena rischiare la pelle o cagarsi addosso. Sono episodi umilianti, che Chevallier racconta senza pudore.

Cadaveri di Verdun, scaraventati sulle chiome degli alberi da un’esplosione

In uno dei passaggi più celebri del romanzo, Dartemont è all’ospedale, pieno di schegge. A un’infermiera patriottica che gli chiede com’è il combattimento, Dartemont risponde:

Vi dirò la sola occupazione che conta in guerra: HO AVUTO PAURA.

La cosa che domina in prima linea non è il pensiero della Patria o l’onore o lo slancio guerriero, ma la paura. Miserabile, abbietta, oscena paura.

Entriamo in agonia.

L’attacco è sicuro. Ma siccome dobbiamo rinunciare agli assalti frontali, che non riescono a sfondare, avanzeremo lungo i camminamenti. Il mio battaglione deve attaccare gli sbarramenti tedeschi con le bombe a mano. Io, come granatiere, andrò tra i primi.

Non conosciamo ancora l’ora prevista per l’attacco. Verso mezzogiorno ci dicono: «Sarà stasera o stanotte».

Dalle latrine, che sono rialzate, si scorgono le linee nemiche. La pianura, leggermente in salita, è circondata in lontananza da quello che resta di un bosco martoriato, il Bois de la Folie, che, a quanto sembra, il comando si prefigge di occupare. Corre voce che abbiamo di fronte la guardia imperiale tedesca, pronta ad accoglierci con proiettili esplosivi.

Che fare fino a sera? Non conto granché sulle bombe a mano, che non so usare. Smonto il fucile, lo pulisco con cura, lo ingrasso e lo avvolgo in uno straccio. Controllo anche la baionetta. Non so come si combatte dentro un camminamento, avanzando in fila indiana. Ma dopotutto il fucile è un’arma, l’unica che conosco veramente, e devo pur prepararmi a lottare per la vita. Nemmeno sul coltello conto granché.

Soprattutto non devo pensare… E a cosa poi? A morire? Non posso pensarci. A uccidere? È un’incognita, e di uccidere non ho nessuna voglia. Alla gloria? La gloria non si conquista qui, ma standosene nelle retrovie. Ad avanzare di cento, duecento, trecento metri nelle linee tedesche? Ormai so fin troppo bene che questo non cambierebbe di una virgola l’andamento della guerra. Non sono mosso né dall’odio, né dall’ambizione, né da altri stimoli. Eppure devo andare all’attacco…

Ho un unico obiettivo: schivare i proiettili, le bombe a mano e le granate, salvare la pelle, che si vinca o si perda. D’altra parte: vinci se resti in vita. E questo è l’unico obiettivo di tutti, qui.

Il capitolo sulla permanenza in ospedale è una lunga sezione verso metà del libro, ed è una delle più “costruite”. Si perde completamente il sapore spontaneo e realistico degli aneddoti di trincea, per una specie di messa in scena dialettica tra Dartemont, giovane istruito e segnato dalla guerra, e le infermiere, incarnazioni della visione borghese e nazionalista, donnette con la testolina piena di propaganda che non sanno, non possono sapere ciò che succede al fronte.

Questa parte è insieme una delle più difficili e più interessanti da leggere. Dartemont non è sempre un narratore congeniale, e in queste pagine emerge tutto il suo classismo e il sessismo spicciolo che per il lettore attuale può risultare davvero stridente. Allo stesso tempo si tratta anche di un momento di quiete narrativa in cui Chevallier può elaborare il suo messaggio politico, il suo risentimento verso una società guerrafondaia e intellettualmente inetta.

Le infermiere si stupiscono nel constatare che al dovere così come lo intendono loro si possono opporre altri doveri, che esistono ideali sovversivi più elevati, di più ampio respiro e più proficui per l’umanità.

Comunque, la signorina Bergniol ha concluso:

«Non educherò i miei figli secondo le sue idee».

«Lo so, signorina. Voi, che potreste essere portatrici di fiaccole oltre che di creature, trasmetterete ai vostri figli solo la tremolante candela che avete ricevuto, da cui cola la cera che vi brucia le dita. Sono le candele che hanno incendiato il mondo invece di illuminarlo. Sono i ceri con cui domani, di nuovo, un’umanità cieca accenderà i bracieri sui quali si consumeranno i frutti delle vostre viscere. Il loro dolore a quel punto non sarà altro che cenere; e nel momento stesso in cui il sacrificio si compirà, lo sapranno e vi malediranno. Con i vostri princìpi, se se ne presenterà l’occasione, sarete a vostra volta delle madri disumane».

Come si può constatare, questi passaggi sanno più di comizio che di autobiografia. Come dicevo, La Peur è un romanzo politico, ma di nuovo, torneremo sull’argomento.

La parte in ospedale non è una mera parentesi educativa e polemica: anche in queste pagine l’esperienza diretta fa capolino. Qui possiamo vedere cosa succede agli “eroi”, l’impatto che ferite e trauma hanno sui combattenti. Un personaggio spicca tra gli altri: Charlet, un conoscente che Dartemont ritrova in ospedale, addetto a raccattare i pitali pieni di merda dei feriti.

Al soldato infermiere abbiamo affibbiato un soprannome impietoso: Popò. So che lui ne è amareggiato. Lo so perché ho conosciuto André Charlet prima della guerra, all’università, dove figurava tra gli studenti migliori, quelli pieni di curiosità e di idee. Pubblicava sulle riviste giovanili certi brillanti sonetti che rappresentavano la vita come un immenso campo di conquista, una foresta divina e stupefacente in cui si addentrano gli esploratori scelti per poi tornarne carichi di frutti meravigliosi dai sapori sconosciuti, di donne dalla bellezza esotica e di mille barbarici oggetti dal ricercato gusto primitivo. Durante la mobilitazione si era arruolato tra i primi ed era stato gravemente ferito nel corso dell’anno seguente.

L’ho ritrovato qui, abbattuto, senza energie e sporco. Pochi mesi di guerra lo hanno trasformato, gli hanno conferito questa aria irrequieta, questa magrezza e questa pelle giallastra. L’esperienza del fronte gli ha lasciato addosso un terrore folle, che gli si legge negli occhi. Pur di restare all’ospedale ha accettato un simile incarico, con le sue ripugnanti incombenze. Interpretando il ruolo di Popò, riesce a prolungare di tre mesi la sua permanenza qui, in virtù di non so quale ordinanza militare che autorizza gli ufficiali medici ad avvalersi temporaneamente di assistenti. D’altronde è molto probabile che in seguito venga assegnato alle truppe ausiliarie, se non addirittura riformato. Lui però preferisce evitare di sottoporsi a una commissione se non in ultima istanza, perché teme che il suo corpo non sia abbastanza malconcio da giustificare un’esenzione che gli eviti il ritorno al fronte. Ma è il solo ad avere questo timore; quanto a noi, lo riteniamo destinato alla morte per tubercolosi, più inesorabile delle granate.

[…]

Presto o tardi doveva succedere. Mi stupisco che le anomale trasformazioni avvenute in lui non me l’abbiano fatto intuire. Per quanto demoralizzato, un uomo giovane si riprende in fretta; Charlet invece si incupiva sempre più.

Prima, quando è entrato in corsia, le dita contratte, i tic che gli alteravano i lineamenti, l’andatura a scatti tradivano uno stato di forte tensione nervosa. Ha comunque iniziato il suo turno come al solito, ma senza nemmeno salutarmi.

Verso l’una mi è improvvisamente comparso davanti. Aveva una faccia spaventosa, terrea, con delle chiazze scure e gli occhi cerchiati di rosso. Mi ha messo il braccio sotto il naso:

«Annusa! Annusa, dài!».

«Be’, che c’è?».

Spingeva il braccio verso di me con violenza. Mi sono fatto indietro.

«Allora, lo senti? Lo senti l’odore?».

Mi fissava con occhi scintillanti, furibondi, da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Avvicinando il suo volto al mio fino a toccarlo, mi ha detto queste parole incredibili:

«Sono una merda».

«Via, Charlet, sei impazzito?».

«Insomma, annusa!».

Più ancora della sua rabbia, mi ha spaventato la bava che gli stava colando dalla bocca. Per fortuna lo hanno chiamato:

«Ehi, Popò!».

Si è lanciato in direzione di Peignard gesticolando in modo scomposto:

«Mi chiamo Merda, chiaro? E non sopporterò oltre i vostri volgari insulti!».

Ho capito che era andato fuori di testa e subito ho temuto per i feriti più malconci: Peignard con il suo piede, Diuré con i suoi tubi di drenaggio, il povero bretone. Ho chiamato gli altri, quelli più in forze, che lo hanno attorniato mentre qualcuno andava a cercare aiuto. Lui, in piena crisi, tentava di scappare e gridava:

«Vi tengo in pugno, farabutti! Tutti gli uomini sono miei sudditi! Io sono la verità, il padrone del mondo!».

Finalmente tre marcantoni sono saliti dagli scantinati e lo hanno trascinato via.

Ci riverremo, ma quando lessi questo passaggio pensai al periodo in cui il libro fu pubblicato: 1930.

Chi è un minimo familiare con la Storia del periodo conosce il colossale stigma sociale associato con il tracollo mentale dei combattenti. Lo stress post-traumatico, o shell shock com’era chiamato nel primo dopoguerra, era considerato più vergognoso della Sifilide. Basti pensare che a due riprese, nell’agosto del ’43, il Generale Patton prese a schiaffi due dei suoi soldati affetti da shell shock.

Nel 1930 Chevallier raccontava l’effetto della paura, lo rivendicava, lo esponeva.

Rieuneau definisce Chevallier come “l’anti-Montherlant”, qualcuno che non solo sfata i miti della propaganda, ma che odia con ogni fibra del suo corpo la glorificazione della guerra.

«Nègre, vorrei farti una domanda che continua a tormentarmi. Che ne pensi del coraggio?».

«Ancora! La questione è stata definitivamente archiviata. Gli specialisti se ne sono occupati nel silenzio dei loro laboratori. Te lo dico una volta per tutte: il francese è coraggioso per natura, ed è l’unico a esserlo. I tecnici hanno dimostrato che per mandare il tedesco in battaglia bisogna fargli inalare dell’etere. Questo coraggio artificiale non è coraggio. E tu che mi racconti?».

«Io? Detto tra noi: mi sono rotto i coglioni!».

Incastrato nelle trincee, Dartemont prova un incontenibile senso di ribellione. Uno slancio che però non ha nessuna speranza di sfogare: se non gli sparano i tedeschi, saranno i suoi a farlo. Costretto in un gioco truccato contro di lui, Dartemont può solo cercare di sopravvivere, per poter un giorno raccontare la sua esperienza.

Quella notte pensai al destino del soldato sconosciuto che avevamo appena importunato nella sua tomba, e che altri avrebbero nuovamente calpestato. Immaginavo un uomo simile a me, cioè giovane, pieno di progetti e di ambizioni, di amori ancora indefiniti, appena affrancatosi dall’infanzia e sul punto di sbocciare. La vita, per come la vedo io, assomiglia a una partita che inizia a vent’anni e la cui posta si chiama successo: i soldi per i più, la fama per qualcuno, la stima degli altri per pochissimi. Vivere, durare non è niente; realizzare è tutto. Chi muore giovane è paragonabile a un giocatore che abbia appena ricevuto le sue carte e a cui venga proibito di giocare. E per quel giocatore, forse, si trattava di una rivincita… Vent’anni di studi, di sottomissione, di desideri e di speranze, tutta la somma di sentimenti che un essere umano porta dentro di sé e che costituisce il suo valore avevano trovato in quell’angolo di trincea il loro punto di arrivo. Se dovessi morire adesso non direi: «è spaventoso» o «è terribile», ma: «è ingiusto e assurdo», poiché non ho ancora tentato niente, fatto niente se non aspettare la mia occasione e la mia ora, limitandomi a conservare le forze e a pazientare. La vita secondo la mia volontà e le mie inclinazioni è appena cominciata, o meglio deve ancora cominciare, visto che la guerra ne ha rinviato l’inizio. Se soccombo adesso, sarò stato solo dipendente e incolore. Quindi sconfitto.

Tutti i temi dei romanzi rivoluzionari e pacifisti si ritrovano mischiati e confusi nella storia caotica di Dartemont.

Chevaillier racconta gli orrori macabri del campo di battaglia, ma senza attardarcisi troppo. Dopotutto altri prima di lui avevano sviluppato quell’angolo: Barbusse, Dorgelès, Naegelen…

La parte che più parla di combattimenti è quella dedicata all’offensiva sul Chemin des Dames.

Per gli italiani, la faccenda è più nota come “Seconda battaglia dell’Aisne”, una massiccia offensiva avvenuta tra l’aprile e l’ottobre del 1917. Non entro nei dettagli perché si tratta di una roba degna di un intero saggio (se vi interessano i massacri sull’Aisne, ai tempi avevo raccontato dell’Affaire de Crouy). Qui basti sapere che le operazioni primaverili, dirette dal generale Nivelle, si conclusero in un sanguinosissimo disastro condito con ammutinamenti.

Chevallier partecipò all’offensiva.

Non conosco ripercussioni morali paragonabili a quelle provocate dal bombardamento su chi si è rintanato in un ricovero. La sicurezza si paga al prezzo di un crollo interiore, di un logorio dei nervi davvero tremendi. Non conosco niente di più angosciante di quel martellamento sordo che ti bracca sottoterra, tenendoti sepolto in una fetida galleria che può diventare la tua tomba. Per riemergere dall’abisso è necessario uno sforzo che, se non si è superato lo spavento fin dall’inizio, la volontà non è più in grado di compiere. Bisogna lottare contro la paura ai primi sintomi, altrimenti ti irretisce, e allora sei spacciato, trascinato in una catastrofe che l’immaginazione accelera con le sue spaventose invenzioni. Una volta scossi, i centri nervosi trasmettono comandi del tutto incongrui e, con le loro assurde decisioni, rischiano di contravvenire persino all’istinto di conservazione. Il colmo dell’orrore, che rende lo scoramento ancora più grave, è che la paura non toglie all’uomo la facoltà di giudicarsi. Egli vede se stesso sull’ultimo gradino dell’ignominia e non riesce a risollevarsi, a giustificarsi ai suoi stessi occhi.

Questo è lo stato in cui mi trovo…

Sono rotolato in fondo al baratro di me stesso, in fondo alle segrete dove si nasconde la parte più riposta dell’anima. Un’immonda cloaca, una tenebra vischiosa. Ecco cos’ero senza saperlo, ecco cosa sono: uno che ha paura, una paura incontrollabile, una paura da mettersi a piangere, che ti annienta… Per farmi uscire dovrebbero cacciarmi fuori a calci. Ma accetterei di morire qui, credo, pur di non essere costretto a salire quei gradini… Ho paura al punto da non tenere più alla vita. Del resto, per me provo solo disprezzo. Per resistere contavo sulla stima di me stesso, e ora l’ho persa. Come potrei ostentare ancora sicurezza adesso che so chi sono veramente? Come potrei mettermi in luce, brillare, dopo quello che ho scoperto? Forse riuscirò a ingannare gli altri, ma sarò sempre consapevole di mentire, e questa messinscena mi dà la nausea. Penso a Charlet, alla compassione che provavo per lui all’ospedale. Sono caduto in basso come lui.
[…]

Sotto i sacchi per la sabbia del mio giaciglio ho trovato una bottiglia vuota da un litro, con il tappo, e la mia vigliaccheria se n’è rallegrata. Ogni tanto mi giro su un fianco e piscio lì dentro, a piccoli getti, in modo che nessuno sorprenda questa inconfessabile manovra. Durante la giornata la mia principale preoccupazione è versare l’urina a terra un poco alla volta, in modo che sia assorbita dal suolo. Ah, sono proprio uno schifoso!

La morte sarebbe preferibile a questo supplizio avvilente… Sì, se deve durare ancora a lungo, preferisco morire.

Direi che è andata bene ^_^

Robert Nivelle — Wikipédia

Quando hai un vantaggio numerico di 2 a 1 e totalizzi un glorioso punteggio di 120.000 perdite e 0 vittorie

La verve rivoluzionaria del romanzo non si esaurisce in un ritratto spietato della vita del soldato semplice. Chevallier denuncia anche i propri ufficiali, gli attacchi inutili spinti per soddisfare i pruriti di gloria di questo o quello, le condanne a morte assolutamente ingiuste e crudeli. Nel romanzo si menziona, ad esempio, l’omicidio la condanna di Lucien Bersot.

Si tratta del famoso e infame incidente “del pantalone rosso”: Bersot era un soldato che fece richiesta per un nuovo paio di braghe. Gli furono date quelle di un morto, ancora lacere e sporche di sangue. Bersot si rifiutò di portarle e fu arrestato. Questo scatenò indignazione e rivolta tra i suoi compagni, al che fu deciso di fare di Bersot un esempio, e il soldato fu fucilato.

