Sangue del mio sangue: necromanzia, femminismo, cannibalismo e altre blasfemie

Evangeline Wrayburn è un’archeologa necromante. In un mondo dove la necromanzia è stata elevata a scienza, Evangeline usa mummie e cadaveri rianimati per dissotterrare tombe e vestigia. Il suo sogno più grande è diventare un’archeologa di chiara fama, di dirigere uno scavo tutto suo.

E’ competente, è intelligente, è audace, ma ha un problema.

Ha le tette (poche, ma ci sono).

Evangeline vive in una società vittoriana dove avere le mestruazioni basta a squalificare un ricercatore. Evangeline però non si arrende. Nella sua sempiterna lotta impari contro il Soffitto di Cristallo, le capita finalmente l’occasione della vita: un posto sullo scavo di una colossale piramide sotterranea, la tomba monumentale di Orrhane il Macilento, re necromante sepolto con la sua sposa bambina, gli schiavi e centinaia di migliaia di soldati non morti.

Il sito si trova in un deserto infestato da tribù ostili e al confine tra paesi nemici. La missione archeologica ha poco tempo per scoprire tutti i segreti del re necromante prima che il paese vicino li scopra e attacchi per papparsi il ritrovamento.

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Sangue del mio sangue è il secondo romanzo di Menconi che leggo. Come avevo già segnalato in questo articolo, Abaddon mi era piaciuto molto. In questo caso Menconi dichiara di aver voluto scrivere una protagonista femminista. Vi pare che una Feminazi Lesboislamica Rettiliana come la sottoscritta poteva farselo sfuggire?

Ovviamente no.

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L’ambientazione

Menconi ambienta la storia in una società di stampo vittoriano dove la necromanzia è un’attività sviluppata e diffusa. La società è organizzata di conseguenza, con mummie usate come manodopera a basso consumo, teste volanti come animaletti domestici, un’estetica legata alla morte e alla rianimazione, ecc. Il risultato è un insieme ben bilanciato di elementi familiari e bizzarria macabra.

Come accennato nell’articolo precedente, la tecnica di Menconi è ottima. Nonostante l’ambientazione sia aliena alla nostra, dettagli concreti sono inseriti nel testo senza spiegoni: il quadro generale emerge in modo spontaneo e naturale attraverso il punto di vista della protagonista. Il dettaglio dà sostanza al mondo, e la coerenza interna favorisce la sospensione volontaria dell’incredulità.

La professione di Evangeline permette peraltro di dotare il mondo del romanzo di una Storia e di una mitologia. Nonostante la stranezza, alla fine del romanzo abbiamo l’impressione di conoscere relativamente bene questo universo. L’idea di una piramide rovesciata sotterranea può apparire bizzarra d’acchito, ma diventa presto familiare.

La narrazione permette anche di apprezzare le storture della società descritta: come accennato, si tratta di una società patriarcale estremamente sessista, ma anche razzista e omofoba, come è normale aspettarsi dal contesto.

L’attenzione a dettagli di questo tipo e la nonchalance con cui i personaggi internalizzano questi elementi danno rotondità e verosimiglianza all’ambientazione.

1941

I negri viaggiano dietro!
(Citazione cinematografica per intenditori)

A tratti risalta fuori lo stile “videoludico”, come in Abaddon. Ad esempio, quando gli archeologi si trovano a dover superare un passaggio sorvegliato da dei mostri immortali. Evangeline riesce a trovare la combinazione necessaria a passare, e dopo aver “sbloccato” il passaggio la questione non si pone mai più, nonostante il pericolo resti e il trucco per passare richieda costante lavoro da parte di comprimari (e sia quindi vulnerabile all’errore umano).

Nell’insieme però questo tipo di ispirazione è molto meno presente che in Abaddon.

La storia

Evangeline è un’archeologa che usa la necromanzia (e quindi il controllo sulle mummie) nei propri scavi. Nonostante sia molto brava in ciò che fa, la sua carriera non riesce mai a decollare. Un po’ perché l’ambiente è difficile, un po’ perché nessuno la prende sul serio come donna archeologa.

Ho apprezzato moltissimo il modo in cui Menconi descrive le peripezie della protagonista e il muro di gomma su cui la nostra rimbalza in continuazione.

Nonostante Evangeline sia una lavoratrice indefessa e un’eccellente professionista, non riesce a sfuggire all’immagine che il mondo ha di lei: emotiva, debole, incompetente, vittima della propria natura.

La nostra si trova a giostrare conflitto da ogni lato: la famiglia non la sostiene, la professione è difficile, è indebitata fino agli occhi, lo scavo è in una zona pericolosa e le tensioni diplomatiche potrebbero risultare in una guerra da un giorno a quell’altro. In più, quasi nessuno la prende sul serio. A ogni occasione, Evangelina è sorpassata da gente meno competente, o lasciata da parte in barba alle regole.

Nonostante i continui ostacoli, la nostra riesce a imporsi nello scavo della gigantesca piramide sotterranea del re necromante Orrhane il Macilento, un tiranno pazzoide con una sposa bambina e una fine misteriosa.

Evangeline è attorniata da una variegata compagine di personaggi, soprattutto uomini. Uno scrittore pigro li avrebbe resi tutti tronfi incompetenti per far risaltare il genio ribelle della protagonista. Non con Menconi. Comprimari e antagonisti sono vari e memorabili, e le interazioni con Evangeline sono verosimili e credibili. C’è chi è misogino perché rozzo e ottuso, chi ha pregiudizi più o meno coscienti, chi antagonizza la protagonista per ambizione, chi per preconcetto bigotto, chi per motivi personali.

La prosa e la storia non si prendono troppo sul serio: Sangue del mio sangue vuole essere un racconto macabro e divertente, oltre che un romanzo di avventura. A tratti descrizioni e situazioni sfumano nel caricaturale e nel grottesco, con un tono molto più leggero e ironico rispetto ad Abaddon.

Verso l’ultimo terzo del libro, si sviluppa un interessante parallelismo tra Orrhane e Evangeline, e un interessante chiasmo. Orrhane è all’apice del potere, un re, un necromante con potere sulla vita e sulla morte. Evangeline non ha potere su niente, e anche la poca autorità che ufficialmente detiene le viene a stento riconosciuta.

Entrambi però sono ossessionati dall’immortalità. Orrhane non vuole morire, non vuole cessare di esistere. Evangeline vuole diventare una famosa archeologa, vuole essere conosciuta e riconosciuta.

Entrambi sono determinati, entrambi hanno pochi scrupoli. Orrhane praticava sacrifici umani, era pronto a consumare il sangue del suo sangue per ottenere ciò che voleva. E presto Evangeline si trova a dover compiere una simile scelta.

La vicenda nel suo insieme scorre bene e senza intoppi: non ci sono contraddizioni e buchi di trama.

Però c’è un punto che a parer mio pone problema. Non si tratta di un buco di trama, quanto di una dissolvenza molto conveniente.

Quando Evangeline decide di liberare Orrhane, il necromante è chiuso in una gabbia in una tenda sorvegliata da soldati cirani.

Evangeline entra senza problemi (cosa credibile nel contesto) e ravviva lo stregone.

Nella scena dopo, lo ha riportato nella piramide.

Come?

La gabbia sarà stata chiusa a chiave. Dove a preso la chiave?

E come lo ha tirato fuori dalla tenda? Orrhane è un albino, non proprio qualcuno che si mimetizza. Ma diciamo che l’ha nascosto in un cesto del bucato, di nuovo, come? C’erano cesti del bucato in giro?

I cirani di guardia non si sono insospettiti? Sono stati messi a guardia di un esemplare unico in uno scavo di importanza nazionale!

Insomma, ci sta che non abbia capito io, ma si tratta di un passaggio importante della trama e secondo me sarebbe stato necessario elaborare in qualche modo.

La protagonista

Al di là dell’ambientazione e della storia, il personaggio di Evangeline è, secondo me, uno dei punti di forza del libro.

Menconi dice di aver voluto scrivere un personaggio femminista. Non so quali siano le idee politiche del Menconi o cosa ne pensi delle femministe, ma a mio modesto parere il risultato è molto interessante.

Evangeline è un buon personaggio. E’ strutturato bene, è ricco, è simpatico.

Evangeline è una gran lavoratrice, è audace, è determinata, ed è competente nel suo campo. Per chi ha letto la mia OpinioneImperdibileTM su Star Wars 7, sa che ho un dente avvelenato per i personaggi femminili scritti a cazzo.

Rey è scritta a cazzo. Rey è bellissima nonostante il suo stile di vita. Rey è capace di pilotare il Millennium Falcon nonostante non ci abbia mai messo piede prima. Rey è capace di usare la forza contro un allievo sith nonostante non abbia avuto nessun addestramento. E così via.

Dov’è la fatica, dove sono i tentativi, dove sono gli sbagli madornali e le musate in terra?

Rey, seppur scritta mille volte meglio, ha lo stesso problema del protagonista di quella puttanata mostruosa di Educazione siberiana: se non c’è difficoltà il risultato non vale nulla, se non c’è debolezza non c’è forza, se non c’è paura non c’è coraggio.

Con Evangeline vediamo il lavoro, la fatica, la passione, la frustrazione, gli errori. Tutto ci viene mostrato.

Un altro tropismo comune quando qualcuno scrive a cazzo un personaggio femminile Forte e Indipendente è di renderlo anaffettivo e in generale acido e antipatico. Insomma, per evitare il cliché della ragazzina romantica, scriviamola come una sociopatica arrogante e sferzante.

Questo non è un problema legato solo ai personaggi femminili: il personaggio genio e arrogante strafottente è purtroppo un cancro diffuso. Nella realtà dei fatti, più uno conosce il proprio campo più è cosciente dei propri limiti e sarà quindi meno incline a tirarsela. Ma sto divagando.

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Pratchett ha una vasta gamma di eccellenti personaggi femminili

Evangeline è un personaggio senza troppi scrupoli, pronto a manipolare e mentire per arrivare dove vuole, ma è anche una persona responsabile ed empatica. Vuole sinceramente bene ai suoi Marmaduke e Fester, vuole bene ai genitori ed è ferita dal loro rifiuto, si assume la responsabilità di proteggere i propri sottoposti. La sua sete di gloria la spinge a fare o considerare azioni anche drastiche, ma resta una brava persona.

E’ ambiziosa, ed è pronta a mettere a repentaglio la vita altrui, ma non costringe il prossimo a prendere rischi che non prenderebbe lei per prima.

E’ anche un personaggio ben ancorato nel proprio contesto. Evangeline è spesso esasperata dal sessismo pervasivo della società perché ciò ha un impatto diretto su di lei. Allo stesso tempo ha interiorizzato del tutto il razzismo e l’omofobia. E’ verosimile: molte persone hanno difficoltà a tener conto di ciò che non ha un impatto diretto sulla loro pellaccia. E’ la ragione per cui la narrativa è importante: riuscendo a far immergere il lettore nei panni di qualcun altro (il personaggio) puoi offrire un punto di vista nuovo che la persona non avrebbe mai preso in considerazione prima. Perché una persona si interessi di un problema occorre stabilire una connessione a livello emotivo, non solo intellettuale.

Il Menconi scansa anche uno dei cliché che personalmente odio di più in assoluto in tutto l’universo narrativo di tutta la Storia della Letteratura: Madame Bovary.

Vi avevo accennato nel mio rant su Interstellar. Non ci sono davvero parole nel vocabolario per descrivere a che punto odio e disprezzo il cliché della donna vittima del proprio lato emotivo. La donna che sì, magari è anche competente, intelligente, forte, quel che cacchio vi pare, ma è sentimentale, ma si innamora, e l’amore romantico diventa il suo unico movente.

Non una qualsiasi forma di amore, no eh. Amore romantico. Perché ogni donna aspetta il suo Principe Azzurro, la sua vita gira intorno a quello!

A mio modesto parere questo tipo di storia fa dei danni.

Sia chiaro: mi rendo conto che l’amore romantico fa parte dell’esperienza di molti. Non c’è niente di male di per sé nelle storie con amore romantico. Quello che odio è quest’idea che un personaggio femminile non può essere davvero completo senza un uomo al suo fianco. Che se non sperimenti quel tipo di amore allora non sei davvero una persona a tutto tondo, non hai vissuto appieno.

Spesso, se il personaggio femminile non è incline al romanticismo, è per via di chissà quali traumi strappalacrime. Perché, in realtà, sotto la sua scorza di donna forte e competente c’è sempre e comunque un povero piccolo coniglietto spaventato che vuole solo essere raccolto e amato.

Capite, non è diventata ingegnere aerospaziale perché le garba fare l’ingegnere aerospaziale, me per riempire il vuoto lasciatole nel cuoricino dal babbo defunto, o qualche altra trovata del genere.

E’ una roba fin troppo pervasiva e che a parer mio ha contribuito non poco a rendere infelici un sacco di persone. E’ una formula diseducativa e dannosa.

Non è il caso di Evangeline. Certo, Evangeline incassa molto trauma, anche affettivo, ma è una donna indipendente, autosufficiente e competente, una donna davvero indipendente, autosufficiente e competente.

C’è della tensione sessuale nella storia, e viene trattata per quello che è: semplice attrazione sessuale. Ed è così rinfrescante da vedere. Evangeline è cosciente di ciò che prova, non ci sono storie romantiche, non ne ha bisogno, è un personaggio già completo che fa il suo arco, impara la sua lezione e supera i propri difetti. E per una volta tanto il suo difetto non è “ti manca il fidanzatino”.

Come accennato prima, uno scrittore sciatto avrebbe fatto risaltare la tostaggine indipendente della protagonista mettendola in mezzo a una folla di uomini maschilisti e stupidi. Loro hanno torto, lei ha ragione.

E’ una paraculata: specie in una società tradizionalmente maschilista, una misoginia più o meno interiorizzata non è appannaggio solo degli stupidi né solo degli uomini.

