In vita e in morte: l’arrivo del cavallo in Giappone

Pochi animali hanno avuto un impatto sulla storia giapponese come il cavallo.

Il cavallo è stato guerriero, messaggero, oggetto di cerimonie, soggetto di poesia e pittura, strumento diplomatico e ragione di guerra. Il suo allevamento ha cambiato la struttura economica e sociale, ha modellato l’orografia stessa di certe regioni.

In passato ho accennato alla Storia del cavallo domestico, a come, da ronzino di poche regioni della steppa, il nostro si sia diffuso sul Pianeta intero (invito a leggere i commenti e a clickare sul link fornito dall’ottimo compare Ghezzi).

Ho anche scritto della teoria di Egami Namio, secondo cui un popolo di cavalieri altaici avrebbe invaso l’arcipelago e fondato la dinastia di Yamato. Come potete leggere nell’articolo, la teoria è stata disputata e non è ormai accettata da nessuno, ma l’occasione ci ha permesso di apprezzare in parte l’apporto importantissimo delle polities coreane a quella che diventerà poi la cultura giapponese.

Ma come è arrivato il cavallo in Giappone, e quando? Per quale ragione?

Può parer bizzarro, ma il primo lavoro del cavallo sull’Arcipelago non è stato in campo militare o agricolo.

Il cavallo che arrivò in Giappone era un cavallo sacro, e oggi parliamo del suo debutto sulle isole.

Perché?

Perché è una storia affascinante che vi farà certamente guadagnare un sacco di punti con gli amici al bar!

Ufficiali di polizia a cavallo, dal Ban dainagon ekotoba

Tanto tempo fa, nel Miocene (23-5 milioni di anni fa), là dove un giorno esisterà il Giappone, sgambettavano lieti due adorabili animaletti: l’Hipparion e l’Anchiterium, due mammiferi perissodattili considerati come gli antenati dei cavalli nostrani. A questo stadio il Giappone non era un arcipelago, ma una massa di terra collegata al continente. Il magico duo poté quindi diffondersi nelle vaste foreste di laurisilve e scorrazzare lieto su colline e litorali.

Anche le belle cose però finiscono, e col declino dell’Era Glaciale questi equidi preistorici diminuisconoe finiscono per svanire senza lasciare discendenti. Con l’innalzamento del livello del mare, 18.000 o 12.000 anni fa, il Giappone si trova infine tagliato dal Continente.

Secondo Aikens, i primi umani arrivarono in Giappone alla stessa maniera dell’Hipparion e dell’Anchiterium, nel Pleistocene Medio, circa 200.000 anni fa (data attribuita al sito di Sozudai, nel nord-est di Kyūshū, dove abbiamo ritrovato quelle che potrebbero essere le più antiche tracce di attività umane sulle isole). A questo punto, è probabile che gli equidi giapponesi fossero già estinti.

Gli anni passano, e mentre sul continente si evolvono cavallucci simili alle bestie nostrane, il Giappone resta del tutto privo di equidi.

Verso il 10.000 avanti cristo le prime forme di ceramica compaiono in Kyūshū, marcando l’inizio del lungo Periodo Jōmon (10.000-300 a.C.). Il cavallo resta assente dai siti archeologici e dall’Arte. Non esiste nel mondo e non esiste nella mente dei primi abitanti delle isole.

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Fossile di Hipparion, notare le tre ditina là dove il nostro cavallo ne ha uno solo

Rare tracce ricompaiono di quando in quando verso la seconda metà del Periodo Jōmon. Si tratta senza dubbio di bestie importate dalla Corea e trasportate via nave. I ritrovamenti equini sono di conseguenza rarissimi: Kidder cita ad esempio il cumulo di Ataka, nel dipartimento di Kumamoto, risalente probabilmente al Jōmon medio. Qui avremmo trovato le ossa di un piccolo cavallo. Resti simili sono saltati fuori in Izumi, nel dipartimento di Kagoshima. In entrambi i casi le ossa non mostrano segni di mutilazione ed è possibile che gli animali in questione siano stati accuditi fino alla vecchiaia, come esotiche bestie simbolo di potere economico e politico.

Come accennato in articoli passati, gli scambi con la Corea sono una costante nella quasi totalità della storia giapponese, e a maggior ragione nella preistoria: il commercio tra la penisola e le isole era fiorente! Un esempio sono le tombe del sito di Donghwa-dong, dove abbiamo trovato molte ossidiane di Kyūshū e ceramiche tipiche dell’industria Jōmon.

In generale, l’uomo Jōmon è un cacciatore-raccoglitore : nonostante la presenza di un’industria relativamente sviluppata (vedi l’esporto di ossidiane), la gente di Jōmon non coltiva e, soprattutto, non alleva.

Verso il IV° secolo a.C. si verifica una vera e propria rivoluzione: dal continente arrivano la coltivazione del riso, il bronzo e l’allevamento. Ciò coincide con l’arrivo di gente nuova, dalla fisionomia diversa rispetto alla gente di Jōmon. Si tratta di coreani che, spinti dalla pressione demografica, traboccano sulle isole. E’ l’inizio del Periodo Yayoi (300 a.C. – 300 d.C.). I nuovi arrivati e le nuove tecniche si radicano presto in Kyūshū. Secondo Rhee e Song-Nai, i nuovi arrivati erano particolarmente inclini ai matrimoni misti, e in poche generazioni possiamo constatare il fiorire di una cultura originale.

E’ importante sottolineare che a questo stadio non c’è un confine netto e definitivo tra la cultura delle isole e quella della penisola: specie tra il nord-Kyūshū e il sud-Corea notiamo molte similitudini culturali e antropologiche, anche se gli isolani mantengono caratteristiche distintive (tipo la pratica della mutilazione dentale, roba che i coreani saviamente evitavano).

La cultura Yayoi è molto più cosmopolita di quella Jōmon (che pure non era proprio isolata). In particolare col I° secolo d.C., oltre ai numerosi scambi con la penisola coreana, i capi-clan Yayoi allacciano relazioni anche con gli Han, con la comanderia di Lelang e con quella di Daifang.

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Come avevamo accennato in articoli precedenti, l’Arcipelago del I° secolo è tutto fuorché un paese unito. Lo Han Shu racconta di una trentina di “paesi” governati da “re” che versavano un qualche tipo di tributo agli Han. Ovvio, che cosa intendessero i cronachisti cinesi con “paese” e “re” è un gran mistero.

In ogni caso col III° secolo la Cina entra in uno dei suoi ricorrenti periodi di guerre civili e macelli: è il celeberrimo periodo dei Tre Regni, fonte di ispirazione di innumerevoli romanzi, film, poesie, dipinti, ecc. Niente stimola la creatività umana come un bel bagno di sangue e trauma irrisolvibile.

Secondo Kuji, quest’apoteosi del clusterfuck fu uno dei fattori che spinsero la coalizione e unificazione delle centinaia di polities microscopiche disseminate per la penisola coreana e l’arcipelago giapponese. Nell’arcipelago, un clan in particolare emerse più potente degli altri, alla testa di una modesta coalizione di capifamiglia, capi di territorio, predoni assortiti e quant’altro: il clan Yamato.

Questa nuova entità politica allacciò rapporti diplomatici con i nuovi signori di Lelang (la dinastia fondata da Gongsun Du) e poi con i Wei, non appena questi si papparono la penisola del Liaodong. Perché, checché ne dicano i sovranisti e altri scoppiati, “farsi i cazzi propri in casa propria” era una cosa cretina da pensare anche nel Giappone preistorico.

Tornando ai Wei, verso la metà del VI° secolo i nostri fanno compilare il ponderoso Wei shi, il Libro dei Wei. In questo testo compare il Wajin den, la prima traccia scritta delle isole giapponesi.

Secondo il Wajin den, le isole erano abitate da un popolo chiamato “Wa” (simpaticamente trascritto col kanji di “nanerottolo”, poi cambiato per amor di pace). Costoro erano divisi in numerosi “regni” (di nuovo, saggesù che cosa si intendesse per “regno”) di cui il più importante sarebbe stato Yamatai, sotto la savia guida della regina-sciamana Himiko. La sovrana sacra avrebbe intavolato relazioni con i Wei nel 239. Il ritrovamento di specchi Wei conferma che sì, effettivamente ci furono scambi in questo periodo tra il sovrano Wei e le élites isolane.

La storia di Himiko e l’immortale dibattito so dove si trovasse davvero Yamatai sono argomenti degni di una tesi dottorale, e non ci dilungheremo in questo articolo, perché oggi parliamo di cavalli!

E secondo il Wajin den i Wa NON avevano cavalli.

Come si spiega allora il fatto che abbiamo trovato tracce della loro presenza ben prima del 239 e l’inizio delle relazioni Wei-Wa?

Il Wajinden e il Wei shi in generale sono fonti solitamente considerate come attendibili, ma in questo caso paiono in contrasto coi dati archeologici.

La prima cosa da considerare è che in Giappone i cavalli erano di certo molto più rari rispetto alla penisola coreana o alla Cina. Inoltre, al tempo della stesura del Wei shi, i cavalli del Continente erano usati come bestie da trasporto, da lavoro e da guerra. Erano diffusissimi e parte integrante della vita economica, sociale, politica e militare.

Lo stesso non si può dire del Giappone: la quasi totalità dei resti equini in Giappone sono associati in modo chiaro a contesti rituali, in particolare funerari.

Farris e Yokoyama propongono che i cavalli siano stati importati in principio come bestie da carne.

Ora, il problema è che, come animale puramente alimentare, il cavallo fa pietà. Un sacco di altre bestie domestiche producono più carne e latte per un investimento molto minore in risorse.

Farris cerca di parare a questo problema ipotizzando un consumo strettamente rituale della carne di cavallo.

Non ho trovato dati che parlino di consumazione rituale di carne di cavallo, ma una cosa è sicura: questo animale era, dal II° al V° secolo, una creatura sacra e magica.