Crimini di questo genere purtroppo non sono stati rari. I lettori italiani sono probabilmente familiari con la storia di Alessandro Ruffini.

Sono episodi del genere che confermano per Chevallier il fatto che i suoi superiori non hanno nessun riguardo per la vita dei loro subordinati. Per i soldati semplici, questa gente è altrettanto pericolosa, altrettanto nemica del tedesco.

Shell_shock

Un reduce francese vittima di Shell shock si ritrae con terrore alla vista del berretto di un ufficiale

Ma Chevallier non ce l’ha solo con l’esercito. Dopotutto se quest’inutile massacro è stato possibile, ciò lo si deve anche al sostegno e alla partecipazione della società civile. E Chevaillier ne ha tante da dire sulla borghesia nazionalista. Già dalle prime pagine appare chiaro un ritratto di revanchisti che ancora non hanno ingollato la disfatta di Sédan, gente piena di mediocre risentimento che celebra una guerra che non saranno loro a combattere, gente pronta a sacrificar decine di migliaia di uomini per una catarsi emotiva.

In una scena del libro, un passante che non dà prova di un livello accettabile di fervore patriottico viene pestato sulla pubblica via. Quando Dartemont torna a casa in licenza, dopo essersi fatto l’ospedale, viene prima criticato da suo padre per non aver già scalato i ranghi, e poi portato in giro e mostrato ad amici e conoscenti. Avere un figlio che è per un pelo scampato a un combattimento è oggetto di vanto, una fonte d’orgoglio per ricchi borghesi che fanno la guerra seduti al bar con un bicchiere di kir.

La società borghese è conformista, ipocrita, benpensante, una società che si balocca con storie fasulle e caricaturali di una guerra eroica, romantica e giusta. E Chevallier non cela il proprio disprezzo per costoro.

Il tempo è sereno. Ogni notte, adesso, sentiamo dei ronzii. Le squadriglie tedesche che vanno a bombardare Parigi sorvolano le nostre linee. Non abbiamo i mezzi per sbarrargli la strada. Ma salutiamo il passaggio di quegli aerei invisibili dicendo:

«Mi sa che stavolta se la beccano i patrioti, la batosta!».

«Gli servirà di lezione. Ci vorrebbe proprio, per i civili, qualche ora di bombardamento sulla capoccia!».

«Così forse la smettono di gridare: “Avanti, fino alla morte!”».

«Peccato solo rovinare i monumenti».

«Ma sentitelo! E la nostra pelle, allora? Vale meno di un monumento? Mica gliene importa niente a nessuno se ci sbudellano!».

«Così quelli della capitale le assaggiano pure loro, le bombe!».

«Sai che risate se i crucchi mollano una bella scoreggia dritto dritto sul ministero della Guerra!».

«Sta’ zitto, disfattista!».

«Ma sentitelo, ’sto venduto, ’sto brocco, ’sto volontario di merda!».

«Tanto per cominciare,» dice Patard, il telefonista dell’artiglieria «in guerra bisogna distruggere. Così finisce prima».

Patard è uno dei numerosi personaggi irriverenti che costellano il romanzo. Canaglie costrette a marciare come tutti gli altri, ma che non si bevono la storia dell’etica eroica, della gloria francese. Questi personaggi non sono sviliti come disfattisti o traditori, sono celebrati. La loro insolenza è l’eroismo in questo contesto, le loro trasgressioni sono celebrate, piccole rivolte contro un sistema ingiusto. Sono eroi in quanto resilienti.

[Patard] È il più temibile ladruncolo che si sia mai visto, il terrore delle cucine, degli spacci e dei magazzini. La sua impresa più celebre è stata quando ha fregato i pantaloni e gli stivali al generale di divisione. Il fatto ha avuto luogo sullo Chemin des Dames. Patard, in fondo a un ricovero, confezionava bustine fuori ordinanza che pensava di vendere ai soldati del suo reggimento. Ma gli mancava il nastro per adornare quei berretti. Per procurarselo si è offerto di andare sotto le bombe fino al comando di divisione a sostituire un telefono guasto. Lì, curiosando in giro, ha trovato dei bei pantaloni di panno fine appesi a un chiodo, dei pantaloni rossi, proprio il colore che gli serviva. Visto che accanto c’erano degli stivali, ha preso anche quelli ed è ritornato in trincea. Il generale ha scatenato un pandemonio, ma non ha mai sospettato che i suoi pantaloni fossero finiti, ridotti in striscioline, sulle teste dei suoi uomini, né poteva immaginarsi di salutarli ogni volta che incrociava un artigliere.

Patard è un eroe perché riesce a sopravvivere senza impazzire nel costante terrore che perseguita il soldato.

E Dartemont?

Di certo non si racconta come un eroe. La guerra non è qualcosa che Dartemont fa, è qualcosa che Dartemont subisce. C’è un solo episodio in cui Dartemont appare sinceramente fiero del proprio valore: durante un bombardamento, Dartemont vede un altro portaordini arrivare di corsa sotto il tiro degli obici tedeschi.

Resta un unico portaordini, e non se ne manda mai uno da solo sotto le granate. Il maresciallo esita… In quel momento vediamo un soldato che attraversa il burrone di corsa e si arrampica su per il pendio. Poco dopo arriva, coperto di sudore, ansimante. È Aillod, dell’undicesima. Trae un sospiro che significa: «Sono salvo!». Ma il maresciallo sceglie proprio lui:

«Adesso vai alla nona con Julien».

«Però, sempre gli stessi!» risponde Aillod sommessamente, davanti a me.

Noto l’espressione del suo viso, in cui il terrore prende il posto della gioia, e incrocio il suo sguardo, che è quello di un cane che aspetta di essere preso a bastonate, di un uomo che è appena stato condannato a morte. Quello sguardo mi fa vergognare. È davvero un’ingiustizia. Allora grido senza riflettere:

«Ci vado io!».

Vedo gli occhi di Aillod ravvivarsi, pieni di riconoscenza. E vedo pure lo stupore del maresciallo:

«D’accordo, vai!».

Durante questa missione, per cui Dartemont si è portato volontario in uno slancio di solidarietà non proprio ragionato, il nostro riesce per la prima volta a conquistare la paura.

Più tardi, di nuovo al riparo, Dartemont ha la possibilità di pensare a ciò che gli è successo.

È ancora presto quando vado a stendermi sulla mia branda, al buio. Rifletto sui fatti di questa sera. Insomma, per essere coraggioso ho a disposizione un mezzo semplice ed efficace: accettare la morte. Ricordo che già una volta, nell’Artois, quando dovevamo affrontare in campo aperto le mitragliatrici, mi ero abituato a questa idea per qualche ora. Poi gli ordini erano cambiati.

Quelli che cercano di farsi coraggio dicendosi: «Non mi succederà niente» sono del tutto irrazionali (eppure sono la maggioranza). Una simile convinzione non può essermi di aiuto, perché so fin troppo bene che i cimiteri sono pieni di gente che aveva sperato di tornare a casa sana e salva, persuasa che le pallottole e le granate scegliessero i loro bersagli. Tutti i morti si erano affidati alla protezione di una provvidenza personale, intenta a vegliare su di loro e del tutto indifferente agli altri. In quanti, sennò, sarebbero venuti a farsi ammazzare?

Mi sento del tutto incapace di mostrare coraggio se non sono deciso a dare la vita. In alternativa a questa scelta c’è solo la fuga. Ma una decisione del genere la si può mantenere per un breve momento, non per settimane o mesi. Lo sforzo morale è troppo grande. Ecco perché il vero coraggio è così raro. Di solito accettiamo una specie di compromesso zoppicante fra il destino e la volontà, che non soddisfa la ragione.

Per ora ho fatto due volte l’esperienza del coraggio assoluto. Sarà stata questa, alla fin fine, la mia azione di guerra più gloriosa.

Poi penso alle parole di Baboin: «È meglio non fare tanto i gradassi…». Oggi ho fatto il gradasso, e se voglio «portare a casa la ghirba» mi converrà resistere a simili impulsi…

Rieuneau nota che nel romanzo Chevallier non se la prende coi “vigliacchi”. Non è da vigliacchi provare paura, è naturale. Il terrore abbietto e umiliante non è mancanza di carattere, non è frutto di un difetto, non è una colpa, è la normale reazione di un uomo a cui viene inflitta la guerra.

In questo Chevaillier rivendica la vulnerabilità degli uomini in faccia a una narrativa disumanizzante che li vuole gagliardi combattenti pronti al sacrificio.

 

La pubblicazione

Tutti gli articoli sulla WWI devono avere un riferimento a Black Adder Goes Forth, sorry

Come potrete immaginare, in un’Europa in pieno sussulto nazionalfascista come quella del 1930, un romanzo come La Peur non fu ricevuto proprio benissimo. Non è da escludere che il clima nazionalista e guerrafondaio e la salita al potere di movimenti fascisti siano stati tra i fattori che spinsero Chevallier à scrivere il suo libro, una visione della guerra che sputa in faccia alla prosopopea fascistoide.

I toni che usa sono tali che Olivier Cariguel commenta:

Se avesse confessato le sue riflessioni in piena guerra, Dartemont si sarebbe beccato senza dubbio un plotone d’esecuzione per aver attentato al morale dell’esercito e per antipatriottismo.

Dartemont è un antieroe che non ha vergogna a mettere a nudo il suo lato umano, quel lato che la narrativa cazzodurista disprezza.

Dartemont ha fame, ha freddo, ha paura.

Dartemont non è un eroe di guerra.

Dartemont definisce la Patria:

Né più né meno che una riunione di azionari, né più né meno che un aspetto della proprietà, dello spirito borghese e della vanità.

Non è una sorpresa se, nel 1930, solo giornali di sinistra come Le Canard Enchainé celebrarono La Peur come l’opera fondamentale e la testimonianza imperdibile che è.

Per citare Chevaillier stesso, nella prefazione all’edizione del 1951:

Il libro fu accolto da movimenti diversi, e l’autore non sempre fu trattato molto bene. Ma due cose sono da notare. Degli uomini che lo avevano ingiuriato sarebbero girati male in futuro, il loro valore s’era infatti sbagliato di campo. Quanto ai combattenti di fanteria, scrissero: “Vero! Ecco ciò che sentivamo e non potevamo esprimere”. La loro opinione contava molto.

Il pacifismo di Chevallier non è un puccioso mondo di “volemossebbene”. Nonostante la sua condanna della Grande Guerra sia inappellabile, Chevallier non esclude la guerra a priori. Nel 1939, ad esempio, si accordò col proprio editore per togliere il proprio romanzo dagli scaffali.

Per riprendere l’introduzione del 1951:

Quando la guerra ormai c’è, non è più il momento di avvertire la gente che si tratta di un’avventura sinistra dalle conseguenze imprevedibili. Bisognava capirlo prima e agire di conseguenza.

In altre parole, la guerra è una calamità che umilia, distrugge, degrada l’essere umano. Ma se la si vuole evitare occorre adottare politiche e attitudini appropriate: non ha senso voler fare i pacifisti quando la Divisione Fantasma trancia allegramente attraverso le Ardenne.

Nella stessa prefazione, Chevallier aggiunge:

Nella mia gioventù si insegnava – quando eravamo al fronte – che la guerra era moralizzatrice, purificatrice e redentrice. Abbiamo potuto constatare le implicazioni di questi slogan ripetuti in continuazione: smerciatori, trafficanti, mercato nero, delazioni, tradimenti, fucilazioni, torture, tubercolosi, tifo, terrore, sadismo e fame. E dell’eroismo, d’accordo. Ma la piccola, l’eccezionale proporzione di eroismo non riscatta l’immensità del male. D’altro canto pochi sono tagliati per l’eroismo. S’abbia la lealtà di convenirne, noi che ne siamo tornati.

La grande novità di questo libro, il cui titolo era una sfida, è ciò che dicevamo [al fronte]: ho paura.

Nei “libri di guerra” che avevo letto la paura era a volte menzionata, ma si trattava di quella degli altri. L’autore era un personaggio flemmatico, così occupato nel prendere appunti che se la rideva degli obici.

L’autore di questo libro considera che sarebbe improbo parlare della paura dei propri compagni senza parlare della propria. Ragion per cui ha deciso di prendersi la responsabilità della paura, prima tra tutte la propria. Quanto a parlare della Grande Guerra senza parlare della paura, senza metterla in primo piano, sarebbe stata fumisteria. Non si vive nei luoghi dove si può essere squartati in ogni istante senza provare una certa apprensione.

Bataille du Chemin des Dames | Site d'histoire | historyweb.fr

Capo, credo di star provando una certa apprensione

Al di là del messaggio politico di Chevallier, Dartemont è un personaggio notevole nell’orizzonte della narrativa maschile: lo era nel 1930 e lo è tutt’ora.

Come sa chi ha letto il mio commento a quella porcheria esilarante di Educazione Siberiana, spesso nei film di “Uominiveri per Uominiveri” il protagonista è uno tostissimo che fa cose tostissime per un’ore e mezza, e i romanzi non se la cavano granché meglio. Questo comporta due problemi: tanto per cominciare non può esserci vero coraggio se non c’è paura (sicché la storia raccontata è semplicemente inutile), e in secondo luogo questo tipo di storie, quando troppo pervasive, rinforzano un mito dannoso di forza e virilità, con conseguenze indirette negative sui lettori.

Dartemont è un personaggio che rivendica la propria vulnerabilità e la propria paura. E’ un personaggio che espone la propria fragilità umana senza pudore, con onestà e insolenza. E’ un personaggio che lotta per sopravvivere, ma che si mette a rischio quando riconosce la disperazione rassegnata negli occhi di un compagno.

Dartemont offre un modello dove la vera forza non è la violenza guerriera (che pure fa parte della vita in trincea), ma l’onestà di ammettere: ho freddo, ho fame, ho paura. Ed è accettando la propria paura e la legittimità del suo desiderio di restare in vita che Dartemont mantiene la propria sanità mentale e la propria vita.

Quella di Chevallier non è l’unica esperienza della Grande Guerra. Come accennato, altri reduci l’hanno vissuta in modo diverso. Ma allora come oggi La Peur resta un romanzo narrativamente e politicamente importante, che in troppo pochi hanno letto.

MUSICA!
P.S. nel 2015 i francesi hanno realizzato un film sul romanzo, ma non l’ho ancora visto quindi non so se consigliarvelo. Qui il trailer.


Bibliografia

CARIGUEL Olivier, Revue des Deux Mondes, 2008, p.182

CHEVALLIER Gabriel, La Peur, ed. Le Dilettante, Parigi, 2008

CHEVALLIER Gabriel, trad. CARRA Leopoldo, La Paura, Adelphi, 2011

RIEUNEAU Maurice, Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Klincksieck, Parigi, 1974

SICARD Claude, Revue d’Histoire Litttéraire de la France, vol. 76, n.3, 1976, p.500-507

Pagina Wiki su Chevallier (FR)

Pagina Wiki del romanzo (FR)

 

 

1917, un film quasi perfetto

Questo film è bellissimo e se avete la possibilità di andare a vederlo quando il mondo non sta bruciando, fatelo.

Fine della recensione.

1917

No, vabbé, parliamone.

Piccola parentesi. Come accennavo nell’articolo di riapertura, sono stata male peso per mesi e mesi, ho trovato delle medicine che mi funzionavano, sono stata meglio, e 3 settimane dopo il mondo è esploso.

Sono uscita a vedere questo film con un’amica, ed è stata forse l’unica cosa « normale » che sono riuscita a fare da settembre. Tre giorni dopo eravamo tutti barricati in casa.

Sono davvero contenta di avercela fatta, perché, al di là del fatto che è spettacolare, sono riuscita a sentirmi « normale » per un po’ prima che tutto questo casino ci cascasse tra capo e collo e cancellasse la parola « normale » dal dizionario.

Sicché non vi nego che ho un debole per questo film. Ma cercherò comunque di essere il più oggettiva e fastidiosa possibile.

La Trama

1917 – Movie Loon

“Tommen, Rob Stark è tuo fratello e sta per essere ucciso dal Doctor Strange!”

La trama di 1917 è davvero semplicissima.

I tedeschi si sono ritirati sulla Linea Hindenburg, e gli inglesi di preparano a incalzarli per assicurare una vittoria significativa.

O, come direbbe Lieutenant George : Up and over to glory, last one in Berlin is a rotten egg !

The Black Adder — Lieutenant George + asking permission

In questa recensione ci saranno molte citazioni da Blackadder goes Forth

Si tratta però di una trappola: gli inglesi stanno caricando a testa bassa, e i crucchi stanno aspettando con l’artiglieria pronta, leccandosi i prussiani baffoni.

