Recensione: Magdeburg-L’Eretico, parte I

Ho deciso di inaugurare la sezione “narrativa”. Si parlerà di romanzi belli, romanzi scarsi, romanzi brutti. E anche di abomini agli occhi degli Uomini e degli Dei. La prima recensione appartiene all’ultima categoria.


Era l’Anno del Signore 2005 quando il morbo allungò le sue zampe d’aracnide nelle librerie. Il Male aveva una faccia, e il Male aveva un nome, e tutt’ora Wikipedia lo descrive come “romanzo storico-gotico, seppur con leggere contaminazioni fantasy”.

Questo libro è contaminazione, è il T-virus della letteratura!

Sì, sto parlando di lui. Il Palpatine dell’editoria. L’autore italiano che non sa l’italiano. Il multiforme Alan D. Altieri.
Era il 2005, io avevo diciassette anni, ero giovane, ingenua e con la testolina piena di sogni. Ed è in pura buona fede che comprai per l’insana cifra di DICIOTTO EURO Magdeburg – L’Eretico.
Quel libro fu uno dei gradini verso la disillusione. Se finirò vecchia zitella alcolizzata in una roulotte piena di gatti, lo devo anche a quel libro. Accetto e abbraccio il mio karma. Ma come disse Burke: All that is necessary for the triumph of evil is that good men do nothing.
Troppe volte ho parlato con gente che giudica questo un buon libro. Troppe volte mi hanno chiesto « perché, cos’ha che non va ? »
Sarebbe più facile dire cos’ha che va.
Questa volta ho deciso di spiegare i principali fattori che fanno di questo libro un’immonda chiavica di immondizia e putridume.
E metto qui due caveat :
– io non chiudo un libro per lo stile (salvo casi limite). Sono di bocca buona: sono una a cui puoi scodellare una sbobba immonda, basta sia ricca in proteine. Lo stile di Altieri è ampolloso e ridondante, MA non per forza sgradevole. Pur essendo una raffinata fanciulla di buona famiglia, ho un gusto colpevole per ciò che è trash e cialtrone. Per intenderci, Riki-Oh è uno dei miei film preferiti. Non crede di essere un film serio, vuole essere un film idiota pieno di smembramenti deliranti! E funziona!
L’Eretico ha troppa pretenzione per essere divertente e troppi elementi retard per essere serio.

-Non sto dando alcun giudizio sulla gente a cui questo libro piace. I gusti sono gusti. Concedo alla plebe il diritto di godere della robaccia (e poi non dite che non sono magnanima!). Sacrebleu, io stessa apprezzo la robaccia, ogni tanto! Il punto è: oggettivamente questa roba è pattume. Puoi godertela lo stesso, come io mi godo le patatine al gusto pancetta fritte nel grasso di liposuzione (non guardatemi così, sono saporite ed eco-friendly!). Basta esser coscienti del fatto che è merda.
Detto questo, allacciate le maschere antigas, infilate i guanti e prendete un bel respiro…


Il linguaggio.
Altieri non sa l’italiano. Se io avessi scritto certa roba in un tema de l liceo, il mio professore sarebbe venuto a cercarmi a casa per farmelo mangiare. E avrebbe avuto ragione.
Una delle prime cose che salta agli occhi è l’espressione “armatura toracica”. A casa mia, quella cosa di metallo che copre il torso si chiama corazza. Le uniche volte che ho sentito parlare di “armatura toracica” è stato in riferimento a bestie tipo i limuli (che il Tapiro conoscerà di certo).
Può darsi che su questo mi sbagli io. Prima di fustigarmi la natiche però, sappiate che c’è altro!

Tipo l’uso ad minchiam del termine “simulacro”.

Grandi chiavi incrociate sotto una tiara simile a un simulacro

Simile a un simulacro“. Giuro che queste quattro parole continuano a infestare i miei incubi.

Furono in uno spazio dal lastrico dilaniato, pieno di simulacri abitati dal vento e dai corvi.

Quindi i simulacri sarebbero tipo dei trespoli per uccelli? Casette per pennuti? Pollai? Una a caso di queste, ma a forma di tiara? Mi appello all’autore: cosa significa secondo lei “simulacro”? Perché sa, in lingua italiana standard, queste frasi non vogliono dire nulla.

Ma Altieri ama non dire nulla. Certe frasi o interi capitoli sono lì solo per riempire il foglio. Tipo quando un personaggio termina una frase con un punto fermo e l’autore ci informa che “non era una domanda”. Sans blague! Sapete gente, ho ottenuto con successo la quinta elementare, so riconoscere un punto interrogativo quando ne vedo uno! (Lo so, sono una ragazza speciale! Lo diceva anche la maestra di sostegno!)
Parlando di ovvietà, Altieri ci tiene ad esempio a precisare che la coda del mostro più ridicolo delle Umane Lettere è di “duro cuoio organico“.
Ma dai?! Non in sintetico? Peccato. Mancata deriva retrofuturista, au grand dam de mon cher ami le Duc.
E non dimentichiamoci del protagonista!

L’eretico impugnava un arco da tiro.

Un arco da tiro?! Parbleu! Meno male che specifica, o me lo sarei immaginato con in braccio un arco scemo!
Potrò sembrare acida, ma un terzo del libro è costituito da cose superflue. A un certo punto una si sente un pelo presa per il culo!

Un’altra parola che Altieri ama molto è “rostro”.

In molti punti del labirinto, simili a rostri che cercavano di artigliare il cielo, si ergevano le cupole delle cattedrali e i pinnacoli dei campanili.

Vada per i pinnacoli, ma come diavolo fa una cupola ad assomigliare a un rostro?
Forse Altieri non sa nemmeno cosa significa “rostro”:

Della porta rimanevano solamente pochi rostri di granito.