Nel libro di Menconi gli uomini che circondano Evangeline sono variegati e ben costruiti. Spesso sono competenti e capaci: non la prendono sul serio per via di un pregiudizio dato per scontato. Evangeline, dal canto suo, abituata a non essere mai presa sul serio, finisce per comportarsi allo stesso modo: non sta a sentire perché loro non stanno a sentire, finisce per isolarsi e entrare nella stessa logica arrivista di chi le frega le idee senza darle credito. Così facendo, gli altri archeologi fanno casino, ma anche lei combina casino. I personaggi devono mettere da parte le loro posizioni e riconoscere l’umanità e le capacità l’uno dell’altro per poter lavorare insieme e progredire.

L’ambizione è una caratteristica importante di Evangeline, specie quando si trova davanti all’annosa domanda: cosa sei disposto a sacrificare per ottenere ciò che vuoi?

Spesso in questi casi l’ambizione viene trattata come il difetto: il problema della tizia è che è ambiziosa,vuole diventare famosa e questo di per sé è sbagliato. Deve solo rendersi conto che l’amore è più importante, rinunciare alla sua ossessione e gettarsi tra le braccia del Principe Filippo di turno. Ah, quanta sofferenza evitata se solo si fosse subito resa conto di cosa era più importante!

Non è il caso con Menconi. Nella storia il problema non è l’ambizione, ma l’eccesso, l’ossessione. Per usare le parole del libro:

La vita eterna non ha alcun valore se sei un mostro con la mente annebbiata

Occorre un equilibrio sul prezzo che si paga e cosa si acquista.

Non è una condanna dell’ambizione, né una celebrazione superomistica del personaggio pronto a tutto, ma una presa di posizione molto più equilibrata e sfumata.

Perché abbiamo bisogno di più storie così
Come ho detto in altri articoli in passato, la gente non vive “nel mondo”, vive in un’idea che ha di mondo.

Tale idea non è costituita da oggettivi studi scientifici, ma da storie.

Sì, magari sul Riscaldamento Climatico ti sei fatta un’idea leggendo la stampa specializzata, ma per il resto ti basi soprattutto su storie e favole. Se senti sempre raccontare fatterelli di ebrei che rubano, darai per scontato che gli ebrei rubano senza nemmeno pensarci troppo, e magari un giorno ti chiederai da dove veniva quell’idea senza riuscire a trovare una risposta esatta.

Se fin da bambina ti raccontano storie dove il lieto fine è un matrimonio e tanti bambini, si innesterà il preconcetto che lo scopo vero alla fine è maritarsi e sgravare pargoli per la Patria.

Se lo stupro in prigione viene sempre presentato come una cosa buffa, gli uomini che ne sono vittime saranno derisi invece che aiutati. La prima reazione sarà una risata. Non perché hai attentamente ponderato la cosa e deciso che gli uomini meritano lo stupro, ma perché da sempre il soggetto ti viene presentato come una battuta buffissima.

Lo abbiamo visto con i personaggi omosessuali: da inesistenti, a antagonisti pervertiti, a macchiette buffe che pensano solo a scopare, e finalmente negli ultimi anni si sta arrivando ad avere personaggi scritti meglio. L’opinione pubblica sugli omosessuali è evoluta di conseguenza: oggi la maggioranza degli europei ritiene che debbano avere gli stessi diritti degli altri mentre negli anni ’80 potevano crepare tutti di AIDS e se lo sarebbero meritato.

In altre parole, per evitare di avere una visione stereotipata e povera della realtà, occorre una narrativa che non sia stereotipata e povera.

La narrativa buona ha la capacità di parlare con la nostra parte emotiva, con il nocciolo più primitivo della nostra persona. Non per forza uno cambia le proprie idee dopo un libro o un film, ma uno può acquisire un punto di vista nuovo. Empatizzando con un personaggio posso capirlo e posso arricchire l’immagine che ho del mondo.

Abbiamo bisogno di personaggi originali, che rompano i clichés. Abbiamo bisogno di personaggi variegati e differenti, di personaggi complessi.

Per anni le donne sono state ritratte come principesse in pericolo. Quando questo cliché ha stancato, abbiamo provato il contrario: maschiacci diverse dalle “altre” (cretinette interessate solo alla moda), capaci di tutto in barba alla logica. La nuova formula non era meno misogina della prima, purtroppo, perché era altrettanto piatta e stereotipata.

Personaggi tridimensionali e variati non sono solo belli da leggere: sono positivi in generale. Un romanzo zeppo di clichés, di per sé e preso da solo, non è un problema, è banale e basta. Un romanzo capace di originalità, di per sé e preso da solo, è utile al progresso.

Concludiamo coi Grumpies!

La storia

Good_Grumpy

L’ambientazione fantasiosa

Good_Grumpy

La protagonista

Good_Grumpy

Una dissolvenza troppo conveniente

Bad_grumpy

La mitologia

Good_Grumpy

I comprimari

Good_Grumpy

I dettagli bizzarro-macabri

Good_Grumpy

Sangue del mio sangue si trova su Amazon. Anche senza tutte le mie menate sull’importanza della narrativa per la società, la storia è divertente, il personaggio ben costruito e il Menconi scrive bene. Datci un’occhio.

MUSICA!

Soldati a Vapore

E’ il 1848 e il Regio Esercito combatte la Prima Guerra di Indipendenza contro gli infami oppressori austroungarici.

Il Risorgimento è un capitolo estremamente importante della Storia Italiana. In casa mia in particolare nessun infante scampa alle storie, agli aneddoti, alle dotte discussioni su Elena Casati Sacchi.

La ragione principale è che un certo numero di antenati ci sputtanarono un casino di quattrini dietro a Garibaldi e Mazzini, e in mancanza di cospicuo patrimonio di famiglia uno si consola con l’orgoglio.

Ad ogni modo è innegabilmente un momento storico che ben si presta a storie di avventura. C’è l’idealismo politico, l’intrigo, la guerra…

Come rendere il tutto un pizzico più meglio?

Con robottoni giganti, ovviamente!

Soldati a Vapore è un romanzo di Diego Ferrara.

Full disclosure: fui betareader per il romanzo. Ai tempi mi piacque molto, e da quando ho aperto il blog (circa un anno dopo la pubblicazione) ho sempre avuto voglia di parlarne. Le cose però si sono affastellate e solo di recente ho avuto il tempo di rileggerlo.

Avevo già nominato Diego Ferrara quando ho parlato di Piloti e nobiltà, edito da Vaporteppa. Come ricorderete, la storia mi era piaciuta. E’ divertente, interessante e con un numero sufficiente di elementi bizzarri.

Soldati a Vapore è un progetto più ambizioso: si tratta di un romanzo ucronico steampunk che ripropone un tema classico dell’epica nazionale ma arricchito con mec e cingolati giganti, che fanno sempre piacere.

Il romanzo comincia con una nota dal diario del protagonista, Giuseppe Basile, nel giugno del 1848.

Nel brano, il soldato Basile racconta dell’Elmo Potorio, una sorta di rituale cannibalistico in cui un austriaco viene vivisezionato e il suo cervello usato come ingrediente in un beverone che sarà poi condiviso da tutti i membri del gruppo.

L’introduzione stabilisce il tono goliardico della voce narrante, e nell’insieme il libro riesce a trovare un buon equilibrio tra la caricatura e la storia d’azione.

Giuseppe Basile è soldato nella compagnia meccanizata dei Pulcini Sanguinari. I nostri pilotano i Manzetti, robottoni bipedi a vapore armati di lanciafiamme.

Interpretazione di Manzetti

Sul lato austriaco, il nemico naturale del Manzetti è il Kreb, un mec dotato di calotta in vetro rinforzato e due tentacoli muniti di tenaglia.

Sia chiaro, l’ucronia del Ferrara non vuole essere un “what if” verosimile né hard sci-fi: sia il Manzetti che il Kreb che l’intera faccenda non sono realistici né fingono di esserlo. Soldati a Vapore necessita una buona Sospensione Volontaria dell’Incredulità. Nel contesto del libro, però, le macchine sono narrativamente ben pensate e ben descritte.

E con “ben descritte” intendo ritratte in azione e senza spiegoni: sono mostrate senza essere raccontate. A differenza di certi Nomi Noti della narrativa italiana, il Ferrara è abbastanza sgamato dal non scivolare in ridicoli sotterfugi come sbrodolamenti a caso o dialoghi forzatissimi dove due personaggi che conoscono già l’argomento decidono di descriverselo a vicenda per il beneficio del lettore.

“Buongiorno Basile, il tuo Manzetti a vapore sembra in buono stato!”
“Invero lo è, sia nelle due braccia che nei due piedi. Sapevi che ha un lanciafiamme?”
“Perdincibacco sì! Lascia che ti riassuma come si usa!”

Ecco, niente del genere.

Manzetti e Krebs non sono le uniche mostruosità meccaniche presenti nella storia. Insomma, la tecnologia può essere poco verosimile in assoluto, ma all’interno del libro è trattata in modo coerente e dettagliato.

Questo, che di per sé è un pregio, ha le sue conseguenze. Ma andiamo con ordine.

Jakub Rozalski dimostra come i robot giganti migliorano qualsiasi immagine

Stazionato sul Mincio, il protagonista Giuseppe Basile è un pilota di Manzetti. Non ci appare particolarmente intriso di spirito patriottico risorgimentale, ma non è nemmeno un cinico disincantato. Basile combatte la sua guerra onestamente, senza esporsi troppo ma senza fare il paraculo.

Il personaggio è ben costruito. Basile è una brava persona, non un pazzoide sanguinario. Allo stesso tempo non prova empatia per il nemico e compie con totale nonchalance azioni atroci, come bruciare vivo un pilota di Kreb intrappolato, o schiacciare un ferito sotto i piedoni del mec.

Questi non sono gli unici passaggi di violenza grafica del libro: in più punti c’è gente cotta al vapore, schiacciata, mitragliata e quant’altro.

Spesso però tali scene non sembrano truculente come dovrebbero, sembrano quasi normali. E questo perché, per Basile, lo sono. Il personaggio è ormai abituato a quel livello di brutalità e racconta le proprie disavventure con uno spiccato tono autoironico.

Ma veniamo alla trama!

Il nostro Basile si sta facendo la sua brava guerra in santa pace, quando un bel giorno lui e i suoi si vedono affibbiare una missione notturna: devono attaccare un convoglio austriaco di camion carichi di reclute e rifornimenti.

La missione si preannuncia facile e la scorta al convoglio minima.

Ovviamente la scorta non è minima e la missione non è facile. Basile riesce a stento a riportare le penne al campo, dove ha un’altra brutta sorpresa: dal convoglio è stato ritirato un pezzo meccanico per un robottone austriaco.

Problema: il pezzo meccanico in questione è quattro volte più grosso e complesso di quello che è ragionevole aspettarsi. Gli austriaci stanno architettando qualcosa, qualcosa di grosso.

E così il nostro e i suoi compagni si trovano a dover attraversare le linee nemiche per trovare questo fantomatico mostro meccanizzato e demolirlo. Il nome in codice dell’ordigno: Crio.

Titanomachia, dal pennello di Joachim Anthonisz Wtewael (1566-1638)
Crio è uno della banda

Non voglio raccontare troppo di questo libro: è un romanzo che si legge alla svelta e sarebbe sciocco spoilerarlo.

Lo stile di Ferrara è scorrevole e divertente. Il punto di vista è ancorato nella testa del protagonista, che è un narratore a cui è facile affezionarsi.

Anche la tecnologia bizzarra è ben gestita. Questo però, come accennavo più su, ha conseguenze. In particolare, il “sapore” ottocentesco dell’ambientazione ne patisce.

In parte questo è inevitabile: nel 1848 buona parte delle armi leggere erano ancora ad avancarica, mentre il Ferrara descrive mitragliatrici e lanciafiamme, roba che starebbe molto meglio su un campo di battaglia del 1916, vapore o non vapore.

A parte il fronte sul Mincio e pochi altri elementi, è facile dimenticarsi che la vicenda si ambienta in un 1848 alternativo. Se spostassimo la faccenda duecento chilometri più in là, potremmo parlare di una versione steampunk di una delle trentordici battaglie sull’Isonzo, e la vicenda resterebbe più o meno immutata.

Questo non pone davvero problema a livello narrativo: la storia fila bene, i personaggi sono interessanti, la tecnologia a vapore è divertente.

Però sa un po’ di occasione persa. Forse con un’ambientazione più approfondita o dettagliata, si sarebbe potuto rendere in toni più vivi l’ottocento alternativo in cui avvengono i fatti.

Non si tratta però di un difetto vero e proprio, e quando lo lessi la prima volta manco ci feci caso. A distanza di cinque anni mi dico “avrei preferito”, ma non costituisce un problema strutturale.

In conclusione

Idea originale

I robottoni a vapore

La voce narrante

La grande battaglia contro Crio

L’elmo potorio

Soldati a Vapore è un romanzo divertente e scorrevole. Forse lo stile del Ferrara non ricalca del tutto la Tecnica Aurea propugnata dal Duca di Baionette, ma ha un buon ritmo e il tono sarcastico del protagonista lo rende una lettura gradevole.

Non è per tutti: i mec non sono spiegati, la scienza dietro questi trabiccoli non è esplorata e chi vuol fargli le pulci potrà probabilmente trovare diversi aspetti tecnici che non quadrano. Ciò detto, il romanzo non pretende di essere The Martian. E’ una storia di guerra con robottoni a vapore che si prendono a cazzotti. E in quanto tale è fatta bene.

Non è per puristi della hard sci-fi, ma per il resto della popolazione dico: dategli una possibilità!

Lo potete trovare su Amazon qui.

MUSICA!

Come non si fa (2): la Battaglia dei Bastardi (Game of Thrones)

Prima che a qualcuno parta un embolo, lasciate che ve lo dica: a me Game of thrones piace, e l’ultima serie in particolare mi piace pure. Non solo, trovo che mediamente la serie sia migliore dei libri. Ad esempio, sono stata molto grata del fatto che gli sceneggiatori abbiano dato un senso alla gita campestre di Brienne e Pod, o che abbiano scorciato di brutto tutta la menata su quei mongoli a rotelle degli Ironborns.

Oggi però non voglio parlare della storia nel suo insieme, bensì voglio concentrarmi su una scena in particolare, la scena clou dell’ultima serie, la Battaglia dei Bastardi.

Trattandosi di un post puramente tecnico, cercherò di fare meno spoilers possibili, ma qualcuno ci potrebbe sempre scappare. Ergo siete avvisati.