La linea telefonica è tagliata, e tocca quindi a un paio di Lance Corporals farsi a piedi (possibilmente di corsa) tutta la no-man’s-land per fermare l’attacco suicida.

La scelta dei due cade su Lance corporal Thomas Blake, il cui fratello è destinato ad attaccare al mattino, dritto nella trappola, e William Schofield, veterano della Battaglia della Somme.

Subito all’inizio, appena mettono il naso fuori dalla trincea, Schofield si buca una mano sul filo spinato. Poi casca in una buca e la ficca nelle budella marce di un cadavere. E poi niente, va sempre peggio a partire da qui.

La tecnica

Behind the scenes of 1917 : Moviesinthemaking

“Ora guida dritto nel mucchio di comparse, mi raccomando non sbandare, e, se puoi, cerca di non investire nerruno”

Non si può parlare di questo film senza parlare del fatto che è stato realizzato simulando una ripresa continua.

Ovviamente si tratta di un trucco : i personaggi soffrono molto intensamente per due giorni, e il film dura solo due ore.

E’ chiaro che il tempo è in qualche modo “compresso”, ma onestamente sono riuscita a vedere solo due tagli. E stavo facendo attenzione. Niente, mi hanno fregata!

Sia chiaro: questo non è il primo film a giocare con l’idea di un’unica, continua scena. Rope, realizzato da Hitchcock nel 1948, è forse il primo esempio di questa tecnica. Ovviamente non era possibile per il paffuto Alfred filmare di continuo, visto che i limiti della pellicola erano molto stringenti. Ovviò quindi con lunghissime riprese (fino a 10 minuti!) e tagli mascherati, che dessero l’impressione di un take continuo.

Un altro celeberrimo esempio di long take è lo spezzone iconico di Children of men, che però non applica la tecnica all’intero film.

In effetti, era un po’ che non vedevo questo tipo di ripresa sul grande schermo, di certo non per l’itera durata della storia. E non sono stata l’unica a trovare la cosa curiosa: questo famoso “single shot” è stato oggetto di chiacchiere e discussioni per mesi!

Di solito sono molto scettica quando i film saltano fuori con qualche gimmick innovativo che fa tanto clamore. Non che questo genere di cose non mi interessi : mi interessa ! E chiunque sia stato su questo blog più di una volta sa a che punto sono capace di sfrangiare la minchia sulla narrativa. Il modo in cui le storie sono raccontate è un argomento che mi appassiona tantissimo, con gran dolore delle coinquiline che sono chiuse con me in questa quarantena e che devono sentirmi rantare sull’elemento extradiegetico di The Conqueror (perché ovviamente l’elemento extradiegetico è il problema più grande di quel film !).

Tornando a noi, il fatto è che spesso il gimmick è usato come sostituto alla sostanza.

Un esempio tristemente famoso è quella puttanata di Unfriended, un horror realizzato in tempo reale e filmato solo dalla prospettiva del desktop della protagonista (non vi linko il trailer perché il fim fa schifo). L’idea è interessante, ma, a parte la tecnica nuova, i personaggi sono il solito mazzo trito e ritrito di gente insopportabile, la trama non ha molto senso, e si conclude con un glorioso non sequitur.

In altre parole, spesso ci si aspetta che il modo di raccontare una storia sia sufficiente a se stesso, e spesso non lo è: una storia ha bisogno di sostanza (tema e personaggi per cominciare). Il modo di raccontare serve a mettere in valore la sostanza di una storia, non a sostituirla.

1917 è un ottimo esempio di come una tecnica innovativa può dare un risalto inedito a una buona storia. La vicenda di 1917, come detto, è semplice. Ma non è superficiale. 1917 è la storia più primitiva che si possa avere: l’uomo confrontato con un disastro più grande di lui (la guerra in questo caso). Non può vincere, non può scappare, può solo cercare di sopravvivere.

Il fatto che la trama sia estremamente semplice non vuol dire che sia raffazzonata. Non lo è : è scritta con estrema cura, i personaggi sono verosimili e ben delineati nonostante ci sia molto poco dialogo.

“Come ben sai, Tom, io e te siamo buoni amici”

Il regista è Sam Mendes, già conosciuto per American Beauty, Skyfall e Spectre. Oibò, Mendes ha fatto strada dal tempo dei sacchetti di plastica trascinati dal vento!

La tecnica che ha scelto per realizzare il film funziona perfettamente e cala lo spettatore nei panni del soldato inglese.

Realizzarla è stata un’impresa logistica non indifferente: siccome si tratta di lunghe, ininterrotte riprese (anche 7 minuti continui), doveva esserci una corrispondenza precisa tra la durata di una scena e l’estensione del set attraverso cui la scena si svolgeva, dato che il movimento è rivolto sempre verso l’avanti e non è possibile tagliare o passare al grandangolo.

Non solo: le necessità di movimento delle telecamere hanno spinto Mendes e i suoi ad adottare una serie di soluzioni tecniche degne del periodo d’oro di Hollywood, come una finestra che si smonta e si apre al passaggio della macchina per permettere la continuità della ripresa oltre il davanzale.

Un altro ostacolo è stato il clima: con poche eccezioni, la luce del film è soprattutto naturale, dato che l’uso dei riflettori non era pratico. Il che vuol dire che le riprese dovevano avvenire, di preferenza, in giornate nuvolose, per evitare ombre nette che rendessero evidenti le discrepanze temporali.

E’ stata infine necessaria una sincronia perfetta tra attore e camera crew. In una scena particolarmente drammatica, Schofield si arrampica fuori da una trincea e poi corre lungo il tracciato. Per poterlo riprendere, la telecamera è stata prima attaccata a una gru, che lo ha seguito mentre camminava dentro la trincea, poi mentre si arrampicava fuori dalla trincea. A questo punto i grips dovevano acchiappare la telecamera, staccarla dalla gru e attaccarla a una seconda gru, fissata su un furgone che, per non rompere il movimento della ripresa, era già in movimento prima ancora che la telecamera fosse agganciata. Nel film, Schofield esita un istante sull’orlo sulla trincea. Il personaggio esita per l’estremo pericolo in cui si trova, l’attore esita per dare ai grips il tempo di sganciare e riagganciare la telecamera.

Ah, e i due grips che maneggiano la telecamera ? Sono in costume, perché sarebbero finiti necessariamente nell’inquadratura e dovevano quindi unirsi immediatamente al resto delle comparse.

Per realizzare queste complicate operazioni, Mendes ha arruolato Roger Deakins, già conosciuto per Sicario, Hail, Caesar ! e Blade Runner 2049, per cui vinse il BAFTA.

Coautrice della sceneggiatura è Krysty Wilson-Cairns, relativamente nuova nell’ambiente: 1917 è il suo primo progetto famoso, e holy smokes, se questo non è irrompere sulla scena con un gran botto !

1917 Featurette - Behind the Scenes (2019)

“Seguite in perfetta coordinazione i due attori senza perdere di vista il filmato e senza inciampare su questo terreno accidentato storicamente corretto”

La qualità della sceneggiatura è evidente già dalle prime scene.

Consideriamo che si tratta di un film storico basato su un periodo con cui molti spettatori non sono familiari. E’ quindi necessario fornire loro tutta una serie di informazioni.

Per avere un’idea di quanto questo possa essere complicato, voglio infliggervi un aneddoto personale, perché fanculo, ho ripreso il blog dopo mesi, e qualcuno deve pagare per questo.

Una volta ho provato a guardare Blackadder goes Forth con una coinquilina, che chiameremo Prosdocima per ragioni di privacy (una ragazza dotata di tutte le facoltà intellettuali e di un diploma universitario, quindi suppongo che abbia finito con successo il liceo).

La storia comincia in una trincea inglese.

Prosdocima: « Ma questi chi sono ? »

Tenger : « Inglesi. »

Prosdocima : « E dove si trovano ? »

Tenger : « Hum… non so di preciso onestamente, da qualche parte in Francia. »

Prosdocima : « Oh, ci sono state battaglie in Francia ? »

Mi sono raccattata la mascella. Anche perché ciò accadeva durante le celebrazioni del centenario di Verdun e Parigi era praticamente incartata con manifesti a tema.

Prosdocima : « E contro chi combattevano ? »

Tenger : « INDOVINA. »

Prosdocima : « Ma aspetta, il personaggio è appena andato dal generale… come ha fatto ? »

Tenger : « Non so, magari a cavallo, o è saltato su un camion o qualcosa del genere… »

Prosdocima : « No, intendo, era nella trincea, com’è uscito ? »

Tenger : « Coi piedi…? »

Insomma, non abbiamo finito di guardare l’episodio. E va bene, Prosdocima era particolarmente capra sull’argomento « Grande Guerra » (e « piedi »), ma è abbastanza rappresentativa dello spettatore medio.

Come fare allora a fornire allo spettatore tutte le informazioni necessarie ad apprezzare la gravità e urgenza della situazione senza fargli esplodere le palle nei primi 5 minuti?

Ebbene, i nostri due protagonisti sono convocati. Viene detto loro che il Generale Erinmone vuole vederli. Blake si volta verso l’amico Schofield e mormora : « Se il generale è qui, allora è una faccenda seria ».

E’ solo ua frase, è qualcosa di verosimile da dire per il personaggio, e serve perfettamente a informare lo spettatore che il conflitto è iniziato, che la situazione è già grave, e che le informazioni che stanno per essere discusse sono vitali per la storia.

Erinmore spiega a grandi linee la situazione a Blake, e lo informa che suo fratello finirà nel tritacarne teutonico se lui non riesce a portare il messaggio in tempo.

Ha senso che il generale riassuma la situazione per Blake, perché è importante che il nostro realizzi l’importanza della propria missione. E ha senso che Erinmore scelga Blake, dato che la vita del fratello è una motivazione supplementare per spronare Blake. E questa scelta del generale paga subito nella storia: appena usciti dal rifugio Schofield cerca di convincere Blake che è più prudente aspettare la notte, ma Blake non ne vuole nemmeno sapere.

Non abbiamo bisogno di preamboli riassuntivi, o di retrolampi, o di spiegoni. Anche qualcuno che non si è guardato 2-3 volte tutti i video di quel gran figo di Indy Neidell può seguire la vicenda (anche se la visione dei video di Indy Neidell è comunque consigliata).

Indy_Neidell

“Io divulgo forte, una volta la settimana.”

Per l’intero film, dialoghi e personaggi principali sono trattati con lo stesso grado di cura e umanità. E’ facile calarsi nei panni di questi due, e non abbiamo bisogno di conoscere tutta la loro storia per sentirci partecipi.

Quando una giornata comincia male e continua peggio

Il personaggio di Schofield è recitato da George McKay, vincitore di numerosi premi già dal 2013, tra cui un BAFTA per il suo ruolo in For Those in Peril e il Trophée Chopard nel 2017, nonché Virtuoso Award e Best Breakthrough Performance per 1917 nel 2020.

Blake è interpretato da Dean-Charles Chapman, ovvero Tommen Baratheon, per cui ricevette ai tempi la nomina per Screen Actor Guild Award for Outstanding Performance. Chapman è ancora giovanissimo e la sua performance in 1917 è eccellente !

“Cosa fai nella vita?”
“Interpreto gente a cui capita roba orribile.”

Altri attori celeberrimi compaiono nel film, tra cui Colin Firth e Benedict Cumberbatch, ma sono MacKay e Chapman a reggere la storia.

Tutti questi grandi pregi (la cura, i personaggi ben delineati, l’ottimo dialogo) fanno purtroppo spiccare un modo particolare quello che a parer mio è l’unico difetto: per quanto gli inglesi siano ben scritti e umani, i tedeschi sono caricature degne del peggior film di propaganda.

Tutti i tedeschi che incrociamo sono belve assetate di sangue, macchine per uccidere senza un’anima che cercheranno di accoltellarti anche dopo che gli hai dato fuoco.

#Edmund Blackadder from Blackadder screenshots

Questo contrasto probabilmente è dovuto al fatto che la storia vuole essere strettamente dal punto di vista degli inglesi. Per il soldato inglese, il soldato tedesco è un mostro disumano che continuerà a darti addosso fino alla fine.

Il guaio è che telecamera non è abbastanza « nella testa » di un personaggio particolare per giustificare questa distorsione della realtà. La storia è raccontata in modo molto realistico, e la realtà è che i soldati tedeschi, generalizzando, non erano poi così diversi dagli inglesi o dai francesi.

E se leggiamo le testimonianze dei reduci, ci rendiamo conto che spesso i soldati ne erano coscienti. Nel suo libro, La Peur, Gabriel Chevaillie racconta diversi episodi di solidarietà col nemico. In un passaggio in particolare, il nostro e i suoi si trovano in una trincea gelata a poche decine di metri da una trincea tedesca. I soldati decidono tacitamente di evitare sparatorie a meno che la presenza di un ufficiale non renda una dimostrazione di Valoroso Spirito Patriottico assolutamente necessaria. In entrambi i casi, se un ufficiale è nei paraggi, i soldati urlano Officier ! o Offizier !, come avvertimento a quelli dell’altra trincea.

Ovvio, questo non significa che soldati inglesi e tedeschi fossero affratellati da un comune senso di umanità. Ma i tedeschi erano esserim umani, inglesi e francesi ne erano spesso coscienti, e disumanizzare del tutto i crucchi è molto stridente in un film che si vuole il più realistico possibile.

Flo di The Great War – The Online Video Series (se non li seguite già, fatelo, sono bravi bravi esagerati!) nota peraltro che un film con questo budget sulla Prima Guerra mondiale è per forza un film realizzato dagli americani. Non ci sarà mai un film altrettanto opulento che rappresenta il punto di vista tedesco. Pertanto, è particolarmente deludente quando un aspetto fondamentale della guerra è trattato in modo così caricaturale.

Germans

Un film simile per certi versi è Dunkirk (di cui parlai qui, anche questo molto raccomandato !). I due film sono realizzati con tecniche diametralmente opposte (Nolan usa panoramiche, tagli, ecc., mentre Mendes segue fedelmente due personaggi), ma in entrambi i casi abbiamo film strettamente ancorati al punto dei vista dei personaggi principali, e in entrambi i film si mette in scena quello che Jeremy Mathai di Slashfilm chiama “un eroismo sottile, anonimo e sminuito”.

In entrambi i film, i personaggi principali si trovano di fronte alla titanica catastrofe della guera, che rischia di privarli della vita e di ogni bandello di umana decenza. Nell’inferno dello scontro, non devono semplicemente salvare la pelle, ma la loro umanità. L’eroismo celebrato in queste due storie non è quello del guerriero che si copre di gloria sul campo, è quello del soldato comune che riesce a sopravvivere e a restare umano.

Cito Dunkirk perché la tecnica non è la sola differenza notevole: un’altra à il modo in cui il nemico è rappresentato. In Dunkirk, i tedeschi sono invisibili. Vediamo i loro aerei, le loro bombe, le fucilate che fischiano vicino ai protagonisti, ma gli uomini sono quasi del tutto assenti. In Dunkirk i tedeschi non sono umani, nel senso che sono una sorta di catastrofe naturale che si abbatte sui personaggi, un cataclisma senza faccia, che è probabilmente come erano in effetti percepiti la maggioranza delle volte.

Il problema di 1917 è che i tedeschi qui la faccia ce l’hanno. Non sono « il nemico », sono oggettivamente mostri che cercheranno ti mangiarti vivo anche se stai tentando di aiutarli a uscire da un rottame in fiamme. Questo dà al film un bizzarro sapore di propaganda: gli inglesi sono umani, bravi, compassionevoli o per lo meno relatable, mentre i tedeschi sono sbavanti orchi capaci solo di uccidere e distruggere alberi in fiore (lol).

Non che i tedeschi non abbiano commesso atrocità durante la guerra (basti pensare allo Stupro del Belgio), ma mostrare solo questo aspetto mi pare un po’ caricaturale. I tedeschi del 1917 non sono i Nazisti del 1941, c’è davvero bisogno di farceli odiare così tanto? Mah.

L’attinenza storica

Bello esagerato, vi dico!

A parte la totale disumanizzazione dei tedeschi, l’aspetto storico di 1917 è curatissimo.

La Prima Guerra Mondiale non è la mia specialità, quindi ci sta che questa mia impressione sia data dalla mia superficiale conoscenza del periodo. Tuttavia non ho notato nessuna imprecisione. I costumi sono fatti benissimo, la ricostruzione delle trincee è fedele, con tanto di una smaccata differenza tra quelle inglesi e quelle tedesche. Il tracciato a zig-zag non solo è rispettato, ma sfruttato : quando i due protagonisti entrano nella trincea tedesca, ogni angolo potrebbe nascondere un crucco incazzato, e la tensione è palpabile. La cittadina francese sventrata dai bombardamenti è spettacolare, la campagna, che a tratti pare intatta e a tratti mostra i chiari segni del conflitto, sono tutti set realizzati con grande cura.

