E’ giugno, fa caldissimo, io sono in Italia a lavorare.
Nella fattispecie devo riorganizzare e ripulire una casa, mentre gli Augusti Genitori e Fratellino sono seppelliti da scadenze amministrative.
La casa non è stata pulita da 30 anni. Quando tocco le tende del salotto queste si disintegrano in un mucchio di plastica depolimerizzata e polvere. Gli scaffali con le tovaglie sono disseminati di merda di topo. In dispensa trovo dei cadaveri di ratti morti avvelenati, coperti di vermi morti avvelenati che hanno mangiato del ratto morto avvelenato e poi sono stati mangiati da dei vermi che sono morti avvelenati perché hanno mangiato gli altri vermi morti avvelenati che al mercato mio padre comprò.
Di giorno sbadilo ciarpame e preparo da mangiare per quattro, la sera lavoro sulla mia tesi.
Nell’insieme, pinzillacchere rispetto all’estate 2015.
A metà mese mi arriva una mail. E’ di una professoressa dell’Università di Paris Diderot. Sta organizzando un Convegno della Madonna sullo Heike monogatari, una roba piena di nomi da lasciarti col culo in terra. Il Convegno sarà a ottobre. La mia direttrice di ricerca (santa martire) le ha tanto parlato della mia vasta conoscenza di armi e armature (wat…) e l’organizzatrice vuole sapere se mi va di intervenire al Convegno Strafigo.
Clicko “rispondere”.
“Gentile Professoressa Tal dei Tali, sono molto onorata dalla richiesta, ma non posso partecipare in quanto sono una persona stupida e mediocre la cui ridicola conoscenza della Storia le permette a stento di mandare avanti un blog sfigato. Cordiali saluti.”
Cancello il messaggio. Riscrivo.
“Gentile professoressa Tal dei Tali, sono molto onorata dalla richiesta. Sarà un immenso piacere partecipare al Convegno. Cordiali saluti.”
Invio. Mi servo un quarto di whisky per soffocare la crisi di panico.
Non so se capiti ad altri ricercatori. In questo genere di occasioni il mio cervello elabora due conclusioni concomitanti:
-Parli malissimo giapponese, non sei davvero specialista del periodo e fai schifo come ricercatrice in generale.
–Yo, bitch, hai comunque studiato la Guerra di Genpei! Non sarà proprio il tuo periodo d’elezione, ma hai tempo fino a ottobre, ‘a voglia te!
Il ritmo cambia. Di giorno lavoro e cucino,di sera preparo il convegno, di notte porto avanti la tesi.
Qualche disgraziato prova a dire che non devo affannarmi tanto, che ho tempo fino ad ottobre e posso prendermela comoda.
La sua testa è ancora infilzata su un palo del giardino.
Luglio
Il lavoro in Italia è concluso, sicché ora posso concentrarmi solo su tesi e conferenza.
Ho la problematica, ho un’idea di ciò che voglio, ho quasi finito di sciropparmi la bibliografia. Voglio finire tutto il più in anticipo possibile per avere il tempo di correggere e perfezionare, perché tutto deve essere perfetto. C’è qualcosa di filosoficamente sbagliato in un prodotto non perfetto.
La versione di riferimento per lo studio dello Heike monogatari è quella detta Engyōbon. Devo averla in bibliografia. La cerco. Il Collège de France ce l’ha, ma la biblioteca è chiusa per lavori e proprio quel testo è in uno scatolone da qualche parte. Guarda te le botte di culo.
La trovo in Inghilterra. Scrivo a Cambridge per sapere se possono farmi un prestito universitario. Mi rispondono subito.
“Cara signorina Tizia Caia, ma certo che possiamo spedirle i volumi, anche subito, no worries!”
Yay!
“Ci serve solo una richiesta ufficiale della segreteria della facoltà a cui è iscritta.”
Oh.
Ho pagato l’iscrizione, sono al terzo anno di dottorato con bacio accademico e pacca sul culo, ma ancora non ho notizie dalla segreteria. L’iscrizione deve essere finalizzata per il prestito.
Telefono.
Le segretarie sono in vacanza.
Agosto
Mancano poche settimane ormai, e io non ho il testo originale di riferimento in bibliografia. Scrivo email alla segreteria. Niente. Telefono. Niente.
All’ennesimo tentativo mi risponde una voce stanca da cui tutta la gioia di vivere è stata estirpata con pinzette da unghie e cauterio. Deve essere la segretaria.
-Salve, sono Tizia Caia che ha fatto l’iscrizione il mese scorso. Volevo sapere se era tutto in ordine e se andava tutto bene.
-Niente è in ordine e la vita fa schifo.
-Oh.
-Ci hanno installato un nuovo programma per registrare le iscrizioni. Ora non riesco nemmeno ad accedere a gmail e il computer sta vomitando poltiglia verde dai buchi di ventilazione.
-Ok.
-Qualcuno ha usato il cavo della mia tastiera per impiccarsi. Non posso più scrivere.
-Er… per quando pensate che sarà finalizzata la mia iscrizione?