Appunto.
Questo mi ricorda la Troisi, quando scriveva di gente carponi che avanzava spedita.
La mancanza di vocabolario frega Altieri anche quando cerca di dare una qualsivoglia consistenza a scenari che altrimenti sono riassumibili con “un posto a caso”.
Parlando di Magdeburg:

Botteghe, stallatici, taverne, altre botteghe.

Il grassetto è mio. E quando si dice un posto di merda. Ora m’immagino la città come un susseguirsi di costruzioni, botteghe e cumuli di letame alti tre piani. Sarà la nuova moda venuta da Praga? Nel caso tu debba defenestrare qualcuno…
(Sì, in certi rari casi “stallatico” può significare “stalla”, ma è ormai usato solo per indicare il letame)

Il vero guaio è quando l’autore inserisce qualcosa solo perché suona bene, e, peggio che mai, lo mette in bocca a un personaggio.

Nient’altro che pezzi di pergamena, mortalmente vero.» Augustus respira profondamente. «E la pergamena brucia rapida.

No Altieri, la pergamena brucia poco e male, e questo Augustus lo sa. Lo so che “è per dire”, ma sarebbe come se io me ne uscissi con:
-Gli Accordi di Schengen non sono che un file, e i file bruciano rapidi.
Che senso avrebbe?
Nessuno. Ma Magdeburg non ha senso. Altieri non è uno scrittore e questo non è un libro, è un cazzo di Pesce d’Aprile!
E ce n’è ancora!

Sotto la giubba di cuoio, le sue spalle larghe sembrano estensioni delle querce.

Che dovrebbe significare? Che sono di legno? Cariche di ghiande? Sotto ci sono i tartufi? Questa fa il paio con i “muscoli scalpitanti come cavalli imbizzarriti al sole” di sorrentiana memoria.

Il viandante in nero parve danzare sul confine del vuoto.

E‘ ufficiale Alan, mi stai prendendo per il culo. Mi hai appena afferrato le mele con ambo le mani e ci stai affondando le grinfie. Alla prossima frase senza senso ti denuncio per molestie.
Cosa.diavolo.significa.questa.frase? Perché per quanto mi riguarda l’unico tizio che io abbia mai visto danzare sul confine del vuoto è costui.

E la mancanza di chiodi, per dirla all’albionese, coinvolge anche il regno animale.

Il cavallo da guerra bevve a lungo, la lingua calda e ruvida che affondava ritmicamente nella corrente.

Altieri, è un cavallo, non un cane. Perché non una scena in cui da’ la zampa, a ‘sto punto?

I Dialoghi
Il libro di Altieri è un’esperienza dal sapore Buddista. Lo leggi, e sperimenti il Nulla. Difatti, se non bastassero le parti in cui l’autore sciorina parole a caso dal sussidiario Ortografia degli aggettivi lunghi (Immonda Dori edizioni), ci sono i dialoghi. Leggerne uno è come farmi svuotare un dente. L’anestesia mi ottunde i sensi, il fastidio mi sbriciola il fegato e la durata di questo triviale supplizio mi sfibra l’anima.
Nella maggior parte dei casi si tratta di pezzi inutili in cui un personaggio secondario interroga qualcuno che è troppo gegno e superiore per rispondere a dovere, dando la buffa impressione di seguire un dibattito tra sordi. Altre volte è anche peggio. Quanto segue è uno scambio tra Alessandro Colonna e un messo pontificio.

«Vi fate attendere, Principe Alessandro.»
[…]«Tradizione di famiglia.»
«A onor del vero, Principe […] al nostro ultimo incontro in sala d’arme sono stato io ad aspettare voi.»

Ok, a meno che non sia un clamoroso errore dell’e-book, il tipo ha appena ammesso che arriva sempre in ritardo e l’altro ribatte “non è vero, infatti sei arrivato in ritardo anche l’altra volta”.

 

Romanzo “storico”?

E veniamo a uno dei principali punti che fanno di questo libraccio uno dei peggiori romanzi mai partoriti da quel tegame inverecondo che è l’editoria italiana: l’aspetto storico. Semplicemente non esiste. A voler essere ottimisti, l’unica fonte di Altieri è il sussidiario del nipotino di sei anni, e questo nel migliore dei casi!
Questo libro è il Troy della carta stampata. Il The conqueror del romanzo storico. Lo Star wars holiday special della narrativa scritta!
Volete un paio di esempi a caso?

Le forme erano chiuse in palandrane grigie, la parte inferiore della faccia protetta da maschere a forma di becco. Parevano corvi deformi. A tutti gli effetti, lo erano.
Mietitori della morte, predatori del morbo.
Monatti.
Le campanelle che portavano legate alle caviglie erano un avvertimento, una minaccia e un requiem.

Da dove cominciare?
I monatti non portavano maschere (quelli erano i medici) e non tutti portavano campanelli (solo gli apparitori). Inoltre non mi risulta che i corpi degli appestati venissero bruciati, come dice invece nel libro (Altieri ci tiene alla sua versione seicentesca del forno nazista, fa tanto apocalyptic-retard).

I primi a vedere il pericolo delle tesi dell’uomo di Wittenberg sono i domenicani di Ignazio di Loyola.

Wait, what? Perché i domenicani di Ignazio di Loyola? Ignazio di Loyola non è il fondatore dei Gesuiti? I domenicani non erano quelli di Domenico di Guzmán? Aiuto, sono confusa! C’è mica un frate in sala?

Ma la Storia non è la sola a patire. Uno (non io) potrebbe quasi chiudere un occhio se il romanzo di Altieri fosse anacronistico ma verosimile in sé. Il guaio è che non lo è! Vuole essere una storia di intrigo e azione, ed è un pasticcio senza soluzione. Volete un paio di esempi su a che punto anche questo aspetto sia un insulto agli Uomini e agi Dei?
A pagina 32-33 abbiamo la prima, emblematica scena d’azione.
Wulfgar (il protagonista) VS Mercenari sacrificabili in quanto brutti e sporchi (dell’elegante caratterizzazione parleremo poi)!
Sulla pubblica piazza, il pio frate Bolanos sta per mettere al rogo il personaggio più inutile del libro. Purtroppo, proprio quando il buon monaco sta per salvarci dalla Damsel in DistressTM, Wulfgar interviene, armato della sua daikatana, versione pimpata della katana. Perché Wulf deve compensare, suppongo. E no, non esiste nessuna spada con questo nome. Esiste la daitō (“grande”+katana), esiste la tachi (che si scrive uguale ed è la sciabola lunga da cavaliere), o, volendo esser creativi, si potrebbe leggere la parola ōgatana, ma daikatana no. Né ora, né prima, né mai.

Due dragoni della Falange sfoderarono le spade, si avventarono. Un terzo mise mano alla pistola.

Wulfgar sgozza in un colpo solo due comparse, sgronda la spada, ha un breve scambio verbale col prete («Soldati del Signore, non temete! Dio è con voi!» […] «Uccidete questo eretico! uccidetelo ora!») e…

«Mi stai tediando, prete.»
Il terzo soldato armò il cane della pistola, cercò di allineare il tiro.

Il soldato sta ancora armando il cane.
E’ autoevidente che questo poveretto è affetto da grave ritardo mentale, dacché o tiene la pistola scarica mentre è in servizio, o è il tiratore più lento del regno. Sul serio, Wulf avrebbe il tempo di farsi un caffè e questo cretino sarebbe ancora lì a giocare con la cacca!
Il nostro eroe mozza di netto “metà del braccio” del povero handicappato, spedendo tale metà a roteare per aria con tutta la pistola. Fortuna che l’artrosi precoce ha impedito alle dita di tirare il grilletto nello spasmo.
Anyway…

Padre Bolanos chiese perdono alla Madonna. Invocò lo Spirito Santo. Implorò svariati Cristi. Si appellò agli arcangeli. Chiamò al suo fianco Dio Onnipotente. [E si rollò una sigaretta no?] Uno dei due investigatori dell’eresia si lanciò in avanti urlando, mazza ferrata da dieci libbre in pugno. Il viandante in nero parve nuovamente fondersi con le tenebre.
La mazza calò sul niente. Dal cielo violaceo tornarono giù due oggetti. Un braccio mutilato e una pistola. Era un’arma spagnola, calibro mezzo pollice, palla di piombo foderata di ferro. Il viandante in nero la strappò dall’aria.

Il grassetto è mio. E’ ufficiale, Wulf era compagno di banco di Michael Valentine Smith e gli Old Ones gli hanno insegnato a dilatare il tempo e far levitare gli oggetti.
Altieri, ti aspetti che io prenda una dinamica del genere sul serio? Parlando di prese per il culo, mi pare che le unghie già mi buchino i mutandoni e affondino nella ciccia.
Nemmeno una pagina dopo, un mercenario che prova a scappare viene freddato da uno shuriken nella nuca. Presumo che il tizio fosse l’unico senza elmo. E faccio notare che Wulfgar fulmina un bersaglio mobile, al buio e in mezzo a una folla atterrita. Questo perché siamo nel primo giorno di narrazione. Il sesto giorno Wulfgar creerà un nuovo mondo da una semplice caccola del proprio naso, e il settimo si riposerà su una nuvola di awesomeness.

A pagina 66, l’ennesimo tizio inutile riassume al nobile Dekken l’assalto che è costato la vita alla sua famiglia acquisita, suo padre e suo fratello maggiore.

Non meno di cento guerrieri in sella a cavalli pesanti. Mercenari, signore. Armati di moschetti, sciabole, picche.

Wait, rewind! Cavalleria pesante (non, al limite, fanteria montata, no, cavalleria pesante!) armata di moschetti e picche? Ok, adesso voglio che qualcuno mi spieghi come si fa a definire “storicamente accurato” un romanzo in cui dei cavalieri sono armati di moschetti e picche!
E voglio che Altieri personalmente si esibisca nella ricarica di un moschetto seicentesco stando in sella a un cavallo lanciato al galoppo. Aprirò una petizione su Avaaz perché ciò avvenga.

A pag. 254, abbiamo Leopold Klein, altro tizio figo e inutile, che porta una corazza per la prima volta.

Le corregge di cuoio della corazza lo serravano ai lati del petto, tagliandogli il respiro. L’elmo si ostinava a scivolargli sugli occhi, bloccandogli la vista.

Che fisico aveva il morto a cui hai fregato le armi? Perché, nella mia esperienza, un’armatura pesa sulle spalle, non tira sui fianchi. Peraltro, se l’elmo ti va largo, a meno che il morto non sia Megamind, anche la corazza dovrebbe andarti larga.

«Pas de problem, mon ami.»
«Pour le Roi! Pour la potte!»

Sé, vabé, croissant, baguette!

Sarà ancora un errore dell’e-book? Prima cosa, si scrive “pas de problème”. Inoltre, “la potte”? Io frequento quasi soltanto metallari alcolizzati e guerrieri vichinghi, ho imparato tanti vocaboli anatomici (e tanti sinonimi!), questo mi manca. O anche questa era “tanto per”?

E il piatto forte. I ninja. La ciliegina sulla torta. Il dettaglio che spedisce qualsiasi giapponologo in terra attanagliato da risate convulse e singhiozzi dirotti.

Questo è un ninja

Questa no, but hey, tits!

Chi sono i ninja secondo Altieri?

«Guerrieri-ombra. Assassini dei signori della guerra. Sterminatori senza volto, senza nome.»

A parte il fatto che nel 1630 in Giappone c’è un solo grande Signore della Guerra degno di questo nome, Tokugawa Hidetada… Ma non divaghiamo, Wulf è un ninja, pour de vrais!

«Il più letale che sia mai esistito.»

Ci mancherebbe! Noi occidentali siamo sempre i migliori, cosa vogliono saperne quei nippo addestrati dalla nascita! Hanzō, you nOOb.

I ninja fanno proprio qualsiasi strumento di morte, da qualsiasi cultura, di qualsiasi nemico.

Cosa che fanno più o meno tutte le culture non ritardate. Tipo i giapponesi non-ninja quando misero le mani sui moschetti.
Sappiamo anche che l’arco di Wulfie è fatto a partire da un disegno di un arco mongolo. I mongoli…

Tentarono più volte di invadere la Terra delle Lacrime.

L’appellativo “Terra delle Lacrime” non ho ancora capito da dove l’abbia preso (sembra Emolandia), e il “più volte” è in realtà “due volte”. Peraltro, se non erro (nel qual caso il più nerboruto e villoso degli utenti sarà autorizzato a fustigarmi) l’arco mongolo strictu sensu era fatto di tanta roba (tendini, legno, ne parlerò nell’articolo su Piano Carpini) ma non di metallo. L’arco di metallo veniva usato in India e con risultati non proprio mirabolanti. Ok, i Mughal erano di origine mongola, ma resta tirata per i capelli!


 

PARENTESI.

Chi erano i ninja?
Cominciamo col dire che “ninja” è la lettura figa di shinobi, e che la sola ragione per cui ha avuto tanto successo in Occidente è che suona più esotica. In secondo luogo, il termine indica di solito degli uomini (o donne) addestrati e impiegati di solito come spie o sicari. Erano, in altri termini, il Mossad del Giappone pre-industriale.
Riferimenti a degli specialisti di questo settore rimontano al XV° secolo. Come in Bandō era per eccellenza la regione dei cavalieri, le provincie per antonomasia degli shinobi erano Iga e Koga.
Qual era la caratteristica distintiva di uno shinobi?
Il fatto di farsi pagare: costoro erano mercenari e lavoravano per soldi (Heavens to betsy!). Le operazioni di spionaggio e assassinio potevano essere in grave contraddizione col codice morale dei guerrieri di quei tempi, e un daimyō poteva aver qualche difficoltà a chiedere a un vassallo di far qualcosa che infangasse in suo onore (il legame feudale è allo stesso tempo fortemente asimmetrico ma fortemente reciproco). Gli shinobi veleggiavano su questo, disprezzati e indispensabili.
Il Periodo Sengoku è la loro epoca d’oro. Quando tutti si scannano tra di loro in un bagno di sangue di epiche proporzioni, un mercenario può fare la propria fortuna.
Gli usi principali di costoro erano quattro: spie, esploratori, attentatori e agitatori. I tizi in pigiamino nero che s’infilano nel castello nemico esistevano, ma la maggior parte degli shinobi non erano che soldati di ventura, gente con lo stesso addestramento ed equipaggiamento di un samurai normale, diversi solo per il codice morale e il sistema economico di riferimento.
Quindi abbiamo Iga e Koga che forniscono mercenari, spie e sicari a mezzo Arcipelago. All fun and games, fino all’anno 1581, quando un daimyō decise che ne aveva abbastanza e che era ora di metter fine a quell’inesauribile fonte di fastidi. Il signore in questione si chiamava Oda Nobunaga.
Il pulito che fece da quelle parti se lo ricordano ancora. Eh sì, i “più letali guerrieri del Giappone” si fecero fare un mazzo colossale da truppe regolari.
Gli scampati di questa ecatombe ripararono in parte a Kii, dove mantennero profilo basso come i tartari in Crimea, mentre il resto dei sopravvissuti trovò rifugio sotto l’ala benevola e per nulla interessata di un altro daimyō, tale Tokugawa Ieyasu. Le attività shinobi degne di nota, in seguito, sono praticamente tutte imputabili a gente al suo servizio.
E ora due parole su tizi specializzati in missioni fighe, tipo spionaggio e assassinio. L’addestramento di costoro somigliava per certi versi a quello di qualsiasi altro guerriero. In più, uno shinobi di alto livello doveva fare i conti con le particolarità del mestiere: contrabbandare armi o trovarne a portata, infiltrarsi in posti sorvegliati, raccogliere informazioni, passare inosservato, manipolare l’interlocutore, ecc.
Come si legge nero su bianco in uno dei testi fondamentali, lo Shōninki, le due doti principali di uno shinobi sono discrezione e segretezza. Uno shinobi non deve essere un combattente eccezionale, perché in principio non deve combattere. Uno che combatte è uno che si è fatto beccare, e a quel punto poco conta la vittoria o il bodycount, 90 su 100 la missione è compromessa!
Uesugi Kenshin fu assassinato da uno shinobi che, nascosto nella buca del cesso, gli infilò una spada nel culo. Kenshin era già malato e aveva già avuto delle emorragie. Quando si trascinò fuori, i suoi conclusero che la malattia aveva avuto un tracollo repentino e nemmeno pensarono alla possibilità di un attentato.
Il fatto che in quel momento Kenshin fosse in grado di articolare solo qualcosa tipo “Waaarghlaaaaaghblblblblbl….” ha certamente aiutato l’assassino. Difatti, il tempo che spogliassero la vittima e scoprissero la ferita, il misterioso shinobi se l’era filata, pieno di merda e soddisfazione.

FINE PARENTESI (questi guerrieri saranno trattati molto più a garbo in articoli futuri)


 

Quindi, cos’ha il protagonista di Altieri che non va, da un punto di vista storico-logico?
Primo: la storia si ambienta durante la Guerra dei 30 Anni. In quest’epoca i soli occidentali ad aver contatti diretti col Giappone erano i portoghesi, gli spagnoli e in misura minore gli olandesi. Che io sappia, la prima prova documentata di tedeschi in Giappone risale agli ultimi decenni del ‘600.
In altre parole, nel 1630 nessun crucco aveva mai messo piede in Giappone!
Vabé, direte voi, magari è un’eccezione! Un minimo di sospensione dell’incredulità, no?
No.
Non solo non ci sono crucchi in Cipango nel periodo che ci interessa, ma i soli ninja attivi sono leali servitori dei Tokugawa. Insegnare le loro arti a uno straniero sarebbe stato flagrante tradimento, a meno che Ieyasu stesso (o Hidetada al limite) non avesse dato la sua benedizione. And that’s a lot to buy!
Vabé, direte ancora (o vvu’ siete petulanti però!), magari Wulf ha imparato da una famiglia ninja scampata al massacro e rimasta indipendente.
No e poi no!
I ninja sono mercenari! Baldracche dell’omicidio, imprenditori del massacro! Vendono i loro servigi e si fanno concorrenza tra famiglie! Tra loro non si insegnerebbero la ricetta dell’ovo sodo, e dovrebbero rivelare i loro segreti a un nanban? Un sudicio barbaro?

Altieri non ha la minima idea. Il tizio che ha farcito d’acciaio Kenshin e se n’è andato illeso, quello era un vero ninja. E’ stata un’azione eccezionale! Ma tutta la faccenda del restare acquattato a farsi cagare in testa, in attesa del culo giusto… iiiih, non fa spettacolo, e lo spettacolo è la sola cosa che interessa ad Altieri.
Così Wulf è il figo silenzioso, il guerriero torturato che riesce sempre a farsi notare da tutti e far vedere all’intero paese quanto è torturato! Attira sempre l’attenzione, anche quando potrebbe facilmente evitarlo.
Wulf è la scene queen che ognuno di noi voleva essere a 12 anni.
Uno che da’ nell’occhio o attira l’attenzione è l’ultima persona su Terra a potersi definire ninja.

Riassumiamo: il ninja di Altieri va in giro con un vistoso stallone nero, l’equivalente seicentesco del suv. Sfoggia vistosi tatuaggi in un periodo in cui il tatuaggio è estremamente raro. Maneggia un arco d’acciaio fatto come quello mongolo che non ha nulla in comune con quello mongolo. Brandisce uno spadone più lungo della media quando le armi degli shinobi erano in genere più corte.

Tolto il lancio di shuriken, non ha nulla in comune con i ninja. “Ninja” per Altieri non significa un cazzo. E’ lì perché è popolare, è lì perché fa figo, ed è una delle ragioni per cui questo libro fa schifo.


Nelle prossime 2 puntate ci occuperemo di trama e personaggi, e credetemi, ce n’è da dire su come non si scrive e su come non si caratterizza!

E per celebrare la prima recenzione fantastorica, MUSICA!

Combattenti di Heian: la banda di guerra

Per riprendere quello che dicevo nell’articoletto sull’evoluzione militare (se non lo avete letto fatelo, è ottimo per l’insonnia!), quando si parla di esercito e Giappone preindustriale, la prima idea che viene è quella di un’entità organizzata, con schieramenti di cavalieri, linee di picchieri, fantaccini a natiche ignude che sono lì per fa bodycount. In parole povere, l’esercito del Periodo Sengoku che il buon Kurosawa ha messo tanta cura a rievocare.
Questo tipo di armata comincia a esistere piuttosto tardi. Li vediamo abbozzati in quel felice disastro di epiche proporzioni che fu la Guerra di Ōnin, nel 1467. Risalendo agli inizi del governo dei guerrieri, troviamo un sistema molto differente. Prendete una battaglia a caso del XII°: troverete più ordine e disciplina in un concerto dei Sabaton.
Quindi perché perdere tempo con quelle noiose linee di moschettieri quando possiamo tuffarci nel sanguinoso bordello delle bande di guerra?
La banda, la bushidan, il meraviglioso embrione che fiorirà qual boccio di ciliegio nella raccapricciante Guerra di Genpei! (Raccapricciante per l’epoca: i giapponesi hanno il dono di superarsi sempre) In particolare, voglio parlare della banda che vediamo operare nel X° secolo nell’Est di Honshu (e più precisamente nel Bandō).
Bando

Il Bandō, dal saggio di Friday, The first samurai

Le bande del X° presentano già gli elementi essenziali della banda feudale. Da un punto di vista puramente pratico, non c’è ragione di non definirle bushidan. Ma per via di fottute convenzioni storiografiche, non si può. Non vorrei farmi tirar le orecchie in terra da qualche purista cagacazzi (non prima di aver finito il mio mémoire sul rapporto di vassallaggio e i legami uomo-uomo), ergo mi limiterò a chiamarle bande.

Il contesto

Giusto un paio parole di background. Abbiamo visto come il sistema del gundan sia fallito e come le autorità si siano appoggiate sempre di più su forze private. In teoria la necessità di un Decreto per mobilizzare più di 20 armati era sempre valida nel X°, ma la Corte sapeva guardare dall’altra parte quando faceva comodo. I tributi dovevano affluire. E non era solo una questione di ingordigia aristocratica, anche se tutti sappiamo che i sacrés ci-devants sono sfruttatori del popolo per definizione!

La Corte e i suoi nobili erano responsabili dell’equilibrio del Paese. Sì, magari il protocollo per tale cerimonia costava tanto, ma la salvezza del Paese ne dipendeva! Rimpiangerai i tagli sugli incensi quando i terremoti ti spianeranno la casa!

I nobili passavano il tempo a comporre poesie e partecipare a rituali, ogni compito pratico legato alla loro funzione era scaricato con sussiego sulle spalle di una torma di segretari, addetti, aggiunti, galoppini, stagisti, ecc. Perché tenere la contabilità o mandare rifornimenti al Chinjufu sono cosette frivole: organizzare la Degustazione delle Primizie o la Purificazione del Respiro Imperiale… that’s serious business!

(Hey, non giudicate, ogni civiltà ha le sue idee balzane, e noi non siamo in una buona posizione per criticare)

Di più, in questo periodo tutte le funzioni maggiori e i ranghi dal sesto in su (ovvero i ranghi dell’Alta Aristocrazia) sono diventati ormai monopolio di poche famiglie. In particolare, le cariche più prestigiose (ministri e consiglieri, ma soprattutto Reggente e Gran Cancelliere) sono appannaggio dei Fujiwara. L’unica seria eccezione ndel periodo fu Sugawara Michizane, che infatti fu messo nel mezzo e spedito in esilio nel 901. Là morì di dolore e divenne uno dei più terrificanti spettri della Storia, ma delle sue avventure post-mortem parleremo un’altra volta.

Tornando a noi, non solo le cariche erano monopolizzate: le famiglie in questione, e i Fujiwara più di tutti, si appoggiavano sempre meno sulle funzioni ufficiali e sempre di più sui loro uomini personali. I grandi clan avevano istituzioni amministrative private (sul modello della Cancelleria Privata dell’Imperatore). Quando c’era bisogno di fare qualcosa era più efficace, rapido e facile di ricorrere ai propri clienti e scherani piuttosto che prendere la via ufficiale dei Codici.

In questo quadro, non sorprende che il confine tra pubblico e privato sia andato a meretrici. E ciò non toccava solo la Corte: grandi famiglie e grandi istituzioni religiose possedevano latifondi nelle diverse province. Ovvio, i Codici proibivano il possesso della terra, ma ipocrisia e contraddizione non le abbiamo inventate noi: questi appezzamenti, shōen, divennero prima esenti da tasse e poi esenti dall’autorità dei funzionari provinciali.

Ergo ci troviamo davanti a un sistema bastardo in cui sopravvivono le istituzioni ufficiali, ma la rete di clientele, alleanze e favori tarla e condiziona ogni aspetto della vita. Una situazione molto mafiosa, per certi versi. Per dirlo con le parole di Hurst (citato da Friday), il Paese è dominato da un numero ristretto di grandi famiglie e istituzioni religiose che perseguono i loro interessi privati e che si sono evolute in parallelo alle funzioni dei Codici.

Venendo al Bandō, la situazione è anche più complicata. I notabili locali, i dogō, sono armati e protetti da una rete di alleanze tra congeneri. Spesso sono legati come clienti a funzionari, talvolta gente molto importante. Taira no Masakado (di cui parlerò di certo in futuro), oscuro dogō di Shimōsa, era cliente di nientemeno che il Ministro degli Affari Supremi Fujiwara no Tadahira.

Ma che festa sarebbe se a far casino fosse solo una categoria? Anche i governatori difatti sono armati! Nel X° era ormai regola che costoro si portassero appresso qualche decina di rōtō, ovvero valletti d’arme, uomini di mano simili per reputazione ai famigerati Bravi del Manzoni. Non erano per forza uomini fedeli alla persona del governatore. Come dice Hérail citando lo Shin sarugaki, alcuni erano fedeli all’uomo, altri servivano più padroni con ingaggi temporanei.

grumpy

Il Bandō

Il Bandō era una regione rude. I suoi abitanti si dividevano tra locali bellicosi ed emishi deportati. Era una zona di pascoli e pantani, dove si allevavano cavalli e guerrieri. La Corte aveva bisogno di entrambi, ma non se ne fidava: le barriere di Usui e Ashigara separavano questa terra di matti pericolosi dalla gente civilizzata della Capitale. Viaggiare in questa zona brulicante di briganti era così complicato che un corriere metteva di media 20 giorni ad andare dalla provincia di Shimōsa alla Capitale, e questo se poteva cambiare cavallo! Roba da far schiantare dalle risate un corriere romano. Tre hurrà per l’efficienza!

I Codici qui erano stati applicati in modo discontinuo e irregolare. Il guaio era che se da una parte il Bandō era il “serbatoio militare” del Paese, dall’altro era anche popolato da gente fumina, indipendente e rintanata in residenze fortificate.

Già, perché se alla Capitale erano troppo spirituali per avere mura, nelle spietate lande orientali la gente cercava di difendersi. Per avere un’idea di dove e come viveva un notabile del Bandō, Kawajiri usa come esempio quello compare nello Utsuho monogatari, ovvero una residenza di dogō nel distretto di Muro nella provincia di Kii.

Si tratta di un complesso di 800 chō[1]. Prendete il numero con le molle perché la faccenda pare veramente TROPPO vasta anche per la ricca regione di Kii. Anche concesso che un latifondista possedesse mille ettari e spicci, le proprietà e le residenze del Bandō erano di certo molto più modeste. Il centro della proprietà, dove risiedeva il capoccia, era una base fortificata, circondata da una palizzata e spesso da un basso fossato. All’interno si trova la casa del dogō e della sua sposa principale (ōdono), dei campi e circa 40 costruzioni tra cui magazzini, case di compagni, tre tipi di cucine diverse, distillerie, granai, ateliers per gli attrezzi, filanda, forgia, ecc. La palizzata della residenza poteva essere rinforzata da dei posti di guardia.

Se prendiamo lo Shōmonki, troviamo che un capo relativamente piccolo come Masakado poteva contare su una decina di cavalieri sempre presenti (il che presuppone, come vedremo a breve, tra i 20 e i 30 armati).

Non si tratta di fortezze vere e proprie (non erano fenomeni in architettura difensiva), quanto dei centri agricoli e produttivi protetti alla meno peggio.

fort

Notabili un minimo importanti (ovvero della stessa classe dei magistrati di distretto) avevano di solito più di una base. Oltre a gestire pascoli e campi, profittavano del surplus per far prestiti con interesse ai contadini circostanti. In pratica, gestivano la vita dei dintorni. Spesso costoro avevano anche una funzione subalterna nel governo provinciale, perché era su uomini del genere (e sui magistrati) che il governatore doveva appoggiarsi se voleva strizzare le tasse senza troppi intoppi.

La banda

Prima di parlare nello specifico di armi e tattiche, vorrei dire sui cose sugli uomini. In campo si trovanoinfatti due tipi di individui, i jūrui e i banrui. Stabilire che razza di gente siano è un casino, pertanto cerchiamo di far dei distinguo basandoci sul loro comportamento secondo le fonti d’epoca.

I banrui sono i più numerosi, ma anche i meno affidabili: se la danno a gambe non appena gira male. Sono anche i primi bersagli di una rappresaglia. Tenete a mente che non era concepibile in questo contesto conquistare un territorio. Dato che la guerra era illegale, il massimo che potevi sperare era che i funzionari tenessero il naso fuori dai tuoi affari, ma era pura follia aspettarsi che confermassero i tuoi diritti su delle aree occupate. Ergo la vittoria presentava solo due interessi: il bottino e il mettere il tuo nemico (ed eventuali eredi) in condizioni di non nuocere. Ovvero, quando un dogō vinceva, procedeva alla distruzione completa, totale e tombale di tutto: case, fortificazioni, granai, campi, pascoli, schiavi, contadini. Le case dei banrui erano le prime a partire in fumo, con le famiglie dei suddetti dentro, se possibile. Tutto quello che non poteva essere rubato doveva essere annientato, perché era l’unico modo di falciare la base economica del tuo nemico. Non farlo voleva dire dargli la possibilità di riprendersi. Magari tra un paio d’anni sarebbero stati i tuoi contadini a bruciare. Un capo non poteva permetterselo: il suo potere dipendeva dal suo prestigio, e il suo prestigio dipendeva dalla sua capacità di proteggere i propri e terrorizzare gli altrui.

Nel X° secolo non ci sono mezze misure: si scommette tutto o non si scommette nulla. La guerra in questo periodo, anche la piccola faida familiare, ha un impatto ambientale e umano apocalittico.

I banrui sono chiaramente quelli che ci guadagnano meno e che rischiano di più. La loro lealtà al capo dipende solo dalla promessa di bottino o dalla paura di ritorsioni. Avidità e terrore sono le due leve dei guerrieri del X° secolo. Non hanno lealtà per nessun altro che il loro capo diretto o la loro famiglia stretta (il padre o i fratelli nella migliore delle ipotesi). Già cugini e nipoti erano pronti a scannarsi a vicenda per profitto (e ciò era accettabile). Il legame con la moglie e la sua famiglia era spesso più vincolante di quello tra cugini.

Moglie, figli, fratelli, clienti. Questi sono gli unici a cui un capo guerriero tiene, gli unici che tengono a lui.

Non era disonorevole per un banrui darsela a gambe. E un dogō s e lo aspettava. Sapeva che se le cose giravano male lo avrebbero piantato in asso (o addirittura cambiato campo).

Ma chi erano di preciso i banrui?

Secondo Kitayama, si tratterebbe di contadini armati alla meno peggio e impiegati come uomini a piedi da tizio o da caio. Secondo Kawajiri, si tratta di piccoli proprietari indipendenti, magari loro stessi a capo di una piccola banda, costretti ad allearsi con pesci più grossi per mettersi al riparo da vicini e colleghi. Io condivido la posizione di Kawajiri: leggendo testi come lo Shōmonki pare che il grosso dei contadini non prendesse parte ai combattimenti (casomai li subisse). Allo stesso tempo la vita agricola era una parte importante per molti dei combattenti. In altre parole, la distinzione tra guerriero e grosso contadino era spesso labile (come d’altro canto lo fu in Europa per un lungo periodo).

lealtàEcco, non aspettatevi nulla del genere da un banrui

I jūrui sono molto meno problematici e gli storiografi sono concordi nel dire che si trattava degli uomini personali del capo-banda. Dipendevano da lui, spesso vivevano con lui, e gli erano legati da uomo a uomo. Gli erano fedeli e per loro la fuga non era accettabile. Perché se era comprensibile per un alleato voltar gabbana, non lo era per un compagno, e nessuno vuole accogliere tra i suoi un pusillanime o un traditore. Erano il nocciolo duro di un esercito, quelli su cui un capo poteva davvero contare, quelli che sarebbero invecchiati con lui o morti con lui.

Ma veniamo alla parte divertenti: gli attrezzi del mestiere!

Armature

I Codici autorizzavano le armi personali, ma la fabbricazione di armi e l’allevamento di cavalli da guerra avrebbero dovuto essere un’esclusiva del governo provinciale. Dico avrebbero. Il sistema entrò in crisi (big shock) e nel X° archi, frecce, cavalli ecc. erano autoprodotti da dogō e atri notabili locali. Roba più elaborata, come armature o spade, continuava a essere fabbricata principalmente in quel della Capitale (sì, l’armaiolo del villaggio che ti scodella uno spadone di ottimo acciaio e una cotta rivettata a prova di turco fa molto fantasy ma è una stronzata).

Chi poteva permetterselo, portava un’armatura. Ora, si tratta senza dubbio di lamellari (keikō), tipologia che domina incontrastata la scena militare giapponese fino al XVIII° secolo. Ma che tipo di lamellare, questo è molto più complicato da definire. Purtroppo i testi non sono molto chiari. Possiamo dire che di certo erano lamelle laccate (d’acciaio o di cuoio… o a volte entrambe!), il che le rendeva molto resistenti all’umidità. Ho finito di ripulire in questi giorni la mia lamellare, e posso assicurare che è una menata senza fine.

Piccola nota: nei modelli classici di keikō le lamelle erano laccate una ad una, prima di essere assemblate. Nella proto-ōyoroi sono prima allacciate in file e poi laccate, il che rende la striscia più rigida ma più robusta. E’ un passo verso quella scatola di sardine che sarà l’ ōyoroi, l’armatura completa del XII° secolo.

L’allaccio giapponese è fatto in modo che la lamella si sinistra copra sempre per metà quella di destra. Le file sovrascorrono in parte, come nelle armature occidentali.

warbandCavaliere e uomo a piedi

Ora, non sappiamo di preciso che modello di lamellare fosse più diffuso nel Bandō del X° secolo. L’armatura “classica”, quella della Guerra di Genpei per intendersi (ōyoroi), lamellare pesante chiusa sotto il braccio destro, “nasce” verso l’inizio dell’XI° secolo. Tuttavia, secondo Kawajiri, non è impossibile che un modello molto simile fosse già usato nel Bandō cinquant’anni prima. Nella mia ricostruzione (discutibile quanto vi pare), il cavaliere porta un modello molto vicino alla ōyoroi, con delle sode (protezioni del bicipite) agganciate sulla spalla e legate dietro, e non più fissate sopra il gomito. Le sode sono più affini a degli scudi mobili che a degli spallacci: l’idea è quella di seguire il movimento dell’arciere. Quando tende, la sode scivola sulla scapola senza intralciare il movimento. Dopo aver scoccato, l’uomo ripiega il braccio destro mentre cerca un’altra freccia, e così facendo la sode riscivola sul bicipite, proteggendolo dalla salva avversaria.

L’elmo è ripreso da un ricostitutore dello stesso Jidai Matsuri usato nel primo articolo: ha già le ali laterali, ma la protezione della nuca non ha ancora la forma larga a ombrello tipica delle armature duecentesche, bensì resta vicina al modello del IX° secolo. Le due “ali” sul davanti servono probabilmente a deviare sull’esterno frecce e fendenti ed evitare che questi trancino l’allaccio delle lamelle sulle tempie.

Le lamelle erano allacciate con fili di seta apparenti e colorati. Il colore dei lacci era un modo per riconoscere la banda o il cavaliere da lontano, esattamente come la nostra sopracotta. Il cavaliere poteva anche avere una pezza di cuoio decorato tirata sul petto (poteva). Oltre all’aspetto visivo, questo evita che la corda dell’arco pizzichi le lamelle: ciò difatti danneggia la mira e la corda. Ora, nonostante avessero con loro dei ricambi (la ciambella che portano alla cintura), non è una festa ritrovarsi a cambiar corda in mezzo al parapiglia.

Infine, il cavaliere portava un kote al braccio sinistro, ovvero una seconda manica a forma di sacco che si allacciava attraverso il petto e si serrava al polso per impedire alla manica del kimono di sventolare e dar noia all’arciere. Secondo Bryant, nel n°35 delle Osprey, le kote di Heian non erano rinforzate in alcun modo. I reenactors del Jidai Matsuri sembrano non essere d’accordo.

Un’altra lamellare simile alla ōyoroi ma più leggera era la dōmaru, priva di sode e usata tra gli uomini a piedi che potevano permettersela.

Le armi

L’arma per antonomasia del guerriero non era la spada, ma l’arco, fabbricato in lame di catalpa, zelkova o legno di gelso e bambù, incollate tra loro e laccate, cerchiate di filo di seta, scorza di betulla o rattan. E’ un’arma di lunghezza notevole (certi sono più alti del loro arciere, anche 2,5 m), da impugnare a un terzo di lunghezza dal basso, il che dovrebbe alleggerire il contraccolpo dello scocco sulla mano sinistra del cavaliere. Pare sia molto rapido, ma ha un libraggio non proprio impressionante. Diciamo che, con tutta quella roba, nemmeno si avvicina alla cattiveria dei suoi cugini compositi della steppa.

Per di più, con un arco così lungo, uno a cavallo non può tirare a 180°! L’arco urta il collo del destriero e bisogna sollevarlo per cambiare lato. Un cavaliere del X° tirava di solito sulla sinistra. C’erano delle tecniche per approfittare della faccenda, tipo far voltare il cavallo in modo da trovarsi sul fianco “cieco” dell’avversario (il destro). Inoltre, vista la forma ingombrante dell’elmo, è probabile che i cavalieri giapponesi non armassero alla guancia ma al petto. Insomma, l’interesse non era tanto la precisione quanto una salva ben fitta di frecce scagliate da tizi rapidi e ben protetti.

Le fecce, lunghe 86-96 cm, erano in bambù tagliato a inizio inverno e lisciato. Erano tenute in una faretra (ebira) costituita da uno scatolotto e un “dorso” a cui le aste erano assicurate da un laccio lasciato allentato. La faretra era sospesa contro l’anca destra. