Horror vintage: Arsenico e Vecchi Merletti

L’autunno è arrivato a la Tenger è precipitata da un mese e mezzo in un tunnel di malanni e ospedali, ma la cicciopelosi non mi impedirà di scrivere per il blog. Perché il motto della Fortezza è Accanirsi Sempre.

Conto tenuto del periodo (e della difficoltà di mettere insieme un articolo storico decente), oggi  parleremo di uno dei film più belli di sempre: Arsenic and Old Lace, tradotto in italiano con Arsenico e Vecchi Merletti.

Un po’ di storia

La Seconda Guerra Mondiale sta riducendo l’Europa a un colossale mattatoio, gli americani entrano in guerra e migliaia di uomini e donne vengono risucchiati nel mastodontico sforzo bellico.

Tra costoro c’è anche il quarantaquattrenne Frank Capra. Il nostro si è arruolato dopo l’attacco a Pearl Harbour ed è impegnato in una serie di film di propaganda nota come Why we fight. Capra era già un mostro sacro di Hollywood a questo punto, con successi come It Happened at Night (1934), Mister Smith Goes to Washington (1939) o Meet John Doe (1941).

Si tratta di film importanti, con forte messaggio morale e investimento.

Capra era un fervente patriota, ma anche un uomo d’affari, e nel  ‘41 decide di ritagliare il tempo anche per una commediola facile e leggera, qualcosa con cui fare un po’ di quattrini veloci per mantenere la famiglia durante il suo servizio militare.

Opta per una commedia che sta sbancando a Broadway, Arsenic and Old Lace.

La pièce nasce dalla penna di Joseph Kesselring, figlio di immigrati come Capra. Nel ’35 Kesselring era già riuscito a piazzare una commedia a Broadway con There’s Wisdom in Women (1935), ma è Arsenic and Old Lace a garantirgli un vero successo.

Partita come dramma su una vecchia assassina che avvelena i propri pensionanti per soldi, la storia viene rimaneggiata per diventare una strepitosa commedia noir.

La pièce sbanca tra il 1941 e 1944, con 1444 spettacoli a Broadway e 1337 a Londra. Il successo attira l’attenzione dei fratelli Warner, che ne comprano i diritti. Gli scaltri produttori Howard Lindsay e Russel Crouse però pongono come condizione che nessun motion picture fosse rilasciato finché lo settacolo era à l’affiche.

Capra era più che deciso a essere il regista dietro l’adattazione cinematografica della pièce, ma la clausola sul rilascio rallentato era un problema. Capra avrebbe dovuto convincere Jack Warner a investire in un film che sarebbe poi finito in congelatore per anni!

Il nostro però non si scoraggia: l’adattamento è facile e la storia esilarante, è un’occasione troppo ghiotta per passarla.

Capra procede con tattica. Per cominciare si accaparra i servizi delle straordinarie attrici Jean Adair e Josephine Hull (lei potreste averla vista in Harvey (1950), un’altra commedia spassosissima). Poi riesce ad assicurarsi lo straordinario Cary Grant come attore protagonista, la cui sola presenza garantisce un successo di pubblico. Infine il nostro fa fare alla zitta una previsione di spesa. Filmando in una sola location e limitando i tempi di realizzazione a quattro settimane, Capra sperava di tagliare sul budget e investire tutto sugli attori, i veri pezzi forti del film.

Stando a The Lost One: A Life of Peter Lorre, l’incontro tra Capra e Jack Warner andò come segue:

“Non tirarmi dalla finestra finché non mi hai ascoltato.”

“Che diavolo c’è?”

“Volgio fare Arsenico e Vecchi Merletti.”

“Da quale finestra vuoi essere tirato?”

“No, no, ho tutto pronto. Ho il cast, la star, il set, il budget, tutto è pronto!”

“Lo sai che non posso fare il film.”

“Hai me per far il film. Che è un bene. E ho tutto pronto e ti farò un film della Madonna e questo è un bene!”

“Oh, figlio di puttana, hai tutto pronto, potresti cominciare domani, vero?”

“Sì, posso!”

Al cast di fenomeni viene aggiunto Peter Lorre nel ruolo di Dottor Einstein. Alcuni lo riconosceranno come l’antagonista in M (1931) o lo smerciatore di esseri umani in Casablanca (1942). Lorre, che in questi film e in quello di Capra brilla nel ruolo di tedesco viscido, era un ebreo ungherese esule in America e aveva già lavorato con Coppola quando questi era al soldo della Columbia.

I nostri filmano dal 20 ottobre al 16 dicembre 1941. Capra lascia briglia sciolta ai suoi attori, senza accanirsi sull’attinenza al copione. Dopotutto era un cast col botto e tutti si scatenarono sul set ridotto che avevano a disposizione. In definitiva, la realizzazione finì con un giorno di ritardo, ma più di 99.000$ al di sotto del budget previsto di 1.220.000$.

Come da accordo, la prima dovette aspettare fino al 1944, proprio nel clou infernale della realizzazione della serie Why We Fight.

La brevità del progetto e il suo rilascio tardivo, nonché l’assenza dei tipici temi affrontati da Capra, portò i critici a snobbare il film. In realtà Arsenic and Old Lace ha più livelli di lettura, come spesso i film di Capra. Ad ogni modo fu un successo di popolo e si avverò lucrativo per tutti (tranne che per Capra stesso).

Ed ebbe un successo grandioso perché il film è assolutamente delizioso.

Il Film

Mortimer con zia Abby e zia Martha

Mortimer Brewster (Cary Grant) è uno critico teatrale che rinuncia alla propria carriera di “attivista antimatrimoniale” per convolare a nozze con Elaine, la figlia del pastore vicino di casa. Prima di fuggire in viaggio di nozze, i due piccioncini saltano su un taxi e passano da casa. Mentre Elaine corre a fare le valige, Mortimer ne approfitta per salutare le due adorabili ziette che lo hanno allevato dopo la morte dei genitori.

Capiamo presto che Mortimer, rimasto orfano in tenera età, è stato rallevato con amorevole cura da Abby e Martha, due sorelle rimaste zitelle e due vecchine dolci come lo zucchero. Le “signorine”, come pretendono di essere chiamate, sono persone un po’ all’antica, molto devote e molto impegnate in opere di bene. Aiutare i bisognosi è la loro grande vocazione. Tra le loro varie iniziative, c’è quella di prendere uomini in difficoltà come affittuari, per un prezzo simbolico, di modo da offrir loro un tetto e un riparo.  Le due si prendono anche cura di Teddy, il fratello picchiatello di Mortimer, un matto pittoresco ma innocuo, convinto di essere Teodoro Roosvelt.

Il presidente Teddy

Le nostre sono deliziate dalla notizia delle nozze di Mortimer e organizzano un impromptu té con torta. Mentre sono in cucina, Mortimer approfitta della visita per cercare il suo ultimo manoscritto.

Il nostro fruga in giro, apre una cassapanca e trova un cadavere.

Oibò

Un uomo, morto mortissimo, nella cassa sotto la finestra.

Dopo il primo shock, Mortimer si dice che Teddy ha finalmente schiodato e fatto del male a qualcuno. Con la morte nel cuore, informa le povere adorabili zie di questo fatto terribile. Teddy non può più stare in casa, è diventato pericoloso. Dovranno mandarlo al manicomio di Happy Dale.

Le zie lo rassicurano: non c’è di che preoccuparsi, Teddy non c’entra, il signore l’hanno ammazzato loro con un vino di sambuco avvelenato.

Due care signore mosse da carità cristiana

In breve le ziette, sempre pronte a far del bene, attirano in casa loro uomini soli al mondo per porre fine alle loro sofferenze. I loro “ospiti” sono poi sepolti con rito cristiano in cantina, dove il picchiatello Teddy scava foss convinto di essere sul cantiere di Panama.

Uno sconvolto Mortimer si trova a dover accettare che le sue amatissime zie sono due assassine seriali (come gran parte della gente della famiglia, la cui storia Mortimer descrive come: “Hellzapoppin! scritto da Strindberg”) e che la follia fa parte del suo corredo genetico. Non solo, il nostro si trova davanti l’impossibile scelta di chiamare la polizia. Il tutto menre deve nascondere la terribile scoperta a una novella moglie sempre più spazientita.

Mortimer decide che, se riesce a far rinchiudere Teddy a Happy Dale, le zie saranno costrette a sospendere gli omicidi in quanto troppo deboli per occultare il cadavere.

Mentre architetta questo improbabile piano però, il terzo fratello torna a casa: Jonathan, un assassino e delinquente di carriera, che si trascina al seguito un chirurgo estetico alcolizzato (Lorre). Il nostro ha bisogno di occultare un cadavere (un altro!) e di farsi fare una nuova faccia dal suo complice.

E sicché da “mi fermo cinque minuti a salutare le zie, che abbiamo il treno!”, Mortimer si trova impantanato in casa con Roosvelt che suona la tromba, tre assassini seriali, un delinquente alcolizzato e una dozzina di cadaveri.

La situazione peggiora in un crescendo di ritmo e orrore, nella miglior tradizione della commedia anno ’40!

Immagine correlata

Una necessaria nota sulle chiavi di lettura

Come accennato, il film è stato snobbato come “semplice commedia” dai critici del tempo. Iiiiih, che schifo una storia raccontata bene e basta, no?

In realtà oltre che snob i critici furono anche densi come la melassa.

Come fa notare Gunter nel libro The Capra Touch, la commedia di Kesselring aveva un sottotono macabro e critico, che persiste nel film.

Sia Kesselring che Capra erano figli di immigrati e avevano sperimentato sulla propria pelle il “sogno americano”. Avevano sperimentato di prima mano la grande contraddizione tra la libertà, le promesse, le opportunità, e la violenza, lo sfruttamento e la discriminazione che si nascondevano appena sotto la superficie.

Come la propaganda americana, le adorabili ziette di Mortimer, la famiglia benestante, la bella casa accanto al pastore non sono che la crosta zuccherosa, la promessa allettante sotto cui si cela follia, violenza e sangue.

Il copione calca e porta al ridicolo e all’esilarante un grottesco e caricaturale senso di “libertà”. Quando Mortimer confronta le zie riguardo alla loro brutta abitudine di spacciare uomini vulnerabili, zia Abby ribatte con dolcezza: “Mortimer, noi non ti impediamo di fare ciò che ti piace. Non vedo perché tu dovresti interferire con noi”.

Quando il tuo nipote preferito ti dice che uccidere la gente non è carino

La satira tocca anche l’America stessa e la sua storia. La bella casa dei Brewster, famiglia storica e osservante, ha una cantina piena di cadaveri e ospita una famiglia di squilibrati assetati di sangue.

La pièce teatrale finisce su una nota macabra, sottintendendo che la contraddizione tra violenza e libertà insita nella società americana non avrà mai soluzione. Il film di Capra ha un finale molto più ottimista. Dopo aver preso atto delle contraddizioni e ipocrisie della famiglia Brewster (e della società americana in generale), dopo aver accettato che omicidio, violenza e sfruttamento fanno parte del pacchetto, lo spettatore è lasciato su una nota positiva di un futuro complicato ma non segnato per sempre dagli errori del passato. Che poi era ciò che lo spettatore voleva sentirsi dire, nel pieno di una Guerra Mondiale.

Il finale leggermente diverso cambia molto in fatto di tema, ma entrambi sono risoluzioni accettabili alla storia che viene presentata. In defiitiva, sia la pièce teatrale che il film sono eccellenti opere.

L’unico punto in cui la pièce teatrale fu certamente migliore del film?

Jonathan era recitato da Boris Karlof. E questa la capirete quando vedrete il film!

 

Trama Good_Grumpy
Attori Good_Grumpy
Ritmo Good_Grumpy
Regia Good_Grumpy
Sceneggiatura Good_Grumpy
Satira di costume Good_Grumpy
Le due ziette sono tra i migliori personaggi mai scritti Good_Grumpy

 

Al di là di dotte interpretazioni decostruite e filosofici dissensi su libertà e violenza, Arsenic and Old Lace ha un cast straordinario ed è da pisciarsi dal ridere.

Le due vecchiette assassine sono un mito assoluto e il mio personale modello. Da vecchia voglio essere uguale, dall’abito edoardino, alle torte fatte in casa, ai dodici cadaveri in cantina!

CARICAAAAAA!


Bibliografia

GUNTER Matthew, The Capra Touch: A Study of the Director’s Hollywood Classics and War Documentaries, 1934–1945, 2011

YOUNGKIN Stephen, The Lost One: A Life of Peter Lorre, 2005

Un articolo su Criterio Channel

Joseph Kesselring su Wikipedia

La pagina Wiki della pièce teatrale

La pagina Wiki di Capra

La pagina Wiki del film

 

Hannibal: risparmia un agnello, mangia un pastore!

L’estate incombe su di noi come la cresta di uno tsunami, le notti si accorciano e la pace di spirito di Tenger è stata archiviata tra i casi a pista fredda insieme ai files del Tamam Shud.

Ma è Pasqua, e non è appropriato essere troppo scoppiati durante questo lieto periodo. Occorre celebrare.

La mia più grande passione è la storia di gente mortamale. Con ragionevole distacco, viene un certo interesse per la cucina. In questi giorni di pantagruelici banchetti (so che vi state sfondando di cibo, dannati servi del Capitale!) volevo fare qualcosa che riunisse entrambi questi elementi.

Ergo oggi parliamo di Hannibal Lecter.

Hannibal

Hannibal Lecter appare per la prima volta nel 1981, nelle pagine del libro di Thomas Harris, Red Dragon. Per i quattro disgraziati che non conoscono questo personaggio, Lecter è uno psichiatra e serial killer cannibale, protagonista di una serie di romanzi prima e di film dopo.

La performance di Hopkins nei film Silence of the Lambs, Hannibal e Red Dragon è ormai iconica e il nostro dottore lituano è diventato il serial killer fittizio più famoso al mondo.

Purtroppo la popolarità del personaggio ha subito una leggera inflessione dopo l’ultimo film, Hannibal rising, del 2007. Hannibal rising è stato un fiasco tombale, sbeffeggiato dai critici e disprezzato da un’ampia fetta degli spettatori, al punto che fu nominato in ben due categorie per i Golden Raspberry Awards (Peggior prequel/sequel e Peggior scusa per un film horror). Non li ha vinti, but still.

5 anni dopo questa musata cinematografica, il nostro gourmet preferito è stato ritirato fuori dal cilindro da Bryan Fuller, per una nuova serie su NBC.

It’s nice to have an old friend for dinner (cit.)

La creazione di Fuller prende numerose libertà nella trama e nel cast. Per cominciare, la storia si svolge nello stesso periodo della serie TV (2013-2015). Hannibal non è più un orfano della Seconda Guerra Mondiale, ma un uomo nel fiore degli anni, psichiatra di Baltimora e occasionale collaboratore dell’FBI.

Questo non è l’unico cambiamento: il personaggio di Will Graham viene presentato sotto una luce originale, con un profilo più vulnerabile e torturato di come lo abbiamo visto in Red Dragon o anche in Manhunter.

Altri personaggi hanno subito cambiamenti ancora più radicali: il capo di Will, Jack Crawford, è interpretato da Lurence Fishburne invece che da un attore bianco; il personaggio dello psichiatra Alan Bloom diventa Alana Bloom, una donna, ecc.

Di solito guardo questo genere di “swap” con una certa dose di diffidenza. Non sono opposta all’idea: ho visto una versione di Much ado about nothing in cui il Principe era recitato (benissimo) da un attore nero, e la cosa non strideva per nulla. Tuttavia è pur vero che spesso questa pratica è usata per puro gusto dell'”edgy” e per mascherare l’assenza di idee originali.

Non è il caso di questa serie: il cast si sposa benissimo con la nuova versione dei personaggi e i cambiamenti non sono fatti per coprire la pigrizia del copione.

Hugh Dancy riprende il ruolo di Will Graham, un professionista brillante e dotato di una potente capacità immaginativa e empatica. In questa versione, la storia esplora più in dettaglio il conflitto di Will. Lo vediamo in azione sul campo e lo vediamo a casa, circondato dai suoi cani. La brutalità del suo lavoro e la fragilità delicata della sua vita privata offrono un contrasto che dà profondità a un personaggio che altrimenti, come dice Dancy stesso, “sarebbe giusto uno stronzo”. Dancy riesce peraltro a rendere molto bene lo stato precario in cui si trova il protagonista, costantemente in bilico tra sanità mentale e collasso nervoso.

Mads Mikkelsen interpreta la nuova versione di Hannibal, e a parer mio è l’attore perfetto per la parte. La strana fisionomia di Mikkelsen gli permette di apparire a tratti charming e divertente, compassato e cortese, a tratti del tutto privo di umanità, distante e minaccioso. Seguendo la serie, non è difficile capire come riesca a ingannare il resto del monto e nascondere il mostro che è in realtà.

I Comprimari sono pure ben tratteggiati. Fishburne in particolare rende benissimo il personaggio di un poliziotto competente e completamente devoto alla causa, con tutto ciò che ne deriva. Se da una parte Crawford è motivato dalla necessità di proteggere innocenti, dall’altra la sua assoluta dedizione lo spinge a sacrificare la sanità mentale di Will Graham come “male necessario”. Pur essendo un personaggio positivo, lavorare con lui può significare “fare un patto col diavolo”.

Non è l’unico a presentare un buon mix tra pregi e difetti. L’approfondimento psicologico è di solito molto curato.

Difatti uno dei punti positivi della trama, in particolare della prima serie, è l’equilibrio che Fuller è riuscito a creare tra l’Antagonista e il resto dei comprimari. Hannibal è un mostro geniale, uno “psicopatico perfetto”, ma le sue vittorie non sono mai regalate: Crawford e il suo team non sono degli incompetenti, al contrario, sono presentati come gente scelta e capace. E’ solo grazie a sforzi calcolati che Hannibal riesce a raggirarli.

Nelle visioni di Will, Hannibal appare come Wendigo, un mostro predatore che un tempo era uomo e che è mutato dopo aver consumato carne umana.

Il centro della serie è lo svilupparsi e l’evolvere dell’amicizia patologica tra Will Graham e Hannibal Lecter. Grazie alla sua straordinaria empatia, Will è in grado di comprendere gli assassini, capire il loro punto di vista, e questo affascina Lecter. La curiosità iniziale del nostro diventa pian piano un’ossessione: Will è l’unico capace di comprendere davvero la sua visione. Perfino Hannibal può sentirsi solo, nella sua fornitissima cucina.

Ci sono scene consacrate interamente all’approfondimento di questo aspetto, con Will e Hannibal soli nello studio, immersi in conversazione. Sono gestite molto bene (non troppo lunghe, non troppo corte) e scritte con cura.

Al di là dei personaggi, un aspetto preponderante della serie è lo stile. La serie è molto bella da vedere. Come lo dice lo stesso Fuller, Hannibal non è una storia realistica, non vuole esserlo. Tante altre serie esplorano trame verosimili e autentiche procedure di polizia. Fuller non voleva l’ennesimo thriller, voleva qualcosa di diverso. La serie che ne risulta ha elementi indubbiamente realistici, ma sconfina spesso nell’onirico, talvolta nel grottesco. Fuller stesso spiega che, per lui, Hannibal è da interpretare come “a very, very, very dark commedy”, a tratti una tragedia farsesca.

Sganasciamoci!

L’estetica della serie è barocca e fantasiosa, con uno sfacciato gusto del macabro. Tra totem di arti umani, montage di haute cuisine a base di gente, tizi trasformati in aiuole viventi, spesso pare che la direttiva principale fosse: “questi sono dei pezzi di cadavere, come possiamo farci qualcosa di esteticamente bello e originale?”

E io non mi lamento: spesso sono opere molto belle! Capisco però che questo genere di estetica macabra non piaccia a tutti, o che qualcuno possa trovarla gratuita ed esibizionista.

D’altro canto, c’è una ragione precisa per cui Fuller insiste su questo aspetto fino a renderlo caricaturale: la serie deve divertire. Non deve essere una cruda storia realista, non deve essere deprimente, deve essere interessante, noir, divertente, surreale.
Un esempio di questa logica ci viene spiegato in un’intervista: nelle varie stagioni (di certo non parche in violenza) non ci sono scene di stupro. Perché? Perché lo stupro non è divertente.

E l’omicidio allora?

Nemmeno l’omicidio, ma se il corpo della vittima viene trasformato in una farfalla di carne, allora smette di essere verosimile. Non è più realista, è spettacolo, uno spettacolo che Graham stesso definisce “kabuki”: è esagerato, barocco, raffinato.

Non puoi sorridere di una moglie picchiata e stuprata dal marito. Un cadavere trasformato in un violoncello umano invece è grottesco, artistico, fuori dalla realtà, e quindi può essere divertente.

Niente è più romantico di un mazzo di fiori

Per quel che riguarda la storia e le sotto-trame, abbiamo tre serie da 13 episodi ognuna: la prima introduce i personaggi e l’inizio dell’indagine sugli omicidi di Hannibal (conosciuto come Chesapeake Ripper). La seconda è liberamente ispirata dalle vicende del romanzo (e film ) Hannibal, con i fatti ambientati in Europa (Parigi, Lituania, Firenze), e infine la terza racconta la storia di Red Dragon, con Richard Armitage nei panni di Francis Dolarhyde (fa push-ups a testa in giù, le signore apprezzano).

“Ora tutti ti conoscono come ‘il tizio che ha fatto Thorin'”.
“No…”

“Lo Hobbit è il franchise più famoso che hai fatto.”
“No, smettila!”
“Tre film dove stai conciato come il 
lovechild di un rastafariano e uno Sherman.”
“Raaaaah!”

Detta così queste serie sembrano fighe fighissime!

Errr… circa.

Cominciamo col dire che a qualcuno non piaceranno, a prescindere dalla qualità. Lo stile è molto pervasivo, spesso artsy e pretenzioso. Per la maggior parte del tempo serve la storia, ma certe immagini paiono essere lì solo perché “è figo attaccare una scena in questo modo”. Questo può essere un problema, e può dare molto fastidio a certi spettatori. Personalmente, ero disposta a perdonare questi momenti di narcisismo spicciolo per amor del resto (trasformano la testa di un tizio in un’arnia, io approvo!).

Inoltre non tutti gli episodi e non tutte le serie sono allo stesso livello. La prima stagione in particolare è molto curata. Ci sono licenze artistiche, momenti inverosimili (specie nella posizione dei corpi delle vittime), ma non troviamo veri e propri buchi di trama. Nella terza sì, ed è un peccato.

Seconda e terza hanno anche altri problemi, con alcuni personaggi poco approfonditi o francamente inutili. Una tizia in particolare, che non voglio spoilerare, potrebbe essere tagliata dalla storia senza rimpianti. Questo è un grosso problema: siccome ci rendiamo conto presto che costei non va a parare da nessuna parte, sappiamo che le scene con lei sono delle perdite di tempo. L’unica cosa che redime in minima parte questo subplot del tutto superfluo è, di nuovo, l’estetica di uno degli omicidi.

Un’altra magagna è l’antagonista della seconda stagione, il malvagio Mason Verger: è caricaturale perfino per una commedia. Il tizio beve le lacrime dei bambini. Eddai Fuller, checcazzo!

C’è poi una presenza sempre più prepotente del fanservice.

Come detto, il soggetto principale dell’intera faccenda è il rapporto tra Will e Hannibal. Ora, per quanto a me piacciano storie di bromance o anche dichiaratamente omosessuali, a tratti il copione è un po’ troppo palese. Non che ci siano scene davvero ridicole, sia chiaro! Niente momenti stile anime con Will vestito da principessa o cagate del genere. Però a volte il concetto viene martellato in modo un pelo troppo palese. E non ce n’è bisogno: l’evolvere dei due personaggi è tracciato molto bene per la stragrande maggioranza della storia, abbiamo capito!

Peraltro, santo fanservice, abbiamo la bromance per le signorine e lo yuri per i signori. Parità di fantasia erotica, per Giove!

Infine, la seconda serie ha un ultimo grosso difetto a parer mio: tira in ballo il Mostro di Firenze.

Ora, io non sono tipo da triggerarmi aggratis, ma trovo di pessimo gusto usare un fatto di cronaca autentico in una storia del genere. Sarebbe bastato cambiare appena il nome (magari invece che “il Mostro” chiamarlo “la Bestia”? O “Cicci il Mostro di Scandicci”, tipo). Ispirazione e riferimenti vanno benissimo, ma scopiazzare pari-pari il nome è pigro, e la pigrizia mi sta sulle scatole.

Riassumendo

La trama, per la maggior parte

 

Il cast

 

Immagine e fotografia

 

La maggioranza dei personaggi sono memorabili, interessanti e ben scritti

 

I montage di cucina! Altro che Gordn Ramsay, dateci un programma su come fare gli ossi buchi di postino!

 

Atmosfera e ritmo

 

Buchi di trama, specie nella seconda/terza stagione

 

Alcuni personaggi inutili

 

Lasciate stare Cicci di Scandicci, per cortesia

 

La serie è stata apprezzata dalla critica, vincendo diversi premi, ma non ha avuto un gran successo di pubblico, il che ha portato alla morte del progetto dopo la terza stagione. Nell’insieme, non mi sentirei di definirlo un prodotto davvero eccelso, ma ha elementi interessanti e molto positivi. Non annoia, è divertente.

Tuttavia lo stile prepotente lo rende molto soggetto ai gusti. I personaggi sono ben costruiti e la scrittura è davvero buona, ma se non piace lo stile sarà impossibile approfittarne. Personalmente, l’estetica sfacciata e barocca mi è piaciuta molto, e anche nel peggiore episodio ho trovato qualcosa di interessante da apprezzare.

Infine, non credevo che fosse possibile eguagliare la performance di Hopkins per il personaggio di Hannibal, ma Mads Mikkelsen è davvero perfetto per il ruolo! Con la sua faccia da alieno e il suo accento bizzarro, riesce a dare un’interpretazione che vale davvero la pena vedere!

Consigliata, nonostante i difetti.

MUSICA!


La pagina wiki della serie

La pagina Imdb della serie

Scene dalla prima, seconda e terza stagione.

Doppia proiezione: Crimson Peak e The Martian

E Samhain, tempo di tornare ai’ccine e vedre quali novità si offrono!

Crimson Peak

E’ il 1887, Edith è la figlia di un ricco industriale americano. Sua madre, appena morta di malattia, le compare come spettro per metterla in guardia contro “Crimson Peak”. Quindici anni dopo, Edith è una giovane scrittrice di storie gotiche che sogna di pubblicare il suo primo romanzo!

Il manoscritto viene rifiutato, ma Edith si consola incontrando sir Thomas Sharpe. Sharpe è un baronetto inglese che ha ereditato una cava di argilla da mattoni. Ha ideato una macchina per accelerare l’estrazione e spera di ottenere i finanziamenti necessari a rilanciare l’azienda.

Edith resta affascinata da questo nobile spiantato europeo, circondato da un’aura di mistero e accompagnato da una sorella psicopatica. No, non è uno spoiler. Questo film è del tutto privo di qualsivoglia sorpresa. Ma andiamo con ordine.

La cosa positiva è che il film è molto bello da vedere. I colori, gli angoli, la fotografia, tutto è molto vivido. Gli attori fanno anche un buon lavoro. Con mia grande sorpresa, Mia Wasikowska (Alice nel paese delle meraviglie) recitava. Mi aspettavo il disastro, dopo averla vista nel film di Burton, e invece no, sembrava viva!

Ma per quanto recitazione e fotografia siano importanti, che ne è della sostanza?

Meh…

Il film è diretto da Guillermo del Toro, che sa di certo fare il suo lavoro. El laberinto del fauno è uno dei miei film preferiti, ho adorato Hellboy the Golden army (anche se il secondo tempo scadeva). El orfanato era un film molto di maniera, ma fatto molto bene.

Crimson Peak, per ora, è uno di quelli che mi son piaciuti meno. Ed è un peccato perché, come detto, le immagini e le riprese sono bellissime. Manca giusto la sostanza.

In Crimson Peak ritroviamo un tema molto caro a del Toro: gli esseri umani possono essere più spaventosi e pericolosi di qualsiasi mostro o fantasma. Il classico “i veri mostri siamo noi”. Se però questo funzionava bene nei tre film succitati, in Crimson Peak la faccenda cade piatta.

Prima di tutto, i fantasmi di Crimson Peak non servono a niente. Sono 100% superflui, un po’ come le tette nei film d’azione. Il loro design anche mi ha convinta molto poco. Mentre i colori differenti erano un’idea interessante, il volerli fare mezzi scheletro mezzi marionetta è un’arma a doppio taglio: è fin troppo chiaro che del Toro sta cercando di renderli spaventosi. Il guaio è che se i tuoi sforzi sono troppo evidenti, non funziona più. Il cinema è illusione, lo spettatore è tanto più coinvolto quanto i trucchi del regista gli sfuggono.

Non so se si capisce, ma qui del Toro vuole farvi paura.

Se io m rendo conto “qui è del Toro che cerca di farmi paura”, smetto di averne, perché vedo la scena per quel che è: illusione. E’ un po’ come se qualcuno alzasse un cartello con scritto “abbi paura”.

Peraltro, i fantasmi non servono a nulla se non a realizzare jumpscares. Per chi non fosse familiare col termine, è quando un film cerca di farti sobbalzare sulla seggiola, di solito con un movimento brusco accompagnato da un suono molto forte. E’ l’equivalente cinematografico di “bu-bu SETTETE!”.

Ora, la paura data da un jumpscare è molto superficiale, e spesso non si tratta nemmeno di paura quanto di fastidio. Se il terrore del film si basa solo su quello, probabilmente il film è una patacca.

Non è proprio il caso qui, dacché del Toro riesce a creare comunque una certa atmosfera, ma gli spettri restano uno spreco e i jumpscares sono tutti gratuiti.

Se non ci fossero stati i fantasmi e la vicenda si fosse focalizzata solo sull’indagine, il thriller, il dramma psicologico, sarebbe stato un film molto migliore.

Purtroppo però Casper the Unfriendly Ghost non è l’unico problema. Questo film è prevedibile.

Edith ha sempre maniche a sbuffo, anche per dormire. Sembrano tipo ali di un angelo, GET IT?! Obvious symbolism is obvious.

Da quando incontriamo Thomas e sua sorella Lucille, sappiamo che Lucille è una psicopatica. Non è per niente sottile, la tizia ha sempre un manico di scopa nel culo e passa il tempo a lanciare sguardi omicidi in giro. Gee, mi chiedo se lei ed Edith andranno d’accordo…

Guarda che carina, sorride…

Il problema di avere una tizia chiaramente pericolosa nel film, è che toglie sorpresa e quindi tensione alla storia. Quando Lucille comincia a dare i numeri, siamo preparati. Sapevamo che stava per succedere. Se invece avessimo creduto Lucille una donna eccentrica ma di buon cuore, l’impatto di scoprirla una pessima persona sarebbe stato molto maggiore.

E poi c’è il problema che il film ha dei considerevoli buchi di trama.

Non sto dicendo “questa cosa di contorno non va bene”, no, almeno due punti chiave presentano una grave incongruenza e un altro non dico sia per forza un buco di trama, ma ci si avvicina molto.

Thomas e sua sorella girano l’America per raggranellare i soldi e mandare avanti l’impresa familiare. Veniamo a sapere che in realtà il loro piano è ogni volta sposare Thomas con un’ereditiera senza famiglia stretta, farsi dare l’intero patrimonio e poi spacciare la pollastra.

Tutto molto classico, non fosse che a inizio film Edith osserva che Thomas e sua sorella portano vestiti buoni ma consunti. Non sarebbe meglio, per due truffatori, di presentarsi con dei vestiti nuovi? Hanno già fatto fuori diverse ricche ereditiere, uno immagina che i soldi per ricomprare la giacca ci siano.

In secondo luogo, questi sono serial killers di ricche signore, ne ammazzano e derubano un certo numero nel giro di pochi anni, e riescono a restare poveri in canna. Sono i peggiori investitori d’Europa!

Ok, ma questo potrebbe essere giustificato col fatto che Thomas e Lucille sono stupidi. Non pare il caso, ma va bene, facciamo che sì.

Il primo buco di trama però non si può giustificare in questo senso: Lucille, una delicata signorina, ammazza il padre di Edith, un robusto industriale, spaccandogli la testa contro un lavandino.

No, non ci credo ma nemmeno se mi fa una dimostrazione live. Spaccare la testa a qualcuno non è facile, specie se questo qualcuno fa il doppio del tuo peso. Fosse stato un vecchino gracile passi, ma no, è un grosso tizio ben piantato.

In secondo luogo, il tizio viene ritrovato con metà del cranio sfondato e la conclusione è “sarà stato un incidente”.

Come no. E Trotsky si è suicidato con un’accetta.

Secondo grosso buco: Edith scopre la verità su suo marito perché ritrova il baule di una moglie precedente. Al che uno si chiede: perché questi diabolici fratelli dovrebbero conservare il baule col nome della tizia sopra? Quanto a livello di stupidità siamo ai punti con l’informatore di Educazione siberiana che si era tatuato il curriculum addosso…

Alla fine, la colpa più grave di questo film è che, stile e aspetto a parte, non ha niente di originale. La storia non ha nessuna sorpresa, niente di nuovo. Ogni scena è così telefonata che se avessi avuto un furbòfono con l’app giusta sono certa che Guillermo del Toro mi avrebbe contattata di persona per avvertirmi di cosa stava per capitare. Giusto per essere sicuri.

Immagini e colori  
Gli attori  
Un’atmosfera passabile  
La storia vista e rivista  
L’inutilità dei fantasmi  
Una delle scene di sesso più involontariamente buffe che abbia mai visto (oibò caro, tiemmi ‘sta bracciata di gonnelloni, non mi trovo la passera!)  
Mai una sorpresa  

 

In definitiva ripeto: le immagini sono davvero belle da vedere. Può valer la pena di andarlo a vedere al cinema solo per quello. Ma non col biglietto a tariffa piena. Io non ci spenderei più di cinque euro, alla fine i pregi, che ci sono, non bastano a bilanciare i difetti.

The Martian

15 anni nel futuro, la NASA è riuscita a mandare una missione su Marte, ma mentre il gruppo porta avanti la ricerca, viene sorpreso da una tempesta di sabbia. L’equipaggio riesce a tornare alla nave, ma uno di loro, Mark Watney, viene falciato dalla bufera. Convinti che Mark sia morto, gli altri decollano, abbandonando la missione.

Mark ovviamente è vivo e vegeto, ma si ritrova spiaggiato su Marte, senza la possibilità di comunicare con la NASA. Ha cibo nel piccolo Hab, ma solo per 300 giorni. La missione successiva è di lì a 4 anni, in un altro cratere al di là della portata del suo rover.

Ricapitolando: si trova su un pianeta dove niente cresce, dove l’aria non è respirabile, con viveri limitati e l’impossibilità di chiedere aiuto o comunicare. E’ l’unico essere vivente del pianeta.

Dopo un primo momento di sconforto, però, Mark decide di combattere. Scomponendo la situazione in problemi distinti, affronta la cosa con metodo, risolvendo un guaio alla volta.

Tra tentativi ed errori, Mark riesce a costituire un suolo, una piantagione, un rifornimento d’acqua, perché Mark è botanico e i botanici sono badass.

E intanto sulla Terra, le foto del satellite mostrano attività sul pianeta. Alla NASA si rendono conto che Mark Watney, dato per morto e seppellito in contumacia con tutta la pompa, è vivo. Lo hanno solo abbandonato a morte certa. Ops.

Un mondo di opportunità

Questo è a mani basse il miglior film che ho visto quest’anno.

La storia è tratta da un romanzo dallo stesso titolo, scritto da Andy Weir. Non l’ho letto (anche se, secondo questo articolo del Duca, sarebbe anche meglio del film), quindi mi limiterò a parlare della versione cinematografica.

Avevo dei dubbi mentre facevo la coda in biglietteria. Il regista è Ridley Scott, l’uomo che ci ha dato The duellists e Alien, ma anche Prometheus. Mentre i primi due sono tra i miei film preferiti, Prometheus è di certo il film di fantascienza più cretino che abbia mai subito (e includo capolavori del vomito come Doomsday machine o quella cagata galattica del film di Starship troopers).

Tuttavia, dietro consiglio del mio maestro in malvagità Sir Greenmold (lo stesso che mi ha diffidata dall’andare a vedere Interstellar), ho deciso di correre il rischio.

Devo dire che ho apprezzato ogni minuto di The Martian. Gli attori sono tutti bravi, a cominciare da Matt Damon che fa un ottimo lavoro. Il personaggio che interpreta è molto simpatico: è competente, intelligente e pieno di risorse, è ottimista e ironico. Allo stesso tempo commette errori, cade sul culo, si rialza e ritenta.

Il personaggio è tanto simpatico, che mi dispiaceva quando gli capitava qualcosa di brutto. Non volevo che le cose gli andassero male, facevo sinceramente il tifo per lui. E’ stata una sensazione stranissima, che non mi capitava da un sacco.

Mi sono letta un post di Lilin per ritrovare la mia naturale acredine.

Gli altri comprimari hanno meno spazio, ma emergono ben sfaccettati, credibili e interessanti.

In particolare ho apprezzato il comandante della missione, Melissa Lewis (interpretata da Jessica Chastaine): un militare competente, affidabile, capace di prendere difficili decisioni, preparata… e non la poverella vittima della propria emotività, ruolo che spesso i film appioppano alle femmine perché hey, sì, vi mettiamo in ruoli fighi, ma sappiamo come siete fatte voi donne.

Sì, Interstellar, sto parlando anche di te. Mi fa un sacco piacere vedere un film in cui il personaggio femminile somiglia più alla Cristoforetti e mano a Madame Bovary. Se non si fosse capito, questo cliché della donna sentimentale forte fuori ma fragile dentro HA ROTTO IL CAZZO.

Ho anche apprezzato molto il fatto che nel film non ci sia un “cattivo”. Sarebbe stato facile mettere come antagonista un burocrate meschino o un militare carogna che non vuole aiutare Mark per [ragioni]. E’ quello che hanno fatto in Avatar, dopotutto.

Qui no. Tutti sono animati da ottime intenzioni, sono gente competente e hanno ottime ragioni per fare ciò che fanno.

Da un punto di vista scientifico, ci sono delle imprecisioni, ma nell’insieme questo aspetto è curato come il resto del film. A differenza di Prometheus, a questo giro Scott ha collaborato con la NASA, e si nota. Anche se ci possono essere delle discrepanze tra la tecnologia reale e quella del film, il tutto resta molto verosimile.

Un problema che ho avuto io è stato nel design delle tute che usano su Marte, più simili a tute da motociclista che a equipaggiamenti pressurizzati.

Un’altra cosa che mi ha lasciato perplessa è la “manovra Ironman”, sulla cui verosimiglianza nutro fieri dubbi.

Sia chiaro che si tratta di pignolerie: non ci sono buchi di trama, la storia è avvincente, e non si scade mai nella technobabble (devi ricalibrare gli ionizzatori quantici a propulsione nucleare, Scotty!).

Nell’insieme il film mi è piaciuto un sacco. Compresa la colonna sonora, tanto kitch quanto bizzarra: tra le tante, Scott ci delizia con Waterloo degli Abba! Tutto avrei creduto tranne che sentire quella canzone in un film di questo genere.

Non voglio dilungarmi oltre sulla storia perché questo film vale assolutamente il prezzo del biglietto. Quindi salto direttamente alla tabella.

Alcuni dettagli tecnico-scientifici
I personaggi  
La recitazione  
Il fatto che non ci sia un “cattivo” banale  
La verosimiglianza (niente technobabble!)  
L’ironia  
La musica kitch  

 

Anche se il genere non è il vostro, provate. Questo film merita senza dubbio il tempo e i soldi di un’uscita al cinema.

Insomma, con The Martian possiamo assolvere Scott da Prometheus e Damon da Interstellar.

Yeah, it’s THAT good.

MUSICA! (Ridley Scott made me do it!)

Ok, ok, musica

Abaddon, di Giuseppe Menconi

Settembre si avvicina, con tutte le sue simpatiche scadenze, ma dopo questa bellissima estate l’idea di sciropparmi scartoffie e iscrizione ha un appeal nuovo. Diavolo, mi sembra quasi di dover andare in vacanza!

Non tutto era da buttare negli ultimi mesi. Uno degli aspetti positivi di questa maledetta estate, per esempio, è stato che ho finalmente trovato il tempo di leggere qualcosa che non fosse direttamente legato al mio settore. Tra le altre cose, ho potuto recuperare un po’ sui romanzi che mi ero procurata e che avevo poi messo da parte per tempi migliori.

Uno di questi romanzi è Abaddon, di Giuseppe Menconi!

La storia (potrebbe contenere leggeri spoilers)

Una nave spaziale arriva dal cielo e si parcheggia davanti al Golden Gate di San Francisco, dove rimane inattiva. La nave è protetta da scudi impenetrabili e viene sorvegliata notte e giorno, ma gli anni passano e la nave resta morta, come una gigantesca patata bollita. La gente si abitua alla sua presenza, la battezza Abaddon, l’Angelo Sterminatore del Vangelo.

William Boore è un militare, un eroe di guerra per pura botta di culo e un uomo stanco di correre rischi. Si è fatto assegnare al controllo della nave aliena contando di aspettare la pensione in una posizione prestigiosa ma sicura.

Tutto molto bello, finché gli scudi di Abaddon non si abbassano, e William è chiamato a prendere la testa di una nuova squadra ed entrare nella nave per vedere cosa si nasconde dentro e quali minacce si annidano nella gigantesca struttura.

Abaddon è un horror fantascientifico che aveva tutti i numeri per lasciarmi indifferente. Il setup “soldati cazzutoni entrano in astronave piena di mostri” non è una novità, l’eredità videoludica è lampante in diversi punti, e la storia in sé non è la cosa più originale dell’universo. A ciò aggiungete la mia personale idiosincrasia per quella che chiamerei una tendenza “post-evemerista” (e se gli dei erano ALIENI?!).

Detta così parrebbe una roba “Dead Space meets Voyager“, molto al di sotto dei miei raffinati gusti di signorina perbene.

Al contrario. Ho apprezzato un sacco questa storia.

Surprise!

Anche se il soggetto può sembrare già visto, la realizzazione è creativa e ben pensata. Il senso di claustrofobia e minaccia della nave è reso molto bene, e questo soprattutto per il fatto che Menconi ha un’ottima tecnica. Per tutto il romanzo la “telecamera” resta salda nella testa bacata di William e la storia è “mostrata” molto bene. Il che, in un racconto centrato sull’azione, è un grande pregio.

I personaggi sono tutti ben delineati e memorabili. Il protagonista-PoV è ovviamente il più approfondito. William non è un personaggio positivo, ma ha qualità che lo rendono interessante e likable nonostante tutto. William è un vigliacco e un macellaio, ma allo stesso tempo ha sincero affetto per suo figlio e sua moglie. L’angoscia di vivere in un ruolo fasullo e la consapevolezza di essere un codardo quando tutti lo ritengono un eroe sono rese in modo ottimo, senza bisogno di inutili spiegoni. Avendo una comprensione così chiara del protagonista, è facile farsi risucchiare nelle sue disavventure.

Il resto dei comprimari è altrettanto ben delineato. Tutti hanno tratti memorabili, senza però diventare caricature. Menconi usa benissimo lo spazio che ha per svilupparli e rende dei personaggi verosimili e attachants senza dilungarsi in dialoghi o scene e inutili. Per gran parte del romanzo, i soldati sono tutti paludati in tute identiche che li coprono da testa a piedi, ma le loro voci sono sempre distinte e non capita mai di confonderne uno con quell’altro.

Un altro punto a favore di questa storia è il dettaglio e l’attenzione portati all’equipaggiamento e alla tecnologia di cui i personaggi dispongono. Si nota una ricerca e una documentazione nel campo, il che rende la vicenda verosimile. Menconi ha curato bene questo aspetto e ne trae vantaggio durante la storia.

L’influenza videoludica è chiara, così chiara che il nome di Dead Space mi è saltato in mente pur non avendoci mai giocato. Nonostante tutto, ciò non sbalza mai il lettore fuori dalla storia. Niente scene ridicole tipo il pestaggio della scalinata in The protector, per intendersi (sì, mi piacciono i film di cazzotti fine a se stessi, so what!).

I nemici si presentano d’acchito come una masnada di mutanti assetati di sangue stile zombies, con la sola particolarità di essere esapodi invece che tetrapodi. Tuttavia anche loro, che potrebbero incarnare uno degli aspetti meno originali della storia, offrono un paio di gradite sorprese.

 

Orrori inumani scorrazzano nel buio!

Trattandosi di una storia di esplorazione, non voglio spoilerare oltre la trama!

Ho letto questo libro molto alla svelta. Nonostante la relativa lunghezza, scorre via molto bene. Da notare che mi è piaciuto nonostante la mia spiccata antipatia per diversi aspetti presenti, il che va tutto a merito di Menconi.

Concludendo

La tecnica narrativa  
Il protagonista  
I comprimari  
L’ambientazione  
Il ritmo  
Post-evemerismo (questo dipende puramente dai miei gusti)  
Il finale  

La cura dell’ambientazione eleva il libro sopra al semplice “sparatutto con mostri mutanti” e lo spessore dei personaggi lo eleva sopra al semplice “Alien 2 rivisitato” o “ficcy su Dead Space“. Non è diventato uno dei miei libri preferiti, ma è stata di certo una lettura molto gradevole.

Consigliato di cuore anche a chi non è appassionato del genere: è divertente, ha un ottimo ritmo, buona tensione.

Qui potete trovare i primi 5 capitoli per prova.

E qui potete trovare il romanzo.

MUSICA! (Because Aliens)

Dark city

Una metropoli di notte. Un uomo si sveglia di colpo in un appartamento che non riconosce, confuso e senza ricordi. Nell’appartamento c’è una donna: è morta, qualcuno le ha coperto il corpo di spirali con la punta di un coltellaccio. Mentre l’uomo fissa la scena con orrore, il telefono squilla. Un tizio lo avverte che deve scappare: stanno venendo a prenderlo.

Chi sta venendo a prenderlo?

Tre individui pallidi che sembrano i fratelli magri di Nosferatu.

Perché lo vogliono?

Non si sa. L’uomo scende nella hall, dove tutti sembrano addormentati. Dico sembrano, perché presto ci rendiamo conto che quel sonno ricorda più un coma che altro. E proprio quando stai per dirti che questa è la mezzanotte in punto più lunga della storia del cinema (da quando l’uomo si sveglia a quando scende nella hall!), gli orologi riprendono e tutti si rianno come se nulla fosse. Confuso e spaventato, l’uomo fugge nella tentacolare città notturna. Sulle sue tracce, i tre individui e la polizia, a caccia di un serial killer che si diverte da qualche giorno a uccidere prostitute.

Dark city è un film del 1998, diretto da Alex Proyas, lo stesso regista del celeberrimo The Crow. Proyas scrisse il copione a sei mani insieme a Lem Dobbs (co-sceneggiatore dello spassosissimo Romancing the stone, o, in italiano, All’inseguimento della pietra verde, grazie traduttori, mi regalate sempre grandi gioie) e David Goyer (che aveva appena sceneggiato il prequel del Corvo e Blade).

Quando la storia cominciò a prender forma, nel ’91, l’idea era di raccontare la vicenda di un detective degli anni ’40 che scivola sempre più verso la follia quando i fatti in una sua indagine perdono senso logico. Col passare del tempo però, il focus si spostò dallo sbirro ossessionato alla persona che lo sbirro insegue, John Murdoch. E nel 1998, John Murdoch è il nostro protagonista, interpretato da Rufus Sewell.

Dark city comincia come un noir, ma subito lo spettatore si rende conto che qualcosa non quadra. L’ambientazione pare l’America degli anni ’50, salvo poi mostrare a tratti elementi dei ruggenti ’60 o ’40. I tre tizi in nero sono loro da soli un elemento bizzarro che non pare integrarsi in niente. Sono umani?

All’inizio, mentre stanno cercando Murdoch, interrogano il concierge dell’hotel in cui il nostro protagonista si è risvegliato. Una scena dopo, l’ispettore Bomstead arriva allo stabilimento per indagare l’omicidio della prostituta. Dietro il bancone è seduto un uomo completamente diverso, che tuttavia parla come l’altro e pare avere gli stessi identici ricordi.

Il film continua, e non si può fare a meno di notare che, per esser notte fonda, la città ferve di attività. Io sono una nottambula che dorme dall’alba al pomeriggio e lavora al meglio dalle 10 di sera alle 6 di mattina e, lo confesso, sono gelosa. Anche a me piacerebbe trovare uffici e negozi sempre aperti!

Nella Città hanno qualche inconveniente però. A mezzanotte in punto, tutto si ferma. Tutto. Macchine, treni, persone. Tutto scivola in un coma profondo, e gli omini neri, gli “sconosciuti” (strangers) escono dai loro nascondigli.

Ricorda un po’ le nostre cene in famiglia…

La premessa del film è un evergreen: e se la nostra realtà non fosse vera, ma fosse un’illusione?

Suona familiare, vero?

Il film Matrix uscì appena un anno dopo, e, a chiosa, parte del loro set fu messo insieme riciclando proprio quello di Dark city!

E indovinate: Dark city è meglio. Non perfetto, ma meglio. E con buona pace della fanbase, Matrix è uno dei film più sopravvalutati del secolo (ed è invecchiato malissimo! Ecco, l’ho detto!).

Mentre in Matrix la realtà in cui ci muoviamo è virtuale, Dark city adotta un approccio un po’ diverso. La realtà non è tanto illusoria, quanto mutevole e inaffidabile: la vera alterazione non è fuori, è dentro. Non è il mondo a essere falso, sono i tuoi ricordi a esserlo.

Uno dei temi di questo film è il ruolo della mente nella costruzione di una realtà. E non è un caso che una delle fonti di ispirazione sia stato il libro di Daniel Schreber (che dà il nome a uno dei personaggi principali, interpretato da Kiefer Southerland), un disgraziato nato nel 1842 da padre sessuofobo e uber-severo, che finì, come era prevedibile, in un grullocomio. Prima di morire il buon Schreber lasciò un libro, Memoirs of My Nervous Illnes, che descriveva le sue psicosi. Schreber era convinto che in ipnotizzatore si fosse infilato nel suo cervello per alterare i suoi pensieri e le sue percezioni (dandogli strane idee, tipo “non sarebbe ganzo farsi scopare come una donna?”). Non solo, era convinto che le anime dei defunti gli si stringessero attorno, come “uomini improvvisati e fluttuanti”.

In Dark city la vera domanda non è “e se la realtà fosse illusoria?”, ma “e se tu fossi illusorio?”

Domande esistenziali

Col progredire della vicenda vediamo che la città è controllata in ogni atomo dagli Strangers, umani solo all’apparenza. Ogni notte a mezzanotte, gli Strangers si riuniscono sottoterra per il tuning: concentrano i loro poteri psichici megacosmici e voilà! Case emergono, palazzi spariscono, strade si aprono, piazze si chiudono. Gente è spostata, cambiata di abito e di classe sociale, finché Schreber non inietta nella loro testa una nuova memoria.

Quello che gli Strangers vogliono è capire. Cosa ti rende ciò che sei? Sei qualcosa, al di là della somma dei tuoi ricordi?

Se quei ricordi dovessero cambiare, o addirittura sparire, cosa resterebbe di te? D’accordo che cogiti quindi sei, ma se quelle cogitazioni non fossero le tue?

Detto così sembra un film fighissimo che più figo non si può!

Beh, dai…

Well, abbastanza. Intanto è importante notare che sto parlando del Director’s cut. Ci fu infatti un problemino con la produzione, che trovava il film troppo bizzarro e inquietante per il pubblico. Proyas stesso si fece venire un sacco di paranoie, e tirò fuori un Theatrical cut, che a mio modesto parere perde un buon 20% di figaggine. Il Director’s comincia in medias res, e seguiamo il nostro protagonista sconosciuto in un luogo che in apparenza ci è familiare (una città americana di notte) e che via via mostra sempre più incongruenze e anacronismi, come in un brutto sogno.

Nel Theatrical, un narratore ci racconta buona parte del twist d’acchito, togliendo un sacco alla suspence, ma soprattutto al sentimento di confusione e disagio che è l’anima stessa di questo film.

Anche nel Director’s però ci sono dei problemi, e sono legati principalmente alla verosimiglianza. Succede spesso quando ficchi una magia troppo potente nella storia.

Gli Strangers hanno una vasta paletta di poteri mentali strafighi: sono telecinetici, volano, e soprattutto manipolano la materia. Quando sono tutti insieme possono riarrangiare l’intera città come una palletta di pongo.

Tuttavia, quando sono confrontati per la prima volta con Murdoch e constatano che i loro ordini telepatici non funzionano, invece di usare il resto dei loro poteri, tirano fuori il coltellaccio.

Questo è un grosso problema. Un pugnale non è un’arma inquietante, non in mano a qualcuno che può nuclearizzare un palazzo di 15 piani col pensiero. Per quanto gli Strangers riescano a essere, nell’insieme, antagonisti paurosi, quando sfoderano il taglierino la tensione cala.

Un altro problema è la computer grafica. La battaglia finale è a tratti bella da vedere, a tratti sono due tizi che si guardano brutto urlando con roba trasparente che gli spara dalla fronte. E’ uno scivolone grave, più degno di una puntata dei Power rangers che di un film, ed è un peccato. Per quasi tutta la durata il film riesce benissimo a creare un’atmosfera kafkiana, e poi BUM! Onde energetiche. Non dico che è buffo da vedere come il duello tra Lo Pan e l’altro vecchietto in Big trouble in Little China (film tanto cretino quanto divertente), ma siamo lì.

E la fine mi ha lasciata con la testa piena di domande. Come farà questa gente a sopravvivere? Cosa mangeranno, dove coltivano? Ok che Murdoch può usare il tuning, ma ci saranno dei limiti, no? E se no, come ha fatto a diventare così potente? Peraltro, lo aspetta una lunga settimana da Demiurgo se l’idea è quella di fargli creare un mondo nuovo da zero. Voglio dire, l’avete letto Ende, quando Bastian ricrea Fantasia fa un casino che levati!

Ciò detto, il film ha dei grandi pregi.

Per esempio

L’atmosfera è ottima. “Kafkiana” ho detto prima, ed è l’aggettivo che viene in mente: una gigantesca città notturna, senza vie di uscita, che rivolve costantemente su sé stessa senza possibilità di fuga. Anche il supposto paradiso, Shell Beach, suggerisce un luogo chiuso, un guscio che non si può rompere.

Guardandolo mi sono tornati in mente i grandi fil dell’espressionismo tedesco, tipo The Cabinet of dr. Caligari, o lo splendido Metropolis.

I comprimari sono ben tratteggiati, soprattutto il dottore e l’ispettore. Emma (Jennifer Connelly) è un po’ più la tipica coprotagonista femminile, messa lì per essere il supporto morale e la donzella vulnerabile, ma almeno in questo film sembra avere una sincera affinità con Murdoch.

A differenza di Matrix, in cui passano da “buongiorno” “buonasera” a “ommioddio sono follemente innamorata di te, ma continuerò ad avere la stessa faccia da insonnia che ho avuto per le ultime due ore”.

John Murdoch è un buon protagonista. E’ amnesico, ma nonostante l’assenza di ricordi traspare una personalità “piacevole”. Sewell è un buon attore a mio parere, e in questo film riesce a rendere bene il travaglio del personaggio, lacerato tra il desiderio e la paura di scoprire chi è, solo per poi trovarsi invischiato in una situazione molto, molto peggiore della peggiore previsione possibile.

La tana degli Strangers

Per quanto mi riguarda, sono stata subito risucchiata dall’ambientazione, il tono e l’atmosfera. Ho un’idiosincrasia per i film che invece di raccontare una storia esplorano profonde questioni esistenziali, ma nella fattispecie le ho trovate ben studiate e integrate nella trama, e soprattutto legittime. Sono domande interessanti, non il solito messaggio evergreen sulla forza dell’ammoreh o l’insensatezza della guerra. Ho amato molto anche gli Strangers (Mr. Hand è Riff Raff del Rocky Horror Picture Show!), vuoti e inquietanti. Mi hanno ricordato per molti versi gli Uomini Grigi di Momo, altro romanzo di Ende.

Non ne so abbastanza di cinema per capire cosa di preciso mi sia piaciuto in certe scene. Una delle più terrificanti per me, e sinceramente non saprei dirvi il perché, è quella in cui Murdoch deve recuperare il suo portafogli da un ristorante automatico. A differenza di molte altre scene, questa si svolge in una stanza chiara e ben illuminata. Che sia per la frenetica ma impersonale attività del posto, o perché senza ombre non puoi nasconderti, non saprei dire, ma qualcosa nella scena mi ha messo la pelle d’oca.

In un altro momento Murdoch arriva a quella che crede essere un’uscita, ma è solo una piccola stanza spoglia, il mare è solo un poster appiccicato sul muro di fondo. E’ in scene come quelle che si realizza la claustrofobia, la frustrazione e la paura del protagonista. Non può scappare, non può vincere. Mi ha ricordato molto quei simpatici incubi in cui cerchi di svegliarti senza riuscirci.

Riassumendo

Il soggetto

 

La sceneggiatura

 

La storia

 

L’atmosfera

 

Incongruenze nei poteri degli Strangers

 

Pugnali?

 

I personaggi

 

Scenografie  e fotografia

 

Il protagonista

 

La colonna sonora

 

Il duello finale

 

Il tema della storia

 

Dark city fu un fiasco al box-office, mentre Matrix, che ha in comune un sacco di idee, fu un successo. Forse lo stile, le esplosioni e i computer erano più appetibili di una metropoli noir. Il che è anche comprensibile. Tra i due, io scelgo Dark city a mani basse. Avrà i suoi difetti, ma alla fine i personaggi hanno una personalità, sembrano esseri umani. Neo e Trinity sono la coppia più noiosa e con meno intesa della storia del cinema. Inoltre, in Dark city non c’è simbolismo cristiano che a tratti avrebbe anche un po’ rotto le scatole.

Ad ogni modo, questo film è straconsigliato.

MUSICA!

Dracula Untold

Oggi è la Festa dei Morti, festa in cui ricordiamo gli antenati e quanto la famiglia si sia degradata nei decenni. Quale maniera migliore di mancar di rispetto festeggiare se non parlando del più famoso non-morto della Narrativa tutta?

Oggi parleremo di Thorolf lo Storpiato.

Ok, no, sto scherzando. La storia di Thorolf ve la racconterò un’altra volta, magari.

Oggi voglio parlarvi di un film

DRACULA UNTOLD

 

Il soggetto del film è il seguente: i Turchi vogliono invadere la terra di Vlad Tepes. Per respingerli, Vlad si Vampirizza.

Il soggetto è l’unica cosa vagamente umana di questo pasticcio senza redenzione. Io non vedo un problema ad inserire elementi fantastici in un fatto storico, e la storia di Vlad Tepes, il sanguinario pazzoide impalatore, si presta a questo genere di idea. Insomma, se la metà di quello che la storiografia gli accolla è vero, potrebbe benissimo essere stato un succhiasangue. Il vampirismo sarebbe stato l’ultimo dei suoi problemi!

Ergo abbiamo un’idea non proprio originale ma fattibile, cosa resta da fare?

Accozzare la peggiore sceneggiatura della stagione. Preparatevi, perché questa roba è brutta. Non vince l’Altieri d’Oro 2014 solo perché 47 rōnin è uscito prima.

La storia comincia con un Narratore (bello che Untold cominci con qualcuno che racconta qualcosa).

Avete presente la sensazione d’imminente disastro che ho descritto nella recensione dei 47 rōnin? Ecco, qui si è assaliti dallo stesso terrore quando così, a crudo e senza anestesia, ci viene sparato nei denti che Vlad Tepes è un ex-giannizzero e Principe di Transilvania e tributario dei Turchi.

Inizio col botto, yeeeeeeeeh…

Sentite questi ululati in lontananza? E’ il buon Draculia che si dimena all’Inferno.

Se pensate che questa tripletta di assurdità sia la cosa più grave del film, sbagliate. Viene di peggio. Di molto peggio. Ma con ordine.

Il personaggio di Dracula è uno dei principali problemi del film, anche perché tutta la storia gira intorno a lui.

Dracula quello vero (oltre che essere molto meno avvenente di Luke Evans) è un personaggio affascinante. E’ stato uno dei più celebri assassini di massa della Storia, un despota crudele e un guerriero sanguinario. Era anche un principe determinato a proteggere il suo Paese e la propria dinastia. Era un combattente astuto, che non temeva di mettere a rischio la propria pellaccia. Era un tiranno, ed era un uomo nato e cresciuto in tempi spietati.

Si tratta di una figura complessa, ma di certo difficile da ritrarre come un Buono Hollywoodiano. Non è impossibile creare una storia in cui lo spettatore si trovi a fare il tifo per lui, ma è complicato. Un personaggio, anche un anti-eroe, per essere “gradevole” deve avere delle qualità con cui lo spettatore possa relazionarsi, e queste devono integrarsi con il suo lato peggiore. Richiede uno studio molto lungo e complesso.

E’ molto difficile. Ci saranno riusciti?

Ma secondo voi…

Per tutto il film lo vediamo giocare col suo bambino, amoreggiare con la moglie, parlare di pace, e poi così, di sfuggita, una comparsa accenna al suo soprannome: l’Impalatore.

Il fatto che abbia ammazzato nel peggior modo possibile “migliaia” di persone viene appena suggerito e non ha nessun impatto sul suo carattere.

“Eh, è uno che impalava gente per conto di un dittatore pazzoide, ma a parte quello è uno apposto, stacce!”

Anche quando Vlad imporchetta l’avanguardia turca (unico fatto storico sopravvissuto in questo macello), accade fuori campo.

Lo vediamo menare in battaglia (e sulle coreografie preferisco non pronunciarmi), ma combattere contro orde nemiche e disporre di feriti e prigionieri sono due cose molto diverse. Nel primo caso la tua vita è in imminente pericolo, nel secondo la loro vita lo è. Dei soldati in battaglia e dei prigionieri inermi non destano la stessa empatia.

Non vediamo Vlad prendere la decisione, non lo vediamo agire, non lo vediamo dare l’ordine tra i singhiozzi dei prigionieri, le preghiere e i rantoli dei feriti. Cosa gli passa per la testa in quel momento? E’ contento? E’ distaccato? E’ stanco?

Checcazzo, l’esecuzione di massa dei prigionieri turchi è LA cosa che tutti conoscono di Vlad Tepes!

Questo film è come un film su Magellano in cui si taglia il passaggio dello Stretto!

Peraltro, è un modo per vincere facile. E’ facile far vedere il Buono che stermina in una sequenza d’azione decine di minions of Hell inferociti. Ma mostrarlo mentre condanna degli uomini in catene? Molto più complicato. E infatti la cosa è solo raccontata. Per lo spettatore è solo una nozione. Un buono story-teller mostrerebbe la scena, metterebbe lo spettatore nella pelle del protagonista. In mezzo alle mosche e alle suppliche, lo spettatore deve vedere il massacro come l’unica, crudele soluzione.

Ora, se allo sceneggiatore di stammerda piace vincere facile, forse non doveva scegliere come protagonista Vlad Tepes l’Impalatore!

Con un film tutto incentrato su un personaggio rappiccicato con lo scotch, potete immaginare che il godimento sia piuttosto basso. Ma il protagonista non è il solo problema.

La storia


Il soggetto, come ho detto, non era male. Peccato che una volta sviluppato si muti in: Vlad sprofonda il proprio Paese e i suoi sudditi nella merda per salvare solo e soltanto il proprio bambino.

La vicenda comincia con Vlad che, alla ricerca di alcuni scout Turchi (…), scova una grotta con un Vampiro. Tenetelo a mente, perché il nostro eroe se ne scorda praticamente subito, ha altre gatte da pelare, tipo festeggiare la Pasqua!

Proprio mentre tutti mangiano e si divertono arriva un generale Turco. Non è stato annunciato né nulla, semplicemente varca la soglia. Così. Suppongo l’Enterprise l’abbia appena teletrasportato.

Il Turco è cattivo, e lo si capisce perché sorride malevolo, ridacchia malevolo e parla in tono mellifuo e malevolo.

Glad to meet you. I’m EVIL.

Il Turco vuole mille ragazzini (incluso il principino! OMG!) per diventare Giannizzeri!

-Ma come!- trilla Vlad –Non facevate più Giannizzeri da anni!

(Il corpo dei Giannizzeri ha continuato a esistere fino alla prima metà del XIX° secolo.)

-E invece sì!- il Kattivo ride mellifuo –Vogliamo mandarli a combattere all’Assedio di Vienna!

Ora, vabé che Maometto II era un ottimista, ma tiobono, l’Assedio di Vienna è del 1529, settant’anni dopo i primi scazzi tra Vlad e gli Ottomani! E’ come se in un film sulle 5 Giornate di Milano gli Austriaci Kattivi rastrellassero ragazzi per spedirli a Verdun!

Insomma, Vlad dice NO!

Non per mantenere il suo Paese indipendente, non per proteggere i suoi giovani sudditi, ma perché non vuole mandare il SUO bambino dai Turchi Kattivi!

No, non sto esagerando. Perfino il ragazzino trova la cosa cretina, ma Vlad e quella piaga egiziaca di sua moglie sono pronti a fottere l’intero principato per il loro pupo. They’re the best.

Maometto II giochetta con delle barchette durante un meeting ufficiale. No, non sto scherzando, hanno davvero filmato una scena del genere.

Per sconfiggere l’esercito nemico, Vlad va dal vampiro a farsi vampirizzare. Il Nosferatu de noartri accetta perché si annoia, e l’accordo è presto trovato.

Cosa significa essere vampiro in questo film?

Invulnerabilità, superforza, poter sentire e controllare tutte le creature della notte, velocità. In più, se Vlad riesce a resistere per tre giorni alla sete di sangue, tornerà umano. Insomma, fai il rodaggio, se i superpoteri ti convengono bene, sennò hai tre giorni per disdire.

E la vera idiozia comincia.

Dracula torna indietro e trova che in un pomeriggio l’avanguardia turca ha attraversato il confine, cinto d’assedio la sua capitale e sta facendo polpette dei sui uomini. Ho sempre amato quando gli eserciti al cinematografo si materializzano a destra e a sinistra in uno schioccar di dita, ma dato che i Turchi in questo film lo fanno per sistema di apparire ex nihilo nei posti più curiosi, ne deduco che sia un superpotere Ottomano. Dracula distribuisce un paio di pacche sulla schiena, esce da solo, disarmato e senza armatura, e a mani nude massacra mille soldati. Quando l’ultimo schiatta, i suoi arrivano. Soccorso di Pisa.

-Niente domande.- fa Dracula.

-Ok.- fanno i suoi.

Raccattano tutti e si spostano in un monastero-fortezza in cima al monte.

Un frate lo vede lanciare un’occhiata per aria ed evitare la luce. E io mi chiedo: perché non procurarsi un parasole? Se con “niente domande” eviti spiegazioni sul miracolo di cui sopra, credo che un ombrello possa passare relativamente inosservato…

Ad goni modo, Vlad evita di uscire alla luce, e il frate conclude all’istante che è stato vampirizzato.

-Il capo è un Vampiro!- Fa il frate.

-Bruciamolo!- Fanno tutti.

Danno fuoco all’edificio, ma una nuvola copre il sole per esigenze di trama. Vlad esce tutto fumante.

-Ma che cazzo!- Fa Vlad.

Convinti da questo inoppugnabile argomento, i suoi posano micce e paletti e tornano in riga senza fiatare.

Questi non sono Valacchi, sono un pollaio di papere. I miracoli più strambi li lasciano indifferenti, un nonnulla basta a scatenare un linciaggio, e due berci sono più che sufficienti a fargli accettare un demone come capo.

Sorge però un altro problema: ridendo e scherzando, i tre giorni passano, e Vlad si trova che il grosso dell’esercito nemico sta arrivano e manca poco all’alba in cui perderà i suoi poteri.

Certo, avrebbe potuto andare incontro al nemico la notte prima e sconfiggerli, ma avrebbe dovuto pensarci, e Vlad non è un drago dell’elucubrazione (ba-dum tssh!)

I nemici avanzano.

(Vai e menali).

Vlad guarda l’esercito in lontananza, senza sapere che fare.

(Vai e menali.)

Vlad continua per diversi minuti a guardare l’esercito in lontananza, senza sapere che fare.

(Maremma impestata, vai e menali!)

Vlad si ricorda che ha potere su tutte le creature della notte (GRAZIE!). E cosa decide di scatenare sugli Ottomani?

Pipistrelli.

Linci, lupi, naaah, sorci volanti!

E’ così stupido! E’ come se qualcuno avesse controllo su tutte le creature del Mare e decidesse di usare i pinguini!

Ma non divaghiamo, mentre Vlad è in giro a menare i turchi, un manipolo di nemici si materializza nel dongione, sempre grazie al potere del Tanto-Chi-Guarda-E’-Fesso. Il manipolo acchiappa il marmocchio e butta la donna di Vlad giù dal dongione. Dracula si precipita su di lei, mentre l’alba sorge e i suoi poteri si indeboliscono.

Lei, che non ha perso una goccia di sangue dopo 600 metri di caduta libera, apre gli occhi e parla.

Ok, siamo sicuri che il non-morto sia lui? Questa qui dovrebbe essere una sottiletta squagliata, cazzo chiacchiera!

Ma no, ci vuole la scena in cui lei gli chiede di morderla, in modo da dannarsi per l’eternità e conservare i poteri per salvare il bambino.

Ci sono mille altri modi in cui la situazione si potrebbe risolvere, senza dannare tuo marito in eterno, ma chissenefrega, la tizia insiste e insiste, e alla fine lui cede.

Stronza.

Vampirizzato in via definitiva, Vlad torna al mastio, dove vampirizza tutti i superstiti.

Li avverte che se eviteranno di bere sangue, tra tre giorni potranno tornare umani, salvarsi l’anima e…

Ah, no, scusate. Non glielo dice.

Vanno al campo Turco e iniziano a massacrare tutti.

Intanto Maometto II ha subito una notevole evoluzione: a inizio film voleva un tributo e delle reclute. Poi solo delle reclute. Ora tutta la faccenda si riassume in “voglio portar via tuo figlio per farti dispetto”.

I due si incontrano nella tenda del sultano, che ha sparpagliato monetine d’argento dappertutto. Come fa a sapere che l’argento indebolisce i vampiri? Boh, avrà sbirciato il copione. Il sultano è tutto contento all’idea di ammazzare Vlad e portar via suo figlio! Aha!

Resta il piccolissimo dettaglio che da “arruoliamo mille tizi” è approdato a “ho perso 10.000 militari di professione per un dodicenne inutile”. Ma non fatelo notare allo sceneggiatore.

Il sultano riempie Vlad di cazzotti, perché… boh, perché le scene d’azione non erano abbastanza cretine, e poi…

Ah, non c’è modo di dirlo senza che suoni stupido.

Poi Vlad si ricarica il mana grazie al potere dell’ammoreh e ammazza Maometto II.

Vlad se ne esce con suo figlio, ma i suoi compagni sono diventati Kattivi!

Perché? Vlad non è diventato cattivo (per gli standard del film almeno…), come mai questi sì?

Perché… perché…

Per ragioni!

Vlad scarica il marmocchio al solito Frate Ex Machina, poi separa le nubi con la forza del pensiero e fa crepare tutti i suoi sotto i raggi del sole.

Perché hanno attaccato 15 minuti prima dell’alba?

Perché giorno e notte in Transilvalacchistan obbediscono alla volontà del regista.

In conclusione: Vlad ha sprofondato un Paese nella guerra, lasciato massacrare i sudditi, decapitato la sua classe dirigente e condannato i pochi superstiti alla dannazione eterna per proteggere il suo marmocchio.

In qualche modo sono riusciti a creare un Vlad ancora più riprovevole di quello vero! Complimenti! Peccato che il film ce lo presenti come un personaggio positivo!

Questo film è un disastro.

Ci sono scene che uno si chiede quale sostanza stupefacente le abbia ispirate.

Nella seconda scena del film, Vlad e i suoi stanno facendo un’escursione da qualche parte (forse). Trovano un elmo Turco in un torrente e ne deducono che degli esploratori sono nei paraggi. Vlad manda via tutti tranne due sacrificabili, e parte alla ricerca di costoro.

Primo: se ti cade l’elmo, lo raccatti. Se per esigenza di trama l’acqua lo trascina a valle, gli corri dietro (come Ferraù, in un’opera molto migliore di questa). Se degli esploratori hanno abbandonato un pezzo, vuol dire che hanno avuto dei problemi.

Secondo: Vlad è tributario dei Turchi e conoscente personale di Maometto II. Per quale ragione un gruppo di esploratori dovrebbe intrufolarsi di nascosto in casa sua?

Annose domande.

Vlad e i due bodycount salgono una montagna, trovano una grotta. L’aiuto-regista gli passa delle torce (giuro, non le avevano salendo!) ed entrano. Il pavimento è coperto di ossa. Vanno avanti. Trovano morti ammazzati in giro.

-Andiamo avanti!- trilla Vlad –Sono sicuro che non succederà niente di OH MIO DIO I MIEI UOMINI SONO MORTI CHI L’AVREBBE MAI DETTO!-

Vlad si salva perché è il protagonista, e un frate gli spiega che nella caverna ci sta un vampiro.

Di nuovo, mille domande:

Primo, il succhiasangue ha appena stecchito dei soldati Turchi, sai che la cosa potrebbe portare guai, che fai? Nulla, ovviamente, fai finta di niente. Eh, senti, Maometto ne ha migliaia di soldati, figurati se si accorge che gliene manca qualcuno!

Secondo, c’è un succhiasangue sulla montagna, che fai? Nulla, ovviamente, domani è Pasqua e se faccio lavorare i miei i sindacati mi rovinano!

Terzo, il succhiasangue in questione è appena stato scoperto, potrebbe ammazzare Vlad al prezzo di una scottatura passeggera, cosa fa? Nulla, deve aver fiutato l’idiozia congenita.

 

In un’altra scena, Maometto II avanza in un campo di battaglia, trova un suo generale ferito.

“Un messaggio dal Principe.- rantola questo.

Allora, e solo allora, Maometto II si accorge che dieci metri più in là, davanti al suo naso, la sua avanguardia al gran completo è a spiedini in mezzo alla pianura! Che ha, cecità selettiva? Può vedere solo un oggetto per volta?

Checcazzo, film! Checcazzo!

 

L’idea di base  
Il personaggio di Dracula
I comprimari
I Turchi che si teletrasportano
Maometto II che gioca con le barchette
La storia
La maledizione con rodaggio
La prima battaglia
“Non fate domande”
“Sto cercando di difendere i vostri figli o forse no”
I pipistrelli
La seconda battaglia
La moglie di Dracula
Le motivazioni dei Cattivi
Maometto II che sacrifica un esercito per noia
Dracula che “soccorre” i suoi compagni e sudditi
Il Vampiro nella grotta
Impalatore? Vabé, dai, è un bravo figliolo lo stesso
IL FINALE

 

Questo film è orrendo. Non ha niente di buono, non è interessante, non è fantasioso, il protagonista è una persona ripugnante che in qualche maniera riesce a essere anche peggio del personaggio storico a cui si ispira (e stiamo parlando di uno dei criminali più famosi della Storia!).

Consigliato solo per gli appassionati di trash.

E anche nel caso, fatevi un piacere: noleggiatevelo o procuratevelo in altri modi, ma non pagate un biglietto di cinema!

E di solito metto un acanzone metal a fine articolo, ma questo film NON MERITA UNA CANZONE METAL!
Here you go.

Tre film per samhain

Samhain si avvicina!

A essere sincera, è una ricorrenza che mi è sempre passata sopra la testa. Dato lo stampo anglosassone e commerciale della faccenda, il mio ruolo di fanciulla di buona famiglia toscana mi impone di guardare la cosa dall’alto, il naso arricciato dallo sdegno e un bicchiere di buon chianti in mano. Roba da americani, cuginetti speciali. Le nostre tradizioni sono più antiche, più nobili, più serie e più intellettuali.

Detto ciò, a chi non piacciono mostri e fantasmi?

Questa festa commerciale e serva del sistema è un’ottima occasione per guardarsi filmacci e nutrire il ragazzino morboso che si annida in ognuno di noi!

Qui tre spassionati consigli.

Lo sottolineo subito: nessuno di questi film fa paura, nemmeno un pochino pochetto. Si tratta di film divertenti che hanno messo un largo sorriso sulla mia faccia (solo per un attimo s’intende: sorridere fa venire le rughe!).

The Lords of Salem


Un minuto di silenzio per Mozart e per i capelli di Mrs. Zombie.

Questo è l’unico film trash della trippletta. E’ una piccola perla!

The Lords of Salem, film del 2013, è la penultima fatica di Rob Zombie. Ring any bells?

Per chi non lo conoscesse, Rob Zombie è la mente malvagia dietro il re-make Halloween e Halloween II. Ora, non dirò che questi due film stuprano analmente Michael Myers, ma di certo lo molestano. Zombie ha anche all’attivo perle come Werewolf women of the SS (Nicolas Cage partecipa nel ruolo di Fu Man Chu, e ho detto tutto).

Per una curiosa combinazione di eventi, esiste anche un buon film di Zombie: The devil’s rejects. Immagino che dopo aver girato quello lì, il nostro metallaro allo sfascio abbia headbangato con troppa foga e si sia dimenticato come si fa ad essere registi. E badate: The Lords of Salem è l’opera in cui gli hanno dato carta bianca! Genio all’opera!

Il film è il terzo della Haunted Production, dopo Paranormal Activity e Insidious. A me i film sono più o meno piaciuti tutti e due. Niente di eccezionale, ma li ho trovati gradevoli. Paranormal Activity non brilla per originalità, ma l’attrice protagonista se la cava e alla fine riesce a trarre il meglio dalle due lire di budget che ha. Insidious ha di pro e dei contro. I due attori principali recitano da cani (il che è bizzarro, perché Patrick Wilson è capace di fare un lavoro decente, quando vuole) e gli ultimi venti minuti sono da facepalm galattico, ma la regia mi era piaciuta per la maggior parte, come anche l’uso di effetti pratici piuttosto che computer grafica.

Quindi, con due film passabili all’attivo, cosa ci riserva la produzione?

Oh, boy…

Ahem… ciò è imbarazzante…

Il film comincia con un Sabba in Salem, durante il quale un mazzo di bagonghe inneggia al Diaulo. Forse Zombie cercava di rievocare l’iconografia rinascimentale in una scena vagamente simile all’inizio del McBeth di Polanski. Nei fatti, sono bagonghe nude intorno a un falò che cercano con tutte le loro forze di essere spaventose, con tanto di strilli, balbettii e smorfie. E noi dovremmo beri la scena con tette flosce, denti marci e tizie che berciano “aaaah, ihihihih, gahgahgah, uuuuuuh” per MINUTI. Sì, boh, le riunioni del Collettivo Studentesco al Liceo erano più spaventose, ma, devo ammettere, molto meno divertenti.

Insomma, un inizio col botto che ti butta in faccia “cattivi brutti coi denti marci”! Wow, che classe, che maestria! A meno che voi non siate Repubblicani Neo-cons o fan di Altieri (autore anche di Fisiognomia dentale, come capire l’indole dal tartaro sugli incisivi), è probabile che la reazione a tale scena sia l’ilarità.

Ed è solo l’inizio!

Il resto del film si svolge oggigiorno, con Heidi, una rastona in disarmo, DJ per il programma radio più fastidioso della Storia. Una sera qualcuno le recapita un vinile di un gruppo sconosciuto, The Lords, con a quanto pare un’unica traccia: una decina di note ripetute ancora e ancora e ancora e ancora. Della serie: se non ti fa paura la prima volta, forse la ventitreesima sì!

Heidi e il suo cumpa ascoltano stammerda senza salvezza e, dopo aver determinato che è nammerda senza salvezza, decidono di trasmetterla il giorno dopo alla radio. Logico.

La musica è magica e da quando viene trasmessa un sacco di strani fenomeni cominciano a capitare alla nostra protagonista, in un crescendo di idiozia culminante con la Maledizione delle Streghe di Salem!

Ovvero: la discendenza del reverendo John Hawthorne partorirà l’Anticristo e le donne di Salem moriranno tutte. O una roba del genere.

Di solito non mi piace quando qualcuno sfrutta un fatto storico (specie uno cupo e crudele come i processi di Salem) e ne fa quel che gli pare senza riguardo. In questo caso nessuna delle “streghe cattive” porta il nome delle vittime di Salem, la vicenda è chiaramente inventata (si parla di roghi, e credo tutti sappiano che a Salem non è stato bruciato nessuno) e l’unico personaggio storico reale che compare è Hathorne. Hathorne era un pazzoide integralista e un assassino, quindi merita di comparire in un questo film di merda.

BWAHAHAHAHAHAHAHAH, oh my…

La sceneggiatura va oltre lo stupido. In una delle prime scene Heidi dice alla proprietaria del condominio che ha visto qualcuno nell’appartamento 5, appartamento che, la proprietaria assicura, è vuoto. Quando Heidi insiste, la tizia decide di andare a vedere “se ti fa sentir meglio”.

Se fa sentir meglio lei?

Cosa, sei te la proprietaria, se qualcuno apre uno squat in uno dei tuoi appartamenti il problema è tuo, mica della rastona quarantenne in fondo al corridoio!

Il tutto è ancora più caricaturale quando vediamo che il concetto della vecchia di “controllare” è andare alla porta, constatare che è chiusa a chiave e andarsene. Wow, Sherlock Holmes in pantofole!
E il tutto è ancora più assurdo quando si scopre che la vecchia sa benissimo cosa succede nell’appartamento 5. Immagino se ne fosse scordata. Dispetti dell’Alzheimer.

In un’altra scena un’Heidi posseduta deve presenziare al concerto dei Lords. Il suo cumpa la va a prendere, la trova ancora più rottame che d’abitudine e a stento capace di mettere un piede avanti all’altro. Dato il noto passato di droga della signora, il tipo decide di chiamare un’ambulanza un familiare il suo capo accompagnarla al concerto. A lavorare, cagna! Perché né lui né il terzo DJ della trasmissione potevano andare al posto di lei, ci mancherebbe!

Zombie pliiiiis…

Heidi è un personaggio che definire dimenticabile è dire poco. E’ la tipica rastona rottame coi tatuaggi e un passato da drogata (originalità a palate). Heidi si veste da Ragazza Trp Kontro (a quarant’anni), ha la casa decorata da roba figa e ascolta metal, e questo ci basti: è tutta la caratterizzazione che ci serve.

Il Metal, già. Rob Zombie ha iniziato realizzando video musicali, e si vede. Si vede e fa male agli occhi.

Rob Zombie pare sinceramente convinto che i capri, i pentacoli e il trucco bianco e nero siano roba controcorrente, scandalosa e inquietante. No, sul serio, Heidi che ancheggia su un muflone impagliato dovrebbe spaventare.Rob Zombie vive chiaramente nel 1901.

Una menzione doverosa al nudo! Metà del film è fatto da tette flosce e cellulite. Attacca su tette flosce e cellulite per poi spostarsi su Heidi che dorme nuda, ovvero tette piatte e ossicini. Il film impiega diversi minuti a mostrarla nuda (ma coi calzettoni), in bagno, sul cesso, e pochi secondi per sviluppare il suo carattere.

Dovrò elaborare dal semplice fatto che dorme nuda coi calzettoni: soffre di geloni, non mangia abbastanza e tiene il riscaldamento di casa sua troppo alto. Che razza di esempio stai dando, Zombie? Perché nessuno pensa ai bambini? (Ovviamente del nudo fotte nasega, è il riscaldamento a mille che disapprovo).

Uno potrebbe quasi pensare che il film sia volontariamente esilarante. Suvvia, un uomo adulto non penserà davvero che gente in maschera che masturba dildo variopinti sia paurosa no?

E invece sì.

In un’intervista il grande Rob mette i puntini sulle i: “To me, horror and comedy never work. Never worked for me, anyway.”

Oddai, adesso dovrei credere che anche The devil’s rejects è tutto serio! Non mi farai sentire in colpa per aver riso, Zombie, è inutile che ci provi!

In un’altra scena delle vecchine commettono un omicidio e poi prendono una tazza di the. La scena dovrebbe essere inquietante e surreale, ma la recitazione delle tre signore e la sceneggiatura mentecatta ne fanno uno spezzone a metà tra l’adorabil-retard e l’ilare.

Sul serio dovrei prendere sul serio battute come “Have you come here to stuck your nose and cock inside her head and fuck her brain?”? Non so se sia un omaggio a Lee, ad ogni modo è la terza battuta più cretina della storia del Cinema dopo “are you all right?” in Audition e “ci conosciamo intimamente?” in Le porte dell’Abisso. Le due vecchie zie di Arsenico e vecchi merletti sono MOLTO più inquietanti, e stiamo parlando di una commedia per famiglie!

Infine, a tratti Zombie cerca di giocare la carta “creepy” à la Insidious. Avete presente questa scena? Non è male, perché l’essere è allo stesso tempo visibile e inquadrato di sfuggita, e non abbiamo idea di chi o cosa sia.

Funziona se usato in modo sottile, col personaggio che non nota qualcosa che lo spettatore ha intravisto.

Sottile? Un film di Rob Zombie? Fanculo, perché non mettere una strega nuda putrefatta in cucina, a fissare la nostra protagonista come uno spaventapasseri lobotomizzato? L’effetto è, ancora una volta, involontariamente esilarante.

 

Sceneggiatura che va oltre l’idiota
Recitazione che oscilla tra del tutto svogliata e esagerata abbestia
Personaggi del tutto dimenticabili
Mrs. Zombie
La trama è così sottile da essere impalpabile
Gli elementi metal pompati
I nudi e i dildo
What about Boomer?!

 

Il film è, a parer mio, un “so bad it’s good”.

Insomma, se volete un film così brutto da essere divertente, The Lords of Salem fa al caso vostro! E’ stupido, è esagerato, il copione trascende l’idiozia, la recitazione è a livelli di scuola media e la fine, quando Zombie cerca di essere “provocatorio, satanico e inquietante”, è così assurda e demente da guadagnarsi un posto di merito nell’Iperuranio del cinema trash!

 

ParaNorman


Questo è un cartone animato per famiglie del 2012, uno stop-motion. La casa di produzione è Laika, che potrete ricordare per Coraline.

Vidi Coraline un qualche anno fa, e lo trovai carino. Dopo un film bellino, la Laika non poteva deludere subito al secondo prodotto no?

No, infatti. ParaNorman ha pregi e difetti, ma nell’insieme mi è piaciuto.

Stop-motion, una tecnica che desta la mia più sincera ammirazione

Norman è un ragazzino sensitivo che vive in un paese famoso per aver impiccato una strega alla fine del ‘600. Il centro città è un continuo celebrare questo simpatico avvenimento, con negozi, casinò a tema, una bella statua della strega ecc.

La storia peraltro si ambienta in Massachusetts, un chiaro riferimento al processo di Salem. Cela va sans dire, questo cartone gestisce il richiamo alla strage di Salem molto meglio del filmaccio di Zombie!

Norman vive con una madre affettuosa ma poco presente, un padre pragmatico e brusco, e una sorella più grande arrogante e gradevole come una scheggia sotto l’unghia. Ovviamente nessuno dei tre crede che lui sia davvero sensitivo, e a scuola il bulletto non perde mai occasione di tormentarlo per la stessa ragione.

Fin qui niente di molto originale, il 99% dei film con citti sensitivi comincia così.

Le cose cambiano quando lo zio matto di Norman (sensitivo anche lui) gli spiega che l’anniversario della morte della strega si avvicina, e che per scongiurarne la maledizione è necessario leggere un certo libro sulla sua tomba prima del tramonto. L’infame fattucchiera ha infatti maledetto giudice e accusatori: non troveranno riposo e sorgeranno dalle loro tombe a un suo comando.

Nemmeno questo molto originale. Il problema è che lo zio di Norman è un conclamato ritardato, ed esce di scena prima di aver dato indicazioni più precise. Sicuro come l’alba, qualcosa va storto, e gli zombies sorgono dalla terra e scendono in città durante la peggiore tempesta del secolo.

E qui il film di zombie prende una direzione del tutto nuova.

Come ho detto, il film non ha elementi “cattivi”, ma ne ha di buoni e di così-così.

Ci sono buone idee per i personaggi, la satira prende in giro in modo originale i film classici di zombie in un’inversione di ruoli che non avevo mai visto finora, e ci sono anche diverse frecciate alla società più in generale (come durante la recita della scuola, in cui sono presenti solo i genitori dei marmocchi e nessuno guarda lo spettacolo perché tutti sono troppo impegnati a filmarlo).

Adulti, molto più pericolosi degli zombie

Il secondo atto della storia è fantasioso e creativo. In particolare sono rimasta ammirata dal villain:

La strega era una bambina, uccisa da adulti spaventati che non vogliono ascoltare. Il libro che Norman deve leggere non è un libro di magie, ma una favola. Una favola per far restare la bambina addormentata. Niente favola, niente nanna: la ragazzina si sveglia e scatena la sua vendetta sui suoi carnefici.

Con alti e bassi, questo personaggio riesce a essere tragico, ma anche inquietante (“I don’t want to go to sleep. And you can’t make me”, nice job folks!).

Una scena

Ho anche apprezzato il cinismo con cui sono ritratti i cittadini: che sia per fanatismo religioso o per paura degli zombie, la folla è sempre uguale, una belva pronta a linciarti per preservarsi, che tu sia davvero una minaccia o meno. Anche nel design il messaggio è chiaro: i vivi faranno sempre più paura dei morti.

Brrr…

I comprimari sono caricaturali, ma non piatti. Fanno nell’insieme un lavoro decente.

Le battute sono… incostanti. Certe sono effettivamente divertenti, in particolare quelle di Mitch, il fratello maggiore dell’amico di Norrman (peraltro, la sua battuta finale mi ha sorpresa: credo che Mitch sia il primo e unico esempio del suo genere in un film americano per bambini). Per avere un’idea, qui.

L’humor nero. Quello era delizioso. Ci sono dei passaggi nel cartone che mischiano bene umorismo e un contenuto estremamente truculento. Guardi il cartone e ti rendi conto che questa buffa scenetta di goffaggine ritrae un bambino di undici anni che cerca di strappare un libro dalle mani di un cadavere. Un cadavere col rigor mortis e che comincia a puzzare.

Non è una cosa nuova. Nightmare before Christmas è praticamente basato su questo contrasto, come anche altri cartoni tipo La sposa cadavere, ma è un tipo di commedia che a me piace molto.

La morale in generale mi è piaciuta: nel film nessuno è davvero cattivo, e tutti lo sono un po’. L’idea de “la gente teme quello che non capisce” non è certo nuova, ma dopotutto è una realtà. Persone normali e di buone intenzioni possono commettere le cose più atroci per paura. E il corollario è: il vero problema è non stare a sentire il prossimo.

Il film ha peraltro un ottimo spunto riguardo al rancore, e a come la vendetta sia distruttiva sia per chi la subisce sia per chi la esegue. Per usare il proverbio giapponese: quando maledici qualcuno scavi due fosse (libera traduzione).

 

Ok, tutto ciò è molto bello, quindi cos’è che non mi è piaciuto?

Difficile da spiegare. Il film gioca con dei temi difficili da maneggiare in un film per bambini (linciaggi e infanticidio, no less!). A tratti l’equilibrio tra il tono di un film per famiglie e la crudezza del soggetto è ottimo, a tratti pare che gli sceneggiatori non abbiano osato andare fino in fondo. La storia della strega ad esempio è gestita molto bene, ma alla fine la risoluzione pare un po’ affrettata.

Anche l’umorismo vola a tratti basso. Per una battuta divertente e una scena satirica, c’è uno scherzo infantile e uno sketch cretino. Sembrano occhiolini ai bimbi poco furbi in sala “eccovi il vostro scherzo sui sederi, alé, ridete”.

Ugualmente il disagio che prova Norman per via del suo potere ha le ali tarpate. Le scene di incomprensione con la sua famiglia sono fatte molto bene, ma poi vediamo Norman chiacchierare con gli spettri come con dei vicini di casa. Il fatto che sia così a suo agio con i morti va contro l’idea che il suo dono gli crei problemi.

Insomma, il film ha diverse buone idee e ottimi momenti, ma sembra realizzato solo per due terzi. Finito di guardarlo, l’impressione è che si potesse fare un po’ meglio.

L’animazione stop-motion è notevole e migliora con la storia
I personaggi sono divertenti
La satira
Il secondo atto
Il tema della storia
L’ultimissimo scambio con la strega è piuttosto cliché
A tratti il film decolla solo a metà
L’humor nero

Nell’insieme lo consiglio: è carino, ha degli spunti molto boni, a tratti un po’ banalotto ma a tratti brillante. E’ per ragazzini, ma apprezzabile anche dai grandi.

 

Tucker & Dale VS Evil


Cominciamo col dire che HO ADORATO QUESTO FILM. E’ una delle migliori commedie noir che abbia visto negli ultimi anni.

Si tratta di un film canadese del 2010, diretto dall’americano Eli Craig.

La storia comincia con un gruppo di college kids che parte per un fine settimana nei boschi a bere, fumare e scopare. Lungo la strada vengono superati da un camion con due sinistri omonidi di montagna (hillbillies) che li fissano con inquietante attenzione. Gli stessi hillbillies saranno sinistre presenze all’ultima stazione di gas, dove i ragazzi si fermeranno per rifornirsi.

A coronare il tutto, il luogo che hanno scelto per la loro vacanza è stato teatro, vent’anni prima, di un terribile crimine, in cui un paio di hillbillies assassini hanno attaccato e massacrato un gruppo di innocenti campeggiatori…

Senso di déjà vu?

Come The cabin in the woods, Tucker & Dale VS Evil è una parodia del genere slasher, ma l’approccio è totalmente differente. The cabin in the woods è un film divertentissimo e ben pensato, ma che basa la sua vis comica sul meta-umorismo: funziona solo nell’universo degli slasher (tipo le cagate della serie Wrong Turn et similia). Per maggiori informazioni, questo articolo del Tapiro.

Anche in Tucker & Dale VS Evil buona parte dell’ilarità viene dalla parodia di altri film, ma la trama si regge in piedi da sola. Ovvio, se si ha un po’ di pratica del genere lo si apprezza molto di più, ma non è indispensabile per seguire la storia o godersi l’umorismo macabro.

Ma andiamo con ordine.

Gli hillbillies che incrociano la strada dei nostri college kids sono Tucker e Dale, due amici che hanno comprato uno chalet una baracca sfondata nella stessa zona in cui i ragazzi vogliono campeggiare. A loro insaputa, si tratta della stessa baracca in cui vivevano i due serial killer attivi vent’anni prima.

Dopo uno sgradevole scambio con i ragazzi alla stazione di servizio, i due hillbillies si trovano a pescare nello stesso lago in cui il gruppo sta facendo il bagno. L’unica persona passabile della banda, Allison, cade da uno sperone roccioso, picchiando la testa. Tuck e Dale si precipitano a salvarla, ma sono visti dagli altri, che da bravi cerebrolesi appena usciti da una fraternity tirano la più logica delle conclusioni: Allison è appena stata catturata da due hillbillies perversi affamati di carne umana.

Mentre i due compari portano la ragazza a casa e la soccorrono, il gruppo decide che l’unica tattica ragionevole da attuare è attaccare i due mostruosi cannibali e salvare la loro amica. La situazione precipita alla svelta, per la delizia degli spettatori.

Questo film è curato fin nei dettagli. Ad esempio, la stazione di gas, topos immancabile degli slasher, si chiama Last Chance Gas. Tuck e Dale passano il tempo a tracannare birra della marca Beer. E via di seguito. I riferimenti ai cliché del genere sono tantissimi, ma non zavorrano la trama. Aumentano l’ilarità per chi li nota, per chi non li coglie non cambia nulla.

I personaggi dei due omonidi sono una delle cose migliori del film. Tuck e Dale sono simpaticissimi. Sono due ignoranti dalla parlata sgrammaticata, e gente che apprezza le buone cose della vita, sono disorganizzati e rozzi, e sono cavallereschi e leali, sono semplici ma non stupidi, e nemmeno lontanamente pazzi quanto il capetto della banda dei college kids.

Le interazioni tra i due amici sono ottime e i dialoghi un miscuglio molto ben gestito di ignoranza, bizzarria e buonsenso.

I college kids sono più stereotipati e, a parte il capo, Chad, gli altri sono banali ma ben gestiti.

Allison, l’eroina, è passabile. Non brillante come i due hillbillies, ma sufficiente. Non è molto sveglia, ma non è stupida. E’ piena di buona volontà, ma non molto capace, e alla fine della fiera passa buona parte del tempo incosciente. A tratti è un po’ troppo brava e comprensiva, al che viene da chiedersi cosa ci faccia questo fiore di fanciulla con una manica di mentecatti come i suoi amici.

Un mentecatto

Il gore è molto poco plausibile, ma hey, resta più probabile di quello che combinano in Wrong Turn (1, 2, 3, 4, o 5, scegliete a piacere, fanno cagare tutti quanti, e sì, lo so che ne hanno fatti ancora, e no, non capisco il perché).Qui per lo meno è volontariamente divertente.

Un altro merito del film: prende in giro i suoi stessi cliché, come il fatto che Allison trovi sempre il modo di cadere e farsi male.

La storia
Tucker e Dale
I comprimari
I particolari
La sceneggiatura
Il gore cialtrone
Il twist finale
Certe battute di Allison sono un’anticchia troppo “goody goody”

 

Questo film è divertentissimo. Guardatelo.

BONUS

Ho citato più in alto Arsenico e vecchi merletti.

Si tratta di un film del ’44, diretto da Frank Capra e basato sulla commedia di Kesserling. Racconta la storia di Mortimer, uno scrittore che sta per partire in luna di miele e prima di andare passa a salutare la famiglia: due vecchie zie, adorabili vecchine che lo hanno allevato, e suo fratello Teddy, un matto convinto di essere Theodore Roosvelt. Mortimer pensa di sbrigarsela in pochi minuti, ma tutto cambia quando, aprendo una cassapanca, trova un cadavere fresco di decesso.

Per avere un’idea, qui una scena.

Arsenico e vecchi merletti è una delle mie commedie preferite. La storia è spassosa, è recitata divinamente e i personaggi sono memorabili. Straconsigliato!
E per finire una canzone in tema: CHAINSAW BUFFET!

Horror e aspirine

Di ritorno dagli Altai era mia ferma intenzione pubblicare un articolo di Storia. Purtroppo mi sono buscata un qualche tipo di peste, quindi in attesa che l’articolo sulla Guerra di Genpei sia presentabile, vi cuccate una rapida carrellata di tre film recenti che ho avuto occasione di sorbirmi.

DEAD MINE


Film indonesiano uscito nel 2013, è il terzo film del regista Steven Sheil, un realizzatore non proprio prolifico (i suoi primi due film sono uno del 2002, Cry, e uno del 2008, Mum &Dad).

La storia

Il figlio di un milionario, Price, è sulle tracce del fantomatico oro di Yamashita, un favoloso tesoro di guerra che i giaps hanno messo insieme saccheggiando mezzo Sud-Est Asiatico e nascosto da qualche parte in una base delle Filippine. Nel film, le ricerche di Price e di Rie li guidano non tanto nelle Filippine, ma in Indonesia.

Price è accompagnato dalla fidanzata, un ex-militare inglese, la studiosa giapponese e cinque mercenari assoldati per proteggerli da pirati e predoni.

I nostri trovano effettivamente la base, realizzata riconvertendo una miniera preesistente, ma sono convenientemente attaccati da tizi cattivi e costretti a rifugiarsi all’interno. I cattivi non identificati danno un’altra spintarella alla trama tirandogli dietro una bomba a mano: uno dei mercenari si fa molto male e restano bloccati dentro.

To be fair, il capoccia dei mercenari, Captain Tino Prawa, avanza l’ipotesi che i cattivi non siano solo una pigra variante della classica Frana-Che-Chiude-I-Protagonisti-Nel-Tunnel-Ommioddio, ma che siano predoni che picchettavano la zona, a caccia dello stesso tesoro che Price sta cercando. E’ un pochino meno visto e rivisto della Frana-of-Doom, ma resta chiaramente un plot device.

Anyway, le carte sono sul tavolo: i nostri sono bloccati dentro con un ferito e devono trovare un’uscita secondaria. Non resta altro che esplorare le gallerie.

Ovviamente il gruppo non è solo. Arrivati davanti a una seconda entrata, qualcuno accende le luci e attacca un’allegra canzoncina militare su come il glorioso esercito imperiale spazzerà via i diavoli occidentali (l’importante è credrci).

A differenza della maggior parte dei film di questo genere, in questo c’è una ragione se l’impianto continua a funzionare dopo tanti decenni di presunto abbandono, e perfino una ragione se si attiva proprio in quel momento, e ciò è bene, perché la scena non è gratuita.

Andando avanti nell’esplorazione, i nostri trovano uffici e magazzini abbandonati, e finalmente Rie raccatta il fiato per spiegare meglio lo scopo della base: la miniera lavorava per l’Unità 731, che avrete magari sentito nominare. Si tratta di un’unità per lo sviluppo della guerra biologica. Operava soprattutto in Cina, e il responsabile, il tristemente noto dottor Ishii, fu processato durante quella baracconata nota come il Processo di Tokyo.

Tornando a noi, come detto, il gruppo non è solo: oscure presenza si aggirano nei cunicoli, e sono a caccia di carne fresca.

I daresay, certe immagini si addicono molto al mio gusto raffinato ed elegante

Dead Mine riprende il classico dei mutanti e lo riedita in modo più articolato. I “mostri” in questione non si riducono a mere riedizioni di Gollum sotto steroidi.

I prigionieri di guerra sono stati chiaramente usati come cavie, e ora infestano la miniera come mostri. Le museruole che portano ancora sul muso non gli impediscono di essere abomini antropofagi.

Non sono solo: a un certo punto l’inglese e la studiosa sono catturati da nientemeno che un ufficiale giapponese, sfigurato dalla “cura” messa a punta dalla 731 ma ancora abbastanza arzillo nonostante gli ottant’anni suonati.

Infine, una versione perfezionata della droga era stata messa a punto prima della fine della guerra, e somministrata a un gruppo di soldati d’élite. Nel profondo della miniera, la Guardia Imperiale dorme, in attesa di essere risvegliata e di marciare per la Patria e l’Imperatore.

Il budget del film è limitato, e si vede. Spesso le gallerie sono fatte con cartapesta, ed è penosamente chiaro che si tratta di cartapesta. Sembrano le scenografie di un teatrino comunale.

Il gore non è molto, ed è una saggia decisione, perché niente ammazza la tensione come un’esilarante scena di squartamenti a poco. Difatti certe morti invece di essere tragiche o paurose risultano quasi comiche.

Nell’insieme gli attori fanno un buon lavoro. I personaggi non sono eccelsi, ma sono credibili e la recitazione resta su un livello più che sufficiente (alcuni meglio, come il capitano indonesiano e il veterano inglese, altri più meh, come la studiosa giapponese o la fidanzata del milionario). Insomma, nessuno brilla per particolare originalità, ma sono tutti dignitosi.

Il film scansa gran parte dei clichés telefonati. Sarebbe stato facile fare di Price il cliché del ricco stronzo che non ha nessun riguardo per la vita dei suoi compagni, ma la sceneggiatura riesce a smussare gli angoli e renderlo più umano e meno caricaturale.

Un altro cliché popolare in questo genere di film, che io odio, è quello del laboratorio che perde il controllo dei propri mutanti super-soldatoni. Nella fattispecie non accade: nonostante le apparenze, la Guardia Imperiale ha tutto sotto controllo, e lo dimostra.

Gonna go bushido on your ass, gaijin

La Guardia Imperiale è un piacere per gli occhi, e per il poco screentime che hanno fanno un’eccellente figura, coordinati e muti, ma non troppo robotici da risultare rigidi.

Riassumendo

La storia non è originale, è il classico film di mutanti e gallerie
Gli elementi storici presenti sono usati in modo decente
I personaggi sono già visti e rivisti
Tra sceneggiatura e recitazione sono comunque credibili e passabili, anche se nessuno di loro risulta davvero memorabile
Il budget era basso, e certe scene de soffrono molto
La Guardia Imperiale
Il film riesce a scansare alcuni dei più scrausi clichés
Altri invece sono ben presenti
Il film non fa paura
Resta un Action passabile

 

Nell’insieme, il film in sé è molto classico, e la sola cosa originale che porta sulla tavola è l’esercito giapponese e l’unita 731. Ma nonostante la scarsa originalità gioca bene le proprie carte, e il risultato, pur non essendo eccelso, resta divertente da guardare.

Se avete voglia di distrarvi e avete un’ora e mezza da uccidere, dategli un’occhiata.

 

OCULUS


Questo è un Horror senza Action, proiettato nel 2013 e realizzato dal regista Mike Flanagan.

La storia apre col giovane Tim che viene dimesso dall’ospedale psichiatrico. Si capisce che la sua permanenza lì ha a che fare con la morte dei genitori e che fuori dall’ospedale lo aspetta una sorella maggiore, Kaylie, che potrebbe non avere tutte le rotelle a posto a seguito del trauma.

In sunto, dieci anni prima il padre dei due ha torturato e assassinato la moglie, e ha cercato di uccidere anche i figli, finché Tim non lo ha freddato con una rivoltellata.

Kaylie cerca di coinvolgere il fratello (in nome di una fantomatica “promessa” di cui Tim non si ricorda) in una bizzarra operazione che ha per oggetto uno specchio antico, presente in casa all’epoca della tragedia e che Kaylie ritiene responsabile per la follia del padre.

Secondo Kaylie, lo specchio è la sede di un’oscura entità, che seduce e manipola i possessori fino alla rovina. Kaylie è determinata a provare che il padre non era responsabile per i fatti di dieci anni prima e che lo specchio è davvero magico, per poi distruggerlo con un pendolo automatico (lo specchio, a detta sua, ha una volontà propria ed è impossibile per un essere umano fargli del male).

In tutto questo, vuole l’aiuto di Tim, che dal canto suo considera tutta la faccenda pura follia. Secondo i suoi ricordi, lo specchio non ha mai giocato un ruolo, il padre è schiodato a seguito della grave depressione della moglie (depressione che lui stesso a causato con la propria infedeltà).

Il film corre su due binari: il passato, con Kaylie e Tim bambini, e il presente, durante l’esperimento.

Il regista gioca bene sull’ambiguità: nonostante ci si aspetti l’azione di qualcosa di soprannaturale, fino a un terzo del film Tim potrebbe avere ragione e Kaylie potrebbe in effetti essere matta.

Quando lo specchio comincia a reagire alla presenza dei due fratelli, è lì che il film decolla. La linea si assottiglia tra realtà e illusione, fino a sparire. Così, mentre i ricordi dell’infanzia tornano sempre più vividi, si riduce la separazione tra passato e presente. La faccenda ricorda un po’ quando cerchi di svegliarti da un incubo e una volta aperti gli occhi ti rendi conto che stai sempre dormendo.

La recitazione è ottima, ed è quello che tiene in piedi questo film. La sceneggiatura pure è più che buona. Quando Tim dubita, è logico che dubiti, e quando inizia a credere è verosimile che inizi a credere a quel punto e che reagisca in quel modo. Anche quando pare assodato che c’è una forza soprannaturale dietro tutta la faccenda, il film non esagera mai, lasciando sempre un piccolo spazio di manovra per il dubbio. Dopotutto la storia potrebbe essere un ricordo deformato, magari i due fratelli hanno re-immaginato una situazione complicata, la follia del padre era in realtà un genitore costretto a gestire una situazione difficile, e l’influenza dello specchio potrebbe essere una reinterpretazione del loro sentimento di impotenza davanti a un mondo di adulti incomprensibile e pauroso. Dopotutto, in una delle prime scene, è proprio Tim a spiegare alla sorella come la nostra mente può rielaborare informazioni reali in scenari falsi o ingannevoli.

Oh hi there…

Quindi è trp bllximo?!

Quasi.

Il film ha qualche problema.

Ad esempio, lo specchio mangia il cane dei due fratelli. Tuttavia, quando si tratta di esseri umani, le vittime non spariscono, lasciano dietro i propri cadaveri. Allora come funziona, sparisci nel mondo dello specchio come le streghette di Madoka, o diventi pazzo e muori nel mondo reale?

Inoltre, Kaylie sa che lo specchio è pericoloso e manipola le persone, eppure lo guarda direttamente senza remore. Vero che prende una serie di precauzioni, quindi il suo comportamento potrebbe essere spiegato con eccessiva fiducia nella propria intelligenza, ma resta un po’ troppo avventato per un personaggio come lei.

Ci sono anche un paio di jump-scares di cui si poteva anche fare a meno.

In sunto

La storia non è proprio originalissima
La sceneggiatura se la cava molto bene con quello che ha
Buona recitazione
I personaggi sono tutti buoni
Illusione, passato e incubi sono gestiti molto bene, senza essere troppo confusi né troppo scodellati
I fantasmi
L’azione dello specchio e il senso di catastrofe imminente
Kaylie guarda direttamente lo specchio anche quando non è necessario, pur sapendo che sta correndo rischi inutili
I cani che spariscono… che se sei quadrupede sei assorbito, se sei bipede no?
Jump-scares non necessari
L’atmosfera generale è molto ben gestita

 

L’artefatto maledetto che manipola gli abitanti della casa non è certo una novità. A volte dà la luce a capolavori immortali del retard, come Amityville 4, in cui una lampada da salotto incarna nientemeno che il Diavolo in persona, guida furgoni e uccide idraulici.

In questo caso però l’idea è ben realizzata e il film gestisce bene il proprio gioco. In rapporto al genere, fa un lavoro migliore di quanto non faccia Dead Mine.

 

INSENSIBLES


Film del 2012, primo lungometraggio di Juan Carlos Medina.

Negli anni ’30 in Catalogna nascono dei bambini affetti da una rarissima condizione medica: sono del tutto insensibili al dolore. Considerati un pericolo per il prossimo e soprattutto per se stessi, i marmocchi vengono radunati dal dottor Carcedo e portati in quel di Canfran, in un ospedale-prigione dove i possano vivere senza auto-mutilarsi a morte.

La situazione cambia quando un prestigioso luminare tedesco, Dr Holzmann, offre a Carcedo la sua preziosa collaborazione. In cambio, Holzmann vuole solo ospitalità: Holzmann è giudeo e non ha nessuna voglia di tornare in Germania. Forte della sua maggiore preparazione, il crucco crede che sia possibile reintegrare i bambini nella società insegnandogli come sopravvivere, insegnandogli cos’è il dolore.

Ai giorni nostri David, chirurgo, ha un colpo di sonno al volante. Esce vivo dall’enorme incidente, ma sua moglie è morta, suo figlio è un feto prematuro che a stento sopravvive in incubatrice e dalle analisi salta fuori che lui ha una gravissima e rarissima forma di leucemia. Immagino che quella settimana il suo oroscopo recitasse “non muoverti dal letto percaritàd’Iddio”.

David ha quindi bisogno di un trapianto di midollo spinale. Ed è lì che scopre che i suoi genitori, con cui già non è in termini proprio affettuosi, non sono in realtà i suoi genitori: David è figlio di una prigioniera di Canfran, adottato dopo che il vero figlio di suo padre è nato morto.

David si trova quindi a dover rintracciare i suoi genitori biologici. Spera di poter contare su suo padre, che bizzarramente gli oppone una resistenza spietata e testarda.

Anche questo film si svolge su due periodi temporali. Negli anni ’30, uno dei bambini, Benigno, risulta uno dei pazienti più difficili e allo stesso tempo promettenti. Al giorno d’oggi, David deve rivangare il buio periodo della guerra civile e del franchismo per salvare la propria vita e non lasciare suo figlio orfano.

Difatti l’ospedale di Canfran prima viene sfruttato manu militari dai rossi, poi dai neri. Infine, un ufficiale tedesco riprende in mano la struttura, che viene convertita in prigione per anarchici e comunisti. Benigno, il solo sopravvissuto dei pazienti, viene rinominato Berkano, e assunto dalla nuova amministrazione.

Le sequenze in cui la guerra irrompe nella vita dell’ospedale sono realizzate bene, molto vicine a certe scene di Benicio del Toro, a cui Medina chiaramente si ispira, senza però scopiazzare. Insensibles non eguaglia El laberinto del Fauno, uno dei miei film preferiti in assoluto, ma se la cava in modo più che dignitoso.

La recitazione è buona per tutto il film. In particolare i bambini danno performances notevoli. I fratelli Ilias Stothart (Benigno bambino) e Mot Stothart (Benigno adolescente) fanno un ottimo lavoro nel trovare il giusto equilibrio tra l‘inespressiva freddezza di chi non conosce il dolore e l’espressività di un bambino che per altri versi è normale.

I personaggi sono tutti ben fatti e credibili. Carcedo ad esempio è un antagonista per tutta la prima metà del film, è un dottore mediocre e ostinato, ma allo stesso tempo il suo senso di responsabilità verso i bambini è sincero. Il padre di David (El Confesor!) è un ufficiale crudele e privo di remore, ma è mosso da una sincera convinzione che il Comunismo sia il grande male dell’umanità. Non ha nessuna empatia per i prigionieri, ma chiaramente ama sua moglie e si affeziona al figlio adottivo. Holzmann è un brav’uomo e un ottimo ricercatore, ma è imprudente.

Insomma, Carcedo ha le sue buone ragioni per volerli tenere in camice di forza…

Insomma, chi è buono, chi cattivo, ma tutti sono umani, ed è la guerra il crogiuolo che alla fine forgia gli eroi, le vittime o i mostri.

Quindi è un film trp bllximo?!

Hum…

Non proprio. Ha un paio di problemini.

Il primo: i bambini sembrano avere tutti grosso modo la stessa età. Nascono tutti in Catalogna e la loro condizione viene scoperta solo quando hanno circa sei o sette anni. Non solo nessuno pare nemmeno chiedersi il “perché”, ma nemmeno si spiega come mai nessuno abbia notato la menomazione prima di quel dato periodo.

Il secondo: a un certo punto i nazi controllano l’ospedale e il cibo non basta più, i bambini si ammalano e deperiscono. Un’infermiera propone ad Holzmann di rimandare i bambini alle rispettive famiglie. Holzmann risponde “C’è una guerra civile, saranno di sicuro tutti morti”.

Così, e basta.

Holzmann, che cazzo dici? Una scusa migliore no?

Il terzo: il colpo di fulmine di Berkano per la bella anarchica. Facepalm. E’ la cosa più contrived, forzata e raffazzonata del film. Non è nemmeno la svolta in sé a essere fastidiosa, è la fretta. Un minuto Berkano sta per taglieggiare la fanciulla, un minuto dopo la libera e le mette il bisturi in mano. Per essere un film che prende il suo tempo a stabilire con estrema cura tutti i personaggi, potevano anche spendere più di mezzo minuto su quello che poi è uno dei punti cardine della vicenda (il concepimento di David).

Il quarto: la fine.

Porca miseria la fine.

Il film resta realista per tutta la durata, e gli ultimi cinque minuti… butta insieme stupidità e WTF da due lire.

Il perché un po’ si spiega. Il punto è: non ci si può redimere dal passato, le colpe dei padri ricadranno per sempre sui figli, il dolore e la violenza commessi in un attimo continueranno a ferire e dolere per anni e anni, tutta la buona volontà del mondo non potrà annullare una cattiva azione.

E’ un buon messaggio, che personalmente condivido. Ma ci sarebbe stato modo di cucirlo in modo elegante nella trama senza ricorrere a quello che pare simbolismo da terza media.

La storia
I personaggi
L’atmosfera
La sceneggiatura
Il messaggio complessivo della storia
L’arco del personaggio del deuteragonista da Benigno a Berkano
La storia della prigioniera anarchica
La storia corre su due binari temporali, ma non è mai confusa o incasinata
Nessuno si chiede perché i bimbetti anormali siano tutti in Catalogna
Nessuno si accorge che i marmocchi sono insensibili fino a che non hanno sei o sette anni
La faccenda della scarsa lacrimazione non serve a nulla se non a rendere la storia meno credibile
“Saranno di sicuro tutti morti” WTF
La fine

 

Sono sette grumpy approvanti contro sei, ma non lasciatevi ingannare: quelli positivi sono più “pesanti” si quelli negativi. Il film non è perfetto e la scena finale è una cagata, ma tutto sommato Insensibles è un film dignitoso.

Questo è tutto. L’articolo su Genpei prenderà un po’ di tempo: ho in mente qualcosa di ponderoso e noioso come piace a me!

Nel frattempo, MUSICA!