-Non so, le passo la mia collega Mirri Maz Duur, glielo saprà dire lei.
Si, vabé, ho capito, niente Engyōbon.
Intanto mi arriva il programma per ottobre. Sono tutti professoroni luminari geni del settore con ventordici pubblicazioni all’attivo.
Io non sono nemmeno diplomata e finora ho pubblicato solo articoli zeppi di toscanismi e profanità gratuite, Dio Prete!
Plus, non so davvero come si interviene a un Convegno. Ne ho visti parecchi, ma essendo lungimirante come un lemming sul ciglio di una scogliera non ho mai posto mente locale al modo in cui le informazioni sono condensate, presentate e selezionate. Per citare il comandante Sherman, per me un convegno è come lo spogliarello: non indago come lo fanno ma mi godo il risultato.
Comincio a rendermi conto per benino a che punto sono impreparata. Comincio a rendermi conto che il mio lavoro non sarà perfetto perché non può esserlo. E’ impossibile.
Per fortuna c’è sempre il whisky.
Settembre
E’ difficile concentrarsi. Sarà la fatica, o sarà il senso di Armageddon incombente. Passo il mio tempo a disegnare mappe, scrivere il mio intervento, migliorare la mia bibliografia, che resta comunque incompleta.
Mio padre mi manda un articolo sulla salute mentale degli universitari. Tra i dottorandi, uno su tre soffre di depressione cronica. Ma dai!
La triste verità è che ho sbagliato ad accanirmi sugli studi. Sarebbe stato molto più salubre diventare spogliarellista: paga migliore, più attività fisica, niente gobba leopardiana…
Ottobre.
Il giorno del convegno si avvicina. Cerco di rilassarmi. Ho fatto il meglio che potevo fare, non sarà una roba da strapparsi le mutande dall’entusiasmo ma la mia direttrice dice che è ok. Devo solo sedermi, tirare il fiato e profittare dell’occasione. Magari non sarà tremendo come penso.
Cominciano ad arrivare mail di conoscenti.
“Oh, ma parli al Super Convegno? Figata!”
Non ho detto a nessuno di questo convegno, come hanno fatto a saperlo?
“Ovvìa ciccia, come sarebbe “come”? E’ un convegno super-importante, sta arrivando gente da mezzo mondo per assistervi!”
Voglio morire.
Mi scrive anche Amico di Gioventù. Amico di Gioventù parla giapponese molto meglio di me, è un accademico straordinario, insegna già pur essendo più giovane, è stato in Giappone non so quante volte, suona il pianoforte come Dinu Lipatti, pratica tre o quattro arti marziali… Insomma, è il tizio con cui chiacchiero quando voglio ispirazione o quando voglio sentirmi una scimmia appena cascata dall’albero.
“Ah, ho visto che parli al Superconvegno,.- Mi scirve -Ma è una cosa straordinaria bellissima supersonica, devi essere davvero un genio, come hai fatto a farti prendere?”
Il giorno del convegno mi alzo alle 5 di mattina dopo aver dormito 30 minuti interi.
Mi preparo, mi vesto. Di solito il mio stile di abbigliamento spazia da “Carrista sovietico” a “Profugo siriano”.
Per questo convegno ho chiesto una consulenza fashion a un’amica accademica. Roba tipo outfit montage dei film anni ’80, solo con più alcol e lei che urla insulti in fiorentino.
Ho tutto: il vestito, la maglia, ho anche comprato dei collant nuovi nuovi.
Mentre mi travesto da Congressista, il gatto (long story…) entra in bagno. Vede le mie gambe inguainate in nuovissima fibra acrilica.
“Oh, che belle calze, sono per me? Come “no”? Tutto è per me!”
Mi artiglia una coscia.
Rrrrrrip
Butto via i collant. In fondo a un cassetto trovo delle autoreggenti col pizzo. Stanno nel cassetto da una decina d’anni ormai, ci sta che smettano di autoreggersi in mezzo alla strada. Per sicurezza metto un rotolo di scotch biadesivo nella borsa. Era davvero meglio diventare spogliarellista. Invece no, devo travestirmi da pornoprofessoressa a gratis. Alé!
Arrivo in anticipo. Paris Diderot è in una ex-fabbrica. L’istituto ha una allure deliziosamente dickensiana, ed è un labirinto terrificante. Se un disgraziato imbocca la scala sbagliata, rischia di ritrovarsi in un disegno di Escher. Una volta mi sono persa, ho chiesto informazioni e mi hanno spiegato qualcosa del tipo “questo non è il terzo piano, è il quarto piano, il terzo piano è al piano di sopra, a meno che tu non prenda la scala laggiù, perché allora il terzo piano è un lama con un rastrello”.
All’invito al convegno hanno allegato una mappa. “Dieci passi lungo il corridoio, poi volta in direzione est-sud-est per 245 cm, al ricercatore morto di inedia svolta a destra e rispondi all’indovinello del Troll…”
Pare che le matricole leghino un capo di filo alla fontanella in cortile prima di aventurarsi nell’istituto con un gomitolo
Subito prima che il convegno inizi, incontro uno dei miei vecchi professori. Si congratula per il badge che porto sul petto.