Cominciamo con gli aspetti positivi di questa scena:

-Sul lato visivo, c’è poco da dire. La fotografia è bella, il ritmo è buono, la musica anche. E’ una scena divertente da vedere, a differenza di quell’altra merda stellare in Vikings.

-Certi spunti erano ben trovati. Mi fa piacere che finalmente si comincino a vedere degli sforzi per far apparire le battaglie più verosimili (manovre, trucchi, movimenti coordinati, etc.) e meno burine.

Cosa intendo per “burine”? Intendo quando due gruppi incasinati si corrono addosso a cazzo di cane con musica epica e scatenano un mischione molto virile di gente che mena a caso facendo facce molto maschie e scuotendo le villose barbe. L’ultima battaglia del film del Signore degli Anelli, per intendersi. Le scene così le odio.

Nel caso in esame c’è chiaramente il tentativo di mostrare dei professionisti coordinati, e ciò è bene.

Purtroppo però restano dei problemi.

Partiamo dalla situazione: Gianni Neve deve scannarsi con Ramsay. Ramsay è spalleggiato dagli Umbers e di Karstarks, due delle maggiori case del Nord, e vanta più del doppio degli effettivi rispetto a Gianni.

La notte prima dello scontro, Gianni e Capitan Cipolla convengono che devono indurre Ramsay a inseguirli e scavare trincee laterali per proteggere i fianchi.

Primo problema: scavare una trincea è un lungo lavoro, e un lavoro faticoso. Gianni SA da giorni che la lotta sarà impari, avrebbe dovuto adoperarsi almeno dalla mattina prima a scavare delle difese.

Secondo: le trincee sono, appunto, faticose e lunghe da fare. Probabilmente Gianni e i suoi farebbero prima e meglio a piantare in terra pali appuntiti, o legare legni aguzzi tra loro per creare dei proto-cavalli di frisia. E’ più rapido, il legno non manca, e probabilmente costa molta meno fatica.

Ad ogni modo tutto ciò si risolve in nulla perché troviamo subito il problema numero tre.

Dove sono ‘ste trincee?

Peraltro, visto che il grosso dell’esercito di Gianni è fatto di wildlings, forse sarebbe stato meglio tentare di attirare Ramsay in una zona boscosa, più che non sfidarsi su un pratino più o meno pianeggiante. Questo però non è un difetto stricto sensu, in quanto nessuno dei tizi coinvolti è un tattico collaudato. Plus, esigenze di tempo, e ok.

Veniamo a quello che però è un problema: l’equipaggiamento.

Pochissimi portano l’elmo. E non dico i wildlings, ma anche i cattivi. L’elmo è il pezzo di armatura che qualcuno si procura prima di tutto. Perché in tv la gente deve sempre andare in giro a pera con la capoccia scoperta?

Plus, com’è che nell’esercito di Gianni quasi nessuno porta uno scudo? Uno scudo non è roba particolarmente complicata da fare, è utilissima, e richiede poco o punto metallo.

E parlando di pochissimo sforzo e metallo: qualcuno poteva dare una cazzo di clava al gigante?

E’ una bestia di quindici metri che spacca la gente in due e spappola cavalli a cazzotti, e non serve quasi a nulla! Non ha nemmeno un effetto psicologico sui nemici!

Nel cerchio rosso, il personaggio più sprecato della serie

Ci voleva tanto a tirare giù un abete e metterglielo in mano? E’ come andare in battaglia con un Merkava senza munizioni! Ok, va bene, puoi spiaccicarci qualcuno passandoci sopra coi cingoli, ma non stai davvero approfittando delle potenzialità di questo gioiellino!

Ma torniamo alla tattica.

I nostri sono schierati. Da una parte Gianni, che ha soprattutto fanteria, un po’ di arcieri e un po’ di cavalieri, dall’atra Bolton, che ha il doppio della gente. Entrambi hanno piazzato gli arcieri in prima fila.

Ok, è una scelta difendibile. Io li avrei messi dietro, ma hey, va bene anche così.

Storia a parte, ci troviamo all’inizio con un Gianni Neve da solo, al centro del campo di battaglia, a tiro delle frecce Bolton. Siccome ormai è lì, Gianni decidere di caricare i Boltons da solo.

Ora, vi parrà strano, ma questa scena non mi pare del tutto folle. Gli arcieri Bolton stanno tirando a campana, e Gianni è esposto. Ha due scelte: ritirarsi, o avanzare, dacché le due scelte lo tolgono dalla “fascia bersaglio” dei dardi.

Peraltro, è realistico il fatto che la carica duri poco, ed è verosimile che Gianni riesca a saltare di sella prima di restare incastrato sotto il cavallo.

Il problema in questo frangente non è tanto Gianni, quanto la sua cavalleria.

In primis, prima lo lasciano correre avanti allo scoperto e solo dopo si svegliano “oh cazzo, già, è il comandante, ‘ndiamo a ripigliaccelo!”. Meh.

Quello che però ha di buono questo passaggio è che i cavalieri cavalcano lancia in resta e “lunghi”, con staffe basse, come facevano, con ogni probabilità, i catafratti europei. Un bel dettaglio. Anche contando che, nell’urto della lancia, il cavaliere deve spingere avanti il bacino stendendo le gambe, per scaricare la botta sulle spalle del cavallo e non sui suoi lombi (le zampe anteriori del cavallo sono quelle che portano meglio il peso e le botte).

A sinistra, un fotogramma del film. A destra, miniatura sul romanzo di Yvain o Il cavaliere del leone, Chrétien de Troyes (XIII° secolo). Notare, a destra, i piedi spinti avanti rispetto al centro di gravità del cavaliere.

Tornando a noi, la cavalleria Bolton carica.

Perché?

La cavalleria Snow sta entrando nella portata degli arcieri. A meno che la portata dei tuoi archi non sia 20m scarsi, non sarebbe meglio scompaginarli un po’ prima di buttare le tue truppe d’élite nel gioco?

Nevermind, le due cavallerie si schiantano l’una contro l’altra, e Gianni Neve nel mezzo sblocca la Modalità Eroe e diventa invulnerabile.

No, sul serio, la battaglia è figa e tutto, ma Giovanni Neve che passeggia in giro mentre il resto del mondo lo schiva in automatico proprio non si può vedere. C’è perfino un momento in cui si ferma per diversi secondi di sguardo intenso!

Comunque, mentre Gianni se ne va in giro invulnerabile a cavalli e tizi, i Boltons decidono di tirare altre frecce.

Su un mischione?

Perché?

Ok che Ramsay è tanto kattyvo, ma falciare i propri cavalieri è da fessi e basta!

Un cavaliere è un guerriero d’élite. E’ estremamente costoso, al punto che interi sistemi politico-economici sono stati costruiti attorno ad esso, per rendere possibile il suo addestramento ed equipaggiamento. Basti pensare che in epoca feudale l’indennizzo da versare al signore per la morte di un suo féal era moltiplicato nel caso il tizio fosse stato un guerriero montato.

Non solo: Gianni Neve ha, bene o male, lasciato entrare un putiferio di wildlings. I Boltons avranno bisogno di uomini per dar loro la caccia e controllare il Nord. Perché dovrebbero sterminarsi la cavalleria da soli?

Dico sterminarsi perché, a un certo punto, i cavalli spariscono. Quindi i fatti sono due: o i cavalieri di Gianni e di Ramsay si sono annientati vicendevolmente (nonostante quelli di Ramsay fossero il doppio in numero e, si suppone, meglio nutriti e riposati), o Ramsay è riuscito a spacciare tutti i suoi guerrieri migliori a botte di “esigenza di trama”.

E parlando del campo, questa è la situazione:

Il cavaliere sulla sinistra funge da riferimento: ‘sti mucchi sono alti il doppio di un uomo a cavallo!

Ora, ok che avete tritato mille cavalieri e spicci, ma ‘sti mucchi da dove escono?

I mucchi di cadaveri hanno di solito 2 origini: gente che muore contro un ostacolo architettonico; qualcuno che sposta i cadaveri. Non è la prima, visto che siamo in pianura, e non è la seconda visto che nessuno ha l’agio di farlo.

Ne deduco che sia andata così.

Anyway, Ramsay, tutto felice del fatto che ora l’intero Nord non ha più un solo cavaliere nell’esercito, manda la fanteria: i suoi e gli Umbers, che dovrebbero essere a cavallo ma sono a piedi perché boh, sticazzi.

Gli Umbers caricano e spariscono. No, davvero.

Con Umbers…

Senza Umbers…

Errore di editing, son sicura, ma comunque…

Quando ricompaiono, scalano i mucchi di morti e scendono nella fossa insieme ai wildlings. Buonsenso vorrebbe restassero sulla cresta per ributtare sotto chiunque cerchi di scappare. Ma no, il capoccia degli Umbers deve scendere nel merdaio e ritrovarsi così pigiato che tra lui e Thormund parte un match di testata nel muso.

Frattanto, i fanti dei Boltons accerchiano per benino Gianni e i suoi, che li lasciano fare perché…

Boh. Perché dargli fastidio sarebbe stato scortese.

Accerchiati i dodo, i Boltons iniziano la fiera dello spiedino. E niente da dire qui, la manovra è bella e fatta bene, e visualmente è molto carina. Però, giusto per fiscaleggiare, direi che le lance sono tenute troppo in avanti.

Niente impedirebbe ai wildcosi di agguantarle e sfasciare la linea. Niente a parte la buona creanza, ovviamente.

Devo dire però che la prima linea con la spada è molto caruccia, offre scenette memorabili.

Knock knock… oh shit…

Ho sinceramente apprezzato la parte in cui Gianni Neve viene pesticciato nella merda e nel sangue. E’ realistica e ben fatta. Un po’ lunghetta, magari, e la musica struggente stona con il realismo crudo del momento, ma hey, bella comunque.

Quello che invece mi ha fatto cascare le braccia è l’arrivo dei rinforzi.

Tre osservazioni e poi giuro smetto di scassare le palle:

  • Per arrivare a Winterfell, i cavalieri del Vale devono aver attraversato un territorio molto vasto. Vista la celerità con cui arrivano dopo l’appello di Sansa, si suppone che abbiano usato la King’s Road, che se s’impelagavano per bozzi e grottoni ciao. Insomma, c’è un esercito di diverse centinaia di cavalieri in armi che avanza sulla via maestra, com’è che non c’è stato un solo fesso che li ha visti ed ha avvertito Ramsay?
  • I cavalieri del Vale arrivano a battaglia iniziata (quasi finita) e attaccano subito. Si suppone che siano arrivati in un rush di marce forzate per fare in tempo. I loro cavalli dovrebbero essere esausti, i loro uomini stanchi. Sembra poco probabile che possano passare sopra una fanteria perfettamente organizzata (e notevolmente lenta di reazione! Secondo me Ramsay ha pochi sergenti…) manco fossero una schiacciasassi sui marshmellows. Sarebbe stato meglio, a parer mio, se la vittoria dei rinforzi fosse da attribuire più a un effetto psicologico (panico e fuga della fanteria), ma tant’è…
  • Tanti complimenti a Sansa che prima sfrangia la minchia a Gianni “non hai chiesto il mio parere per i piani di battaglia”, e poi se ne esce “oh sì, avevo 1000 cavalieri di scorta nascosti nel culo, non te l’ho detto perché ci tenevo a farti una sorpresa!”. Se Gianni avesse saputo che i rinforzi stavano per arrivare, forse, forse avrebbe potuto organizzarsi diversamente. E forse quella piaga di tuo fratello Rikon sarebbe ancora in vita. Ma bon, era un personaggio marginale in ogni caso.

 

E poi well, c’è la fine, con Ramsay rimasto praticamente solo dopo aver tirato il suo intero esercito nel tritacarne. Non che non sia mai successo nella Storia, ma bon, m’è parso un pochettino cliché.

E questo è quanto. Sì, la battaglia è uno spasso da guardare! Sì, rispetto alla media delle battaglie in tv è comunque buona. Però ecco… secondo me c’è ancora del margine.

Parlando di clichés, m’importa ‘n cazzo se l’ha già detto in diecimila, ma Lyanna Mormont spakka!

MUSICA!

The Colour of Magic

Come saprete, il 12 di questo mese è venuto a mancare Terry Pratchett. Vi direte che la sto menando. Pace. Se mai uno scrittore ha meritato onori postumi, quello è Pratchett.

Non è ancora detta l’ultima parola però! Alcuni fan hanno lanciato una petizione su Change-org indirizzata al Sg. Morte in persona, perché ci renda il nostro autore preferito. La petizione è online da poco più di 24 ore, si aggira già sulle 20.000 firme.

Inutile, dite voi?

Le probabilità che funzioni sono una su un milione, quindi non si può sbagliare. E chi non coglie la citazione è incoraggiato a leggere la bellissima trilogia della Guardia, nella fattispecie Guards! Guards!.

Suvvia, Sg. Morte, sia ragionevole!

Oggi però non voglio parlare delle guardie.

Oggi voglio parlare del primo grande capitolo.

Era un natale di tanti anni fa quando mi regalarono Il colore della magia. Avevo già avuto Pratchett tra le mani con la traduzione francese di The Carpet People, ovvero Le peuple du tapis, e non lo avevo finito. Avevo una dozzina d’anni e leggere il francese mi stancava.

Il colore della magia mi spalancò un mondo. Era un mazzo rilegato di puro sense of wonder. Trasudava inventiva, fantasia e umorismo. Ho sempre avuto un debole per lo humour inglese, e Pratchett sta alla narrativa come i Monty Python stanno alla televisione.

Dopo una venticinquina di libri, mi dico che Te Colour of Magic non è il migliore dei romanzi del Disco. Ma è il primo, ed è un ottimo libro.

Libro che è stato adattato a film nel 2008!

Il lungometraggio The Colour of Magic è un film per televisione, diretto da Vadim Jean, che nel 2006 aveva diretto un altro adattamento da un romanzo di Pratchett, Hogfather.

La storia si apre con una dotta discussione tra astrozoologi. Hanno assodato ormai che il mondo è un disco piatto posato su quattro elefanti a loro volta posati su una titanica testuggine siderale, la grande Atuin. Il problema ora è stabilire il sesso di Atuin. Notate che tra gli astrozoologi presi in questa discussione compare anche Pratchett in persona!