I personaggi sono realistici per il contesto in cui si trovano, dal generale ossessionato dalla « battaglia decisiva », al capitano che sta avendo una crisi nervosa al momento di guidare i suoi in battaglia, al veterano svuotato ed esausto.

Il film mostra anche notevole equilibrio negli aspetti più macabri. Potevano tranquillamente sbizzarrirsi con scene di macello, sarebbero state giustificate (sempre Chevallie descrive cose che i film splatter di quarta categoria se le sognano!), ma non indulge sul macabro. I cadaveri e l’orrore esistono, ma non sono calcati. I personaggi ci sono abituati ormai, a stento li notano, e la loro familiarità con cose che non dovrebbero essere familiari contribuisce alla brutalità dell’ambientazione. Il punto non è tanto l’esplosione della violenza, ma l’effetto usurante e traumatizante della violenza costantemente incombente.

Ho anche molto apprezzato il fatto che, a differenza di Dunkirk, questo film abbia mostrato gente delle colonie. In molti film, l’impressione è che gli eserciti Alleati fossero composti solo da bianchi europei. Non era il caso. Un sacco di gente delle colonie si è trovata a combattere in Europa, ed è giusto che siano rappresentati.

Può sembrare una cazzata, ma vi assicuro che ho incontrato un sacco di gente straconvinta che l’esercito francese fosse composto solo da bianchi e altre assurdità simili.

War Hero - Personology and Relational Science

“Sono lieto di essere qui a morire ammazzato per gente che vuole tassarci il sale!”

Parentesi politica a parte, nel panorama dei film storici, 1917 brilla per correttezza ed equilibrio.

Schofield corre felice dopo aver saputo della scoperta del vaccino contro la poliomelite

Conclusione

Ma siete ancora qui a leggere ? Con un solo elemento che secondo me poteva essere gestito meglio, 1917 entra diritto tra i miei film preferiti. E’ fatto benissimo, è bellissimo, e la prima volta che l’ho visto volevo restare seduta e riguardarmelo subito una seconda volta.

Attinenza storica e costumi Good_Grumpy
Tecnica di regia Good_Grumpy
Cast Good_Grumpy
Sceneggiatura Good_Grumpy
Effetti Good_Grumpy
Scenografie Good_Grumpy
I crucchi Bad_grumpy

Andatelo a vedere, o meglio, visto i tempi, procuratevelo e guardatevelo a casa. State al sicuro e non esponetevi a rischi inutili.

MUSICA


APPROFONDIMENTI

Il canale di The Great War

Articolo del New York Times su 1917

Articolo di Slashfilm

Pagina Imdb del film

 

Diavoli, Lindy Hop e orsi in monopattino: Hellzapoppin’!

Interno, bar.

Sono a bere con un gruppo di amici, gente con una vita e una famiglia che ha comunque deciso che bere un bicchiere con la Tenger fosse un buon investimento di tempo. Valli a capire.

Stiamo parlando di film. L’amico americano lancia il commento:

“Mi piacciono tantissimo i film vecchi!”
“Ah!- M’illumino. -Anche a me! Ma com’era bello e bravo Tony Curtis? Peraltro, ho rivisto di recente Bringing up Baby, lo conosci? Ho sempre avuto una cotta grandissima per Kat-

Mi fissa perplesso.

“Oh, scusa, intendevi ‘vecchi’! Io non ho particolare passione per la roba pre-anni ’30, però è vero che-

Stesso sguardo perplesso.

“Sei un fan di George Méliès?”

“Io intendevo gli anni ’80. 1980.”

“Ma mica sono vecchi!”

“Boh, 30-40 anni fa ormai.”

Oggi parliamo di film vecchi. E quando dico “vecchi” dico vecchi, gli anni ’80 erano pochissimo tempo fa, tipo boh, 10-15 anni fa al massimo!

Nella fattispecie, parliamo di film divertenti, di quello che è secondo me un momento d’oro nella commedia americana: gli anni ’40 e ’50.

Alcuni dei miei film preferiti sono stati girati in questo periodo: Some like it hot, How to marry a millionaire, Operation Petticoat, Arsenic and old lace

Oggi parliamo di un’altra perla del cinema in bianco e nero: Hellzapoppin’!

Oh yes

La storia dietro questo film comincia nel 1918, in un piccolo nightclub di Chicago, dove è prevista una serata vaudeville chiamata Mike Fritzol’s Frolics.

Il vaudeville è cabaret, scenette comiche inframezzate da canzoni popolari, pezzi musicali e sketch acrobatici. Molti dei più grandi artisti dello spettacolo cominciarono col vaudeville: Charlie Chaplin, Buster Keaton, Cary Grant…

Il genere ha avuto un’importanza immane nell’evoluzione del cinema: commedia acrobatica, ritmo e farsa fisica sono palesi in molti film dell’epoca d’oro.

Questa sera de1918, nel mazzo dei cabarettisti compare un duo sconosciuto: Harold Ogden Johnson e John Sigvard Olsen. I due tizi dai nomi vichinghi stanno cercando di riciclarsi dopo che il gruppo musicale che li aveva assunti si è sciolto.

I due spingono un pianoforte su scena davanti a una platea di gente poco convinta. Johnson si lancia in una frenetica sinfonia in ragtime, accompagnato dal violino di Olsen. La musica pimpante è inframezzata da boutades e insulti che i due si scambiano, mentre mettono insieme il testo improbabile di una canzone ridicola.

E’ un successo.

Il duo comico Ole&Chic ha debuttato sulla scena comica!

I roaring ’20 sono un buon periodo per Ole e Chic, e tra alti e bassi i nostri si costruiscono una rispettabile carriera che li porta, nel 1930, ad essere assunti come comici da niente meno che la Warner Bros!

I due norrenoamiericani compaiono in musicals come Gold Dust Gertie e Fifty million Frenchmen, ma il genere musical incappa in alcuni scogli e l’azienda decide di tagliare sulle canzoni e sui film musicali in generale.

A questo punto il duo è riuscito a inserirsi nel mondo dello showbiz: sono loro a lanciare sulla scena un altro celebre duo comico, Abbott e Castello (tradotti in Italia come Gianni e Pinotto, sigh).

Nel 1938, liberi dal contratto con la Warner Bros, Ole e Chic decidono di mettere insieme un nuovo spettacolo musicale. Nasce Hellzapoppin‘ (tradotto in Italia come Il cabaret dell’Inferno), la vendetta del musical!

Hellzapoppin’ al Winter Garden Theater di New York, 1938

Cos’era Helzapoppin’?

In un’atmosfera da circo, con fili del bucato tirati sopra la platea, la facciona di Hitler balena su uno schermo e urla con spiccato accento yiddish, seguito da Mussolini in blackface. Ole e Chic irrompono sul palco e lanciano incalzanti sketch comici fatti di scambi rapidi, insulti e buffonate acrobatiche, musica, balletto, animali ammaestrati!

Gli artisti si susseguono su scena, coinvolgono il pubblico, infliggono scherzi assurdi a colleghi in incognito seduti in platea o anche a spettatori paganti. Alla fine dello spettacolo, le ragazze del coro scendono dal palco per ballare con gli spettatori, le sedie sono spinte via per concludere in una colossale festa danzante con gli artisti.

Il copione cambia da spettacolo a spettacolo in una continua riscrittura che lo tenga sempre fresco, sempre attuale, sempre imprevedibile.

Hellzapoppin’ è un trionfo gargantuesco del vaudeville!

I critici arricciano il naso, ma è un assoluto successo di pubblico.

Helzapoppin‘ sarà lo show con la vita più lunga e il più alto numero di spettacoli del suo tempo, con un totale impressionante di 1.404 spettacoli!

Barto e Mann, due degli artisti di Hellzapoppin’ a Broadway

Lo spettacolo annoverava grandi artisti del vaudeville, come Barto e Mann, un duo di ballerini e acrobati che giocavano sul fatto che uno era uno scricciolo e l’altro un Marcantonio; il prestigiatore Theo Hardeen, fratello minore di Houdini; gli straordinati Harlem Congeroo Dancers (meglio noti poi come i Whitey’s Lindy Hoppers), e tantissimi altri.

Lo spettacolo piacque così tanto che una versione itinerante fu messa insieme e spedita a zonzo per gli Stati Uniti, ma non era finita lì: Hellzapoppin’ sarebbe diventato un film con la Universal Picture!

Manifesto del film

Ole e Chic adattano la follia prorompente dello spettacolo teatrale con l’aiuto dello sceneggiatore Nat Perrin, già affermata penna al servizio dei Fratelli Marx.

Del cast originale restano solo Ole, Chic e i Whitey’s Lindy Hoppers. In compenso saltano a bordo grandi artisti del grande schermo, come la ballerina e attrice comica Martha Raye, l’affermato Mischa Auer, o uno dei tre Marmittoni Shemp Howard.

Il nuovo medium presuppone un radicale cambiamento strutturale (non potendo più smollare blocchi di ghiaccio in grembo al pubblico o altre balordaggini simili), ma offre anche l’occasione di reinventare, e il duo ne approfitta per deridere Hollywood e i film del periodo.

Come dice il regista nel film (insistendo che un film deve avere una trama):

-This is Hollywood, we change everything.

Brace yourselves!

Il film comincia con quella che appare una banalissima scena musicale, con un coro di belle figliole che canta una sdolcinata canzone d’amore scendendo una scalinata.

I once had a vision of Heaven, and you were there

La sbrodolata melensa si trasforma però in strilli di terrore quando la scalinata che svanisce sotto i loro piedi, scaraventando tutti all’Inferno. Dopo i credits, che scorrono davanti a immagini di gente che precipita nell’abisso, un cartello ci spiega che ogni somiglianza tra Hellzapoppin‘ e un film è puramente casuale.

In una bolgia frenetica diavoli in mutande cantano “anything can happen and it probably will!” mentre acrobati e ballerini torturano dannati e inscatolano peccatori.

Un taxi arriva con un colpo di fulmine e scarica Chic e Ole assieme a polli, capre, pecore e bestie assortite.

Dopo qualche minuto di pura follia e metahumor, il tutto si rivela essere il palco di unu studio: Chic e Ole stanno realizzando il film di Hellzapoppin‘. Dopo un frenetico concatenarsi di gag surreali e il suicidio di uno dei cameramen, un furioso regista cerca di spiegare ai due che non possono continuare a snocciolare sketch folli come fanno a Broadway, che “in un film ci vuole una trama”.

-A story.- Ride Chic. -Crazy!

Anything can happen and it probably will!

Il film è costruito con cornici-nelle cornici e metahumor surreale: un tecnico sta proiettando il film di Hellzapoppin’ in un cinema, e nel film Chic e Ole stanno parlando di Hellzapoppin’ col regista, che spiega loro la storia che Hollywood vuole (“ci vuole una storia d’amore!”), e nella storia che Hollywod vuole si sta preparando uno spettacolo teatrale, e così via, un’infinita matrioska del “che cacchio sto guardando”.

Per citare uno scambio nel film:

-Look here my friend, we’re making a motion picture!

-That’s a matter of opinions.

Può sembrare una faccenda molto contorta, ma il ritmo del film è così frenetico e il tono così surreale ed esilarante, che ci si trova a seguire senza porsi troppe domande. E ne vale la pena!

Duckface before it was cool!

Se vogliamo proprio individuare la storia “principale”, al centro di tutto, si tratta di una parodia geniale delle peggio mattonate di Hollywood.

Kitty è una ragazza giovane, bellissima, ricchissima e talentuosissima. E’ corteggiata da Woody, pure ricchissimo e favorito dai genitori di lei. Ma dramma! Kitty è innamorata del drammaturgo squattrinato Jeff.

Kitty ha abbastanza soldi per tutti e due e abbastanza carattere da sfidare il volere dei genitori, ma Jeff rifiuta di fare la vita del mantenuto. Con l’aiuto di Kitty mette su uno spettacolo teatrale che spera di mostrare a un noto produttore di Hollywood.

Se il produttore gli compra lo spettacolo, Jeff sposerà Kitty, altrimenti fuggirà via, lasciando la nostra a sposare il suo caro amico Woody.

Jeff fa quindi appello a Chic e Ole per mettere insieme lo spettacolo, e segue una folle sarabanda di scherzi, canzoni, giochi di prestigio e personaggi caricaturali.

Signore e signori: a coat of arms!

E’ difficile descrivere davvero Hellzapippin’.

Per certi versi è una commedia tipicamente anni ’40, con il botta e risposta serrato, il dialogo velocissimo, gli intermezzi musicali.

La meta-ironia e la satira degli schemi tradizionali però lo rendono un film assolutamente unico che ha ispirato generazioni di commediografi a seguito.

Uno di quelli che di certo hanno pescato più di tutti dalla surreale comicità di Hellzapoppin’ è l’ottimo Mel Brooks. Il suo bellissimo The producers è sicuramente in debito con il film di Chic e Ole.

Un altro elemento comunissimo nel film (ed ereditato nelle pellicole di Mel Brooks) è il continuo rompere della “quarta parete”, il riconoscere che si tratta di un film. In diversi momenti gli attori si rivolgono all’operatore della prima cornice o direttamente al pubblico. Queste gag non sono semplici battute o strizzate d’occhio, ma sono sviluppate e sfruttate al loro massimo potenziale comico.

In un momento del film, ad esempio, il proiettore s’incanta, bloccando il film a cavallo tra due fotogrammi, sicché Chic si trova nel fotogramma di sopra mentre Ole e Woody sono incastrati in quello di sotto.

In un altro momento il secondo proiettore si avvia catapultando Chic e Ole in un film di indiani e cowboy. E così via.

I personaggi sono una compagine memorabile ed esilarante, dove Martha Raye brilla in particolar modo come la rozza ballerina Betty, una specie di ruspa umana determinatissima a violentare il principe Pepi, esule russo e truffatore che si guadagna la vita facendo il buffone per ricchi americani. Durante tutto il film Pepi sarà lo sventurato oggetto delle attenzioni di Betty, in una parodia del topos Hollywoodiano della giovane innocente assediata dallo straniero seduttore e predatore.

Il tutto è punteggiato da pezzi musicali nel miglior stile anni ’40, con uno straordinario spezzone dei Whitey’s Lindy Hoppers, in una rara celebrazione cinematografica di arte afroamericana.

E’ degno notare che tutti i ballerini appaiono in abiti da domestici per poi scatenarsi in un eccezionale numero musicale, probabilmente una frecciata al fatto che, al tempo, l’unico ruolo che un afroamericano poteva ottenere in un film era proprio quello di domestico, a prescindere dal talento della persona. Ricordiamo che negli anni ’40 (e anche dopo) solo il fatto di mettere nella stessa scena attori bianchi e neri era considerato risqué o proprio riprovevole (specie negli stati meridionali). Film come questo o Gone with the wind sono eccezioni, non la regola.

I Whitey’s Lindy Hoppers

Molte delle canzoni non hanno alcuno scopo nella storia (ma poi c’è davvero una storia?), ma sono pimpanti e orecchiabili: Watch the birdie mi resta in testa per ore ogni volta che riguardo questo film!

Non voglio elaborare oltre su tutte le buffonate presenti, perché non è proprio possibile rendergli giustizia in prosa e perché rovinerei le trovate comiche. Come dice la canzone principale: anything can happen and it probably will!

La trama nella trama nella trama nella trama che al mercato mio padre comprò

Good_Grumpy

L’energia dirompente e il ritmo incalzante

Good_Grumpy

Il surrealismo e la creatività

Good_Grumpy

Il cast

Good_Grumpy

La musica

Good_Grumpy

Lo stile vaudeville

Good_Grumpy

La satira delle smarmellate romantiche Hollywoodiane

Good_Grumpy

Hellzapoppin’ è un film spassosissimo che tutti dovrebbero conoscere. Ancora nel 1967 arrivò al secondo posto in un sondaggio fatto dalla Canadian Centennial Commission tra i critici cinematografici di 40 paesi per determinare le migliori commedie di sempre. Altri titoli erano Ninotchka, Shoulder arms e The Navigator.

E’ un trionfo del vaudeville, che invade e deride i tropismi e clichés del cinema.

Non vi spoilero la fine, ma sappiate che questa include invero un orso in monopattino, cani parlanti e uno sceneggiatore preso a rivoltellate.

Lo trovate su YouTube in lingua originale, ma esiste una versione doppiata in italiano, e doppiata piuttosto bene (nei limiti del possibile, si tratta pur sempre di commedia, il genere più difficile da tradurre e doppiare).