-In che lingua sarà il suo intervento?
Fiuto il trappolone, ma non posso evitarlo.
-Hum… Inglese.
I suoi occhi luccicano di patrio e gallico furore.
-Ah.- Di botto fa diaccio nella stanza. -E come mai non in francese?
-Er… perché tutti i partecipanti capiscono l’inglese e solo i francesi capiscono il francese.
Mentre spiego mi rendo conto della falla del mio ragionamento. Per certi versi professori invitati capiranno quello che sto dicendo. D’altra parte occristo i professori invitati capiranno quello che sto dicendo.
Intanto il mio professore è occupato a deprecare il fatto che, Giuda infame, i francofoni fanno conferenze nella lingua della Perfida Albione.
A chiosa, il tizio è quello che mi diede come voto “un po’ meno di awesome” in master. La cosa mi abbassò leggermente la media e persi la menzione massima perché hey, ti manca quello 0,2 che fa tutta la differenza!
Sì, il sistema francese è molto diverso da quello italiano. E’ un incubo e ritengo che sia in buona parte responsabile del volume di alcol che ormai necessito per funzionare.
La giornata si svolge bene. Gli invitati sono tutta gente notevole, pilastri della ricerca. Io invece mi sento come un pandino al raduno dei T-34.
Il pubblico non è nutritissimo, ma è vero che viene da mezzo mondo. Ci sono italiani, tedeschi, giapponesi… A tratti mi chiedo perché una cosa come lo Heike monogatari attiri così pochi giovani o spettatori. Voglio dire, boiacane, è una roba spettacolare! Accozza scene di combattimento tamarre stile Terminator VS Robocop, con momenti di atroce realismo e tragedia. Com’è possibile che ci siano solo specialisti a sentire?
Quando sarò professoressa troverò il modo di rendere la faccenda più fruibile. Dei pestaggi di intermezzo, magari.
E poi niente, è il mio turno.
Sono l’ultima della giornata. Sono sveglia da 48 ore e non ho mangiato un cazzo di niente perché bon, quando sono terrorizzata non ho molto appetito. Arrivo col mio Powerpoint.
“Salve, sono Tizia Caia e sono una cazzo di matricola.”
Alla fine è andata OK. I professori sono stati molto gentili e mi hanno congratulata con un pat-pat sulla testolina. Poteva andare peggio.
Ho avuto anche occasione di chiacchierare con dei luminari, un privilegio che valeva assolutamente la sofferenza e le notti insonni e le bottiglie vuote accatastate accanto alla porta.
Sono contenta del convegno?
Non saprei. Non sono scontenta, ma ho difficoltà a essere contenta di me in generale. Il primo riflesso, ogni volta che concludo qualcosa, è osservare il prodotto e ponderare su quanto sia una merda. Tutto eh. Un intervento? Mediocre e banale. Un articolo? Superficiale e stupido. Una cena con gli amici? Domani saranno tutti all’ospedale.
Eh pazienza, a ognuno la propria perversione mentale.
E’ un riflesso molto comune nell’ambiente, per quel che posso vedere. Ogni tanto ci troviamo tra dottorandi, tiriamo giù litri di birra e discutiamo di quanto amiamo ciò che facciamo e di quanto odiamo ciò che facciamo. La cosa peggiore è che non farei niente altro. Alla fine quello che vuoi è essere all’altezza del campo che hai scelto, come la ragazzina complessata che soffre per le corna ma si sente in colpa perché “se cerca altre è colpa mia”.
Il punto è: questo tipo di percorso non è per tutti, soprattutto per quel che riguarda le Scienze Umanistiche. Non è riposante, non è redditizio manco per il cazzo e non è salutare. Quando sento gente dire “non sono proprio sicuro di voler fare l’università, ma i miei ci tengono tanto”, o ancora peggio “non so se fare la specialistica oppure no”, mi viene da tirar madonne con la frombola.
Non spingete in un’università qualcuno che non se la sente o che non è convinto: perderà minimo 3 anni di vita quando avrebbe potuto imparare un mestiere serio, tipo l’idraulico.
E in secondo luogo, non imbarcatevi in una specialistica se non siete stupidamente innamorati degli studi.
Per lo meno è la mia personale esperienza. Io so che non rimpiangerò gli studi, perché mi piacciono davvero tantissimo e non c’è niente altro (almeno a questo stadio) che vorrei o potrei fare. Quando sarò al rifugio degli indigenti, potrò consolarmi pensando che ho fatto ciò che amavo finché ho potuto.
Figurasse trovarsi al barbonotrofio e pensare “eh, e a me Lettere faceva pure schifo”.
In conclusione, questo è stato il mio grande debutto nella società accademica. Ho imparato un sacco di cose e ho potuto confrontarmi con gente davvero di calibro, che poi è l’essenziale.
Posso far meglio, e farò meglio.
E un giorno magari sarò capace di leggere un intervento senza battere i denti.
Nel frattempo, cheers!