Ci spostiamo ad Ankh-Morpork, la più grande e antica città del Mondo Disco, in cui il mago Rincewind (Scuotivento in italiano) viene cacciato a pedate dall’Università Invisibile, l’accademia di magia. Dopo 40 lunghi anni il nostro non è riuscito nemmeno a completare il primo ciclo di studi. Parli di un fuoricorso!

Scacciato dall’unico posto che conosce, Rincewind contempla perfino il suicidio, non fosse che qualcuno di nuovo arriva in città.

E’ un ometto occhialuto con un camicia a fiori che se ne va in giro con un baule. Tale baule ha due caratteristiche straordinarie: è pieno di monete d’oro da scoppiare ed è costruito col legno di Pero Sapiente. Eh già, il baule non solo trotterella dietro al suo padrone con un numero imprecisato di piedini, ma è senziente, e non ha un bel carattere.

Lo straniero, Twoflower, viene dal Continente Contrappeso, una terra lontanissima che mantiene in equilibrio il Disco. Una terra dove l’oro è un metallo molto corrente. Twoflower non lo a, ma ognuna delle sue monete, poca roba per lui, valgono l’iradiddio ad Ankh-Morpork.

E quello è il primo problema.

Twoflower è un piccolo impiegato che ha deciso di investire i risparmi di una vita quieta e laboriosa in un viaggio memorabile di scoperta e avventura. Il suo ottimismo, il suo buon cuore e la sua curiosità senza limiti sono eguagliati solo da un candore che rasenta la dabbenaggine.

Rincewind si offre di far da guida allo sprovveduto straniero, ma ha chiaramente sottovalutato l’impatto devastante che può avere il Primo Turista nella storia di Ankh-Morpork!.

I pasticci cominciano subito e subito si gonfiano in guai, disastri, catastrofi, fino a tirare in ballo la struttura stessa del Mondo Disco!

“Non voglio questa tabaccheria, è graffiata.” (cit. da un’altra banda di comici albionesi, chi indovina?)

Non voglio dirvene di più. Il film è fedele al romanzo, e anche se vaste sezioni sono tagliate, l’adattamento è fatto con cura e dedizione. Durante la proiezione, si sente un sincero amore per il soggetto e una cura nel fare del proprio meglio.

La regia è buona, le musiche calzano a pennello, e la recitazione è ottima.

Rincewind è interpretato da David Jason, che riesce a rendere alla perfezione il carattere tragicomico del mago.

La tragi-commedia è un sine qua non umorismo inglese 8non solo, ma è di quello inglese che stiamo parlando). Come spiega Stephen Fry, in Animal house Belushi sfascia la chitarra di un tizio. L’eroe comico americano è Belushi, l’eroe comico inglese è il tizio a cui sfasciano la chitarra. E’ un cantante mediocre che canta cazzate e che viene calpestato senza ritegno. Il fiore della commedia inglese è costruita sulla miseria umana: la sfortuna, l’avidità, la vigliaccheria, la tristezza…

La scena in cui Rincewind deve riconsegnare il cappello è magistrale. E’ buffa, ed è ridicola. Stiamo sempre parlando di uomini panzuti vestiti di rosso con cappelli a punta decorati da paillettes. E uno di loro è Tim Curry! Ma David Jason riesce a trasmettere un vero senso di abbandono e rabbia. Senza perdere il quadro ridicolo, la tragedia di un uomo che sta perdendo in un attimo la sua casa, il suo posto nella società e il suo ruolo nella vita sono pur sempre lì. E fanno ridere.

Twoflower è interpretato da Sean Astin. Oh sì, Twoflower è Samvise Gamgee! Per certi versi i due personaggi si somigliano: entrambi sono uomini non troppo svegli, ma non stupidi, con una visione innocente del mondo e un carattere gentile, sono entrambi pieni di buona volontà. Rispetto a Sam, Twoflower è una bomba di energia. Adora il suo viaggio, adora scoprire posti nuovi ed è aperto a qualsiasi meraviglia (sia essa un paesaggio, una rissa o la fine del mondo!).

Mentre Rincewind e il turista precipitano da una disavventura all’altra, un giovane mago promettente sta facendo una rapida carriera nell’Università. Ho adorato questa parte perché è un’ottima parodia del mondo universitario reale. Ricordo una conversazione avuta col mio Direttore di Ricerca, che mi spiegava che se volevo diventare professoressa dovevo aspettare che uno degli anziani andasse in pensione.

-O che gli succeda qualcosa.- ha aggiunto, guardandomi negli occhi. Ovviamente, era proprio quello che io stavo pensando.

Oltre che essere una satira deliziosa, questa parte ha un altro merito: il rampante antagonista è interpretato da Tim Curry, ed è uno spasso!

Anche Jeremy Irons, compare, nel ruolo di Patrizio. Calca un po’ troppo l’accento a parer mio, ma se c’è mai stato un uomo che aveva il fisico e lo stile del Patrizio, quello è Jeremy Irons. E’ incredibile come lo stesso attore possa essere Vetinari in un bel film e Profion lo Stregone YATHAHTAHTAHTAH in una cagata abissale come Dungeons & Dragons.

Infine, una menzione a Morte, che ha poca parte (come nel romanzo) ma che è doppiato da Christopher Lee. Yup, Saruman è Morte.

YOU DON’T REALLY BELIEVE IN DRAGONS…

Con questa cinquina, il film si aggiudica, a mio modesto parere, una standing ovation per il miglior cast di sempre. Non era umanamente possibile scegliere attori più adatti alla parte!

L’unico neo è Karen David, nel ruolo della Signora dei Draghi Liessa. Non è all’altezza degli altri attori, e si vede. Mentre tutti riescono a rendere alla perfezione i loro personaggi, lei scade nel cliché Figona in Cuoio. Per certi versi è voluto, ma resta banale.

Per quanto riguarda l’adattamento più in generale, ha qualche magagna. Certe cose sono inconsistenti (tipo, perché l’Incantesimo si attiva mentre Rincewind precipita sulle pietre, e non quando, poco dopo, precipita sull’oceano?), altre sono spiegate nel libro ma lasciate nel dubbio nel film.

La Computer Grafica è a tratti ok, a tratti troppo a buon mercato. Per contro, costumi e ambientazioni sono ottimi.

Riassumiamo:

 

La storia

 

Il cast: Irons fa Vetinari, Curry fa il cattivo, Sam Gamgee è un turista nel Mondo Disco e Morte è recitato da Saruman!

 

La musica

 

Certi tagli lasciano un po’ di confusione

 

La computer grafica è un po’ triste in certi passaggi

 

La sceneggiatura

 

Le scenografie

 

E’ un film sul Mondo Disco!

 

La seconda parte della storia, The light fantasti, è altrettanto divertente della prima. La grande Atuin (che ora sappiamo essere femmina!) sta filando dritta verso una stella. L’unico modo per salvare il mondo è recitare le 8 incantazioni del più potente libro dell’Università Invisibile, l’Octavo, il giorno del solstizio.

L’Octavo in catene. No, la trovata dei libri magici con la museruola non l’ha inventata la Rowling

E’ quindi una corsa contro il tempo tra Rincewind e quel pescecane di Trymon, corroborata da comprimari indimenticabili come l’eccellente Cohen il Barbaro, che da “become a legend in his own lifetime” con gli anni è diventato “a lifetime in my own legend“.

In più, in questa puntata possiamo finalmente vedere la magione della Morte, e non c’è mai abbastanza Morte in una storia di Pratchett!

Cohen il Barbaro e Bethan

 

Tutto quello che c’era di buono nella puntata precedente

 

Qualche inconsistenza (perché Trymon non stecchisce subito Twoflower?)

 

AshkEnte!

 

Come nel primo, certe cose si perdono nell’adattamento, il che può rendere alcuni passaggi poco chiari.

 

La schiusa delle uova cosmiche

 

Il finale

 

Oooook!

 

Insomma, straconsigliati entrambi! Non saranno un capolavoro assoluto e Pratchett ha scritto libri migliori (quando farete un colossal su Carota? Eddai!), ma sono molto divertenti, recitati bene e fantasiosi. I libri sono altrettanto consigliati.

La spada somiglia a quella di Nihal. Peccato che questo sia un romanzo comico.

Buona visione!

MUSICA!

P.S. Andate a firmare la petizione o vengo a scapocciarvi la faccia di persona. O, per citare l’avvo-rospo dei Nac Mac Feegle, Vis-ne faciem capite repleta? (Vuoi una faccia piena di testa?)

Gioia e banalità nella terra del pressappochismo

Tutti conoscono Licia Troisi. “Regina del Fantasy Italiano”, che è una carica simile a Regina della Gilda degli Accattoni in Ankh-Morpork. E’ la realizzazione dell’utopia Orwelliana del romanzo per prolet, in cui non c’è più nessun processo creativo, solo un riaccozzare stocastico di roba già fatta. Le protagoniste tutte identiche (con rare e saltuarie variazioni, tipo il colore dei capelli!), il deuteragonista sempre uguale, le dinamiche tra i due ripetitive e deprimenti… Tutto condito con una documentazione che brilla per la propria assenza. Ma perché parlo di lei oggi? Per molte ragioni:

  • Sono una gran nostalgica e una grande appassionata di trash. E sì, mi rendo conto che le due cose accoppiate abbiano una definizione clinica: necrocoprofagia. That’s me, a ognuno i propri fetish!
  • Per il grande decennale, sta per uscire Le storie perdute, un nuovo romanzo tutto su Nihal!
  • L’Espresso. E’ tutta colpa de L’Espresso (qui e qui).
  • Quattro

Cinzia Leone di L’Espresso mette insieme due delle pagine più surreali che abbia letto negli ultimi giorni. Ho deciso di condividerle, per la gioia degli altri necrocoprofagi (so che mi state leggendo, non fate finta di nulla!). Caveat: ho rispettato la police dell’articolo. La scelta di virgolette, strafalcioni e altre amenità non è mia. Sono innocente!

La spada! La SPADA!

Se il successo è una colpa, Licia Troisi, con i suoi quattro milioni di libri venduti in dieci anni, è una peccatrice incallita.

Se la mi’ nonna avesse le rote sarebbe ‘n tramvai. Sul serio, perché il successo dovrebbe essere un peccato? Mi sono persa un adagio popolare? O è solo un modo molto lame di attaccare la sviolinata?

Doppiamente viziosa perché il successo lo deve a draghi, cavalieri, gnomi, elfi, maghi, menestrelli, tiranni. A profezie, maledizioni, tradimenti e maschere di ferro. A bastioni infuocati e torri battute dal vento.

Oibò. Perché tutto ciò dovrebbe renderla più “viziosa”? Che senso ha? Forse Cinzia vuol dire “non solo ha avuto successo, ma ha avuto successo scrivendo roba inabituale”, ma non credo. Dopotutto, da quando i draghi e i cavalieri sono roba inabituale? Che io sappia sono due archetipi intramontabili della narrativa Europea. Forse vuol dire “non solo ha avuto successo, ma ha avuto successo scrivendo stupidaggini per ritardati mentali”. Ipotizzo io, potrei sbagliare. E vista la cattiva fama che macchia il fantasy in Italia, forse è questo il senso.

Il suo stile è pura narrazione

BWAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH Maremma ingrifata, che cosa diavolo vuol dire questo? Un romanzo in cui si racconta una storia? Parbleu, signori e signore, un momento di ammirazione attonita mi pare d’obbligo. O forse si celebra il fatto che Licia non ha inframezzato la narrazione con altra roba? Tipo ricette, opuscoli pubblicitari o digressioni sul prezzo delle zucchine?

Il suo genere è il Fantasy, quello che ha portato Tolkien sull’orlo del Nobel e la Rowlings in vetta alle classifiche.

Sorvolo sul fatto che Lord of the Rings è molto più affine all’epica medievale che non al romanzo fantasy, ma sorvolo solo perché… La RowlingS? Ho controllato, lo scrive davvero così! Che sia la gemella segreta della più celebre J. K. Rowling? O forse controllare lo spelling su wikipedia è troppo out per i giornalisti professionisti.

Come si fa a vendere quattro milioni di copie e vivere felici?

Domanda difficile. Non ce n’è una di scorta? Tipo “come si fa a vincere un abbonamento annuale dal birraio ed essere sbronzi?”

«Rimanendo con in piedi per terra» risponde, decisa, la Troisi.

Tradotto: sta robba non ti darà la pensione, sugar. Spara tre o quattro boiate commerciali e scappa col malloppo a trovarti un lavoro serio. Ora, io non ho niente contro la Troisi in quanto persona. Sì, la prendo in giro come autrice e per le bischerate che dice in pubblico, ma non ce l’ho con lei. Sono sicura che è una buona persona e una brava mamma. Però devo dirlo: il fatto che non ci abbia nemmeno provato a fare un lavoro serio come scrittrice mi picchia sul sistema, come dicono i mangiarane. L’etica del lavoro va bene in astrofisica, non con dei romanzi, voglio dire, i romanzi mica sono un vero lavoro… Mi urta che qualcuno che ha chiaramente zero rispetto per la professione di romanziere guadagni anche solo 10 euro. Mi irrita quando il lavoro approssimativo viene premiato e quando la mancanza di etica lavorativa viene sbandierata senza vergogna. Quindi sì, come scrittrice, la Licia mi raspa sui nervi, e non poco. Ma solo come scrittrice.

Per una scrittrice che si lascia travolgere da Regni sottomarini, Terre emerse, e Mondi sotterranei, non perdere la testa è fondamentale.

Vero. Dicci Licia, quanto era alta la Torre-Città in Nihal dalla Terra del Vento? O forse può dircelo la giornalista, che chiaramente conosce molto bene il corpus dell’autrice.

Il peccato richiede molto allenamento.

Ancora? Non è peccato far successo, è peccato lavorare a cazzo! E no, non richiede allenamento! O forse Cinzia sta insinuando che Licia si è allenata, ha lavorato sulla sua tecnica, la sua documentazione e le sue fonti? Nah, suvvia, siamo seri!

Licia comincia a poco più di 20 anni (è nata nel 1980). Mentre studia Astrofisica e medita una tesi sulle galassie nane, in un anno e mezzo scrive mille duecento pagine che le cambieranno la vita.

Scrivere mille e passa pagine non è allenamento di per sé. E’ come mettersi a fare pesi senza avere nessuna idea di come eseguire gli esercizi: ci si rovina il fisico e basta. Esercitarsi male è peggio che non esercitarsi proprio. Peraltro scrivere 1200 pagine di fuffa è una cazzata. Non ci vuole nulla a tirar giù mille pagine di bischerate. Dieci buone, quello è il difficile E lo ammetto, io sono lentissima a scrivere, mi faccio schifo da sola, ma milleduecento pagine in un anno e mezzo? Compresa una prima revisione, perché non credo che Licia abbia spedito alla Mondadori senza nemmeno una prima rudimentaria forma di correzione. Sono circa tre pagine al giorno, scritte, revisionate e corrette, ogni singolo giorno, per un anno e mezzo. Credibile. Poi uno si sorprende se sono milleduecento pagine di bolo.

Le spedisce a una piccola casa editrice, che le offre una pubblicazione a pagamento

How uncommon!

E alla Mondadori, dove Sandrone Dazieri le propone di dividerla in una triologia dal titolo “Cronache del Mondo Emerso”. Il primo volume, nel 2004, è stampato in 16 mila copie ma ne venderà 100 mila.

Sandrone, Sandrone, cosa faremmo senza di te…

In dieci anni, Licia sforna una ventina di libri: i nove delle tre triologie del Mondo Emerso, i sette de “La ragazza drago”, i tre de “I regni di Nashira” e poi “I dannati di Malva” e “Pandora”.   Scrive ogni giorno di draghi, elfi ed eroine dai capelli azzurri, ma nonostante le vendite stellari Licia non si monta la testa.

Da com’è formulata la frase, si direbbe quasi che l’opera della Licia nazionale sia banale e ripetitiva. Quasi.

Si laurea in Astrofisica, inizia il dottorato, si sposa e mette al mondo una bambina. Senza rinunciare alle sue quotidiane trenta vasche a stile libero.

Insomma, i suoi romanzi sono tutti ciofeche perché aveva di meglio da fare.

Scrivere è come nuotare e per emergere dalla massa Licia si tuffa a capofitto. Per respirare c’è tempo.

Scrivere è come nuotare? Oibò, come e in che senso? Licia emerge dalla massa? No, Licia per quello che scrive sparisce nella massa del pessimo fantasy pseudotolkeniano un tanto al chilo! L’unica cosa che tiene a galla Licia e i suoi libri è lo zatterone Mondadori, che può contare sull’artiglieria pesante di distribuzione, pubblicità e recensioni-marchetta (o di articoli pubblicitari, ahem). Mi piace anche l’idea che nell’acqua respirare è qualcosa per cui “c’è tempo”. Ora, io non sono una nuotatrice (ancorché padroneggio con mastria ed eleganza la tecnica “Cane che Affoga” e “Fai il Morto e Aspetta i Guardiacosta”, nonché uno stile di mia personale invenzione, il “Ferro da Stiro”), ma faccio sport regolarmente. E respirare è un attimino fondamentale.

E’ difficile lasciarsi andare? «Mi piacerebbe essere più leggera, ma voglio sempre dare il meglio di me: quando scruto le stelle o quando invento un personaggio.»

Risa isteriche a nastro.

Hai avuto un dottorato, Licia, non sminuire così il tuo lavoro scientifico! Sono sicura che sei una buona astrofisica!

Una peccatrice con troppo metodo insospettisce.

METODO! La Troisi avrebbe un METODO?! Ah già, L’Espresso. Dove scrive anche Lilin, il genio dei mirini ottici. Già già, dimentiavo.

Non frequenta i salotti televisivi. Non ha sponsor potenti. Ma a colpi di triologie la Troisi conquista le classifiche e il cuore di lettori fedelissimi che coltiva attraverso un blog molto seguito.

Sì, no, non rileggete. C’è scritto davvero. “Non ha sponsor potenti”. Mi sto sentendo male dalle risate! Peraltro, bella l’immagine della Troisi che percuote i suoi lettori a botte di triologie.

Il Fantasy è una droga e provoca dipendenza?

Sì, come le patatine al gusto pancetta fritte nel grasso di liposuzione. Hey, non guardatemi così! Sono saporitissime!

«Come le serie Tv. Se sono avvincenti danno assuefazione», sottolinea sorridendo.

Un buon romanzo invoglia a leggere. Licia di buoni romanzi non ne ha ancora scritti, che io sappia, ma la risposta ha senso. E la domanda era stupida, quindi direi complimenti a Licia (e per una volta non sto scherzando).

Mentre la letteratura conta i lettori perduti nel 2013, meno il 20 per cento, i generi letterari, dal rosa al giallo, dal noir all’horror passando per il fantasy, accusano lievi flessioni, difendendosi a colpi di trame avvincenti e serialità.

Questo paragrafo è così fuori del mondo che non so nemmeno da che parte cominciare. La letteratura ha perso un quinto dei lettori, ma i generi letterari tutti hanno accusato solo lievi flessioni. Come dire, Ferdinando II cannoneggia Messina, i civili riportano solo qualche livido. Peraltro Licia ti ha fatto il piacere di ribadire l’ovvio: le storie avvincenti invogliano a leggere. Per tua ammissione i lettori si stanno dileguando a frotte. Eppure, per una combo paradossale, i vari generi (tutti?) si difendono con trame avvincenti. Mi piace questo connubio tra “fuga dei lettori” e “fioritura concomitante di tutti i generi letterari”.

«Negli ultimi anni si è pensato che le trame non fossero indispensabili.»

Per una curiosa coincidenza, al ristorante se oltre al conto porti anche da mangiare, il cliente apprezza. Lo so, è incredibile!

«Ma i lettori le amano e, carta o e-book, quando acquistano scelgono di conseguenza.»

MA DAI?! Ma via, è chiaro che comprano in base alla combinazione dei numeri ISBN. E’ quello che io guardo per prima cosa in un libro: se le prime due cifre non sono pari non se ne parla!

«Il mio libro preferito è “Il nome della Rosa”, di Umberto Eco. Lo avrò letto una dozzina di volte». La Troisi festeggia il suo decennale con “Il ritorno di Nihal” (sempre Mondadori), dove fa rivivere l’eroina ribelle protagonista del suo esordio.

Dicesi “grattare il fondo del barile”.

Ansia decennale? «Torno sul luogo del delitto e alla mia Nihal. Non pensavo che sarei arrivata fin qui».

Il marketing può tutto o quasi.

Forse non lo immaginava, ma ha fatto di tutto per arrivarci, scrivendo migliaia di pagine di un genere ignorato dalla critica ma molto amato dagli adolescenti e non solo.

Ci sono diverse ragioni se la critica ignora il fantasy italiano. Una di queste si chiama Licia Troisi.

«Il 70 per cento del mio pubblico è tra i sedici e i ventisei anni, ma il trenta è di bambini e adulti». Le saghe della Troisi, dove la lotta tra il Bene e il Male è sfumata e complessa, guadagnano un piubblico trasversale e nuovi mercati.

“Sfumata e complessa”? Quanti libri della Troisi ha letto, la signora Leone? In una triologia abbiamo un Tiranno che vuole distruggere il mondo, in un’altra la versione medieval-retard di ISIS! Hum, chi saranno i buoni, il wannabe Hitler o quelli che uccidono gente a caso in nome di Dio? Oh, è così sfumato e complesso, proprio non saprei! Chi avrà ragione, l’esercito di mostri e non morti o quello dei cavalieri galanti in armatura lucente? Cielo, sono così confusa!

Tradotta in 19 paesi, da pochi mesi Licia è sbarcata anche in quello anglosassone che del fantasy detiene il primato.

Et pour cause! Il successo di Licia è così stratosferico che dopo 10 anni la traducono perfino in una lingua semisconosciuta e a bassissima diffusione come l’inglese. Peraltro, non vedo perché un anglosassone dovrebbe filarsi la nostra spazzatura. Ne hanno tanta della loro. E hanno anche libri buoni in Anglosassonia, go figure.

«Il genere è tradizionalmente loro. Ma il mercato anglosassone è chiuso: vendono ma non comprano. E, fantasy a parte, sono pochi gli italiani che sfondano: Saviano, Giordano, Camilleri…»

Sì, e sai perché? Perché gli anglosassoni producono un vasto ventaglio, che va dal fantasy scrausissimo come quelle cagate di Chris Wooding, al “così così ma ancora godibile”  dei primi Harry Potter, a roba decente come Joe Abercrombie, buoni autori come Paolo Bacigalupi e geni assoluti come Terry Pratchett. Hanno l’intero set! Noi che gli offriamo, stupidate con elfi e nani? Ne hanno, molto migliori delle nostre. Un libro a caso di Feist sarà sempre meno scemo e più fantasioso di un sacco di fantasy italiani, e non devono nemmeno tradurseli, guarda un po’ te! Certo, potremmo ovviare al problema producendo storie degne di essere tradotte. E’ solo un’idea, eh…

Pescando dal Pantheon nordico, con il “Signorre degli Anelli”, Tolkien guadagna la candidatura al Nobel.

Mi risulta che il Pantheon d’ispirazione di Tolkien fosse prima di tutto quello celtico, non quello nordico.

Il successo della Rowlings chiude il cerchio.

Tolkien e Rowling, Tolkien e Rowling. Che, perché, ci sono altri autori fantasy famosi? Terry chi? Gaiman? Non era una drag-queen del Mama mia? Che? Martin? Chi cazzo è Martin?

Ah, bei ricordi!

Non solo conoscono solo DUE autori anglosassoni, ma della seconda non sanno  nemmeno scrivere il nome! Questo è un trionfo!

Ma l’”Iliade”, l’”Odissea”, l’”Eineide”, le “Mille e una notte” e persino il “Don Chisciotte”, sono fantasy in piena regola. Dante è puro fantasy.

L’ignoranza è così crassa che si raccatta colla pala, e qui non si tratta nemmeno di sparare cazzate su un genere che si conosce solo per sentito dire, si tratta di rivelare al mondo una totale mancanza di cultura generale. Inizio col botto, con la confusione tra mitologia e fantasy. Non sono la stessa cosa. Poco importa se te credi o meno ad Apollo, un poema epico e un romanzo fantasy non sono la stessa cosa né mai la saranno, e ficcare nello stesso calderone i generi denota un qualunquismo che urta il mio intelletto sopraffino. Una seconda stellina di merito per accozzare insieme, così, Iliade, Eneide, Odissea e Mille e una notte. Le prime due hanno un congruo numero di elementi essenziali in comune. Già l’Odissea è un’opera molto diversa dall’Iliade. Quanto a Le mille e una notte, non hanno proprio un cazzo a che vedere con le tre opere succitate. Un po’ come schiaffare insieme Tex, Hamlet’s mill, il libretto di Così fan tutte e il diario di Anne Frank. Peraltro, sull’Odissea ci sono in effetti elementi di narrativa fantastica. Le Mille e una notte sono fiabe, possiamo discutere anche su quelle. Ma Don Chisciotte?! Che cazzo c’entra? Da qando è un fantasy? Ma controllare il riassunto di wikipedia era troppo lavoro? Dante puro fantasy. Dante puro fantasy. Oh porca maiala in carrozza. Trattato di teologia e cosmologia? Naaah, fantasy! Come no! Mettiamo una cosa in chiaro: puoi leggere l’Iliade o la Commedia come un fantasy (non sarò certo io a puntare il dito contro i masochisti), ma questo non ne fa un fantasy. Io leggo L’Espresso come giornale porno-comico, ma purtroppo questo non basta a renderlo ufficialmente tale. Tutto ciò ovviamente va da sé, ma per rendersene conto si dovrebbe, oh, non so, leggere le opere prima di citarle a caso. Mica in integrale eh, un bignamino sarebbe bastato. Ma mi rendo conto che chiedo la luna: verificare prima di sparare a zero? Voyons… Peraltro (ci tengo a piantare un altro chiodo nelle bara) ci sono un certo numero di autori classici e famosi che hanno scritto opere tranquillamente catalogabili come fantasy ante litteram. Tipo Luciano di Samosata, con la sua spassosissima Storia vera, o Chrétien de Troyes, o l’Ariosto (L’Orlando furioso ha tutto: cavalieri, grifoni, magie e anche la tettona!). Certo, mi rendo conto che siano gente di nicchia per chiunque abbia fatto il liceo dormendo, ma una rapida ricerca su wikipedia potrebbe aiutare!

Un genere infiltrato anche tra le pagine della letteratura contemporanea? «Murakami è un autore fantasy sotto mentite spoglie, Calvino e Buzzati del fantasy hanno molti elementi narrativi. De Sica di “Miracolo a Milano” è un grande regista fantasy. Ma si può dire solo sottovoce».

Mi fa piacere che almeno Licia riesca a citare tre-quattro autori con elementi fantasy senza sbagliarne i nomi (RowlingS?). E’ già qualcosa. Ma preparatevi perché ora c’è il botto.

A lungo patrimonio della destra, il fantasy non è stato adottato da progressisti ed ecologisti. «Colpa dello snobisbo connaturato alla cultura di sinistra che li ha indotti a credere che il fantasy sia robaccia» racconta la Troisi che non fa mistero delle sue idee progressiste «Sono stata ospite a due festival dell’Unità, ma mi hanno scoperto solo nel 2007. Sono in ritardo”. E ad Atreju, kermesse romana della destra? “Mi hanno invitata, ma non sono andata».

PANFETE! Che secondo voi ci facevamo mancare la fellatio politica? La solita decrepita sega “ma Tolkien è di destra o di sinistra?” Queste menate mi fanno sempre sbattere la testa sul tavolo. Come quelle masturbazioni collettive sul MESSAGGIO. La buona narrativa è realistica e verosimile nel suo proprio sistema di riferimento. Ergo ci si può trovare un messaggio, o una morale politica. Spesso due persone diverse ne trarranno due morali diverse perché gente diversa recepisce in modo diverso. Quando Heinlein (autore sci-fi anglosassone, peraltro, nel caso qualche lettore de L’Espresso volesse leggere qualcos’altro che non siano Tolkien e RowlingS), dicevo, quando Heinlein pubblicò Stranger in a strange land, ci fu chi lo accusò di fare propaganda comunista, chi di fare propaganda fascista, chi di fare propaganda anarchica, ecc. Resta una storia che a me non è piaciuta, ma che è coerente, verosimile e credibile nel proprio universo. Alcuni autori hanno un’agenda politica precisa, vedi Orwell o Huxley. Altri no. Resta che una buona storia è una buona storia, e una cagata è una cagata. La sinistra crede che il fantasy in generale sia robaccia? Non sarebbe la sola cosa su cui la sinistra ha idee preconcette e, comunque, Licia non aiuta la situazione. Gli ecolgisti che non hanno approfittato del fantasy è da capottarsi dal ridere! Suppongo che cartoni come Ferngully, serie come Capitan Planet e roba simile non siano mai passate sullo schermo della signora Leone. Se poi intendiamo fantasy come termine più vasto, includento la fantascienza, gli esempi si sprecano! Tipo classici come Soylent green, e Hollywood offre una vastissima scelta, tra cui Avatar per dirne uno conosciutissimo, o quella schifezza pretenziosa di The happening. Oh, non è abbastanza intellettuale? Vogliamo parlare de I demoni, nella raccolta di corti Sogni, di Kurosawa Akira? Peraltro, Bacigalupi ha scritto più di un romanzo su mondi post-picco frutto del Riscaldamento Climatico. Ma dopotutto chi cazzo è Bacigalupi. Sono sicura che i redattori de L’Espresso conosceranno però Cormac McCarthy, autore di The road! Dopotutto ha vinto il Pulitzer…

E’ il genera a scegliere lo scrittore? Al posto dei lunghi capelli azzurri dlle sue fiabesche eroine, Licia sfodera orgogliosa una tonsura da marine. Per formare una famiglia avere un figlio e vendere milioni di copie non è indispensabile tuffarsi nello stereotipo femminile.

Thankyou Captain Obvious!

«Non è scritto da nessuna parte che devi trovare un fidanzato ed essere per forza moglie e madre». Non sarà scritto ma lei lo ha fatto. Una forza in più? «Ne “il ritorno di Nihal” c’è molto della mia nuova vita e la prima volta compare il presepe familiare. Un figlio è un’esperienza totalizzante».

Evviva, Nihal mamma, proprio quello che ci mancava.

Di sicuro, ma intanto la Troisi sta già preparando la prossima uscita. Ad aprile 2015 uscirà il quarto volume della saga “I regno di Nashira”. «Come in “Il ritorno di Nihal”, anche nel prossimo Nashira affronto il tema della perdita. Ma ci sarà anche una spolverata di fantascienza alla Star Trek».

WE ARE DOOMED. DOOMED! A parte la classe dello scrivere due libri a cortissimo giro di boa sullo stesso tema, mi piace l’idea della “spolverata”. Alé, un po’ di Klingon e torpedini, che non guastano mai, così, tanto per gradire!

Solo una spolverata? «Nessuno nell’editoria vuole più pronunciare la parola “fantascienza”, oggi la moda è il “distopic”: utipie apocalittiche ambientate nel futuro prossimo».

Adoro questo passaggio. E’ una candida ammissione. Sì, scrivo solo roba commerciale alla moda per il massimo del grano col minimo dello sforzo, tanto per arrotondare. E’ così pura e sincera, e così chiara: se ancora non ve ne foste accorti, nell’editoria non fotte un cazzo a nessuno delle qualità oggettive dell’opera, solo del trend. Lo sapevamo già, ma ora Licia ci conferma. Peraltro, con l’Episodio VII di Star Wars in direttura d’arrivo, il ban delle astronavi mi pare ancora più cretino, ma dopotutto io non lavoro in editoria.

Le fortune del fantasy sono fotografate in “Infanzia e mondi fantastici” di William Grandi: «I periodi in cui il fantasy ha riscosso grande successo», scrive Grandi, «sono coincisi con gravi crisi a livello mondiale: la fine degli anni Trenta con il fantasma della Seconda Guerra Mondiale che avanzava sull’Europa, la seconda metà degli anni Cinquanta con il periodo più doloroso della Guerra Fredda e, quanto alla nostra epoca, è evidente come il periodo di crisi aperto alla metà degli anni Novanta dai problemi sempre più pressanti causati dalla mancanza di cibo nei paesi del Terzo Mondo, dalla conseguente ondata di immigrazione incontrollata, dallo squilibrio del nostro ecosistema e dalla crisi delle energie, si sono cronicizzati con l’esplosione del terrorismo e la successiva frattura tramondo orientale e mondo occidentale». La fotografia del successo editoriale come teoria dell’assedio.

Oimoi oimoi, eleleu eleleu! Ci mancava solo il pippone socioculturalintellettuale da bar dello sport! Sia chiaro, non ho letto il libro di William Grandi, ma già questo paragrafo ha un problema: lo scontro Oriente/Occidente. Lo so che fa tanto figo, ma se poi ci si prende la briga di andare a vedere cosa succede in Oriente, e in particolar modo in Medio Oriente, il quadro che ne viene è piuttosto un “Oriente VS Oriente, con sputacchi all’Occidente quando si mette nel mezzo”. Ora, non voglio entrare nel merito della geopolitica e della “teoria dell’assedio” (qualunque cosa significhi in questo contesto), ma voglio sottolineare come questa interpretazione sociologica del fantasy, che richiederebbe almeno un articolo intero, viene spiattellata in un paragrafetto verso la fine. Sembra, dico, sembra, che sia lì solo per farci credere che il libro di Licia non sia scemo, ma sociale, e che questo articolo non tratti di stupidate cosmiche ma di importanti argomenti attuali. Non ce la beviamo, mi spiace.

Perfettamente a suo agio tra gnomi, elfi e draghi, la regina del fantasy italiano sente il realismo come un vincolo. «La scrittura realistica mi mette in difficolta, ma nella vita ho i piedi per terra».

Ed ecco la seconda, e ultima, scintilla di sincerità e verità che questo articolo ha in serbo per noi. “Scrivere buona letteratura mi mette in difficoltà”. Lo sappiamo Licia, ce ne siamo accorti. Diciamo che non è che tu ci abbia provto un granché. Ma te ne do atto, la verosimiglianza e la credibilità sono cose difficili. E’ la ragione per cui essere un buono scrittore è un lavoro difficile.

«Quando De Laurentiis mi ha proposto di scrivere sceneggiature, ero incinta, stavo temrinando il dottorato in astrofisica e stavo finendo di scrivere un libro. Fare tre cose bene e aggiungerne una quarta mi sembrava difficile. Ho rinunciato».

Peccato per il film. Avrei visto bene Stoya nel ruono di Nihal e Immanuel Casto nel ruolo di Sennar.

Al peccato del successo la Troisi può anche resistere, ma non a quello del travestimento.

Mettetelo sulla fascetta di un libro a caso e schiaffatelo in Erotismo, venderete un casino.

Vivere altre vite per uno scrittore è un vizio e lei ama travestirsi con i panni dei suoi personaggi preferiti: è una “cosplayer”. «Mi è sempre piacito essere al centro dell’attenzione. Da piccola mi costruivo le armature da sola con il cartone argentato. Per Halloween e per Lucca Comics&Games per “Il ritorno di Nihal”, ho indossato il mo costume medievale con spallacci d’acciaio, giostacuore di cuoio nero, un mantello scuro, il pugnale di lattice e i capelli blu».

Spallacci a caso (perché proteggere il collo, la pancia o il cuore quando puoi proteggere le spalle?), giustacuore, lattice. Sticazzi, più medievale di così! Qualcuno regali a Licia un pugnale vero, per favore, certi mastri Cechi fanno lame che sono la fine del mondo, e per prezzi eccellenti!

Si è mai travestita come uno dei suoi personaggi?

Che domanda è? Te lo ha appena detto!

«Non ho resistito, e una volta ho indossato i panni della mia Nihal».

Ma va’. E io che credevo che l’armatura aleatoria, il pugnale giocattolo e i capelli blu fossero un omaggio ad Eleonora di Castiglia.

Le eroine della Troisi ribaltano i ruoli.

Oh, eroine guerriere in un fantasy, mai viste né sentite dall’epoca delle Dodici Fatiche di Eracle!

«Sono una figlia unica, educata nell’uguaglianza e cresciuta con l’idea che non ci fosse una strada che mi fosse vietata».

Male Licia, impara dalla Meyer, oggi quello che le ragazze vogliono è propaganda sessista e reazionaria.

Le sue saghe sono popolate di razze e meticciato: mezzi uomini, mezzi draghi, mezzi elfi. «Più si entra in contatto con la diversità è (sic.) meglio è. Siamo tutti meticci».

Oh, il messaggio evergreen di pace tra i popoli e multiculturalismo! Come non coglierli in saghe in cui i Buoni sterminano senza remore orde di mostri brutti cattivi e immigrati!

Alla Troisi non mancano le ossessioni. «Sono una creatrice di mondi, controllando minuziosamente lo scenario fantastico che costruisco ho l’illusione del controllo totale sulla realtà».

La Troisi che “controlla minuziosamente” i suoi mondi è la battuta più spassosa dell’anno. Peraltro, fa a cazzotti con quanto detto prima sul realismo che la mette a disagio, ma non stiamo a sottilizzare.

Nessun personaggio si è mai ribellato al controllo? «Sì. E qualche volta li ho lasciati fare. Ma è l’”effetto farfalla”, capita sempre quando non hai definito a sufficienza il personaggio, che finisce per prenderti la mano e ribellarsi all’intreccio. Ultimamente mi capita molto meno».

A volte ho l’impressione che la Troisi non sappia di cosa parla. A volte ne ho la conferma.

Nel circo della narrativa, con spallacci d’acciaio e corazza di pelle, l’astrofisica con i piedi per terra e le vendite stellari governa trama e personaggi come un domatore i suoi leoni.

MA DIO PRETE! Primo: non ha una corazza di cuoio, ha un giustacuore, ovvero una giubba o farsetto. Sembra una differenza trascurabile, finché qualcuno non ti prende a colpi d’accetta! Secondo: Applausi. Cioè, applausi! Il Circo e i leoni ballerini riescono a essere la peggir metafora possibile per indicare il mestiere dello scrittore, e la miglior metafora possibile per indicare il fantasy italiano. Un gran casino, impostura e trucchetti da baraccone, dove creature maltrattate eseguono giochetti già visti per un pubblico sempre più gramo e sempre più rintontito dal chiasso e dai riflettori! Evviva! Questo articolo mi lascia l’amaro in bocca. Ora ho una nuova ossessione: voglio una rivista interamente gestita da Cinzia Leone, Nicolai Lilin e Loredana Lipperini. Non m’importa l’argomento, li voglio tutti insieme e basta! E’ tutto per questo sabato. E parlando di peccati: RESURRECTION BY ERECTION! Per chi volesse approfondire, un recente articolo del Duca, e le vecchie la sempre spassose recensioni di Gamberetta.

Aneddoti e narrativa: Vaporteppa

Questo è un articolo di narrativa, e come tale vorrei iniziarlo con un aneddoto di vita vissuta.

Poche settimane fa ero in Italia in visita dagli Augusti Genitori. Come ogni fine di agosto, il mio tempo era assorbito da incontri col gruppo Bilderberg, consolidamento del dominio giudaico e lettere di insulti alla mia università. Io e la segreteria abbiamo un rapporto masochista, non tanto di amore e odio, quanto piuttosto di odio e antipatia (cit.).

Sicché un bel giorno pianto il summit rettiliano per l’asservimento dei goya e vado in Paese. Faccio un giro dei vari tabaccai. L’ultima volta che hanno visto un francobollo era il 1923, uno di loro giura che glieli ha mangiati il cane, un altro mi urla “NON LI AVRAI MAI SPORCA GIUDEA ALLAH AKBAR!” e si fa saltar per aria.

Avevo due opzioni: rinunciare a spedire la lettera o andare alle Poste. L’idea di lasciare la mia segretaria senza la sua usuale dose di “che cazzo state combinando coi miei documenti, manica di luddisti psicopatici” mi rattristava troppo. Alle Poste dunque!

Ammetto che sette anni a Lutezia mi hanno rammollita. A Lutezia uno entra, compila i fogli, affranca alla macchinetta e in dieci minuti è fuori dalle palle, libero come un fringuello.

Le porte automatiche si aprono con un cigolio di ruggine e metallo, una zaffata di putrefazione e polvere mi investe. Bambini piangono, aggrappati a madri macilente che hanno esaurito le scorte di merendine. Una di loro cerca di sedare il pargolo facendogli respirare della colla. Un vecchio si guarda intorno spaesato. Ha i calzoni corti e una mantellina troppo piccola. E’ qui dal 1925, voleva spedire una cartolina alla nonna. In un angolo, una donna con gli occhi iniettati di sangue sta armeggiando con una scatola puzzle per evocare i Cenobiti (che tanto non si muoveranno perché non ci sono più anime da sbranare, qui dentro). Sul tabellone lampeggiano i numeri A012, A011 e E018. Tiro il bigliettino. E389. Sarà da ridere.

Io non ho paura. Sono un vichingo, checchazzo. Mi siedo sulla cenere dei secoli. Apro la borsa.

E l’orrore mi assale.

Ho scordato la roba a casa. Non ho portato nulla! Non il romanzo americano che sto leggendo, non il romanzo giapponese che sto leggendo, né il saggio di Souyri né il numero Osprey dei Pirati d’Estremo Oriente. Sono disarmata, sola e in territorio nemico!

Il mio coraggio scema, mi ficco il bigliettino in tasca e mi precipito fuori dall’ufficio. La luce del sole mi fa male agli occhi. Ho visto una libreria da queste parti. Eccola!

Entro, m’infilo nel settore narrativa.

E’ lì che mi rendo punto a che punto il Paese sia messo male.

Pensate che la crisi sia brutta? Guardate al tipo di “arte” che mettiamo insieme. Non sono nemmeno nel reparto Fantasy/Sci-Fi (noto per essere il reparto Cottolengo), sono proprio in Narrativa, e sugli scaffali si assiepano tomi buoni per soli due target: i ritardati mentali giovani e i ritardati mentali vecchi che vorrebbero essere giovani. Tra le altre cose, scopro che la Licia Nazionale ha sfornato una nuova Creatura, con protagonista una Metallara.

Licia Troisi + Metal = WE ARE DOOMED! DOOMED!

Ora, io non ce l’ho col trash. Io amo il trash! Le porte dell’abisso è uno dei miei film preferiti, Tommy Wiseau è uno dei miei idoli (Oh hi Mark), ho un piccolo altare in casa dedicato solo al Daibosatsu Rocca-nyorai…

Ma quando esiste solo il trash, allora inizio ad aver paura. Insomma, sono come Vincent Smith di Silent Hill 3: venero il Dio, ma non per questo vorrei vederlo realizzato nel mondo reale. Il trash è il sale della vita, ma non lasciategli conquistare il Mondo o è la fine.

Nella fattispecie, l’unica cosa lontanamente potabile era una traduzione di Stephen King, che è peraltro uno degli autori più sopravvalutati di sempre (Sì, l’ho detto, non vi temo funz, fatevi sotto!).

Grazie al Cielo l’editoria digitale è messa un po’ meglio.

Non voglio scrivere un articolo sullo stato della letteratura digitale in Italia. Se vi interessa, leggetevi gli articoli del Duca di Baionette, è molto più informato di me. Oggi voglio parlare di racconti.

Racconti editi da Vaporteppa.

Sono sicura che tra i bazzicatori di questo piccolo blog molti già la conoscono: si tratta di una casa editrice digitale specializzata in narrativa fantastica, in particolar modo Steampunk (da cui il nome), ma non solo.

Devo essere sincera, di solito, quando vado a selezionare le mie letture, “fatine”, “mec a vapore”, “retro-futurismo” e “conigli” non sono proprio le parole chiave che mi vengono in mente. Non sono una gran lettrice di Stempunk o bizzarrie, conosco il genere molto poco e molto male.

Tuttavia tutti i racconti che finora ho letto usciti dalle fucine di Vaporteppa mi sono piaciuti, alcuni di più, alcuni di meno. Mi sono piaciuti in primo luogo perché sono di buona qualità. Alcuni brevi, altri lunghi, tutti sono scritti bene. Il livello tecnico degli autori sbriciola a mani basse quello di altri “campioni” dell’editoria cartacea. Non c’è paragone. Sul piano tecnico i vaporteppari vincono.

In secondo luogo, i racconti che ho letto finora hanno in generale una vena ironica e divertente.

Avete presente quando la Troisi pretende di scrivere passaggi tragici, o quando Altieri parla di ninja crucci che ammazzano lanzi a secchiellate e pretende di essere preso sul serio?

Niente di tutto questo. Il tono e lo stile cambiano ovviamente da autore ad autore (duh!) ma in generale nessuno, a mia esperienza, fa il passo più lungo della gamba. Non mi è ancora capitato di leggere passaggi involontariamente ridicoli: le scene esagerate o divertenti lo sono perché l’autore vuole che lo siano, non per sbaglio.

Con queste basi, certe opere mi sono piaciute più di altre per le trovate fantasiose, o i personaggi, o il tono più o meno spiritoso, ma sono tutte di qualità oggettivamente buona.

Qui alcune di quelle che ho letto e che consiglio caldamente anche ai non appassionati del genere.

 

L1L0, di Pippo Abrami


La storia è abbastanza lineare: L1L0 è un automa a vapore con tre cervelli di scimmia, creato da un illustre scienziato di Praga per salvare sua figlia, tenuta ostaggio in una caserma.

Cosa distingue L1L0? Il Witz. Dacché qualunque essere autocosciente, una volta resosi conto di essere un bollitore dalla forma vagamente lagomorfa, si toglierebbe la vita, L1L0 è stato dotato di Umorismo Giudaico, l’ironia fatalista.

Un minuto di awe per una delle idee migliori che abbia mai trovato in un racconto. Il Witz è in effetti un’arma culturale elaborata per sopravvivere i diciassette secoli di oppressione e antisemitismo. Inserirla come componente anti-suicidio è geniale.

Non è solo una trovata deliziosa, è anche un grande pregio della storia. L1L0 è il personaggio-PoV, ed è il suo modo di vedere e pensare a dar vita a quella che altrimenti sarebbe una quest piatta e fine a se stessa.

Le scene d’azione sono ben descritte, il Punto di Vista è adorabile, la storia è semplice ma riesce a tirar fuori un twist che non scade nello zuccheroso e banale. Con tutto che ho un’idiosincrasia feroce per i marmocchietti in narrativa (ho il santino di Erode tra la foto di Wiseau e quella di Mattia Sorrenti), il racconto mi è piaciuto un sacco.

 

Piloti e Nobiltà, di Diego Ferrara


Diego Ferrara è lo stesso che ha scritto Soldati a vapore, un racconto che straconsiglio (magari ne riparlerò). A questo giro seguiamo Elsa, un pilota donna in un mondo di uomini, che deve eseguire un volo dimostrativo di un nuovo eligibile anfibio, a beneficio di una banda di nobili (possibili acquirenti). Tra Elsa e i suoi passeggeri il disprezzo è a prima vista e reciproco, e mentre il volo prosegue e le richieste assurde si moltiplicano, la situazione si fa più scomoda e la tensione sale.

Elsa è il Personaggio-Punto di Vista. Elsa è una donna forte, competente, con un brutto carattere e un’antipatia feroce per i Nobili. E’ un buon personaggio, con qualità e difetti, e all in all molto credibile.

In questa storia l’umorismo non è dato tanto dal tono della protagonista (che di umorismo ne ha poco), quanto dalla vicenda vera e propria. Specie alla fine, il racconto strapperà un largo sorriso a chi apprezza l’humour nero (tipo me).

Consigliatissimo anche questo.

 

 

La maschera di Bali, di Francesco Durigon


Questo è forse il più fantasy tra i racconti che ho letto finora e uno dei più “seri”. E’ anche l’unico in cui ho una riserva. Ma veniamo al dunque.

Londra, 1897. Il Dipartimento di Scienze Occulte sta studiando su un povero alienato gli effetti di alcune maschere tribali, ritenute magiche in qualche maniera. Durante l’esperimento, la maschera balinese di Rangda prende vita, e la situazione precipita: in poche ore Londra è invasa da orde di demoni immortali e fiammeggianti, affamati di carne umana.

Due personaggi sono voci narranti: Abigail, veggente del Dipartimento di Scienze Occulte, e John Plye, soldato di Sua Maestà Britannica, mandato al macello contro le orde demoniache.

Parliamo dei pro della storia per cominciare. I personaggi sono ben caratterizzati nel poco spazio disponibile, sono credibili e funzionano bene nella storia.

Le scene d’azione sono eccellenti. Il volo di Plye sui tetti di Londra e il primo scontro coi demoni è un piacere da leggere.

Per il fattore: “mah”…

Attenzione, SPOILERS!

La “seconda vita” di Plye pare poco concludente. Abbiamo messo in scena un buon personaggio, gli abbiamo dato una morte intempestiva e accidentale, il che potrebbe starci bene (fatalità della guerra, stiamo come d’autunno sugli alberi eccetera). Ma non finisce lì, viene resuscitato alla meno peggio, creando una buona situazione di conflitto: Plye preferirebbe essere morto che non uno zombie motorizzato, e lo si può capire.

Ergo abbiamo un buon personaggio (il soldato di fegato), lo ficchiamo in un contesto interessante (un dipartimento scientifico invaso da mosti e demoni), con un conflitto eccellente (essere non-morto)… e poi boh, Plye viene massacrato poche pagine dopo senza nemmeno arrivare in fondo al percorso.

Era proprio necessario?

Sarebbe cambiato qualcosa se invece di avere il suo punto di vista Abigail fosse stata accompagnata per il breve tratto da un soldato a caso?

Insomma, a mio avviso un peccato.

FINE SPOILER

In conclusione, la storia resta ben scritta, con scene notevoli e una vicenda interessante. L’impressione è che ci sia molto più materiale da sfruttare, anche in termini di ambientazione e personaggi. Forse il tutto si presterebbe meglio a essere rielaborato per un romanzo, più che non per un racconto breve.

Nonostante tutto, una lettura gradevole, che consiglio.

 

 

Caligo, di Alessandro Scalzo


Questo non è un racconto, ma un romanzo. Dalla quarte di copertina:

Repubblica di Zena, Italia, 1912. Barbara Ann ha quasi diciassette anni e un seno che se crescerà ancora diventerà davvero imbarazzante. Ma questo non è il suo problema principale: da alcuni mesi soffre di forti emicranie e allucinazioni. Cosa c’è nella testa di Barbara Ann? E come si collega alla morte di suo padre, il defunto colonnello Axelrod, il primo uomo a mettere piede su Marte nel 1894, ossessionato dalla ricerca di qualcosa di ignoto fin da quando ritornò dal Pianeta Rosso? E cosa vuole Michele, quel bel ragazzo biondo col cappotto che puzza di piscio? Barbara Ann si troverà immischiata in un gioco internazionale tra Inghilterra, Austria e il protettorato inglese di Zena… e intanto, chi si preoccuperà dei suoi criceti?
Un’avventura Steampunk con mech, zombie e scafandri potenziati, in una Genova del 1912 che non è mai esistita.

Come avrete capito dalla quarta, Caligo ha una vena ironica molto presente. C’è anche molto fan-service, e l’autore non è timido a riguardo (Barbara Ann ha delle tettone così!).

Di solito mi dà sui nervi quando l’autore indulge in descrizioni fisiche del/la protagonista per il puro scopo di titillare il lettore. Nihal che si contempla nello specchio e si trova gli occhi “troppo grandi” è un esempio immortale.

Trovo anche fastidioso e vagamente inquietante quando l’autore approfitta della storia per ficcarci dentro una sua personale perversione, che non ha nulla a che fare con la trama, non serve a niente, è lì solo perché piace all’autore. Un po’ come la gatta con tre tette in Star Treck 5. Shatner, what the hell?

Nella fattispecie il fatto che Barbara Ann abbia delle tettone così e che ce lo ricordi in più di un’occasione passa, perché alla fine segue bene il tono semiserio della storia, oltre che il carattere represso-esibizionista-masochista del personaggio. Ci sono dei momenti di puro fan-service in stile anime-ecchi, perché, non scordiamocelo, Barbara Ann ha delle tettone così, ma gli si perdona, perché alla fine la scena è divertente e non rallenta la storia. E poi Barbara Ann ha delle tettone così.

Tette a parte, la storia è originale e il personaggio di Barbara Ann interessante e divertente da leggere. Combina bene competenze, inventiva, coraggio, pregiudizi e bizzarrie. Ambientazione e comprimari peraltro le corrispondono bene: una Genova d’acciaio, catrame e fumi di scarico, dove niente è come sembra, dove chiunque potrebbe essere una spia, un traditore o un abbonato a Superomo (recapito anonimo e discreto).

La storia bilancia bene momenti semiseri con momenti più truci. La scena in cui Barbara Ann ha una crisi di emicrania non ha niente di umoristico, e non è la sola, ma passaggi dl genere sono molto ben dosati senza mai essere melodrammatici.

Le scene d’azione sono buone, e Barbara Ann è una che se la sa cavare senza scadere nel cliché della tettona guerriera (peraltro, ho già detto che ha delle tettone così?). L’ambientazione è solida e creativa, con la giusta dose di follia e realismo.

Le finale ha un twist, che io non mi sarei aspettata, ergo è oggettivamente un buon twist partendo dall’assunto che (ormai lo saprete) io sono infallibile.

Insomma, non voglio spoilerarvelo troppo perché vale davvero la lettura.

E questo è tutto per questo sabato. Oggi sono di corvé Al festival Beermageddon, che promette di essere altrettanto epico del proprio nome.

Intanto, un pezzo dalla band FogHorn. Non è il mio genere di Metal, ma siccome ci suona il mio jarl, è buono a prescindere!

Horde Noire!

The Ocean at the end of the lane

[Achtung: questo articolo è stato pubblicato automaticamente! Se tutto è andato bene, in questo momento dovrei trovarmi in Kazakistan. Ergo non so se potrò regolare i commenti o occuparmi del blog in qualsivoglia maniera. Mi scuso se alcuni interventi non compariranno, me ne occuperò quanto prima. Nel frattempo fate i bravi.]

 

The Ocean at the end of the lane

 

Ho sentimenti contrastanti per Gaiman.

No, ok, non è vero: io detesto Gaiman. Non perché non sappia scrivere, è una questione personale. Gaiman è uno dei criminali dietro la sceneggiatura di Beowulf, a oggi uno dei film più raccapriccianti che abbia mai visto (tratto peraltro da uno dei poemi più belli che abbia mai letto).

Essendo però io una fanciulla illuminata e di larghe vedute, so fare astrazione dalla mia personale (e ovviamente giusta) opinione sull’individuo, e considerare anche i suoi lati positivi.

Devo ammettere che ho letto solo due libri suoi, American Gods e questo qui, ed entrambi presentano gli stessi pregi e gli stessi difetti.

Ma andiamo con ordine.

La storia si apre col nostro protagonista, un uomo di mezza età, divorziato con figli adulti e distanti, che ritorna da un funerale. Sulla strada, decide di passare a vedere la casa in cui ha vissuto tra i cinque e i dodici anni. Trasportato dai ricordi, va fino alla fattoria degli Hempstock, dove viveva una sua amica d’infanzia, Lettie.

Dietro la fattoria, ricorda, c’era uno stagno, che Lettie chiamava Oceano, un oceano da cui lei, sua madre e sua nonna sarebbero arrivate tanto, tanto tempo prima. Lettie non è più in giro quando il nostri amico arriva, è partita anni prima e il protagonista nemmeno ricorda per dove.

Arrivato sul luogo, i suoi ricordi cominciano a svolgersi.

La vicenda di questo libro è una sorta di lungo flashback retrolampo e ruota intorno agli strani eventi accaduti al protagonista quando era bambino e alla famiglia Hempstock.

L’evento che scatena la vicenda è un suicidio: è a causa di questo che il protagonista, all’età di sette anni, incontra Lettie e la sua strana famiglia.

La famiglia Hempstock è a mio parere uno dei pregi di questo romanzo: Gaiman riesce a far trasparire la loro natura soprannaturale e bizzarra senza però mai dire con chiarezza chi sono costoro, cosa fanno per davvero o perché.

Di solito la mancanza di precisione è un difetto e una scusa per far succedere roba a caso. Non in questo libro. I poteri di Lettie, di sua madre e di sua nonna non sono spiegati o definiti, ma hanno dei limiti, e questi limiti danno per lo meno l’impressione di coerenza. Niente gente che si ricorda all’ultimo di poter sparare plasma o che scorda la magia quando comoda all’autore.

Insomma, un buon rimaneggiamento dell’archetipo delle fate gentili.

Tornando alla trama, dopo il fattaccio, qualcuno o qualcosa comincia a lanciare monetine alla gente o rimpiattarle in giro. Il protagonista quasi si strozza svegliandosi con una di queste in gola. Insieme a Lettie Hempstock, il narratore si avventura in una sorta di mondo parallelo, per snidare la responsabile di questo, un parassita sovrannaturale.

Non voglio spoilerare altro della trama, perché tutto sommato il libro vale la lettura.

La storia è abbastanza classica: ricalca per molti versi l’archetipo della creatura maligna che infiltra la famiglia (nelle favole come matrigna, qui come tata), trasformando quello che dovrebbe essere l’unico vero rifugio per il bambino in un ambiente ostile e pericoloso.

Come nelle favole, il protagonista deve scegliere tra convivere con la minaccia o fuggire nel grande mondo ostile e incerto, e come nelle favole, la cattiva farà di tutto per impedirglielo.

Gaiman fa un buon lavoro. Questo archetipo, per cominciare, è ben scelto, perché ha i suoi uncini in molti lettori. Molti da bambini hanno avuto momenti in cui si sono sentiti in pericolo o abbandonati nella loro stessa casa (vera o immaginata che fosse la situazione), e dopotutto questa è una delle ragioni per cui l’infanzia è uno schifo. In questo libro questo sentimento di paura, impotenza e abbandono è reso bene.

Anche il climax è gestito bene, con un aumento del conflitto e del pericolo costante e ben ritmato fino allo showdown finale.

Quindi un libro fighissimo, no?

Purtroppo, come con American Gods, Gaiman non sa come finirlo.

Fino alle ultimissime pagine la faccenda tiene molto bene. E poi… poi il buon Niel decide di mandare tutto in vacca con uno dei cliché più abusati.

Dopo aver ricordato tutto, il protagonista dimentica di nuovo a fine conversazione.

Non è una buona idea. E’ un’idea quasi brutta quanto “era tutto un sogno” (credo che quest’ultima sia la fine peggiore possibile, piuttosto fate che arriva la Morte Nera e fa saltare il pianeta, ma per favore, non infilateci quello schifo di “era tutto un sogno”!).

Perché dico questo?

Perché una storia è cambiamento. I personaggi incontrano un problema, reagiscono al problema ed evolvono. Il punto è che alla fine della storia non siamo più esattamente dove eravamo partiti. Tutti abbiamo giocato ogni tanto al Gioco dell’Oca, sappiamo quanto sia fastidioso ritornare alla casella iniziale mentre gli altri vanno avanti.

Se il protagonista dimentica tutto, tutto quello che ha imparato sparisce.

Ora, se state scommettendo su qualcosa di kafkiano pessimista e del tutto deprimente, ok, ma se non è il caso trovate una fine migliore, per pietà!

Gaiman specifica che gli eventi lasciano comunque un impatto sul protagonista, ma nonostante ciò la stragrande maggioranza dell’informazione è persa, e alla fine di questo flashback il nostro è lo stesso uomo stanco della prima pagina!

Non ho letto altri romanzi di Gaiman per il momento, ma ho il sospetto che il buon Neil sia uno di quelli che non sanno come concludere.

La storia sa sfruttare bene l’archetipo da cui prende ispirazione
Il protagonista è un buon personaggio narrante: non mi strapperei i capelli dall’entusiasmo, ma è comunque buono e attachant
I comprimari sono resi molto bene: possono essere persone sgradevoli, ma sono molto verosimili
Gli elementi fantastici sono ben gestiti
Il villain è meschino e vanesio, con motivazioni non proprio di ferro
Ma è descritto bene e in modo coerente: è un buon villain, e per quanto poco “grande”, resta più che abbastanza pericoloso da rappresentare un vero pericolo per il protagonista
Il climax è gestito molto bene
Il senso di angoscia e abbandono del protagonista è reso molto bene
Le Hempstock sono abbastanza ben tratteggiate
Il libro è scritto bene
La fine è deludente.

9 a 2.

Un punteggio molto buono, ma vorrei mettere un caveat: questo libro vince bene anche perché gioca sicuro. La storia è lineare, molto ispirata agli archetipi più popolari. Il che non è un difetto. Ma non aspettatevi un libro che vi cambierà la vita o qualcosa di terribilmente ambizioso.

E’ una favola, e come tale va benissimo. E’ un libro che non mi avrà lasciato moltissimo, ma che è fatto bene, breve (meno di 200 pagine) e molto gradevole da leggere. Se vi capita dategli un’occhiata!

Qualche estratto:

I

A gust of wind threw leaves and dirt up into our faces. In the distance I could hear something rumble, like a train. It was getting harder to see, and the sky that I could make out above the canopy of leaves was dark, as if huge storm-clouds had moved above our heads, or as if it had gone from morning directly to twilight.

Lettie shouted, “Get down!” and she crouched on the moss, pulling me down with her. She lay prone, and I lay beside her, feeling a little silly. The ground was damp.

“How long will we—?”

“Shush!” She sounded almost angry. I said nothing.

Something came through the woods, above our heads. I glanced up, saw something brown and furry, but flat, like a huge rug, flapping and curling at the edges, and, at the front of the rug, a mouth, filled with dozens of tiny sharp teeth, facing down.

It flapped and floated above us, and then it was gone.

“What was that?” I asked, my heart pounding so hard in my chest that I did not know if I would be able to stand again.

“Manta wolf,” said Lettie. “We’ve already gone a bit further out than I thought.” She got to her feet and stared the way the furry thing had gone. She raised the tip of the hazel wand, and turned around

“I’m not getting anything.” She tossed her head, to get the hair out of her eyes, without letting go of the fork of hazel wand. “Either it’s hiding or we’re too close.” She bit her lip. Then she said, “The shilling. The one from your throat. Bring it out.”

I took it from my pocket with my left hand, offered it to her.

“No,” she said. “I can’t touch it, not right now. Put it down on the fork of the stick.”

I didn’t ask why. I just put the silver shilling down at the intersection of the Y. Lettie stretched her arms out, and turned very slowly, with the end of the stick pointing straight out. I moved with her, but felt nothing. No throbbing engines. We were over halfway around when she stopped and said, “Look!”

I looked in the direction she was facing, but I saw nothing but trees, and shadows in the wood.

“No, look. There.” She indicated with her head.

The tip of the hazel wand had begun smoking, softly. She turned a little to the left, a little to the right, a little further to the right again, and the tip of the wand began to glow a bright orange.

 

II

My mother was in there with a woman I had never seen before. When I saw her, my heart hurt. I mean that literally, not metaphorically: there was a momentary twinge in my chest—just a flash, and then it was gone.

My sister was sitting at the kitchen table, eating a bowl of cereal. The woman was very pretty. She had shortish honey-blonde hair, huge gray-blue eyes, and pale lipstick. She seemed tall, even for an

“Darling? This is Ursula Monkton,” said my mother. I said nothing. I just stared at her. My mother nudged me.

“Hello,” I said.

“He’s shy,” said Ursula Monkton. “I am certain that once he warms up to me we shall be great friends.” She reached out a hand and patted my sister’s mousey-brown hair. My sister smiled a gap-toothed smile.

“I like you so much,” my sister said. Then she said, to our mother and me, “When I grow up I want to be Ursula Monkton.”

My mother and Ursula laughed. “You little dear,” said Ursula Monkton. Then she turned to me. “And what about us, eh? Are we friends as well?”

I just looked at her, all grown-up and blonde, in her gray and pink skirt, and I was scared. Her dress wasn’t ragged. It was just the fashion of the thing, I suppose, the kind of dress that it was. But when I looked at her I imagined her dress flapping, in that windless kitchen, flapping like the mainsail

of a ship, on a lonely ocean, under an orange sky.

I don’t know what I said in reply, or if I even said anything. But I went out of that kitchen, although I was hungry, without even an apple. I took my book into the back garden, beneath the balcony, by the flower bed that grew beneath the television room window, and I read—forgetting my hunger in Egypt with animal-headed gods who cut each other up and then restored one another to life again.

My sister came out into the garden.

“I like her so much,” she told me. “She’s my friend. Do you want to see what she gave me?”

She produced a small gray purse, the kind my mother kept in her handbag for her coins, that fastened with a metal butterfly clip. It looked like it was made of leather. I wondered if it was mouse skin. She opened the purse, put her fingers into the opening, came out with a large silver coin: half a crown.

“Look!” she said. “Look what I got!”

I wanted a half a crown. No, I wanted what I could buy with half a crown—magic tricks and plastic joke-toys, and books, and, oh, so many things. But I did not want a little gray purse with a half a crown in it.

“I don’t like her,” I told my sister.

“That’s only because I saw her first,” said my sister. “She’s my friend.”

I did not think that Ursula Monkton was anybody’s friend.

 

III

I bolted, ran down the hallway, round the corner, and I pounded up the stairs. My father, I had no doubt, would come after me. He was twice my size, and fast, but I did not have to keep going for long. There was only one room in that house that I could lock, and it was there that I was headed, left at the top of the stairs and along the hall to the end. I reached the bathroom ahead of my father. I slammed the door, and I pushed the little silver bolt closed.

He had not chased me. Perhaps he thought it was beneath his dignity, chasing a child. But in a few moments I heard his fist slam, and then his voice saying, “Open this door.”

I didn’t say anything. I sat on the plush toilet seat cover and I hated him almost as much as I hated Ursula Monkton.

The door banged again, harder this time. “If you don’t open this door,” he said, loud enough to make sure I heard it through the door, “I’m breaking it down.”

Could he do that? I didn’t know. The door was locked. Locked doors stopped people coming in. A locked door meant that you were in there, and when people wanted to come into the bathroom they would jiggle the door, and it wouldn’t open, and they would say “Sorry!” or shout “Are you going to be long?” and—

The door exploded inward. The little silver bolt hung off the door frame, all bent and broken, and my father stood in the doorway, filling it, his eyes huge and white, his cheeks burning with fury.

He said, “Right.”

That was all he said, but his hand held my left upper arm in a grip I could never have broken. I wondered what he would do now. Would he, finally, hit me, or send me to my room, or shout at me so loudly that I would wish I were dead?

He did none of those things.

He pulled me over to the bathtub. He leaned over, pushed the white rubber plug into the plug hole. Then he turned on the cold tap. Water gushed out, splashing the white enamel, then, steadily and slowly, it filled the bath.

The water ran noisily.

My father turned to the open door. “I can deal with this,” he said to Ursula Monkton.

She stood in the doorway, holding my sister’s hand, and she looked concerned and gentle, but there was triumph in her eyes.

“Close the door,” said my father. My sister started whimpering, but Ursula Monkton closed the door, as best she could, for one of the hinges did not fit properly, and the broken bolt stopped the door closing all the way.

It was just me and my father. His cheeks had gone from red to white, and his lips were pressed together, and I did not know what he was going to do, or why he was running a bath, but I was scared, so scared.

 

IV

Ginnie Hempstock returned. She was carrying my old dressing gown. “I put it through the mangle,” she said. “But it’s still damp. That’ll make the edges harder to line up. You don’t want to do needlework when it’s still damp.”

She put the dressing gown down on the table, in front of Old Mrs. Hempstock. Then she pulled out from the front pocket of her apron a pair of scissors, black and old, a long needle, and a spool of red thread.

“Rowanberry and red thread, stop a witch in her speed,” I recited.

It was something I had read in a book.

“That’d work, and work well,” said Lettie, “if there was any witches involved in all this. But there’s not.”

Old Mrs. Hempstock was examining my dressing gown. It was brown and faded, with a sort of a sepia tartan across it. It had been a present from my father’s parents, my grandparents, several birthdays ago, when it had been comically big on me. “Probably . . . ,” she said, as if she was talking to herself, “it would be best if your father was happy for you to stay the night here. But for that to happen they couldn’t be angry with you, or even worried . . .”

The black scissors were in her hand and already snip-snip-snipping then, when I heard a knock on the front door, and Ginnie Hempstock got up to answer it. She went into the hall and closed the door behind her.

“Don’t let them take me,” I said to Lettie.

“Hush,” she said. “I’m working here, while Grandmother’s snipping. You just be sleepy, and at peace. Happy.”

I was far from happy, and not in the slightest bit sleepy. Lettie leaned across the table, and she took my hand. “Don’t worry,” she said.

And with that the door opened, and my father and my mother were in the kitchen. I wanted to hide, but the kitten shifted reassuringly, on my lap, and Lettie smiled at me, a reassuring smile.

“We are looking for our son,” my father was telling Mrs. Hempstock, “and we have reason to believe . . .” And even as he was saying that my mother was striding toward me. “There he is! Darling, we were worried silly!”

“You’re in a lot of trouble, young man,” said my father.

Snip! Snip! Snip! went the black scissors, and the irregular section of fabric that Old Mrs. Hempstock had been cutting fell to the table. My parents froze. They stopped talking, stopped moving. My father’s mouth was still open, my mother stood on one leg, as unmoving as if she were a shop-window dummy.

“What . . . what did you do to them?” I was unsure whether or not I ought to be upset.

Ginnie Hempstock said, “They’re fine. Just a little snipping, then a little sewing and it’ll all be good as gold.”

E hum, che musica potrei mettere alla fine di questo articolo?

Well, nel film si nomina un oceano, e mi va di cambiare un po’ genere a questo giro.

L’ISLANDA DOVEVA VINCERE, DANNATI SVEDESI!