Se i resti del Periodo Jōmon non mostrano segni di violenza, lo stesso non si può dire degli scheletri equini della fine di Yayoi e dell’inizio del Periodo Kofun (IV°-VI° secolo). In altre parole, con il III° secolo e gli stravolgimenti politici del Continente, il Giappone assorbe non solo nuovi concetti politici e sociali, ma un nuovo sistema simbolico e mitologico dove il cavallo riveste un ruolo capitale diverso da quello che ha potuto incarnare fino ad allora.

Il cavallo di fine Yayoi non viene allevato fino alla vecchiaia, viene sacrificato, un trattamento di favore di solito riservato solo ad elementi davvero importanti!

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Una delle regioni che offrono il più alto numero di esemplari antichi è quella di Kawachi. Durante il Periodo Jōmon questa zona (in particolare quella che è oggi la piana di Uemachi) era una baia in comunicazione diretta con la baia di Osaka. Col passare dei secoli, questo corpo d’acqua si trovò tagliato dal mare e divenne prima una laguna e poi, nel Periodo Yayoi, un lago.

La più alta concentrazione di resti è nel sud di questa zona acquitrinosa (l’acqua aiuta la conservazione di certi materiali organici come il legno o l’osso, che sarebbero altrimenti digeriti dal terreno giapponese).

Stiamo parlando di siti come Misono, Kyūhōji, Kami, Nishi Iwata e altri. Negli strati datati al III° o inizi del IV° secolo abbiamo trovato denti, ossa e artefatti coreani.

Resti sono saltati fuori anche in altre regioni, come nel sito di Shiobu in Yamanashi, dove abbiamo trovato dei denti di cavalli vittime di un sacrificio dell’inizio del IV° secolo. Secondo Kuji si trattava di ronzini piccoletti, 125cm al garrese tutt’al più.

Secondo Momosaki, la più alta concentrazione di cavalli sacrificati si troverebbe in Kyūshū: abbiamo 3 esempi in Fukuoka, 26 in Kumano, 25 in Miyazaki e 2 in Saga.

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Testa di cavallo sacrificato, dal sito di Narai

L’associazione del cavallo con le élites e le loro tombe non è originale dell’Arcipelago giapponese, né è un’evoluzione recente. Al contrario: possiamo dire che è parte integrante del più antico e originale rapporto tra l’uomo e questo animale. Un’associazione che potrebbe rimontare a un tempo perfino più antico del più antico allevamento.

Fin dalle più remote origini dell’addomesticamento e l’allevamento, il cavallo è stato un simbolo sacro legato alla morte. Gideon Shelach cita il ritrovamento di cavalli sacrificali nei cimiteri di Meoqinggou e Dahuazhongzhuang, siti risalenti al I° millennio avanti Cristo e situati nell’attuale Cina (la zona studiata da Shelach copre parte di Heibei, Shanxi, Shaanxi, buona parte del Gansu e Qinghai, Liaoning e Mongolia Interiore, e la parte occidentale di Jilin e Heilongjiang).

I kurgans Pazyryk del Kazakistan risalgono al V° secolo a.C. In questi tumuli costruiti nelle valli degli Altai abbiamo trovato 69 cavalli intatti e 18 scheletri, tutte vittime costrette a seguire il loro padrone nella morte.

Questa prerogativa mortuaria del cavallo può essere ritrovata nel resto dell’Asia: nella sua espansione attraverso il continente, il cavallo domestico ha portato con sé il suo valore sacro e magico. Come nel celebre sito di Dereivka, in Ucraina, il cavallo accompagna il cavaliere in vita e lo segue nella morte.

Il sacrificio di cavalli associato a riti funerari era praticato anche nella penisola coreana, nella regione di Buyeo, e nello sciamanesimo del regno di Silla il cavallo accompagnava l’anima del defunto nell’Aldilà. A titolo d’esempio, i tumuli del sito di Hwangnam n.98, collocato tra la metà del IV° e la metà del V° secolo, contenevano una vittima di sacrificio umano e, sul cucuzzulo, indizi che lasciano supporre il sacrificio di cavalli bardati.

Usanze simili si ritrovano fin nella regione di Gaya, nel sud della penisola, in quella che diventerà Gumgwan Gaya: qui, verso la fine del III° secolo, lo stile di sepoltura subisce una drastica evoluzione. L’architettura della camera mortuaria cambia, i tesori funerari diventano più sfarzosi, e si prende la sana abitudine di sacrificare uomini e cavalli per il defunto, una simpatica pratica molto simile a quella di Buyeo.

Shin Kyung-Cheol suggerisce perfino che questo cambiamento e l’apparizione di una classe dirigente potente (abbastanza potente da potersi permettere un’atrocità come i sacrifici umani) sarebbero da spiegarsi con una massiccia immigrazione di alti papaveri di Buyeo.

Insomma, se la Corte di Wa è stata trasformata e consolidata dall’arrivo massiccio di nobili di Baekje, Gumgwan Gaya sarebbe stata partorita dopo l’immigrazione di nobili di Buyeo.

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Haniwa di cavallo della regione di Nara

L’associazione tra il cavallo e la tomba dell’élite è quindi una caratteristica originale e fondamentale della cultura equestre generale. In Corea constatiamo che questo legame tra il capo e il cavallo non è esclusivo alla sfera funeraria: il cavallo pare un simbolo indispensabile di legittimità regale.

Nel primo capitolo del Samguk sagi, la più antica cronaca dei regni di Corea, compilata nel 1145, viene raccontata la nascita del fondatore della dinastia di Silla, Hyeokgeose. Il nostro amico dal nome complicato è un fanciullo divino nato da un uovo, e il suo arrivo viene annunciato da un misterioso cavallo che svanisce dopo aver attratto l’attenzione sul mitico sovrano.

Il cavallo non è quindi solo un simbolo di potere e prestigio, ma un messaggero divino, un veicolo del Fato per portare nel mondo il legittimo sovrano e scortare la sua anima nell’Aldilà dopo la morte. Il cavallo è, nel mondo reale e nel mito, il compagno del Re.

Storie simili a quella raccontata dal Samguk sagi si ritrovano anche nel Nihon shoki, documento molto più antico e che narra delle origini e delle vicissitudini della Famiglia Imperiale giapponese. Un episodio relativamente conosciuto è quello del cavallo di creta, narrato nel 14esimo rotolo, al settimo mese del nono anno del regno dell’Imperatore Yūryaku (r. 456-479):

Il primo giorno fu detto, nella regione di Kawachi: “C’è una donna, la figlia di Tanabe no Fubito Hakuson del distretto di Asukabe, moglie di Fuminobito Kariryō del distretto di Furuichi. Hakuson venne a sapere che sua figlia aveva partorito e andò ad offrire i propri auguri alla residenza del marito, e tornò verso casa a notte, alla luce della luna.

Alla collina di Ichibiko (sotto la tomba di Homuta) incontrò qualcuno che cavalcava un cavallo rosso. Il cavallo s’innalzò come un drago e subito fuggì, impaurito come un cigno. Il suo corpo miracoloso era come il crinale di un colle, di forma davvero inusuale. Hakuson si avvicinò e, avendo visto il cavallo, lo desiderò.

Frustò il cavallo bianco-bluastro che stava cavalcando e allineando le loro teste allineò le loro redini. Il cavallo bluastro restava indietro dacché le sue zampe erano pigre, non riusciva a raggiungere [il cavallo rosso].

L’uomo che cavalcava il cavallo migliore si rese conto che Hakuson lo voleva, e si fermò, e scambiò i cavalli, e ognuno prese quello dell’altro. Hakuson ottenne il cavallo migliore e fu molto felice, e galoppò nel proprio cortile.

Rimosse i finimenti e nutrì il cavallo e lo lasciò dormire.

Il giorno dopo il cavallo migliore si era tramutato in un cavallo di creta. Hakuson pensò che fosse una cosa bizzarra e andò a investigare alla tomba di Homuta, dove trovò il suo cavallo bluastro tra i cavalli di creta della tomba. Lo riprese e rimise il cavallo di creta al suo posto.

In questo strano passaggio abbiamo tutti gli elementi che contraddistinguono il cuore simbolico della cultura equestre: la nascita di un erede, il viaggio, la tomba.

La notte è spesso considerata come un momento di passaggio, dove il mondo dei vivi e quello dei morti si toccano e si confondono. Di solito questa vicinanza è percepita come qualcosa di estremamente pericoloso, una coincidenza spazio-temporale in cui i morti possono contattare i vivi e trascinarli nel loro mondo. Da questo punto di vista Hakuson è fortunato: il suo incontro col fantasma non pare lasciargli nessuna conseguenza negativa e Hakuson può recuperare il suo cavallo vivo e tornare a casa.

Come abbiamo visto più in alto: il cavallo accompagna l’uomo alla nascita, nella vita, e nella morte.

Il Nihon shoki ci trasmette anche chiari riferimenti alla pratica di sacrifici umani e di cavalli sulle tombe dei membri della Famiglia Imperiale. Stando alla fonte, l’imperatore mitico Suinin (r. 29 a.C. – 70 d.C.) avrebbe ordinato la creazione delle haniwa come sostituti di uomini e animali.

sacrificio

Quello che mi viene in mente ogni volta che sento qualcuno cianciare di “antiche tradizioni”

E’ fuori di dubbio che la cultura equestre sia stata portata in Giappone da immigrati della penisola coreana. La maggior parte delle tracce di allevamento sono, in questo periodo, nel Kinai e nell’isola di Kyūshū: due regioni particolarmente soggette all’influenza civilizzatrice della Corea (è divertente dire una cosa del genere in una sala piena di dottorandi e poi indovinare dall’espressione del viso chi degli asiatici è giapponese e chi è coreano).

Non solo, possiamo concludere senza ombra di dubbio che cavallo e allevamento sono rimasti sotto il controllo dei nuovi arrivati per un lungo periodo: artefatti coreani sono spessissimo associati a questa nuova attività.

Ora però viene da chiedersi: il signor Kim arriva da Gaya con queste bestie strafighe per cui i capi-clan isolani stravedono. Perché il signor Tanaka del villaggio accanto non lancia un business simile? Perché il cavallo resta così raro, perché la sua presenza pare limitarsi a così poche regioni per tanto tempo?

Va bene che non ci si inventa allevatori, ma quanto ci vorrà mai ad imparare ed esportare il sistema?

Come in tutte le cose, probabilmente ciò fu il frutto di numerosi fattori.

Intanto ci sta che i locali non affini agli scambi con i coreani fossero troppo conservatori per imparare qualcosa di nuovo. Ricordiamoci che l’unica cosa più difficile che cacciare un’idea nuova nella capoccia di qualcuno è tirarne fuori una vecchia (detto che venne creato per l’esercito ma che funziona con la maggioranza della gente in generale).

Immagino il signor Tanaka che coltiva il suo miglio e intanto sbircia da sopra la siepe tutti questi immigrati strambi che parlano questa lingua che non si capisce e con queste bestie, che io davvero non so, ma dove andremo a finire, puzzano e mordono, sì guarda, mordono! E poi per farci che, per sacrificarli in cima ai tumuli? No, no, mi spiace, un tempo sui tumuli ci si sacrificava esseri umani, un tempo i sacrifici erano cose serie, mica ora che ci portano su ‘ste bestie, e vogliamo parlare dell’odore? Uno non si sente più padrone in casa sua!

Al di là del signor Tanaka e delle sue lungimiranti opinioni, parte del Giappone non si presta molto all’allevamento di cavalli: il cavallo è una bestia da prateria, e a parte la piana del Kantō il Giappone è scarso in pianure erbose.

Il Kantō sarà in effetti una delle regioni trainanti nella produzione di cavalli (in particolare cavalli da guerra), ma in questo periodo la zona è ancora fuori portata del clan Yamato e tagliata fuori in buona parte dall’influsso coreano. Peraltro non esistono strade in questo periodo, molti dei trasporti avvengono via mare e i cavalli non incassano bene questo tipo di gita.

Infine, c’è il fattore culturale: la cultura equestre è una novità venuta da fuori e importata dalle élites. Ci vorrà tempo prima che si innesti e sia assimilata dal resto della popolazione aborigena.

La diffusione dei centri di allevamento e l’uso del cavallo nel rituale funerario della classe dirigente marcano, a mio modesto parere, l’inizio dell’esistenza di una cultura equestre nell’Arcipelago.

Come accennato prima, i cavalli non sono proprio una novità sulle Isole. Ma il ruolo rituale e funebre del cavallo è un nocciolo arcaico e distintivo della più antica cultura equestre. Il cavallo è stato uno psicopompo molto prima di essere un guerriero, un contadino o un mezzo di trasporto.

Durante l’epoca Jōmon e la prima parte del Periodo Yayoi i cavalli sono rarità esotiche e oggetti di sfarzo.

Con l’ascendere del clan Yamato la forma più originale ed essenziale della cultura equestre arriva finalmente nelle Isole. Adesso il cavallo non è più un raro bene di lusso. Il cavallo è un simbolo indispensabile di legittimità regale, porta con sé il primo embrione dell’idea di Sovrano e Dignità Imperiale.

Himiko

Ricostituzione della regina Himiko

Questo stato di cose doveva ovviamente cambiare. Il cavallo diventerà l’elemento militare più stimato della storia e il mezzo di trasporto prediletto. Cavallo e allevamento rivestiranno un ruolo assolutamente centrale nello sviluppo della Corte di Yamato, la sua espansione e il crollo del monopolio politico dell’aristocrazia civile nel XII° secolo.

Allo stesso tempo il cavallo non perderà mai del tutto la sua carica sacrale: anche dopo la fine dei sacrifici, il cavallo resterà per secoli parte integrante del rituale di Corte.

Fin nel XII° secolo possiamo forse ancora intravedere, nel Rituale della presentazione dei puledri all’Imperatore, un barlume ancora vitale dell’antichissima cultura equestre nata nella Steppa. Un’eredità forgiata dai capitribù dell’Asia centrale e sopravvissuta fino all’aristocrazia dell’Impero del Giappone.

MUSICA 


Bibliografia

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YOKOYAMA Sadahira, Kiba no rekishi, Toukyo, Koudansha, 1971

Il Samguk sagi

Il Nihon shoki

Di scheletri e gente morta male: History cold case

In ricorrenza della simpatica Festa dei Morti, ho deciso consigliare qualcosa che combini gente mortamale, ricerca storica e pedanteria accademica. E quando si parla di pedanteria, si può sempre contare sull’Inghilterra!

History cold case

History cold case è una serie in due stagioni che passata in tv tra il 2010 e il 2011.

Il concetto è semplice: applicare i mezzi della medicina forense attuale ai resti di gente morta illo tempore.

Un’analisi dettagliata e completa del cadavere richiede un notevole investimento in risorse, e spesso la descrizione degli scheletri è relativamente sommaria. Basti pensare che fino a un paio di decenni fa molti scheletri erano identificati come maschi o femmine in base al corredo funebre, metodo raffazzonato che ci ha fatto prendere non poche cantonate.

Lo studio completo della salma è di solito riservato a defunti importanti: ad esempio, qualche anno fa un team diretto dal Professor Fornaciari dell’Università di Pisa ha analizzato la mummia di Cangrande della Scala, determinando che il prode ghibellino è stato spacciato da un infuso risolutivo corretto alla digitale.

Benvenuto a Treviso, che ne dice di una tipica tisana locale?

La serie History cold case segue un protocollo simile, occupandosi però di morti senza nome, pescati da varie epoche, dall’Età del Bronzo all’Epoca Vittoriana.

Il team

Sue Black

Sue Black dirige la squadra di ricerca. La nostra è antropologa e professoressa di Anatomia ed Archeologia forense all’università di Dundee. L’identificazione a partire dallo scheletro fu la sua tesi di dottorato nel 1986.

Per più di 10 anni Black ha lavorato in qualità di antropologa nell’identificazione dei morti, sia all’ospedale St. Thomas di Londra che in zone di conflitto come il Kosovo o l’Iraq. La nostra ha partecipato anche allo sforzo internazionale di identificazione delle vittime in Thailandia, dopo lo tsunami del 2004.

Black ha diretto per un periodo il Center of Anatomy and Human Identification (CAHID) dell’Università di Dundee, ma si occupa anche di gente viva: nel 2014 la nostra contribuisce all’identificazione delle mani di un uomo riprese in un video pedopornografico.

Insomma, cosa non c’è da apprezzare in Sue Black?

Xanthé Mallett

Segue Xanthé Mallet.

Anche lei antropologa forense e specializzata in biometrica del cranio e identificazione delle mani, senior lecturer all’Università di Newcastle in Australia.

La nostra comincia la sua carriera accademica con una laurea in Archeologia a Bradford, per poi orientarsi sull’Antropologia con un Master a Cambridge e un dottorato a Sheffield.

Per 5 anni ha lavorato al CAHID di Dundee, università presso cui è stata anche professore in Antropologia.

Caroline Wilkinson

caroline

Caroline Wilkinson

Terza e ultima antropologa del gruppo è Caroline Wilkinson, dottorata all’Università di Manchester, collaboratrice del CAHID ed esperta in ricostruzioni facciali.

La nostra ha ricreato la faccia di noti defunti come Riccardo III d’Inghilterra o Roberto I di Scozia.

Nel 2012 ha ricevuto una medaglia dalla Royal Photographic Society per il suo contributo al miglioramento della fotografia medica.

 

Wolfram Meier-Augustein

Wolfram Meier-Augustein

L’ultimo membro fisso del gruppo è anche quello col nome più metal, Wolfram Meier-Augustein. Il nostro ha un dottorato in Scienze naturali della Ruprecht-Karl University di Heidelberg, è un esperto forense per la National Crime Agency e professore alla Robert Gordon University di Aberdeen. Dal 2010 al 2014 è stato direttore del Forensic Isotope Ratio Mass Spectrometry Network ed è stato membro della British Association for Human Identification.

E’ stato consulente in diversi casi di cronaca nera, dove ha contribuito ad identificare parti umane. Ha partecipato anche nelle indagini del famigerato caso delle sorelle Mulhall, due irlandesi che uccisero a coltellate e martellate il fidanzato della madre, per poi farlo a pezzi.

I casi

History cold case non è una lunga serie: ci sono solo due stagioni, ognuna delle quali ha 4 episodi di circa un’ora.

Ogni volta, il gruppo prende in esame un caso del passato (con una o più vittime) che presenti un qualche tipo di peculiarità.

I resti sono quindi studiati come se si trattasse di vittime contemporanee.

Mentre parte del team studia il cadavere (o i cadaveri), altri membri si occupano di completare il contesto storico con l’aiuto occasionale di altri ricercatori, reenactors e storiografi.

Mentre l’indagine va avanti, la Wilkinson si adopera a ricostruire il viso della vittima, di modo da restituire un’apparenza umana all’individuo.

Alla fine dell’episodio, il gruppo presenta il resoconto di ciò che sono riusciti a trovare (che può essere un sacco di roba o molto poco), le possibili circostanze della morte, e il ritratto del defunto.

Oltre alla ricerca dell’identità del morto, l’indagine offre anche uno spunto per parlare del periodo storico o di particolari fenomeni legati al morto, come i ladri di corpi dell’Inghilterra ottocentesca, le persecuzioni antisemite o i sacrifici umani dell’Età del Bronzo.

Uno dei casi porta sullo scheletro di una donna seppellito in una posizione bizzrra con non uno, non due, ma TRE infanti disseminati addosso

Spesso in questo genere di documentari si cerca di aggiungere una spolverata di suspence e dramma, qualcosa che tenga agganciato lo spettatore distratto.

Nella fattispecie questo aspetto è molto discreto, e non si sconfina mai in roba ridicola tipo reenactment del fattaccio o altre boiate atroci del genere (molto comuni nella “documentaristica forense” da pizza e divano).

Il contesto storico è di solito sommario, ma l’inusuale dipartita del soggetto di studio permette spesso di avere un ragguaglio su aspetti poco noti.

Nella seconda puntata della seconda serie, ad esempio, il gruppo della Black si occupa di una fossa comune trovata subito fuori dalle mura di York e contente 113 corpi, probabilmente legati all’assedio del 1644.

I nostri studiano in particolare 2 scheletri che presentano una rara malattia genetica che calcifica e deforma le ossa. Al di là del contesto storico, l’episodio mostra che portatori di handicap (anche gravi) erano presenti negli eserciti del periodo.

Immaginate domani una serie tv che racconta la storia di un portatore di handicap all’assedio di York.

Posso già sentire i lamenti e le lagne dell’Uomo del Bar: “ecco questi social justice warriors che impestano la Storia con le loro cazzate con gli handicappati in guerra!”

La prima puntata della prima serie parla dell’Uomo di Ipswich, lo scheletro di un maschio adulto di origine africana risalente al XIII° secolo.

Di nuovo, le sentite le lagne dell’Uomo del Bar sulle femministe che vogliono inquinare il passato bianco dell’Inghilterra?

O gli strilli dello Storiografo di Facebook che afferma con totale sicurezza che l’Europa del 1200 era isolata e stagnante?

Il punto è che la Storia è molto più complessa di quanto siamo portati a pensare dopo uno studio superficiale. Serie come questa sono un piccolo contributo nel demolire i luoghi comuni.

Parlando di luoghi comuni, un esempio è l’episodio 2 della prima serie, in cui la Black analizza la mummia di un bambino. La nostra lancia una serie di ipotesi sul background del fanciullo, ipotesi ragionevoli ma che si rivelano del tutto errate dopo uno studio approfondito. Questo mostra come un bais iniziale, se non verificato in modo rigoroso, può portare a conclusioni del tutto false.

Per un lungo periodo gli archeologi hanno catalogato il sesso del morto in base al corredo: armi->uomo / gioiellii->donna. A quanto pare è stato un errore in diversi casi, perché la costruzione dell’identità di genere nella morte è una roba particolare che non segue lo stereotipo di conserva insito nella gran parte di noi.
Di questo libro parlerò con calma in altra sede, ma intanto lo consiglio.

Insomma, History cold case è un prodotto per la televisione che deve catturare l’attenzione non solo dell’appassionato, ma anche dello spettatore medio. Pertanto lo stile e il modo in cui la serie è realizzata a volte urtano un pochettino la mia acuta sensiibilità di “maestrina laureata al classico” (cit.), ma questo non porta serio danno all’investigazione stessa, che resta ben fatta per il medium scelto (un episodio da 57 minuti).

Nell’insieme è una buona serie, divertente e interessante senza aver la pretesa di creare qualcosa di davvero rivoluzionario. E’ un peccato che si siano fermati dopo 8 episodi: è il genere di roba che presenta infiniti spunti, e mi farebbe piacere vedere altri documentari del genere, magari non limitati alla sola Inghilterra.

Idea di base
Team di ricerca
Soggetti
Format

In conclusione, History cold case è un buon prodotto, basato su una buona premessa e che offre molti spunti di studio. Plus, l’ultima volta che ho guardato lo si trovava tutto in modo diversamente legale su YouTube. La Fortezza gli concede quindi un bel seal of approval.

MUSICA!


IMDb della serie

Pagina wiki di Sue Black

Pagina wiki di Xanthé Mallett

Pagina wiki di Caroline Wilkinson

Pagina wiki di Wolfram Meier-Augustein

Welcome to the Great War, quando la divulgazione è fatta bene

Lo scopo di questo blog è sempre stato duplice: la lagna e la divulgazione.

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Da un lato serve a esternare tutto ciò che mi fa salire il nervoso (articoli scritti col culo, film di merda, la lista è lunga!), da un lato serve a raccontare in modo fruibile e (si spera) on troppo sfrangiamaroni fatti storici.

Il problema della Storia è che, pur essendo importantissima da mille punti di vista, può essere un pochettino difficile di accesso. Anche per qualcuno come me che sta buttando gli anni migliori della propria vita lavorando ad una carriera nel campo è impossibile conoscerne ogni aspetto. Ci sono migliaia di studi e saggi e dibattiti esaustivi là fuori, ognuno dei quali aiuta ad approfondire la nostra conoscenza dell’Uomo e delle società, ognuno dei quali ci rende meno vulnerabili alla manipolazione della propaganda (che AMA pescare ad glandus segugi dalla Storia!). Ma non possiamo star dietro a tutto e, nonostante la specializzazione sia fortemente sconsigliata nel mio campo, uno deve bene o male fare una scala delle priorità.

Stesso vale per la gente normale là fuori, che non ha necessariamente il tempo o la forza di sbattersi a leggere tonnellate di pagine sulla nascita del mercato monetario, sull’emancipazione femminile o sulla diffusione del bronzo nel continente eurasiatico.

Pertanto è sempre bello quando qualcuno indovina un metodo fruibile, interessante e corretto di divulgazione, che permetta alla persona lamba di dotarsi di una spolverata di conoscenza senza per forza passare le domeniche in biblioteca.

Pagine come War History Online o The Vintage News svolgono ad esempio un ruolo del genere, presentando articoli molto brevi su argomenti assortiti. Spesso la loro roba può essere poco esaustiva o un pizzico superficiale, ma lo scopo non è trattare a fondo un argomento, è darne una sommaria panoramica e magari incoraggiare il lettore a proseguire le ricerche.

Un altro medium molto importante di diffusione è Youtube. E’ un medium che io amo particolarmente perché lascia la libertà al fruitore di fare altre cose nel frattempo. Quando preparo la cena o quando ho episodi maniacali e mi metto a catalogare matite secondo la lunghezza e la marca, non c’è niente di meglio che una buona lezioncina di Storia in sottofondo!

Molti conosceranno l’ottimo canale di Metatron, i video di Schola gladiatoria, o la roba di Lindybeige (che di solito mi piace molto e poi ogni tanto mi tira fuori delle stronzate da schiaffi in viso, ma bon).

Oggi vorrei parlare dello splendido lavoro fatto da Indiana Neidell, Toni Steller e Florian Wittig.

The Great War, ovvero Indy Neidell e la Storia a piccole dosi

Chi è Indiana Neidell, il principale autore di questa gemma?

Una delle mie cotte platoniche, ma non divaghiamo.

L’omonimo del Professor Jones (altra mia cotta non tanto platonica) è un Hustoniano che ha studiato Storia alla Wasleyan University in Connecticut.

Nella primavera del 2014, con il centenario della Prima Guerra Mondiale che incombeva, Neidell ha incrociato la strada di Spartacus Olsson, un simpatico svedese poliglotta cofondatore e attuale presidente di Mediakraft Network.

Cos’è Mediakraft Network?

Un network (duh!) di canali Youtube (principalmente in lingua tedesca) con base a Monaco. Mediakraft è relativamente giovane, essendo stata fondata nel 2011, ma già dal 2014 può vantare 130 impiegati fissi e un capitale d’investimento di 16 milionazzi.

Neidell e Olsson sono venuti fuori con un’idea figa abbelva da proporre a questi rampanti markettari: un documentario “in real time”!

In altre parole, un documentario a puntate che, invece di riassumere il fenomeno in un unico episodio, ne segue passo passo il divenire.

E così nasce The Great War, una serie di video (in inglese, ma con sottotitoli per i diversamente anglofoni) che coprono, settimana per settimana, gli avvenimenti e l’evoluzione della Grande Guerra.

Spesso mi sentite soppesare i lati positivi e negativi, o cercare il difetto, o lagnarmi delle imperfezioni.

Non qui.

The Great War è una serie bella da strapparsi le mutande dall’entusiasmo e basta.

Un giovane ufficiale dell’Impero Intergalattico appostato in un POA a bordo della HMAS Encounter sorveglia gli Oomani

Ma andiamo con ordine.

In principio il documentario doveva coprire per intero la Guerra ed essere pubblicato online in diverse lingue, tra cui Polacco e Turco. Purtroppo non ebbe un seguito sufficiente per Mediakraft, che lo mollò nell’agosto del 2015.

Ma Indy e Spartacus non si dettero per vinti e, con determinazione da canadesi alla seconda battaglia di Ypres, portarono avanti il canale inglese via crowfunding, merchandising e vendite sponsorizzate su Amazon.

Sono qui per masticare gomme e fare divulgazione. E ho finito le gomme.

Nel 2016, con l’uscita del gioco Battlefield 1 (a cui Neidell ha pure collaborato), la Grande Guerra ritornò alla ribalta e il canale vide un aumento sensibile di iscritti.

Ora come ora, a pochi mesi dalla fine della serie (spoiler, novembre 2018), il canale Youtube conta quasi 900.000 iscritti e pochi giorni fa Neidell e soci hanno potuto filmare in situ al Museo dei Tank di Bournemouth.

Neidell è il principale autore della serie e il narratore. Il nostro offre episodi densi di informazioni, chiari e di facile fruizione, il tutto con rigorosi riferimenti bibliografici per i feticisti come la sottoscritta. Il suo entusiasmo e la sua passione per l’argomento sono palpabibili, e Neidell riesce a giostrare un ottimo ritmo narrativo con una mole enorme di dati e notizie.

Ogni puntata ci tiene al corrente dello sviluppo generale della Guerra, delle battaglie principali, ma prende anche il tempo di guardare il dettaglio, l’esperienza del singolo, con aneddoti , articoli di giornale del periodo, lettere o diari. Con Neidell, lo spettatore impara cos’è successo senza perdere la dimensione umana. In ogni puntata vediamo la Grande Guerra di Nazioni contro Imperi, e la piccola ma gigantesca guerra del soldato contro la mitragliatrice, contro il gas, o contro il freddo e la fame.

Per non sforare il format di puntate brevi (una decina di minuti), il nostro e il suo team hanno anche messo insieme una serie di approfondimenti su tecnologia, tattiche, personalità, arte dalle trincee, propaganda, ecc. Lo spettatore può limitarsi a seguire lo sviluppo della Guerra, approfondire l’aviazione, ascoltare uno speciale sulla poesia nelle trincee, o anche solo seguire il gruppo di allegri divulgatori nelle loro gite in situ. Gli spettatori possono anche inviare domande e dubbi, oltre che partecipare alla crescente comunità online.

Che altro chiedere?

Raccontare Gallipoli: lo stai facendo bene

I video sono arricchiti da mappe, animazioni e filmati d’epoca. Questi ultimi sono in buona parte ripresi dal colossale archivio British Pathé, un database contenente circa 85.000 documenti audiovisivi d’epoca, registrati da Pathé News tra il 1910 e il 1970.

Insomma, i video di Indy sono interessanti da ascoltare e da vedere e offrono un resoconto dettagliato, ragionato e approfondito di una delle guerre più assurde e più devastanti della Storia occidentale

I heard that it started because a bloke called Archie Duke shot an ostrich ‘cause he was hungry (cit.)

Ma non finisce qui!

Neidell e Olsson hanno messo su un altro canale: TimeGhost, dove contano continuare il concetto di “in real time documentary”.

Già sono disponibili i video della serie Between two wars in preparazione del prossimo grande progetto: un documentario in real time sulla Seconda Guerra Mondiale!

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Gente come Indy Neidell e i suoi collaboratori sono i miei personali eroi. Fanno cose utilissime in modo ottimo e fruibile. Darei un braccio per essere in grado di gestire un progetto di quelle dimensioni con altrettanta competenza, energia e dedizione.

The Great War è una serie bellissima e ho piena fiducia nei sequels che ne verranno.

Quindi andatevela a vedere, supportate il progetto, condividete i loro contenuti!

Viviamo in un periodo dove “giornalisti” scrivono puttanate senza fondamento infilandosi una penna nel culo e scorreggiando, in cui politici di rilievo sblaterano propaganda senza il minimo appiglio nel reale, in cui bufalate indegne sono condivise decine di migliaia di volte.

Iniziative come quelle di Neidell e Olsson sono un piccolo antidoto a questo merdaio di post-verità vomitata sui social.

Coltiviamo ciò che di buono ci porta l’internet!

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MUSICA!


 

La pagina Facebook di The Great War

La pagina wiki di The Great War (la serie)

Il negozio di The Great War

La pagina Patreon di The Great War

Il canale Youtube TimeGhost

La pagina Wiki di Indy Neidell

La pagina Imdb di Olsson

The look of silence

Adi è un oculista, sta misurando la vista di un uomo anziano. Gli fabbricherà degli occhiali su misura, e lo farà gratis. In cambio, il vecchio ha accettato di parlare con lui davanti a una telecamera.

Il fratello maggiore di Adi è stato assassinato durante il genocidio in Indonesia. E’ stato arrestato, trascinato in mezzo al niente e preso a coltellate. E’ riuscito a scappare e tornare a casa. Ferito e senza via di fuga, non ha potuto fare altro che aspettare insieme ai genitori, aspettare che le squadre della morte tornassero a prenderlo e a finire il lavoro. Ha chiesto un ultimo caffé a sua madre, ma gli squadristi sono arrivati prima che potesse berlo.

Adi è nato due anni dopo. Non ha mai conosciuto suo fratello, ma è cresciuto col suo fantasma sulle spalle: ogni giorno sua madre racconta delle ultime ore del figlio, il ricordo è un chiodo fisso che la tormenta tutti i giorni da decenni.

Il vecchio che Adi sta esaminando è un membro delle squadre della morte che hanno torturato, pugnalato e affogato suo fratello maggiore.

Alcuni di voi conoscono il documentario The act of killing. Come spiegato nel mio precedente articolo sull’argomento, si tratta, a mio modesto parere, di uno dei migliori documentari mai realizzati nella storia del documentario. Le implicazioni politiche, storiche, tecniche e psicologiche sono tantissime e il film, al di là del suo interesse contingente, è uno sguardo sull’essere umano in generale e su ciò che significa uccidere. The act of killing è una storia universale che chiunque dovrebbe guardare.

Joshua Oppenheimer però non ha finito il suo lavoro: The act of killing non è che la prima metà della storia, ed è seguito da una seconda parte, The look of silence.

Genesi dei documentari, un breve riassunto

Alla tenera età di 26 anni, Oppenheimer cerca di realizzare un documentario su dei lavoratori indonesiani. I tizi sono costretti a maneggiare prodotti chimici molto simpatici che finiscono col dissolverti il fegato e farti morire di lunga e dolorosa agonia. I lavoratori cercano di sindacarsi, ma la cosa è più ardua di quanto possa sembrare.

Uno dei problemi maggiori è che questi lavoratori sono in buona parte discendenti delle vittime dell’eccidio ordinato da Suharto. Il governo indonesiano non ha mai riconosciuto nessuna colpa, anzi, l’organizzazione di paramilitari stragisti usata nella faccenda, Pancasila, è oggi in piena fioritura, ammanicata con generali, politici, funzionari, ecc.

In altri termini, immaginatevi di andare in gita a Berlino e trovare i nazisti ancora al potere.

Il primo progetto di Oppenheimer è quindi di fare un documentario sull’oppressione e l’ingiustizia di cui questi lavoratori sono vittime.

La faccenda non piace ai funzionari indonesiani, che lanciano una politica di intimidazione e rappresaglie fasciste, al punto che Oppenheimer deve sospendere la realizzazione per non mettere a repentaglio la vita di quelli che è venuto ad aiutare.

Che fare quindi?

Il problema viene preso per un altro verso: se Oppenheimer non può raccontare la storia delle vittime, forse può raccontare quella dei loro carnefici. Dopotutto questa gente è osannata dal Paese e gode dello status di celebrità locale.

Il piano funziona. Per anni Oppenheimer segue questi criminali di guerra, li riprende, li ascolta, documenta le loro sparate.

In The act of killing, Oppenheimer segue in particolare Anwar Congo, uno tra i più prolifici assassini di massa oggi in vita. Nel documentario, Anwar e compagni sono intervistati, e poi invitati a rivedere i filmati. La reazione degli assassini a quel punto è straordinaria.

Da The act of killing, Anwar Congo spiega i benefici della musicoterapia

In The look of silence, Oppenheimer va più lontano. In questa parte, i macellai di Pancasila non sono solo messi difronte alla loro stessa immagine, ma si trovano a parlare con una delle loro vittime.

Il documentario

In un’intervista a Vice, Oppenheimer spiega come, quando ha iniziato a lavorare con la gente della piantagione, una cosa lo avesse colpito in particolare. Non soltanto questa gente era ancora schiacciata da squadristi e piccoli capi-regime, ma l’intera comunità pareva incapace di parlare davvero di ciò che è successo negli anni ’60. Non era semplice paura delle rappresaglie. Questa gente era oppressa dal silenzio.

Molte delle persone uccise sotto Suharto erano semplicemente sparite, sgozzate e buttate in fiumi e canali. Le famiglie non avevano mai avuto un corpo da seppellire, un comunicato, niente. Questa gente era scomparsa nel nulla. Sopravvissuti e familiari non osavano quindi parlare di costoro come di morti perché, anche dopo decenni, persisteva un barlume di speranza che, in qualche modo e in qualche luogo, la persona fosse ancora in vita. In altre parole, non solo avevano perso amici e parenti, ma non erano mai stati capaci di fare il loro lutto, di superarlo.

Ancora oggi, la ferita non è richiusa, perché la storia non è mai stata conclusa.

Adi davanti alle interviste degli squadristi

C’è però un’eccezione: un uomo di nome Ramli. A differenza di molti altri, la morte di Ramli è confermata. Ci sono testimoni. Quindi di Ramli si può parlare, perché Ramli è morto davvero. I suoi assassini vivono ancora nello stesso villaggio, accanto alla sua famiglia.

Ramli è il fratello maggiore di Adi.

E’ Adi a proporre una collaborazione ad Oppenheimer: dopo aver visto le interviste fatte agli assassini, vuole incontrare questi uomini e parlare con loro. Vuole fronteggiarli. Spiega ad Oppenheimer che non vuole vendetta o rivalsa: quello che vuole è un’ammissione.

Questa gente ha vissuto per decenni nella stessa zona, sotto gli occhi di sua madre e di suo padre, come se non fosse successo niente. Davanti a Oppenheimer hanno raccontato le loro gesta ridendo e gesticolando. Per anni Adi ha seguito la creazione del documentario e guardato le interviste, ancora e ancora, interiorizzandole, digerendole, e nel 2012 finalmente sa cosa fare. La storia deve essere conclusa.

Adi vuole che questa gente ammetta la propria responsabilità per il crimine che hanno commesso. Vuole che riconosca le proprie azioni. E questo perché Adi vuole poterli perdonare, di modo che le generazioni future (Adi ha due figli) possano ricucire le ferite del paese e vivere uniti, non nel reciproco sospetto e timore.

D’acchito Oppenheimer non ne vuole sentir parlare: è troppo pericoloso. Dopo lunghe discussioni con Adi e la famiglia, tuttavia, cambia idea. Stabilito un modus operandi che riduca al massimo il rischio, l’avventura comincia.

Come in The act of killing, la reazione di questi squadristi è assolutamente affascinante.

Questa gente non rischia nulla: sono al potere, sono osannati dalla società, non corrono alcun tipo di pericolo e qualsiasi cosa dicano non ci saranno ripercussioni. Peraltro, questi uomini hanno già raccontato ad Oppenheimer di come hanno ucciso decine di persone. Cosa ci può esserci di tanto difficile, per gente simile, nell’ammettere l’uccisione di un singolo uomo?

Eppure, quando Adi li interroga, non uno di loro riesce ad ammettere “sì, è vero, ho partecipato, ho ucciso tuo fratello”. Tutti si ritirano. “Non ero davvero io il capo”, “non c’ero”, “non pensavo che pugnalarlo gli avrebbe fatto male”.

Adi parla con uno degli squadristi. Il tizio parta una maglietta con i colori di Pancasila.

Guerra e omicidio di massa sono sempre stati ricorrenti nella Storia e hanno contraddistinto tutte le società umane, da quando i primi Cromagnon cominciarono a sgozzare Mammuth. Tuttavia, c’è qualcosa di profondamente catartico nel momento in cui un uccisore, al di là di ogni contesto e contingenza, riconosce l’umanità di coloro che uccide.

Questo motivo è ricorrente in letteratura: da Ulisse che piange alla reggia dei Feaci ascoltando l’orrore del sacco di Troia, al guerriero Kumagai che esita a uccidere il giovane Atsumori sulla spiaggia di Suma, il combattente che interiorizza per la prima volta il dolore del proprio nemico è un topos rintracciabile in tutto il mondo e in tutte le epoche.

In letteratura occidentale, l’esempio classico più conosciuto viene dall’Iliade: si tratta del dialogo tra Achille e Priamo. In un poema che racconta della guerra in ogni suo aspetto (la gloria, l’orrore, le tante piccole tragedie senza senso, l’eroismo, la strategia, ecc.), il culmine della storia viene raggiunto quando Achille e Priamo sono riuniti nella tenda. Priamo bacia la mano dell’uomo che ha ucciso suo figlio, rinunciando a ogni risentimento. Achille piange, riconoscendo in Priamo la pena che suo padre Peleo dovrà subire (Achille sa che non tornerà mai vivo dalla guerra). Non c’era modo di evitare la morte di Ettore, non c’è modo di evitare quella di Achille, ma in quel momento i due uomini trovano pace.

Questa riconciliazione nel cordoglio, questa catarsi nel dolore, pur non ponendo fine al conflitto, pone fine alla storia: l’Iliade si conclude con i funerali di Ettore, l’”ira di Achille” è finalmente estinta.

Gli uomini intervistati da Oppenheimer non sono personaggi, sono macellai reali e non uno di loro ha il coraggio di assumere una responsabilità personale davanti a una delle sue vittime. Questi uomini non sono guerrieri, sono vigliacchi che la società ha armato e aizzato contro una minoranza.

Non c’è catarsi e non c’è riconciliazione.

Una nota positiva

The look of silence ha avuto un effetto notevole in Indonesia, dove il dibattito sul genocidio è finalmente tornato sulla tavola. Adi e la sua famiglia si sono dovuti trasferire e Oppenheimer non può più rimettere i piedi nel paese, ma nonostante Adi non sia riuscito a ottenere ciò che voleva, il silenzio delle vittime è finalmente stato spezzato. Adesso la bruttura dell’umanità è sullo schermo, alla portata di tutti.

Joshua Oppenheimer e Adi

C’è tantissimo altro in questo film che difficilmente può essere riassunto in un articolo. La varietà e la vastità degli elementi è straordinaria e ogniuno di essi merita attenzione.

Come The act of killing, questo documentario è un bellissimo esempio di cinematografia, e una storia sull’uomo e sulla società. E’ uno sguardo ravvicinato a ciò che di più pericoloso si nasconde nella razza umana: la banalità del male.

L’estetica è magnifica, il contenuto è straordinario, la narrazione eccellente. Come il precedente documentario, The look of silence ha vinto una valanga di premi, tutti meritatissimi.

E’ un bellissimo pezzo che straconsiglio. Guardatelo.

MUSICA!


Pagina wiki del documentario

Intevista di Oppenheimer a Vice

Dibattito pubblico a Berlino

La Nuova Cronologia, verso la demenza e oltre!

Vi capita mai di fare una scoperta così fenomenale da gettare una luce del tutto nuova sulla vostra esistenza?

Una di quelle scoperte che ti fanno realizzare qualcosa di importante e che non avevi assimilato del tutto.

Nel mio caso, ho realizzato fino in fondo che la Russia è davvero un paese pieno di sorprese. E quella di oggi si chiama Anatolij Fomenko.

Non sapete chi è?

Sedetevi, perché state per avere la rivelazione della vostra vita.

La Storia è sbagliata. Tutta!

No, non me lo sto inventando. Purtroppo la mia fantasia ha dei limiti.

Signore e signori, oggi parliamo di Recentismo, ovvero della Nuova Cronologia.

Anatolij Fomenko spiega come realizzare una mascherina di Carnevale.

Voi credete di certo a quella favoletta di Preistoria, Storia Antica, Dopo Cristo, eccetera. Credete senza dubbio a Napoleone, Alessandro Magno, Giulio Cesare.

Tutte balle! La storia è vecchia di 8-9 secoli al massimo!

Tutto comincia in Russia, e si sa che quando qualcosa comincia in Russia deve essere qualcosa di epico, perché se c’è qualcosa che i nostri amici cosacchi sanno fare è superare le aspettative.

Un bel giorno Anatolij Fomenko, matematico dell’università di Mosca, decide di infilarsi in un annoso dibattito con il suo team di nerds: la corrispondenza tra cronologia ufficiale e fenomeni astronomici.

Nel testi storici abbiamo spesso riferimenti a fenomeni come le eclissi. Ora, talvolta l’eclissi segnalata in un documento non combacia con la meccanica celeste. Non è un problema inventato e non è un problema banale. Ci possono essere mille ragioni sul perché tale documento collocato in tale periodo indichi un fenomeno astronomico che non può essersi verificato.

Ad esempio, il documento potrebbe essere stato copiato male, o collocato male. Potrebbe essere stato male interpretato o tradotto. Potrebbe essere falso. E’ ormai assodato che, nello studio della Storia, il ricercatore deve mantenere un certo spirito critico rispetto alla tradizione scritta.

L’approccio di Fomenko è molto più radicale: l’intera cronologia Scaligeriana è falsa!

Il nostro tavarish ha messo insieme un calcolo basato sulla rotazione lunare e ha riscritto da zero l’intera Storia dell’Umanità, infischiandosene bellamente di archeologia, studio comparato dei documenti, scienza o buonsenso spicciolo.

Come si dice a Firenze: e gli è tutto sbagliato, e gli è tutto da rifare! Quindi rimboccatevi le maniche e preparatevi a scoprire cosa è davvero successo!

Cominciamo col dire che, secondo Fomenko, non esistono fonti scritte antecedenti al X° secolo. Che dico fonti scritte! La scrittura stessa è stata inventata verso il mille, e prima la gente stava in grottoni e cacciava mammuth. Sissignori: quei chopper che avete visto al museo, i dipinti di Lascaux, il Tempio del Sole in Bulgaria, tutto risale al X° secolo al più presto.

Il primo grande impero nasce verso quest’epoca, e Fomenko lo chiama Prima Roma (perché Roma? Se non lo capisci il problema è solo tuo!). Prima Roma stendeva i suoi territori intorno al Nilo e aveva come Capitale Alessandria. Ora, non vorrei che voi vi immaginaste l’Egitto e le Piramidi, perché non è così: le Piramidi sono state costruite nel XIV° secolo, ovviamente.

Tornando a Prima Roma, verso il XI°-XII° secolo l’Impero copre l’Egitto, l’Europa e la Russia. I nostri decidono di spostare il centro del loro potere nella regione del Bosforo, dove fondano una seconda Capitale. Questa, situata dove si trova oggi la moderna Istanbul, allo stesso tempo la Gerusalemme Biblica, Troia e Costantinopoli!

STRIKE!

So che già vi sembra la storia di un ubriaco sotto effetto di Svanverol, ma il meglio a da venire.

E’ in questa grande capitale da me ora chiamata Clusterfuck City che nasce Gesù. Qui il nostro predica e si fa crocifiggere nel 1185 (lo stesso anno in cui Yoritomo diventa il primo shōgun del Periodo Kamakura. Coincidenze? Noi del Club degli Scoppiati crediamo di no).

Ora, nel Vangelo i seguaci del Nazareno erano una dozzina di tizi più qualche pastore ed ex-prostituta, ma in realtà il suo messaggio aveva avuto un successo che levati e l’intero Impero o quasi era cristiano. In particolare, erano cristiani i Russi (sì, ci sono dei russi, perché ogni storia è meglio se ci sono dei russi). A dimostrazione, i 3 Re Magi erano in realtà lo Zar, la Zarina e l’Ataman. La Zarina è passata alla tradizione col nome di Gaspare. Sai che culo.

Insomma, ai Russi questa cosa che hanno inchiodato Gesoo proprio non piace, e nel 1204 lanciano una crociata di cosacchi contro Bisanzio. Sarebbe già bellissimo così, ma Fomenko ci vizia e specifica che questi cosacchi del 1204 altri non sono che gli Achei della Guerra di Troia.

Questo è Schliemann. Leggendo l’Iliade ha scoperto Troia. E’ un figo. Ma Fomenko ha più fantasia.

Dopo la morte di Gesoo e l’invasione degli achei cosacchi (BWAHAHAHAHAHAHAAHAHAHAH, grazie Fomenko!) l’Impero si frammenta in regni, tipo quello di Nicea e il Principato di Vladimir Suzdal con capitale Rostov. Quest’ultimo è sotto il controllo dei legittimi discendenti i Bisanzio e ha come esercito l’Orda. Già. Perché questo principato è anche passato alla storia come l’Impero Mongolo!

Non ditemi che credete a quella ridicola storiella di Gengis Qan e dei suoi baldi compari. Oh no no no, la Russia non è MAI stata invasa (ci mancherebbe altro!), sono stati i Russi a lanciare l’invasione verso l’Europa nel 1261!

Che poi invasione, dai. Fomenko spiega che il resto del globo era pressoché disabitato e si è trattato di un pacifico ripopolamento più che altro. Un po’ com’è successo in Cecenia, per intendersi.

La Russia era e resta inconquistabile

E Gengis Qan? Mai esistito. Si trattava invero del sovrano Yuri III, che regnò dal 1319 al 1325. Costui è anche passato ai posteri come San Giorgio di Lydda e Yuri II. Il caro Yuri morì giovane e fu seppellito insieme ai suoi antenati in…

rullo di tamburi

Ma a Giza in Egitto, ovviamente!

Insomma, siamo nel XIV° secolo e ancora nessuna traccia di Roma o del Papato, direte voi. Non temete: sono stati fondati dal successore di Yuri Gengis II di Lydda: Ivan Kalita. Che, all’occorrenza, era anche Califfo, Batu Qan e il leggendario Prete Gianni. Se vi chiedete che cazzo abbiano tutti questi tizi in comune o come mai coso qui abbia deciso di creare il Papato, non avete che da leggervi i 7 volumi di Nuova Cronologia scritti da Fomenko (che ha chiaramente un sacco di tempo libero).

Ma non distraiamoci: col passare del tempo, l’Impero si sgretola in diversi pezzettoni. Questi diversi regni, tutti russi non dimentichiamoceli, sono: l’Impero Mogol in India, l’Impero Mongolo in Cina, l’Impero Mameluco in Egitto (costoro sono anche gli Hyksos, così, tanto per gradire), l’Impero dei samurai in Giappone (non solo imparo che è esistito un impero dei samurai, ma scopro che i miei cari amici bushi erano dei russi), e, per non farsi mancar nulla, l’Impero Inca e Maya in America!

Vi sembra grossa? Ditevi solo che è a quest’epoca che appare Babilonia!

L’Impero dei russi è un sacco figo e bello e gli scambi aumentano. Il che provoca terribili epidemie. La soluzione è molto russa: mandare l’Orda a sterminare tutti i malati dell’Impero.

E’ un’idea così abissalmente cretina che non so neanche come un uomo adulto abbia potuto concepirla.

Ad ogni modo questo olocausto mondiale (severo ma giusto, ovvio) è passato alla Storia come la conquista ottomana e la ricerca della Terra Promessa raccontata nell’Esodo.

Tutto sembra andare di nuovo bene quando nel XV° secolo delle scissioni cominciano a crearsi nel Cristianesimo. Da queste nascono gli Ortodossi, i Luterani, i Cattolici, i Buddisti, i Mussulmani e gli Ebrei.

Sì, perché il Cristianesimo è la più antica delle religioni moderne. Gli Induisti trovano l’idea molto divertente.

Perché davanti a due libri chiamati uno Antico Testamento e uno Nuovo Testamento, il caro Fomenko è incerto su quale sia uscito prima. Che volete, matematici…

Ma insomma, direte voi, com’è che oggi troviamo un resoconto completamente diverso dei fatti storici?

Questo perché nel XVII° secolo in Russia prendono il potere i Romanov, infami usurpatori filo Europei che riscrivono l’intera Storia per autolegittimarsi!

Sì. Perché è ovvio no? Chi di voi, traducendo Senofonte, non ha pensato “però ‘sti Romanov, che fighi!”? Chi di voi, leggendo di Babilonia o della Guerra delle due Rose non ha pensato “se la Russia deve avere dei sovrani, quelli sono di certo i Romanov”?

Forse i Romanov erano solo pessimi scrittori e si son divertiti a riempire la loro grande opera con sub-plot superflui.

O forse Fomenko fuma roba che voi umani non potete immaginare.

Ad ogni modo, i Romanov inventarono anche le diverse lingue!. Oh sì. Per creare barriere linguistiche e impedire ai popoli di essere uniti nel grembo amorevole di Madre Russia. E tutte le lingue del mondo derivano dalla lingua ufficiale dell’Impero Russo: lo Slavo liturgico.

Gente, non so da che parte cominciare. Per certi versi vorrei applaudire la totale idiozia di queste ipotesi, per certi altri vorrei picchiare qualcuno, e infine mi chiedo come mai il gruppo FB italiano della Nuova Cronologia abbia solo 200 fan. Per un paese dove la Cartomante è considerato un mestiere rispettabile e dove la gente non vaccina i bambini, uno penserebbe che i vaneggiamenti di un alienato farneticante dovrebbero avere discreto successo.

Perché Fomenko ha un certo appeal, l’appeal del complotto. C’è un complotto degli storici per nascondere la verità. Lo sapete che i magazzini dei musei sono strapieni di reperti mai esposti? (Sì, lo so io e lo sa il gatto della vicina) Questo perché detti reperti contraddicono la Storia ufficiale! (E noi sappiamo che la Storia ufficiale è un monolito, non ci sono mai dibattiti o bisticci tra storici).

Secondo Fomenko, se riconoscessimo la verità vera delle cose tutto andrebbe meglio. Ad esempio, se i mussulmani accettassero ‘sta cosa che derivano tutti dal cristianesimo, non ci sarebbero guerre di religione.

E’ un’idea così naive e così stupida che sarebbe imbarazzante in bocca a un bambino di tre anni non troppo intelligente. Fomenko è un matematico. Mah.

Io non studio matematica né frequento matematici, tranne uno, che è un tizio tanto intelligente quanto fuori del mondo (il tipo viene a trovarmi in gennaio dell’anno scorso ed è sorpreso del fatto che la polizia lo abbia fermato e gli abbia chiesto se era mussulmano. Si era perso il piccolo dettaglio degli attentati a Charlie Hebdo. Viviamo a Parigi tutti e due.).

Forse Fomenko è dello stesso genere. Di sicuro non sa un cazzo di etologia umana.

In conclusione, io non so cosa augurarmi: di vederli rinsavire o di vederlo continuare nelle sue boiate. Credo che la cosa più bella sarebbe vedere una collaborazione fra Fomenko e il mio caro Lilin.

Il mondo è pieno di meraviglia. Dovevo condividere con voi questa perla di assoluta e pura assurdità.

Ora sapete chi è Fomenko.

MUSICA

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Link utili

Il sito italiano dedicato a Fomenko e i suoi vaneggiamenti

Bibliografia per coprofagi

Un canale youtube sui documentari di Fomenko, e un altro (francese)

La pagina wiki

The act of killing

Raccontare storie è un’attività universale di tutte le società. Le buone storie offrono diverse cose: sense of wonder, evasione, divertimento. Non solo però. Raccontare e leggere una buona storia, quale che ne sia il formato, è un modo in cui gli esseri umani cercano di conoscersi meglio e comprendersi meglio.

Ora, anche se si parla di storie di fantasia, gli elementi migliori di ogni buon racconto vengono sempre dalla realtà e dalla comprensione che abbiamo di essa.

Nei generi che mi interessano, spesso si parla di guerra o di uccisioni. E’ normale: il conflitto è ciò che fa una storia, e la lotta all’ultimo sangue è l’immagine ultima del conflitto. Non è quindi da stupirsi se moltissimi personaggi nelle nostre storie si trovano davanti all’atto di uccidere.

L’atto di uccidere ha una carica enorme per gli esseri umani, sia essa simbolica, spirituale o morale. Il modo in cui il personaggio reagisce davanti a tale atto è determinante in una storia.

Ma come renderlo nel modo migliore?

Documentandosi. Come nelle storie di guerra, la documentazione è fondamentale. Meglio comprendi gli elementi di tattica, meglio sarai capace di inventare e descrivere scontri armati. Per l’omicidio è uguale: meglio comprendi l’atto di uccidere, meglio saprai descriverlo in una storia. E sappiamo che la nostra Storia offre innumerevoli esempi di studio, perché la brutalità è parte essenziale della nostra natura, che piaccia o meno.

The act of killing

Il 1 ottobre 1965 l’Indonesia fu teatro di un colpo di stato operato da un gruppo interno all’esercito, il Movimento 30 Settembre. Il colpo fallì in modo epico: già dal 2 ottobre il generale Suharto aveva il controllo di Jakarta e non ci mise molto a reprimere il resto dei ribelli.

La colpa fu buttata sul Partito Comunista Indonesiano (PKI). Quella che seguì fu una colossale purga contro i comunisti e, già che c’erano, contro la minoranza cinese e i javanesi (molti in Java supportavano i comunisti). Il tutto, con la benedizione americana: in piena Guerra Fredda, il comunista buono è il comunista morto. Se poi bruci il suo villaggio e stupri le sue sorelle anche meglio.

E’ difficile calcolare i morti, ma si parla di almeno 500.000, anche se altre stime suggeriscono tra 1 e 3 milioni. In certi casi cittadine fluviali dovettero fare appello ai militari perché i cadaveri intasavano i canali.

L’esercito non condusse direttamente il massacro: più spesso che no, preferì organizzare o incoraggiare milizie locali, gruppi mussulmani o delinquenti di strada. E qui entra in scena Pancasila.

Pancasila è il nome di un’organizzazione paramilitare filo-Suharto attiva già dal ’59. Il nome fa riferimento ai principi fondatori dello stato indonesiano (tra cui “umanità giusta e civilizzata” e “democrazia guidata da saggezza e unanimità”, bwahahahahahah!), ma nei fatti si tratta di un gruppo che organizzava delinquenti e maniaci e legittimava il loro operato. Molte delle squadracce scatenate durante la purga era affiliate a Pancasila.

Ora, la cosa interessante è che oggi, 2015, Pancasila Youth è ancora alive and kicking, con più di 3 milioni di membri e legami importanti con il governo e l’esercito. L’ecatombe degli anni ’60 è tutt’ora un soggetto tabù per certi versi, sdrammatizzato per certi altri. Quando menzionato, se ne parla come dell'”Incidente del ’65”, il numero di morti viene ridotto senza ritegno, tutto nella miglio vena del più becero revisionismo storico.

Tipo, ops, stavamo ripulendo il settore Genocidio e ci è partito un Pogrom. Haha, mani di burro!

E’ in questo clima che, nel 2001, Joshua Oppenheimer arriva in Indonesia, nel nord di Sumatra. Oppenheimer vuole realizzare un documentario sui lavoratori di piantagione (The Globalisation tapes). A oggi, i lavoratori di queste piantagioni temono di organizzarsi in un sindacato, dacché molti sono discendenti di comunisti o presunti tali sterminati negli anni ’60, e sono ancora oggi discriminati. La paura d un possibile pogrom è più forte di quella di una sicura morte per avvelenamento nel maneggiare prodotti chimici dannosi. Alé.

Durante il suo lavoro Oppenheimer si attirò però l’attenzione sgradevole del governo indonesiano. Davanti all’intimidazione, i tizi con cui stava lavorando suggerirono a Oppenheimer di cambiare soggetto: se il governo non lasciava parlare loro, forse non avrebbe posto problemi a un documentario sui carnefici. Oppenheimer avrebbe così potuto portare a galle i soprusi e l’impunità di questi delinquenti, tutto senza attirare folgori indesiderate su se stesso e sui lavoratori di piantagione che, diciamolo, avevano già abbastanza grane così.

Oppenheimer andò quindi a ricercarsi i vecchi membri delle squadracce per scoprire cosa e era stato di loro. Molti di questi vecchi si rivelarono più che disponibili a parlare dei fatti, molti addirittura offrirono di ricreare le scene per la gioia della telecamera. Perché non avrebbero dovuto, dopotutto?Vivono in una perfetta impunità.

Per usare le parole di Oppenheimer, è un po’ come andare in Germania e trovare i Nazisti sempre al potere.

Bada a ciò che fai, Oppenheimer ti vede

Di intervista in intervista, Oppenheimer si è infine trovato in contatto con Anwar Congo, un delinquente con all’attivo più di mille morti. E’ con Anwar che nasce il film vero e proprio.

Il documentario

Anwar Congo esegue una dimostrazione. Il tizio con la testa nel cappio è sempre vivo, per la cronaca. Io comunque mi sarei cagata in mano.

The act of killing non è un documentario sui massacri del ’65. E’ un documentario sugli uomini che li hanno perpetrati e sulla loro vita oggi. Sull’impunità di cui godono loro e i loro famigli, e sul prezzo che hanno pagato in termini di salute mentale.

Come gli altri intervistati, Anwar comincia col portare Oppenheimer sul luogo delle esecuzioni, dove fa una dimostrazione ridendo e scherzando. Solo che dopo, Anwar vede il video. E’ forse la prima volta che si contempla dall’esterno, e quello che vede non gli piace. Bisogna fare qualcosa per migliorare quella scena. Forse i capelli vanno tinti, o i vestiti non sono belli… No, non basta, bisogna girarne un’altra, altre, no, un intero film!

Solo che il problema non è che i suoi capelli sono grigi o che il decoro è scarso. Il problema è che Anwar ha ammazzato più di mille persone e in vecchiaia si trova a fare i conti con l’idea, come molti altri come lui.

Per sette anni, Oppenheimer ha seguito Anwar e la sua cricca di unlikable criminals e osservato la realizzazione della loro grande opera cinematografica.

Herman travestito da donna brandisce la testa mozzata di Anwar. Anwar mostra queste ed altre scene ai nipotini “hihihi, guarda caro, la testa del nonno è tagliata via, haha…”

The act of killing è un documentario su dei criminali invecchiati che cercano di rielaborare una storia, di riraccontare quello che hanno fatto per esorcizzare dubbi e incubi. The act of killing porta sullo schermo il processo mentale di chi cerca scuse per il passato (Anwar e i suoi amici) o per il presente (Herman e gli altri delinquenti di Pancasila).

Questo è uno dei documentari più inquietanti e interessanti che abbia visto di recente, è un ritratto vivido e dettagliato di un assassino di massa e dei suoi successori.

Usare la tua bambina come attrice nella scena in cui bruciate il villaggio e massacrate tutti a bastonate. Pancasila, padri dell’anno dal 1959.

Anwar è chiaramente un uomo di intelligenza mediocre. E’ qualcuno che ha ammazzato stricto sensu centinaia di persone, chi col machete chi strangolato col fil di ferro. E non lo ha fatto per nessuna missione divina o politica, lo ha fatto per soldi. Non è mai stato punito, non è mai stato condannato. L’intera società si è stretta intorno a lui per confermargli che ha fatto bene, e che alla fine il filo di ferro è un modo umano di uccidere (sic).

Eppure il passato torna nella vecchiaia, ti impedisce di dormire tranquillo. Secondo Oppenheimer, la maggior parte dei vecchi assassini sono nelle condizioni di Anwar, e la crassa vanteria non è che un modo per raccontarsi che hanno fatto bene, che sono eroi della Patria. Solo che alla differenza degli altri incontrati, il dolore di Anwar era “più vicino alla superficie”.

Seguire i rimuginii di Anwar è un viaggio nelle scuse: sto male perché ho guardato quel morto negli occhi, sto male perché ho dubbi, ma alla fine ho fatto bene, alla fine ho protetto il Paese, alla fine li ho uccisi bene, alla fine li ho mandati in Paradiso…

Anwar non è l’unico personaggio. E’ attorniato da una compagine di giovani delinquenti di Pancasila, molti dei quali sembrano caratterizzati da un misto di tendenza alla prevaricazione incallita e una strana naiveté. Quando uno degli anziani dice loro che devono smetterla col film perché farà “apparire male” Pancasila, la loro risposta è “ma è successo così davvero”. C’è uno strano candore nel fatto che costoro non capiscono cosa ci sia di male nel bruciare villaggi di comunisti, nel presentarsi alle elezioni col dichiarato proposito di ricattare il prossimo, nell’esigere un pizzo. Questa è la loro realtà di tutti i giorni, nessuno ha mai detto loro che massacrare i cinesi è stato sbagliato o che non va bene taglieggiare qualcuno, quindi perché nasconderlo?

Già, perché?

Adi Zulkadry è un altro personaggio esaminato in The act of killing. A differenza di Anwar, Adi pare molto più articolato e cosciente della realtà, il che lo rende, per certi versi, molto più inquietante. Adi non ha bisogno di raccontarsi troppe storie, ha un atteggiamento molto più cinico rispetto agli altri. Quando gli viene chiesto se ritiene il massacro un crimine di guerra, la risposta di Adi è semplicemente:

“Sono i vincitori che definiscono cosa è crimine e cosa no, e io ho vinto”.

Quando Anwar gli dice che non riesce a dormire e che i morti gli tornano davanti la notte, Adi gli dice:

“E’ perché sei un debole”.

Quando pensate a un uomo che ha strangolato col fil di ferro centinaia di persone, ve lo immaginereste con un cappello da cow boy rosa? Bene, cominciate.

Cappelli rosa e travestiti a parte, la conclusione del documentario è tragica e frustrante. Anwar non riuscirà mai a rendere quella famosa prima scena meno brutta da vedere o da pensare. Ma se hai commesso crimini imperdonabili come fai ad ammetterlo davvero e continuare a vivere? Alla fine certa gente resta incastrata nel proprio inferno, e tutto sommato è giusto così.

The act of killing non è solo un documentario sul pogrom. Per la precisione, non vuole essere un documentario sulle stragi del ’65. The act of killing è un documentario sull’Indonesia di oggi, sul negazionismo e sull’oppressione odierna. E’ anche un documentario sull’uccidere e sulle ripercussioni dell’atto di uccidere sull’individuo e sulla società attorno a lui.

E’ chiaro che lo scopo principale di Oppenheimer è attuale: vuole incoraggiare un cambiamento in Indonesia. Tuttavia non si limita a questo. E’ un trip surreale in uno dei territori più bui della nostra specie. E’ una storia universale e forse il miglior documentario che abbia mai visto sulla mentalità, la vita e la psicologia di uno sterminatore di massa.

Chiunque voglia raccontare una storia di assassini e uccisioni, farebbe bene a guardarsi questo documentario. E chi non vuole raccontare niente farebbe bene a guardarselo lo stesso.

The act of killing è surreale, bizzarro, agghiacciante, triste, frustrante, interessantissimo. Oppenheimer ha impiegato dieci anni di lavoro (7 di riprese e 3 di editing) per realizzarlo, e la mole dell’impresa si nota.

Concluso nel 2012, il documentario ha ricevuto celebrazioni entusiaste nel mondo intero e lanciato una timida discussione in Indonesia (meglio tardi che mai).

Elencare tutti i premi ottenuti dal film sarebbe troppo lungo (c’è una pagina wikipedia apposta). Noto soltanto festival come quello di Berlino, il British academy film awards, lo European film awards, lo Human Rights Human Dignity International film festival 2013, e via così per un totale di 63 premi e 74 nominations.

Guardatelo, è un bellissimo documentario!

Qui il trailer.

La famosa prima scena di Anwar.

Il rogo del villaggio.

Un’intervista a Oppenheimer.

Il documentario intero.

La storia peraltro non è finita. Quest’anno esce una nuova puntata dell’epopea indonesiana con un altro documentario di Oppenheimer, The look of silence.

Buona visione.

MUSICA