Dategli una chance!

MUSICA!


Bilbliografia

Il film completo

COBBETT Steinberg, Film facts, New York, Facts on Files Inc., 1980

La pagina wiki del film

La pagina wiki dello spettacolo teatrale

La pagina wiki di Olsen

La pagina wiki di Johnson

 

Sangue del mio sangue: necromanzia, femminismo, cannibalismo e altre blasfemie

Evangeline Wrayburn è un’archeologa necromante. In un mondo dove la necromanzia è stata elevata a scienza, Evangeline usa mummie e cadaveri rianimati per dissotterrare tombe e vestigia. Il suo sogno più grande è diventare un’archeologa di chiara fama, di dirigere uno scavo tutto suo.

E’ competente, è intelligente, è audace, ma ha un problema.

Ha le tette (poche, ma ci sono).

Evangeline vive in una società vittoriana dove avere le mestruazioni basta a squalificare un ricercatore. Evangeline però non si arrende. Nella sua sempiterna lotta impari contro il Soffitto di Cristallo, le capita finalmente l’occasione della vita: un posto sullo scavo di una colossale piramide sotterranea, la tomba monumentale di Orrhane il Macilento, re necromante sepolto con la sua sposa bambina, gli schiavi e centinaia di migliaia di soldati non morti.

Il sito si trova in un deserto infestato da tribù ostili e al confine tra paesi nemici. La missione archeologica ha poco tempo per scoprire tutti i segreti del re necromante prima che il paese vicino li scopra e attacchi per papparsi il ritrovamento.

Risultati immagini per vaporteppa sangue del mio sangue

Sangue del mio sangue è il secondo romanzo di Menconi che leggo. Come avevo già segnalato in questo articolo, Abaddon mi era piaciuto molto. In questo caso Menconi dichiara di aver voluto scrivere una protagonista femminista. Vi pare che una Feminazi Lesboislamica Rettiliana come la sottoscritta poteva farselo sfuggire?

Ovviamente no.

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L’ambientazione

Menconi ambienta la storia in una società di stampo vittoriano dove la necromanzia è un’attività sviluppata e diffusa. La società è organizzata di conseguenza, con mummie usate come manodopera a basso consumo, teste volanti come animaletti domestici, un’estetica legata alla morte e alla rianimazione, ecc. Il risultato è un insieme ben bilanciato di elementi familiari e bizzarria macabra.

Come accennato nell’articolo precedente, la tecnica di Menconi è ottima. Nonostante l’ambientazione sia aliena alla nostra, dettagli concreti sono inseriti nel testo senza spiegoni: il quadro generale emerge in modo spontaneo e naturale attraverso il punto di vista della protagonista. Il dettaglio dà sostanza al mondo, e la coerenza interna favorisce la sospensione volontaria dell’incredulità.

La professione di Evangeline permette peraltro di dotare il mondo del romanzo di una Storia e di una mitologia. Nonostante la stranezza, alla fine del romanzo abbiamo l’impressione di conoscere relativamente bene questo universo. L’idea di una piramide rovesciata sotterranea può apparire bizzarra d’acchito, ma diventa presto familiare.

La narrazione permette anche di apprezzare le storture della società descritta: come accennato, si tratta di una società patriarcale estremamente sessista, ma anche razzista e omofoba, come è normale aspettarsi dal contesto.

L’attenzione a dettagli di questo tipo e la nonchalance con cui i personaggi internalizzano questi elementi danno rotondità e verosimiglianza all’ambientazione.

1941

I negri viaggiano dietro!
(Citazione cinematografica per intenditori)

A tratti risalta fuori lo stile “videoludico”, come in Abaddon. Ad esempio, quando gli archeologi si trovano a dover superare un passaggio sorvegliato da dei mostri immortali. Evangeline riesce a trovare la combinazione necessaria a passare, e dopo aver “sbloccato” il passaggio la questione non si pone mai più, nonostante il pericolo resti e il trucco per passare richieda costante lavoro da parte di comprimari (e sia quindi vulnerabile all’errore umano).

Nell’insieme però questo tipo di ispirazione è molto meno presente che in Abaddon.

La storia

Evangeline è un’archeologa che usa la necromanzia (e quindi il controllo sulle mummie) nei propri scavi. Nonostante sia molto brava in ciò che fa, la sua carriera non riesce mai a decollare. Un po’ perché l’ambiente è difficile, un po’ perché nessuno la prende sul serio come donna archeologa.

Ho apprezzato moltissimo il modo in cui Menconi descrive le peripezie della protagonista e il muro di gomma su cui la nostra rimbalza in continuazione.

Nonostante Evangeline sia una lavoratrice indefessa e un’eccellente professionista, non riesce a sfuggire all’immagine che il mondo ha di lei: emotiva, debole, incompetente, vittima della propria natura.

La nostra si trova a giostrare conflitto da ogni lato: la famiglia non la sostiene, la professione è difficile, è indebitata fino agli occhi, lo scavo è in una zona pericolosa e le tensioni diplomatiche potrebbero risultare in una guerra da un giorno a quell’altro. In più, quasi nessuno la prende sul serio. A ogni occasione, Evangelina è sorpassata da gente meno competente, o lasciata da parte in barba alle regole.

Nonostante i continui ostacoli, la nostra riesce a imporsi nello scavo della gigantesca piramide sotterranea del re necromante Orrhane il Macilento, un tiranno pazzoide con una sposa bambina e una fine misteriosa.

Evangeline è attorniata da una variegata compagine di personaggi, soprattutto uomini. Uno scrittore pigro li avrebbe resi tutti tronfi incompetenti per far risaltare il genio ribelle della protagonista. Non con Menconi. Comprimari e antagonisti sono vari e memorabili, e le interazioni con Evangeline sono verosimili e credibili. C’è chi è misogino perché rozzo e ottuso, chi ha pregiudizi più o meno coscienti, chi antagonizza la protagonista per ambizione, chi per preconcetto bigotto, chi per motivi personali.

La prosa e la storia non si prendono troppo sul serio: Sangue del mio sangue vuole essere un racconto macabro e divertente, oltre che un romanzo di avventura. A tratti descrizioni e situazioni sfumano nel caricaturale e nel grottesco, con un tono molto più leggero e ironico rispetto ad Abaddon.

Verso l’ultimo terzo del libro, si sviluppa un interessante parallelismo tra Orrhane e Evangeline, e un interessante chiasmo. Orrhane è all’apice del potere, un re, un necromante con potere sulla vita e sulla morte. Evangeline non ha potere su niente, e anche la poca autorità che ufficialmente detiene le viene a stento riconosciuta.

Entrambi però sono ossessionati dall’immortalità. Orrhane non vuole morire, non vuole cessare di esistere. Evangeline vuole diventare una famosa archeologa, vuole essere conosciuta e riconosciuta.

Entrambi sono determinati, entrambi hanno pochi scrupoli. Orrhane praticava sacrifici umani, era pronto a consumare il sangue del suo sangue per ottenere ciò che voleva. E presto Evangeline si trova a dover compiere una simile scelta.

La vicenda nel suo insieme scorre bene e senza intoppi: non ci sono contraddizioni e buchi di trama.

Però c’è un punto che a parer mio pone problema. Non si tratta di un buco di trama, quanto di una dissolvenza molto conveniente.

Quando Evangeline decide di liberare Orrhane, il necromante è chiuso in una gabbia in una tenda sorvegliata da soldati cirani.

Evangeline entra senza problemi (cosa credibile nel contesto) e ravviva lo stregone.

Nella scena dopo, lo ha riportato nella piramide.

Come?

La gabbia sarà stata chiusa a chiave. Dove a preso la chiave?

E come lo ha tirato fuori dalla tenda? Orrhane è un albino, non proprio qualcuno che si mimetizza. Ma diciamo che l’ha nascosto in un cesto del bucato, di nuovo, come? C’erano cesti del bucato in giro?

I cirani di guardia non si sono insospettiti? Sono stati messi a guardia di un esemplare unico in uno scavo di importanza nazionale!

Insomma, ci sta che non abbia capito io, ma si tratta di un passaggio importante della trama e secondo me sarebbe stato necessario elaborare in qualche modo.

La protagonista

Al di là dell’ambientazione e della storia, il personaggio di Evangeline è, secondo me, uno dei punti di forza del libro.

Menconi dice di aver voluto scrivere un personaggio femminista. Non so quali siano le idee politiche del Menconi o cosa ne pensi delle femministe, ma a mio modesto parere il risultato è molto interessante.

Evangeline è un buon personaggio. E’ strutturato bene, è ricco, è simpatico.

Evangeline è una gran lavoratrice, è audace, è determinata, ed è competente nel suo campo. Per chi ha letto la mia OpinioneImperdibileTM su Star Wars 7, sa che ho un dente avvelenato per i personaggi femminili scritti a cazzo.

Rey è scritta a cazzo. Rey è bellissima nonostante il suo stile di vita. Rey è capace di pilotare il Millennium Falcon nonostante non ci abbia mai messo piede prima. Rey è capace di usare la forza contro un allievo sith nonostante non abbia avuto nessun addestramento. E così via.

Dov’è la fatica, dove sono i tentativi, dove sono gli sbagli madornali e le musate in terra?

Rey, seppur scritta mille volte meglio, ha lo stesso problema del protagonista di quella puttanata mostruosa di Educazione siberiana: se non c’è difficoltà il risultato non vale nulla, se non c’è debolezza non c’è forza, se non c’è paura non c’è coraggio.

Con Evangeline vediamo il lavoro, la fatica, la passione, la frustrazione, gli errori. Tutto ci viene mostrato.

Un altro tropismo comune quando qualcuno scrive a cazzo un personaggio femminile Forte e Indipendente è di renderlo anaffettivo e in generale acido e antipatico. Insomma, per evitare il cliché della ragazzina romantica, scriviamola come una sociopatica arrogante e sferzante.

Questo non è un problema legato solo ai personaggi femminili: il personaggio genio e arrogante strafottente è purtroppo un cancro diffuso. Nella realtà dei fatti, più uno conosce il proprio campo più è cosciente dei propri limiti e sarà quindi meno incline a tirarsela. Ma sto divagando.

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Pratchett ha una vasta gamma di eccellenti personaggi femminili

Evangeline è un personaggio senza troppi scrupoli, pronto a manipolare e mentire per arrivare dove vuole, ma è anche una persona responsabile ed empatica. Vuole sinceramente bene ai suoi Marmaduke e Fester, vuole bene ai genitori ed è ferita dal loro rifiuto, si assume la responsabilità di proteggere i propri sottoposti. La sua sete di gloria la spinge a fare o considerare azioni anche drastiche, ma resta una brava persona.

E’ ambiziosa, ed è pronta a mettere a repentaglio la vita altrui, ma non costringe il prossimo a prendere rischi che non prenderebbe lei per prima.

E’ anche un personaggio ben ancorato nel proprio contesto. Evangeline è spesso esasperata dal sessismo pervasivo della società perché ciò ha un impatto diretto su di lei. Allo stesso tempo ha interiorizzato del tutto il razzismo e l’omofobia. E’ verosimile: molte persone hanno difficoltà a tener conto di ciò che non ha un impatto diretto sulla loro pellaccia. E’ la ragione per cui la narrativa è importante: riuscendo a far immergere il lettore nei panni di qualcun altro (il personaggio) puoi offrire un punto di vista nuovo che la persona non avrebbe mai preso in considerazione prima. Perché una persona si interessi di un problema occorre stabilire una connessione a livello emotivo, non solo intellettuale.

Il Menconi scansa anche uno dei cliché che personalmente odio di più in assoluto in tutto l’universo narrativo di tutta la Storia della Letteratura: Madame Bovary.

Vi avevo accennato nel mio rant su Interstellar. Non ci sono davvero parole nel vocabolario per descrivere a che punto odio e disprezzo il cliché della donna vittima del proprio lato emotivo. La donna che sì, magari è anche competente, intelligente, forte, quel che cacchio vi pare, ma è sentimentale, ma si innamora, e l’amore romantico diventa il suo unico movente.

Non una qualsiasi forma di amore, no eh. Amore romantico. Perché ogni donna aspetta il suo Principe Azzurro, la sua vita gira intorno a quello!

A mio modesto parere questo tipo di storia fa dei danni.

Sia chiaro: mi rendo conto che l’amore romantico fa parte dell’esperienza di molti. Non c’è niente di male di per sé nelle storie con amore romantico. Quello che odio è quest’idea che un personaggio femminile non può essere davvero completo senza un uomo al suo fianco. Che se non sperimenti quel tipo di amore allora non sei davvero una persona a tutto tondo, non hai vissuto appieno.

Spesso, se il personaggio femminile non è incline al romanticismo, è per via di chissà quali traumi strappalacrime. Perché, in realtà, sotto la sua scorza di donna forte e competente c’è sempre e comunque un povero piccolo coniglietto spaventato che vuole solo essere raccolto e amato.

Capite, non è diventata ingegnere aerospaziale perché le garba fare l’ingegnere aerospaziale, me per riempire il vuoto lasciatole nel cuoricino dal babbo defunto, o qualche altra trovata del genere.

E’ una roba fin troppo pervasiva e che a parer mio ha contribuito non poco a rendere infelici un sacco di persone. E’ una formula diseducativa e dannosa.

Non è il caso di Evangeline. Certo, Evangeline incassa molto trauma, anche affettivo, ma è una donna indipendente, autosufficiente e competente, una donna davvero indipendente, autosufficiente e competente.

C’è della tensione sessuale nella storia, e viene trattata per quello che è: semplice attrazione sessuale. Ed è così rinfrescante da vedere. Evangeline è cosciente di ciò che prova, non ci sono storie romantiche, non ne ha bisogno, è un personaggio già completo che fa il suo arco, impara la sua lezione e supera i propri difetti. E per una volta tanto il suo difetto non è “ti manca il fidanzatino”.

Come accennato prima, uno scrittore sciatto avrebbe fatto risaltare la tostaggine indipendente della protagonista mettendola in mezzo a una folla di uomini maschilisti e stupidi. Loro hanno torto, lei ha ragione.

E’ una paraculata: specie in una società tradizionalmente maschilista, una misoginia più o meno interiorizzata non è appannaggio solo degli stupidi né solo degli uomini.

Nel libro di Menconi gli uomini che circondano Evangeline sono variegati e ben costruiti. Spesso sono competenti e capaci: non la prendono sul serio per via di un pregiudizio dato per scontato. Evangeline, dal canto suo, abituata a non essere mai presa sul serio, finisce per comportarsi allo stesso modo: non sta a sentire perché loro non stanno a sentire, finisce per isolarsi e entrare nella stessa logica arrivista di chi le frega le idee senza darle credito. Così facendo, gli altri archeologi fanno casino, ma anche lei combina casino. I personaggi devono mettere da parte le loro posizioni e riconoscere l’umanità e le capacità l’uno dell’altro per poter lavorare insieme e progredire.

L’ambizione è una caratteristica importante di Evangeline, specie quando si trova davanti all’annosa domanda: cosa sei disposto a sacrificare per ottenere ciò che vuoi?

Spesso in questi casi l’ambizione viene trattata come il difetto: il problema della tizia è che è ambiziosa,vuole diventare famosa e questo di per sé è sbagliato. Deve solo rendersi conto che l’amore è più importante, rinunciare alla sua ossessione e gettarsi tra le braccia del Principe Filippo di turno. Ah, quanta sofferenza evitata se solo si fosse subito resa conto di cosa era più importante!

Non è il caso con Menconi. Nella storia il problema non è l’ambizione, ma l’eccesso, l’ossessione. Per usare le parole del libro:

La vita eterna non ha alcun valore se sei un mostro con la mente annebbiata

Occorre un equilibrio sul prezzo che si paga e cosa si acquista.

Non è una condanna dell’ambizione, né una celebrazione superomistica del personaggio pronto a tutto, ma una presa di posizione molto più equilibrata e sfumata.

Perché abbiamo bisogno di più storie così
Come ho detto in altri articoli in passato, la gente non vive “nel mondo”, vive in un’idea che ha di mondo.

Tale idea non è costituita da oggettivi studi scientifici, ma da storie.

Sì, magari sul Riscaldamento Climatico ti sei fatta un’idea leggendo la stampa specializzata, ma per il resto ti basi soprattutto su storie e favole. Se senti sempre raccontare fatterelli di ebrei che rubano, darai per scontato che gli ebrei rubano senza nemmeno pensarci troppo, e magari un giorno ti chiederai da dove veniva quell’idea senza riuscire a trovare una risposta esatta.

Se fin da bambina ti raccontano storie dove il lieto fine è un matrimonio e tanti bambini, si innesterà il preconcetto che lo scopo vero alla fine è maritarsi e sgravare pargoli per la Patria.

Se lo stupro in prigione viene sempre presentato come una cosa buffa, gli uomini che ne sono vittime saranno derisi invece che aiutati. La prima reazione sarà una risata. Non perché hai attentamente ponderato la cosa e deciso che gli uomini meritano lo stupro, ma perché da sempre il soggetto ti viene presentato come una battuta buffissima.

Lo abbiamo visto con i personaggi omosessuali: da inesistenti, a antagonisti pervertiti, a macchiette buffe che pensano solo a scopare, e finalmente negli ultimi anni si sta arrivando ad avere personaggi scritti meglio. L’opinione pubblica sugli omosessuali è evoluta di conseguenza: oggi la maggioranza degli europei ritiene che debbano avere gli stessi diritti degli altri mentre negli anni ’80 potevano crepare tutti di AIDS e se lo sarebbero meritato.

In altre parole, per evitare di avere una visione stereotipata e povera della realtà, occorre una narrativa che non sia stereotipata e povera.

La narrativa buona ha la capacità di parlare con la nostra parte emotiva, con il nocciolo più primitivo della nostra persona. Non per forza uno cambia le proprie idee dopo un libro o un film, ma uno può acquisire un punto di vista nuovo. Empatizzando con un personaggio posso capirlo e posso arricchire l’immagine che ho del mondo.

Abbiamo bisogno di personaggi originali, che rompano i clichés. Abbiamo bisogno di personaggi variegati e differenti, di personaggi complessi.

Per anni le donne sono state ritratte come principesse in pericolo. Quando questo cliché ha stancato, abbiamo provato il contrario: maschiacci diverse dalle “altre” (cretinette interessate solo alla moda), capaci di tutto in barba alla logica. La nuova formula non era meno misogina della prima, purtroppo, perché era altrettanto piatta e stereotipata.

Personaggi tridimensionali e variati non sono solo belli da leggere: sono positivi in generale. Un romanzo zeppo di clichés, di per sé e preso da solo, non è un problema, è banale e basta. Un romanzo capace di originalità, di per sé e preso da solo, è utile al progresso.

Concludiamo coi Grumpies!

La storia

Good_Grumpy

L’ambientazione fantasiosa

Good_Grumpy

La protagonista

Good_Grumpy

Una dissolvenza troppo conveniente

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La mitologia

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I comprimari

Good_Grumpy

I dettagli bizzarro-macabri

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Sangue del mio sangue si trova su Amazon. Anche senza tutte le mie menate sull’importanza della narrativa per la società, la storia è divertente, il personaggio ben costruito e il Menconi scrive bene. Datci un’occhio.

MUSICA!

Di scheletri e gente morta male: History cold case

In ricorrenza della simpatica Festa dei Morti, ho deciso consigliare qualcosa che combini gente mortamale, ricerca storica e pedanteria accademica. E quando si parla di pedanteria, si può sempre contare sull’Inghilterra!

History cold case

History cold case è una serie in due stagioni che passata in tv tra il 2010 e il 2011.

Il concetto è semplice: applicare i mezzi della medicina forense attuale ai resti di gente morta illo tempore.

Un’analisi dettagliata e completa del cadavere richiede un notevole investimento in risorse, e spesso la descrizione degli scheletri è relativamente sommaria. Basti pensare che fino a un paio di decenni fa molti scheletri erano identificati come maschi o femmine in base al corredo funebre, metodo raffazzonato che ci ha fatto prendere non poche cantonate.

Lo studio completo della salma è di solito riservato a defunti importanti: ad esempio, qualche anno fa un team diretto dal Professor Fornaciari dell’Università di Pisa ha analizzato la mummia di Cangrande della Scala, determinando che il prode ghibellino è stato spacciato da un infuso risolutivo corretto alla digitale.

Benvenuto a Treviso, che ne dice di una tipica tisana locale?

La serie History cold case segue un protocollo simile, occupandosi però di morti senza nome, pescati da varie epoche, dall’Età del Bronzo all’Epoca Vittoriana.

Il team

Sue Black

Sue Black dirige la squadra di ricerca. La nostra è antropologa e professoressa di Anatomia ed Archeologia forense all’università di Dundee. L’identificazione a partire dallo scheletro fu la sua tesi di dottorato nel 1986.

Per più di 10 anni Black ha lavorato in qualità di antropologa nell’identificazione dei morti, sia all’ospedale St. Thomas di Londra che in zone di conflitto come il Kosovo o l’Iraq. La nostra ha partecipato anche allo sforzo internazionale di identificazione delle vittime in Thailandia, dopo lo tsunami del 2004.

Black ha diretto per un periodo il Center of Anatomy and Human Identification (CAHID) dell’Università di Dundee, ma si occupa anche di gente viva: nel 2014 la nostra contribuisce all’identificazione delle mani di un uomo riprese in un video pedopornografico.

Insomma, cosa non c’è da apprezzare in Sue Black?

Xanthé Mallett

Segue Xanthé Mallet.

Anche lei antropologa forense e specializzata in biometrica del cranio e identificazione delle mani, senior lecturer all’Università di Newcastle in Australia.

La nostra comincia la sua carriera accademica con una laurea in Archeologia a Bradford, per poi orientarsi sull’Antropologia con un Master a Cambridge e un dottorato a Sheffield.

Per 5 anni ha lavorato al CAHID di Dundee, università presso cui è stata anche professore in Antropologia.

Caroline Wilkinson

caroline

Caroline Wilkinson

Terza e ultima antropologa del gruppo è Caroline Wilkinson, dottorata all’Università di Manchester, collaboratrice del CAHID ed esperta in ricostruzioni facciali.

La nostra ha ricreato la faccia di noti defunti come Riccardo III d’Inghilterra o Roberto I di Scozia.

Nel 2012 ha ricevuto una medaglia dalla Royal Photographic Society per il suo contributo al miglioramento della fotografia medica.

 

Wolfram Meier-Augustein

Wolfram Meier-Augustein

L’ultimo membro fisso del gruppo è anche quello col nome più metal, Wolfram Meier-Augustein. Il nostro ha un dottorato in Scienze naturali della Ruprecht-Karl University di Heidelberg, è un esperto forense per la National Crime Agency e professore alla Robert Gordon University di Aberdeen. Dal 2010 al 2014 è stato direttore del Forensic Isotope Ratio Mass Spectrometry Network ed è stato membro della British Association for Human Identification.

E’ stato consulente in diversi casi di cronaca nera, dove ha contribuito ad identificare parti umane. Ha partecipato anche nelle indagini del famigerato caso delle sorelle Mulhall, due irlandesi che uccisero a coltellate e martellate il fidanzato della madre, per poi farlo a pezzi.

I casi

History cold case non è una lunga serie: ci sono solo due stagioni, ognuna delle quali ha 4 episodi di circa un’ora.

Ogni volta, il gruppo prende in esame un caso del passato (con una o più vittime) che presenti un qualche tipo di peculiarità.

I resti sono quindi studiati come se si trattasse di vittime contemporanee.

Mentre parte del team studia il cadavere (o i cadaveri), altri membri si occupano di completare il contesto storico con l’aiuto occasionale di altri ricercatori, reenactors e storiografi.

Mentre l’indagine va avanti, la Wilkinson si adopera a ricostruire il viso della vittima, di modo da restituire un’apparenza umana all’individuo.

Alla fine dell’episodio, il gruppo presenta il resoconto di ciò che sono riusciti a trovare (che può essere un sacco di roba o molto poco), le possibili circostanze della morte, e il ritratto del defunto.

Oltre alla ricerca dell’identità del morto, l’indagine offre anche uno spunto per parlare del periodo storico o di particolari fenomeni legati al morto, come i ladri di corpi dell’Inghilterra ottocentesca, le persecuzioni antisemite o i sacrifici umani dell’Età del Bronzo.

Uno dei casi porta sullo scheletro di una donna seppellito in una posizione bizzrra con non uno, non due, ma TRE infanti disseminati addosso

Spesso in questo genere di documentari si cerca di aggiungere una spolverata di suspence e dramma, qualcosa che tenga agganciato lo spettatore distratto.

Nella fattispecie questo aspetto è molto discreto, e non si sconfina mai in roba ridicola tipo reenactment del fattaccio o altre boiate atroci del genere (molto comuni nella “documentaristica forense” da pizza e divano).

Il contesto storico è di solito sommario, ma l’inusuale dipartita del soggetto di studio permette spesso di avere un ragguaglio su aspetti poco noti.

Nella seconda puntata della seconda serie, ad esempio, il gruppo della Black si occupa di una fossa comune trovata subito fuori dalle mura di York e contente 113 corpi, probabilmente legati all’assedio del 1644.

I nostri studiano in particolare 2 scheletri che presentano una rara malattia genetica che calcifica e deforma le ossa. Al di là del contesto storico, l’episodio mostra che portatori di handicap (anche gravi) erano presenti negli eserciti del periodo.

Immaginate domani una serie tv che racconta la storia di un portatore di handicap all’assedio di York.

Posso già sentire i lamenti e le lagne dell’Uomo del Bar: “ecco questi social justice warriors che impestano la Storia con le loro cazzate con gli handicappati in guerra!”

La prima puntata della prima serie parla dell’Uomo di Ipswich, lo scheletro di un maschio adulto di origine africana risalente al XIII° secolo.

Di nuovo, le sentite le lagne dell’Uomo del Bar sulle femministe che vogliono inquinare il passato bianco dell’Inghilterra?

O gli strilli dello Storiografo di Facebook che afferma con totale sicurezza che l’Europa del 1200 era isolata e stagnante?

Il punto è che la Storia è molto più complessa di quanto siamo portati a pensare dopo uno studio superficiale. Serie come questa sono un piccolo contributo nel demolire i luoghi comuni.

Parlando di luoghi comuni, un esempio è l’episodio 2 della prima serie, in cui la Black analizza la mummia di un bambino. La nostra lancia una serie di ipotesi sul background del fanciullo, ipotesi ragionevoli ma che si rivelano del tutto errate dopo uno studio approfondito. Questo mostra come un bais iniziale, se non verificato in modo rigoroso, può portare a conclusioni del tutto false.

Per un lungo periodo gli archeologi hanno catalogato il sesso del morto in base al corredo: armi->uomo / gioiellii->donna. A quanto pare è stato un errore in diversi casi, perché la costruzione dell’identità di genere nella morte è una roba particolare che non segue lo stereotipo di conserva insito nella gran parte di noi.
Di questo libro parlerò con calma in altra sede, ma intanto lo consiglio.

Insomma, History cold case è un prodotto per la televisione che deve catturare l’attenzione non solo dell’appassionato, ma anche dello spettatore medio. Pertanto lo stile e il modo in cui la serie è realizzata a volte urtano un pochettino la mia acuta sensiibilità di “maestrina laureata al classico” (cit.), ma questo non porta serio danno all’investigazione stessa, che resta ben fatta per il medium scelto (un episodio da 57 minuti).

Nell’insieme è una buona serie, divertente e interessante senza aver la pretesa di creare qualcosa di davvero rivoluzionario. E’ un peccato che si siano fermati dopo 8 episodi: è il genere di roba che presenta infiniti spunti, e mi farebbe piacere vedere altri documentari del genere, magari non limitati alla sola Inghilterra.

Idea di base
Team di ricerca
Soggetti
Format

In conclusione, History cold case è un buon prodotto, basato su una buona premessa e che offre molti spunti di studio. Plus, l’ultima volta che ho guardato lo si trovava tutto in modo diversamente legale su YouTube. La Fortezza gli concede quindi un bel seal of approval.

MUSICA!


IMDb della serie

Pagina wiki di Sue Black

Pagina wiki di Xanthé Mallett

Pagina wiki di Caroline Wilkinson

Pagina wiki di Wolfram Meier-Augustein

Soldati a Vapore

E’ il 1848 e il Regio Esercito combatte la Prima Guerra di Indipendenza contro gli infami oppressori austroungarici.

Il Risorgimento è un capitolo estremamente importante della Storia Italiana. In casa mia in particolare nessun infante scampa alle storie, agli aneddoti, alle dotte discussioni su Elena Casati Sacchi.

La ragione principale è che un certo numero di antenati ci sputtanarono un casino di quattrini dietro a Garibaldi e Mazzini, e in mancanza di cospicuo patrimonio di famiglia uno si consola con l’orgoglio.

Ad ogni modo è innegabilmente un momento storico che ben si presta a storie di avventura. C’è l’idealismo politico, l’intrigo, la guerra…

Come rendere il tutto un pizzico più meglio?

Con robottoni giganti, ovviamente!

Soldati a Vapore è un romanzo di Diego Ferrara.

Full disclosure: fui betareader per il romanzo. Ai tempi mi piacque molto, e da quando ho aperto il blog (circa un anno dopo la pubblicazione) ho sempre avuto voglia di parlarne. Le cose però si sono affastellate e solo di recente ho avuto il tempo di rileggerlo.

Avevo già nominato Diego Ferrara quando ho parlato di Piloti e nobiltà, edito da Vaporteppa. Come ricorderete, la storia mi era piaciuta. E’ divertente, interessante e con un numero sufficiente di elementi bizzarri.

Soldati a Vapore è un progetto più ambizioso: si tratta di un romanzo ucronico steampunk che ripropone un tema classico dell’epica nazionale ma arricchito con mec e cingolati giganti, che fanno sempre piacere.

Il romanzo comincia con una nota dal diario del protagonista, Giuseppe Basile, nel giugno del 1848.

Nel brano, il soldato Basile racconta dell’Elmo Potorio, una sorta di rituale cannibalistico in cui un austriaco viene vivisezionato e il suo cervello usato come ingrediente in un beverone che sarà poi condiviso da tutti i membri del gruppo.

L’introduzione stabilisce il tono goliardico della voce narrante, e nell’insieme il libro riesce a trovare un buon equilibrio tra la caricatura e la storia d’azione.

Giuseppe Basile è soldato nella compagnia meccanizata dei Pulcini Sanguinari. I nostri pilotano i Manzetti, robottoni bipedi a vapore armati di lanciafiamme.

Interpretazione di Manzetti

Sul lato austriaco, il nemico naturale del Manzetti è il Kreb, un mec dotato di calotta in vetro rinforzato e due tentacoli muniti di tenaglia.

Sia chiaro, l’ucronia del Ferrara non vuole essere un “what if” verosimile né hard sci-fi: sia il Manzetti che il Kreb che l’intera faccenda non sono realistici né fingono di esserlo. Soldati a Vapore necessita una buona Sospensione Volontaria dell’Incredulità. Nel contesto del libro, però, le macchine sono narrativamente ben pensate e ben descritte.

E con “ben descritte” intendo ritratte in azione e senza spiegoni: sono mostrate senza essere raccontate. A differenza di certi Nomi Noti della narrativa italiana, il Ferrara è abbastanza sgamato dal non scivolare in ridicoli sotterfugi come sbrodolamenti a caso o dialoghi forzatissimi dove due personaggi che conoscono già l’argomento decidono di descriverselo a vicenda per il beneficio del lettore.

“Buongiorno Basile, il tuo Manzetti a vapore sembra in buono stato!”
“Invero lo è, sia nelle due braccia che nei due piedi. Sapevi che ha un lanciafiamme?”
“Perdincibacco sì! Lascia che ti riassuma come si usa!”

Ecco, niente del genere.

Manzetti e Krebs non sono le uniche mostruosità meccaniche presenti nella storia. Insomma, la tecnologia può essere poco verosimile in assoluto, ma all’interno del libro è trattata in modo coerente e dettagliato.

Questo, che di per sé è un pregio, ha le sue conseguenze. Ma andiamo con ordine.

Jakub Rozalski dimostra come i robot giganti migliorano qualsiasi immagine

Stazionato sul Mincio, il protagonista Giuseppe Basile è un pilota di Manzetti. Non ci appare particolarmente intriso di spirito patriottico risorgimentale, ma non è nemmeno un cinico disincantato. Basile combatte la sua guerra onestamente, senza esporsi troppo ma senza fare il paraculo.

Il personaggio è ben costruito. Basile è una brava persona, non un pazzoide sanguinario. Allo stesso tempo non prova empatia per il nemico e compie con totale nonchalance azioni atroci, come bruciare vivo un pilota di Kreb intrappolato, o schiacciare un ferito sotto i piedoni del mec.

Questi non sono gli unici passaggi di violenza grafica del libro: in più punti c’è gente cotta al vapore, schiacciata, mitragliata e quant’altro.

Spesso però tali scene non sembrano truculente come dovrebbero, sembrano quasi normali. E questo perché, per Basile, lo sono. Il personaggio è ormai abituato a quel livello di brutalità e racconta le proprie disavventure con uno spiccato tono autoironico.

Ma veniamo alla trama!

Il nostro Basile si sta facendo la sua brava guerra in santa pace, quando un bel giorno lui e i suoi si vedono affibbiare una missione notturna: devono attaccare un convoglio austriaco di camion carichi di reclute e rifornimenti.

La missione si preannuncia facile e la scorta al convoglio minima.

Ovviamente la scorta non è minima e la missione non è facile. Basile riesce a stento a riportare le penne al campo, dove ha un’altra brutta sorpresa: dal convoglio è stato ritirato un pezzo meccanico per un robottone austriaco.

Problema: il pezzo meccanico in questione è quattro volte più grosso e complesso di quello che è ragionevole aspettarsi. Gli austriaci stanno architettando qualcosa, qualcosa di grosso.

E così il nostro e i suoi compagni si trovano a dover attraversare le linee nemiche per trovare questo fantomatico mostro meccanizzato e demolirlo. Il nome in codice dell’ordigno: Crio.

Titanomachia, dal pennello di Joachim Anthonisz Wtewael (1566-1638)
Crio è uno della banda

Non voglio raccontare troppo di questo libro: è un romanzo che si legge alla svelta e sarebbe sciocco spoilerarlo.

Lo stile di Ferrara è scorrevole e divertente. Il punto di vista è ancorato nella testa del protagonista, che è un narratore a cui è facile affezionarsi.

Anche la tecnologia bizzarra è ben gestita. Questo però, come accennavo più su, ha conseguenze. In particolare, il “sapore” ottocentesco dell’ambientazione ne patisce.

In parte questo è inevitabile: nel 1848 buona parte delle armi leggere erano ancora ad avancarica, mentre il Ferrara descrive mitragliatrici e lanciafiamme, roba che starebbe molto meglio su un campo di battaglia del 1916, vapore o non vapore.

A parte il fronte sul Mincio e pochi altri elementi, è facile dimenticarsi che la vicenda si ambienta in un 1848 alternativo. Se spostassimo la faccenda duecento chilometri più in là, potremmo parlare di una versione steampunk di una delle trentordici battaglie sull’Isonzo, e la vicenda resterebbe più o meno immutata.

Questo non pone davvero problema a livello narrativo: la storia fila bene, i personaggi sono interessanti, la tecnologia a vapore è divertente.

Però sa un po’ di occasione persa. Forse con un’ambientazione più approfondita o dettagliata, si sarebbe potuto rendere in toni più vivi l’ottocento alternativo in cui avvengono i fatti.

Non si tratta però di un difetto vero e proprio, e quando lo lessi la prima volta manco ci feci caso. A distanza di cinque anni mi dico “avrei preferito”, ma non costituisce un problema strutturale.

In conclusione

Idea originale

I robottoni a vapore

La voce narrante

La grande battaglia contro Crio

L’elmo potorio

Soldati a Vapore è un romanzo divertente e scorrevole. Forse lo stile del Ferrara non ricalca del tutto la Tecnica Aurea propugnata dal Duca di Baionette, ma ha un buon ritmo e il tono sarcastico del protagonista lo rende una lettura gradevole.

Non è per tutti: i mec non sono spiegati, la scienza dietro questi trabiccoli non è esplorata e chi vuol fargli le pulci potrà probabilmente trovare diversi aspetti tecnici che non quadrano. Ciò detto, il romanzo non pretende di essere The Martian. E’ una storia di guerra con robottoni a vapore che si prendono a cazzotti. E in quanto tale è fatta bene.

Non è per puristi della hard sci-fi, ma per il resto della popolazione dico: dategli una possibilità!

Lo potete trovare su Amazon qui.

MUSICA!

Welcome to the Great War, quando la divulgazione è fatta bene

Lo scopo di questo blog è sempre stato duplice: la lagna e la divulgazione.

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Da un lato serve a esternare tutto ciò che mi fa salire il nervoso (articoli scritti col culo, film di merda, la lista è lunga!), da un lato serve a raccontare in modo fruibile e (si spera) on troppo sfrangiamaroni fatti storici.

Il problema della Storia è che, pur essendo importantissima da mille punti di vista, può essere un pochettino difficile di accesso. Anche per qualcuno come me che sta buttando gli anni migliori della propria vita lavorando ad una carriera nel campo è impossibile conoscerne ogni aspetto. Ci sono migliaia di studi e saggi e dibattiti esaustivi là fuori, ognuno dei quali aiuta ad approfondire la nostra conoscenza dell’Uomo e delle società, ognuno dei quali ci rende meno vulnerabili alla manipolazione della propaganda (che AMA pescare ad glandus segugi dalla Storia!). Ma non possiamo star dietro a tutto e, nonostante la specializzazione sia fortemente sconsigliata nel mio campo, uno deve bene o male fare una scala delle priorità.

Stesso vale per la gente normale là fuori, che non ha necessariamente il tempo o la forza di sbattersi a leggere tonnellate di pagine sulla nascita del mercato monetario, sull’emancipazione femminile o sulla diffusione del bronzo nel continente eurasiatico.

Pertanto è sempre bello quando qualcuno indovina un metodo fruibile, interessante e corretto di divulgazione, che permetta alla persona lamba di dotarsi di una spolverata di conoscenza senza per forza passare le domeniche in biblioteca.

Pagine come War History Online o The Vintage News svolgono ad esempio un ruolo del genere, presentando articoli molto brevi su argomenti assortiti. Spesso la loro roba può essere poco esaustiva o un pizzico superficiale, ma lo scopo non è trattare a fondo un argomento, è darne una sommaria panoramica e magari incoraggiare il lettore a proseguire le ricerche.

Un altro medium molto importante di diffusione è Youtube. E’ un medium che io amo particolarmente perché lascia la libertà al fruitore di fare altre cose nel frattempo. Quando preparo la cena o quando ho episodi maniacali e mi metto a catalogare matite secondo la lunghezza e la marca, non c’è niente di meglio che una buona lezioncina di Storia in sottofondo!

Molti conosceranno l’ottimo canale di Metatron, i video di Schola gladiatoria, o la roba di Lindybeige (che di solito mi piace molto e poi ogni tanto mi tira fuori delle stronzate da schiaffi in viso, ma bon).

Oggi vorrei parlare dello splendido lavoro fatto da Indiana Neidell, Toni Steller e Florian Wittig.

The Great War, ovvero Indy Neidell e la Storia a piccole dosi

Chi è Indiana Neidell, il principale autore di questa gemma?

Una delle mie cotte platoniche, ma non divaghiamo.

L’omonimo del Professor Jones (altra mia cotta non tanto platonica) è un Hustoniano che ha studiato Storia alla Wasleyan University in Connecticut.

Nella primavera del 2014, con il centenario della Prima Guerra Mondiale che incombeva, Neidell ha incrociato la strada di Spartacus Olsson, un simpatico svedese poliglotta cofondatore e attuale presidente di Mediakraft Network.

Cos’è Mediakraft Network?

Un network (duh!) di canali Youtube (principalmente in lingua tedesca) con base a Monaco. Mediakraft è relativamente giovane, essendo stata fondata nel 2011, ma già dal 2014 può vantare 130 impiegati fissi e un capitale d’investimento di 16 milionazzi.

Neidell e Olsson sono venuti fuori con un’idea figa abbelva da proporre a questi rampanti markettari: un documentario “in real time”!

In altre parole, un documentario a puntate che, invece di riassumere il fenomeno in un unico episodio, ne segue passo passo il divenire.

E così nasce The Great War, una serie di video (in inglese, ma con sottotitoli per i diversamente anglofoni) che coprono, settimana per settimana, gli avvenimenti e l’evoluzione della Grande Guerra.

Spesso mi sentite soppesare i lati positivi e negativi, o cercare il difetto, o lagnarmi delle imperfezioni.

Non qui.

The Great War è una serie bella da strapparsi le mutande dall’entusiasmo e basta.

Un giovane ufficiale dell’Impero Intergalattico appostato in un POA a bordo della HMAS Encounter sorveglia gli Oomani

Ma andiamo con ordine.

In principio il documentario doveva coprire per intero la Guerra ed essere pubblicato online in diverse lingue, tra cui Polacco e Turco. Purtroppo non ebbe un seguito sufficiente per Mediakraft, che lo mollò nell’agosto del 2015.

Ma Indy e Spartacus non si dettero per vinti e, con determinazione da canadesi alla seconda battaglia di Ypres, portarono avanti il canale inglese via crowfunding, merchandising e vendite sponsorizzate su Amazon.

Sono qui per masticare gomme e fare divulgazione. E ho finito le gomme.

Nel 2016, con l’uscita del gioco Battlefield 1 (a cui Neidell ha pure collaborato), la Grande Guerra ritornò alla ribalta e il canale vide un aumento sensibile di iscritti.

Ora come ora, a pochi mesi dalla fine della serie (spoiler, novembre 2018), il canale Youtube conta quasi 900.000 iscritti e pochi giorni fa Neidell e soci hanno potuto filmare in situ al Museo dei Tank di Bournemouth.

Neidell è il principale autore della serie e il narratore. Il nostro offre episodi densi di informazioni, chiari e di facile fruizione, il tutto con rigorosi riferimenti bibliografici per i feticisti come la sottoscritta. Il suo entusiasmo e la sua passione per l’argomento sono palpabibili, e Neidell riesce a giostrare un ottimo ritmo narrativo con una mole enorme di dati e notizie.

Ogni puntata ci tiene al corrente dello sviluppo generale della Guerra, delle battaglie principali, ma prende anche il tempo di guardare il dettaglio, l’esperienza del singolo, con aneddoti , articoli di giornale del periodo, lettere o diari. Con Neidell, lo spettatore impara cos’è successo senza perdere la dimensione umana. In ogni puntata vediamo la Grande Guerra di Nazioni contro Imperi, e la piccola ma gigantesca guerra del soldato contro la mitragliatrice, contro il gas, o contro il freddo e la fame.

Per non sforare il format di puntate brevi (una decina di minuti), il nostro e il suo team hanno anche messo insieme una serie di approfondimenti su tecnologia, tattiche, personalità, arte dalle trincee, propaganda, ecc. Lo spettatore può limitarsi a seguire lo sviluppo della Guerra, approfondire l’aviazione, ascoltare uno speciale sulla poesia nelle trincee, o anche solo seguire il gruppo di allegri divulgatori nelle loro gite in situ. Gli spettatori possono anche inviare domande e dubbi, oltre che partecipare alla crescente comunità online.

Che altro chiedere?

Raccontare Gallipoli: lo stai facendo bene

I video sono arricchiti da mappe, animazioni e filmati d’epoca. Questi ultimi sono in buona parte ripresi dal colossale archivio British Pathé, un database contenente circa 85.000 documenti audiovisivi d’epoca, registrati da Pathé News tra il 1910 e il 1970.

Insomma, i video di Indy sono interessanti da ascoltare e da vedere e offrono un resoconto dettagliato, ragionato e approfondito di una delle guerre più assurde e più devastanti della Storia occidentale

I heard that it started because a bloke called Archie Duke shot an ostrich ‘cause he was hungry (cit.)

Ma non finisce qui!

Neidell e Olsson hanno messo su un altro canale: TimeGhost, dove contano continuare il concetto di “in real time documentary”.

Già sono disponibili i video della serie Between two wars in preparazione del prossimo grande progetto: un documentario in real time sulla Seconda Guerra Mondiale!

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Gente come Indy Neidell e i suoi collaboratori sono i miei personali eroi. Fanno cose utilissime in modo ottimo e fruibile. Darei un braccio per essere in grado di gestire un progetto di quelle dimensioni con altrettanta competenza, energia e dedizione.

The Great War è una serie bellissima e ho piena fiducia nei sequels che ne verranno.

Quindi andatevela a vedere, supportate il progetto, condividete i loro contenuti!

Viviamo in un periodo dove “giornalisti” scrivono puttanate senza fondamento infilandosi una penna nel culo e scorreggiando, in cui politici di rilievo sblaterano propaganda senza il minimo appiglio nel reale, in cui bufalate indegne sono condivise decine di migliaia di volte.

Iniziative come quelle di Neidell e Olsson sono un piccolo antidoto a questo merdaio di post-verità vomitata sui social.

Coltiviamo ciò che di buono ci porta l’internet!

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MUSICA!


 

La pagina Facebook di The Great War

La pagina wiki di The Great War (la serie)

Il negozio di The Great War

La pagina Patreon di The Great War

Il canale Youtube TimeGhost

La pagina Wiki di Indy Neidell

La pagina Imdb di Olsson

The Handmaid’s Tale: m’è garbato ma c’ho da ridire lo stesso

Nei mesi in cui sono stata fantasma, pare che un paio di persone abbiano effettivamente sentito la mancanza del blog.

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Eh, non me lo spiego nemmeno io, ma il mondo è bello perché è vario.

Quindi mi accingo a punire costoro con ciò che meritano: la mia indispensabile opinione su robe che passano in TV!

The Handmaid’s tale – la serie

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Un briciolo di contesto

The Handmaid’s tale, tradotto in italiano con La storia dell’ancella, è una serie uscita su Hulu, tratta dall’omonimo libro di Margaret Atwood.

Uscito nel 1985, The Handmaid’s tale è un romanzo distopico che esplora le conseguenze del potere volto a preservare se stesso . L’elemento portato alle estreme conseguenze qui è il potere patriarcale, in particolare il patriarcato di stampo fondamentalista cristiano.

In un futuro non troppo remoto, la fertilità degli esseri umani crolla. Un attentato terroristico spaccia la gran parte del parlamento statunitense e un gruppo fondamentalista chiamato Sons of Jacob prende il controllo del paese. Ribattezzati Gilead, gli Stati Uniti vengono trasformati in una dittatura puritana.

Le donne sono quelle che perdono più diritti sotto il nuovo regime: non possono più scegliere, divorziare, abortire, possedere beni o anche solo leggere. Le loro funzioni sono strettamente limitate. Le Wives sono le mogli dell’élite, amministrano le loro case e vestono in blu. Le Marthas sono domestiche e vestono in verde. Le Econowives vestono abiti a strisce colorate ed esercitano tutti i compiti muliebri per le classi subalterne, a cui sono assegnate come ricompensa.

Una branca a parte è dedicata alle donne fertili ma immorali (donne che sono state promiscue, divorziate o che hanno tenuto altri comportamenti poco biblici), che sono ridotte in schiavitù e costrette a concepire figli per l’élite. Queste sono le ancelle: vestono in rosso e sono assegnate alle famiglie dei Comandanti. Una volta al mese il marito stupra l’ancella in un balordo rituale in cui la moglie regge ferma la disgraziata.

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Nell’eventuale necessità di un atto sessuale, è necessario fare in modo che nessuno si diverta!

Una volta sgravato il pargolo, l’ancella lo allatta fino allo svezzamento e poi passa a una nuova famiglia. In tutto ciò, le ancelle prendono il nome del proprietario di turno (tipo Offred, impiegata da Fred Waterford, “of Fred”) e sono controllate e indottrinate da delle “zie” (Aunts), che vestono marrone e si preoccupano di applicare le draconiane leggi di Gilead.

Nel libro, un’ancella di nome Offred racconta via delle cassette la propria vita, com’era prima del colpo di stato, l’indottrinamento, e infine la sua esistenza in Gilead. Attraverso il punto di vista di Offred, possiamo esplorare le contraddizioni, l’ipocrisia e la crudeltà insita dell’ideologia patriarcale, come anche i metodi repressivi e propagandistici usati dai dirigenti per mantenere il controllo sulla popolazione.

La serie

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Parte del successo della serie è PROBABILMENTE legato al clima politico in America

La prima serie di The Handmaid’s tale ha aperto col botto nell’aprile del 2017 e ha ricevuto applausi pressoché universali, portandosi a casa un sacco di premi, tra cui diversi Emmys e un Golden Globe per miglior serie tv nella categoria drammatica.

Prova del famoso complotto nazifemminista volto a sterminare i maschi vincendo premi tv, ovviamente.

Anche il pubblico però sembra aver apprezzato, con un 95% Su Rotten Tomatoes.

Una serie acclamata dai critici, diretta in buona parte da donne e con sottotono femminista. Ma vi pare che non la guardavo?

Prima di cominciare è opportuno specificare: ho letto molto a proposito questo libro, ma non ho letto ancora il libro stesso, quindi il mio commento porta soprattutto sulla serie tv.

Serie tv su cui, ovviamente, ho da ridire.

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We are not amused

Il primo problema che ho con la serie (e col libro, di conserva) è la faccenda del calo della natalità.

All’interno del genere distopico, l’improvviso crollo della fertilità è ricorrente, ne sono un esempio storie come When she woke o The children of Men. L’idea che la razza umana appassisca lentamente è piuttosto attraente per la sottoscritta, ma al di là della sete di estinzione della Tenger, questo elemento è strutturalmente problematico qui.

L’infertilità generale è uno degli elementi decisivi nella genesi di Gilead (la sopravvivenza dell’Umanità è in gioco!) e nella vita dei personaggi (un personaggio commette un “reato” punibile con la morte, ma essendo una donna fertile viene risparmiata).

Ora, una distopia è un esercizio nel portare alle estreme conseguenze elementi reali. In altre parole, è un “avvertimento” contro cose che esistono. Per esempio, il pensiero unico e la sorveglianza capillare insiti nel regime comunista russo sono ciò che ha favorito l’ascesa e il mantenimento dello stalinismo, ed è pertanto normale che giochino un ruolo così prominente in 1984.

La misoginia e il patriarcato hanno molto poco a che vedere con un catastrofico calo delle nascite. Il trattare le donne come incubatrici che cucinano e stirano è una costante di tantissime culture, a prescindere dal numero di pargoli per famiglia.

E’ vero che il tasso di fertilità mondiale è calato. Ciononostante il problema principale di oggigiorno non è una carenza in gristiani. Con tutto il calo di natalità, abbiamo comunque un surplus di umani rispetto alle risorse (anche a causa di sfruttamento predatorio, Cambiamento Climatico, ecc.).

Una brutta persona potrebbe dire addirittura che il tasso di natalità ha raggiunto un livello ottimale, è la mortalità che è troppo scarsa, ma non divaghiamo.Risultati immagini per blackadder death meme

Un’altra celebre opera che studia gli effetti del potere assoluto sugli oppressi

Il punto è, oggi e ora misoginia e narrativa patriarcale sono reali, e sono quelli che la Atwood prende di mira nel suo libro. Però non dipendono da una scarsa fertilità.  Un esempio sono appunto gli Stati Uniti, in cui il tasso di natalità è rimasto pressoché stabile dal  1990 in poi  (e che quando la Atwood scrisse il libro era perfino in leggera rimonta). Nonostante ciò hanno un Presidente che pare l’incarnazione di una barzelletta sessista pronunciata in un singolo rutto in un bordello livornese. Nonostante ciò ci sono persone come Kevin Williams che sostengono che l’aborto dovrebbe essere punito con l’impiccagione.

E’ vero che la stagnazione demografica viene usata come scusa per spingere quella porcheria immonda della propaganda pro-life. Se la catastrofe demografica fosse stata una scusa usata dai Sons of Jecob, avrebbe potuto funzionare. Ma no, è reale, non nascono più figlioli.

In altre parole, una piaga di infertilità fulminante non è un elemento reale, non ha avuto un ruolo strutturale nell’evoluzione e mantenimento del patriarcato. Pare che sia inserita qui meramente come elemento scatenante per la trama.

Aggiungere un elemento alieno come questo inficia un po’ l’analisi sociale.

Da un punto di vista puramente narrativo, offre vantaggi e svantaggi.

Un vantaggio è che il regime oppressivo è una risposta a una minaccia reale e pressante. Può essere una risposta sbagliata, ma un qualche tipo di azione drastica è percepita come necessaria e urgente davanti a qualcosa che minaccia la specie.

Da un punto di vista speculativo, questo è problematico perché la misoginia non è una risposta a una catastrofe urgente, non è necessaria e non è nemmeno costruttiva. Gli evangelisti americani non vogliono vietare l’aborto per risolvere un qualche problema reale: lo vogliono vietare perché sono delle sottomerde (semplificando). Il loro “problema reale” non è che l’umanità è in pericolo, è che le donne possono scegliere cosa fare coi loro corpi (ovvove e vaccapviccio!).

Sul piano puramente narrativo, questo fa dei Sons of Jacob gente pazza e pericolosa, ma mossa da buone intenzioni che sono giustificate da un reale pericolo. Aumenta il conflitto (gli antagoniti non sono cattivi per il gusto della cattiveria).

Di contro, introduce un secondo problema, comune in questo genere di film, che a me piace chiamare “e quindi ora?”.

Prendiamo l’esempio di What happened to Monday?: c’è un problema di sovrappopolazione e il governo adotta SoluzioneBruttaRandom. La SoluzioneBruttaRandom è sbagliata e cattiva e viene nullificata dall’eroico sforzo dei protagonisti.

Ok, e quindi ora?

Il problema che ha portato all’adozione di SoluzioneBruttaRandom è ancora presente. Le opzioni sono due: o gli eroi propongono una SoluzioneBuonaRandom, o si stabilisce che l’estinzione di massa è la scelta più etica.

In The Handmaid’s tale c’è lo stesso problema. Sappiamo che solo Gilead ha imposto il sistema delle ancelle. Il Messico non si sa che fa, ma è detto chiaro che non sta funzionando. In Canada la gente sta meglio e non ci sono ancelle ma non è spiegato che cosa si siano inventati per ovviare alla denatalità.

Non sarebbe troppo male se non fosse che questo aspetto (fondamentale nella storia) non viene mai affrontato.

Ridurre la gente in schiavitù e stuprarla è sbagliato. Ok, e quindi ora?

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In una scena Offred affronta una diplomatica messicana, venuta per trattare un qualche tipo di “importazione di ancelle” verso il Messico. Offred fa notare il piccolissimo dettaglio che si tratta di schiavitù, stupro e repressione. L’ambasciatrice le risponde “eh sì, brutta cosa, ma da noi non nascono marmocchi da 6 anni e non sappiamo che altro fare”.

Ergo la soluzione del Canada per qualche ragione non è applicabile in Messico.

E quindi ora?

In un’altra scena Offred e il Comandante parlano del “prima e dopo Gilead”. Mentre il Comandante offre collaudati argomenti da evangelista scoppiato (le donne sono più felici ora che possono realizzare il loro “destino biologico” di uteri ambulanti, prima erano comunque oggettivizzate dal consumismo edonista, ecc.), il fatto che la razza umana sia sull’orlo dell’estinzione non viene nemmeno sfiorato.

La sterilità dilagante, ancorché verosimile, viene usata meramente per spingere la trama a pedate. Potrebbe arricchire il conflitto, ma no, come in What happened to Monday? restiamo a chiederci “ok, quello che fanno in Gilead è sbagliato, e quindi ora?”.

Il secondo punto che mi crea problema è la protagonista: June/Offred.

In buona parte ciò dipende dal tipo di romanzo da cui è tratta la serie.

L’interesse principale della letteratura distopica è la speculazione: si tratta (in teoria) dell’analisi di un meccanismo reale e di come questo può danneggiare l’umanità se lasciato senza controllo.

Il romanzo distopico pone l’accento sul contesto più che non sui personaggi. Il protagonista spesso è il più  normale possibile, perché lo scopo è esplorare l’effetto che il potere ha sull’essere umano qualsiasi.

Winston Smith è una persona normale che cerca di ribellarsi come può. Se fosse un genio del computer capace di hackerare i teleschermi e mandare in crush il Big Brother, il romanzo sarebbe del tutto differente. Sarebbe magari un romanzo d’azione, ma la sottile analisi dell’effetto della dittatura sulla persona qualsiasi sarebbe in buona parte persa.

Il film Running man è divertentissimo. Ma la fine analisi sociale finisce sullo sfondo quando The Governator in tony sgargiante corre in giro cazzottando gente e snocciolando battutacce di pessimo gusto.

Insomma, in un romanzo distopico, il protagonista è spesso poco attivo, qualcuno che cerca di sopravvivere ed opporsi con mezzi molto limitati.

Questo funziona bene in un romanzo, o in un film, ma in una serie di 10 puntate da un’ora?

Quelle puntate vanno riempite, e non possono essere riempite solo da gente che si fa pestare.

Offred è un personaggio spesso molto passivo.

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Ovviamente non succede

Intendiamoci: è verosimile che lo sia. La maggioranza della gente al suo posto lo sarebbe. Ma per un format di 10 ore, questo è un problema.

Nel libro, Offred registra i propri pensieri e la propria storia. Ciò è di per sé un atto rivoluzionario. E’ una donna che trova il modo di conservare la propria individualità in un mondo che le ha tolto i mezzi, la famiglia, il lavoro, la libertà e anche il nome. In un mondo che vuole annullarla come persona, Offred trova il modo di “preservarsi”, anche a rischio di brutali punizioni.

Nella serie, Offred non registra niente, abbiamo la sua voce narrante e basta. Questo la rende più passiva della sua controparte letteraria.

Aiuta il fatto che l’attrice che la interpreta è Elisabeth Moss, che è bravissima. Doppiamente bravissima, conto tenuto che recita la parte di una donna che, nel 99% dei casi, non può mostrare le proprie emozioni, deve abbassare al testa e inghiottire le parole.

Purtroppo resta il fatto che la nostra subisce per la stragrande maggioranza del tempo. Di nuovo: verosimile, ma non molto compelling per 10 ore di visione.

Ci sono momenti in cui la nostra fa cose. Ad esempio nasconde un pacchetto di lettere di ancelle per conto della resistenza. Purtroppo queste lettere giocano un ruolo molto marginale nella prima serie e un ruolo cretino e basta nella seconda. L’impressione è che ‘sto benedetto pacchetto sia stato tirato nella storia non per arricchire il contesto, l’analisi o la vicenda, ma per dare a Offred qualcosa da fare.

In un paio di casi la serie pare non rendersi nemmeno conto della passività di Offred.

C’è un cliché inaffondabile, che è quello del protagonista che marcia deciso verso la telecamera alla testa della squadra, di solito in slow motion. E’ un sotterfugio trito e ritrito ma a cui siamo affezionati, e che di solito viene usato dopo che il personaggio ha compiuto un qualche tipo di atto simbolico (magari ha fatto esplodere qualcosa).

Offred per qualche ragione si cucca due camminate in slow motion, nessuna delle due davvero giustificata.

Nel quarto episodio Offred scopre un messaggio lasciato dalla disgraziata prima di lei. Il messaggio la incoraggia a non arrendersi e ciò è inframezzato da flashbacks in cui le altre ancelle danno prova di solidarietà verso una June ferita e invalida. Tutto si conclude su note ottimiste, una camminata in slow mo e Offred che chiacchiera di come sono ancelle, e hanno una divisa, e non si faranno macinare dai padroni!

Ok, quindi questo episodio sprona Offred a prendere in pugno la situazione, magari convince le altre ancelle a scioperare, o ribellarsi, o assassinare tutti nel sonno in una catarsi di sangue e fuoco!

No, nell’episodio 5 Offred è punto e da capo.

Il messaggio che la rincuora ha senso se presentato per ciò che è: un piccolo gesto che aiuta questa disgraziata a sopportare la propria situazione ancora un po’.

Invece no, camminata lenta, note pimpanti di piano, mo’ ve se famo un culo così, e un niente di fatto.

La seconda volta è ancora peggiore. Senza troppi spoilers, nell’ultimo episodio Offred e le altre si trovano a dover lapidare una di loro. Una delle ancelle, Offglen, si oppone. E’ l’unica ad osare e viene brutalmente picchiata e trascinata via.

Ma questo sprona Offred, che lascia cadere il sasso e se ne va, seguita dalle altre, mentre Aunt Lydia urla che ci saranno conseguenze. Camminata in slow mo e passo coordinato, mo ve se famo il culo 2 il ritorno!

Cosa fanno?

Niente.

Ritornano ordinatamente ognuna a casa sua in attesa della mannaia, ma con la camminata tosta davanti alla telecamera che fa sempre figo.

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Non dico che non sia un atto di eccezionale coraggio rifiutarsi in una situazione del genere, ma boh, la camminata stile Deadpool mi pare molto fuori luogo. Anche contando che non è stata nemmeno Offred la prima a fronteggiare l’autorità. Offglen è stata la prima a rifiutarsi e l’unica a soffrire una punizione immediata. Dovrebbe essere lei a cuccarsi la camminata figa, no? Mah.

Offred resta un personaggio passabile, verso cui è facile provare empatia. La sua passività è verosimile e giustificata dal contesto. Uno però si chiede se non fosse meglio, per una serie a puntate, seguire un personaggio in una posizione diversa che sia quindi più attivo. Perché i personaggi attivi ed affascinanti certo non mancano, e sono uno dei grandi pregi di questa serie!

Prendiamo la prima Offglen/Emily: è un ex-professoressa universitaria, lesbica, sposata e con un figlio. Dopo aver perso la famiglia ed essere finita in schiavitù, Emily collabora con la resistenza. Allaccia una relazione con una Martha. Viene arrestata. Uccide un guardiano. Insomma, è una donna che non ha niente da perdere ed è disposta a qualsiasi cosa pur di resistere.

La seconda Offglen è contenta di essere un’ancella. Era poverissima prima di Gilead, e costretta a prostituirsi per miseria. Ora è mantenuta in una casa da gente che, tutto sommato, la tratta bene. Le basta, le va bene così. Ma quando le impongono di far del male a un’altra ancella si rifiuta, perché è comunque una persona empatica e di fegato.

Moira riesce a scappare dal centro di detenzione e indottrinamento, ma viene ricatturata e costretta a scegliere tra una vita di stenti in una colonia contaminata e una vita di stenti (ma con la droga) in un bordello.

La lista continua: ci sono un sacco di personaggi ganzi nella serie, tutta gente che si trova ad agire più di Offred.

Serena Joy (interpretata da Yvonne Stahovski), la moglie di Waterford e uno degli antagonisti principali, è il mio personaggio preferito in assoluto.

Nel libro, Serena è una donna in là con gli anni, afflitta dall’artrite e infelice nel suo ruolo marginale. Nella serie Serena è più giovane e più reattiva. Si scopre che lei è il vero cervello dietro al marito, che prima del ribaltone Serena ha giocato un ruolo cardinale nell’organizzazione del colpo di stato.

E’ una donna che ha costruito con determinazione, intelligenza e metodo il nuovo sistema… e ci si trova ora intrappolata. E’ una versione tragica di Phyllis Schlafy, una fervente fondamentalista antifemminista che riuscì a frenare il progresso dei pari diritti con grande efficacia.

Il patriarcato è sempre stato protetto e perpetrato grazie a donne come Serena Joy o Phyllis Schlafy, donne che hanno interiorizzato la misoginia inerente del sistema e che lavorano attivamente alla sua conservazione in cambio di potere e status. Non vogliono emancipazione per sé stesse, vogliono controllo sul prossimo, e lo possono ottenere attraverso il sistema patriarcale. Serena orchestra gran parte della congiura, partecipa alla costruzione di Gilead, ma alla fine suo marito la mette da parte.

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Serena è anche una fonte inesauribile di reaction pics. 50 sfumature di disappunto.

Potrei andare avanti a parlare della serie: come storia distopica, offre di conserva un sacco di spunti di discussione.

In generale, ha delle cose che non mi sono piaciute, ma nell’insieme gli elementi positivi (o quantomeno interessanti) superano quelli su cui ho da ridire.

Plotpoint dell’infertilità subitanea
Format poco consono al tipo di storia
Elementi come il razzismo sono del tutto assenti nel worldbuilding
Camminate in slow mo
Recitazione
Una compagine di personaggi secondari interessanti e ben fatti
Atmosfera
Antagonisti ben delineati e non appiattiti a macchiette
Sceneggiatura
Serena Joy

 

Per certi versi il romanzo è un mostro sacro, e la serie è di certo degna di interesse. Nonostante l’abbia menata fin qui su tutte le cose che non mi garbano, molte altre mi son piaciute. Non è per tutti (non è una storia d’azione, la protagonista non ha un vero e proprio arco, ecc.), ma invito a tentare per lo meno la prima puntata.

E la seconda serie?

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No.

La prima si conclude dove si conclude anche il romanzo, quindi con la seconda serie gli sceneggiatori hanno dovuto inventarsi tutto da zero senza le idee della Atwood.

E niente, secondo me l’esperimento è un fiasco.

L’ho vista a pezzi e bocconi e ho lasciato perdere. Immaginate tutte le cose che non mi son piaciute nella prima, aggiuingete più scene di violenza più morbose e meno motivate, e buchi di trama estemporanei (che nella prima serie, vivaddio, non c’erano).

Non dico che sia tutta da buttare: ci sono belle trovate, momenti notevoli, e un arco interessante nel personaggio di Serena Joy. Ma nell’insieme non mi è garbata abbastanza da finirla e pertanto non la consiglio.

Ora scusatemi, devo andare a scrivere una fanfiction dove Serena Joy, Ramsay Bolton e Standartenführer Hans Landa conquistano il mondo con il loro esercito di zombie sovietici a cavallo di tirannosauri.

MUSICA!


Letture aggiuntive

La pagina wiki del libro

La pagina wiki delle serie

Qualcuno fa notare che la seconda serie non è all’altezza

Una critica alla prima serie

Un altro lungo e ponderoso articolo sulle implicazioni femministe delle serie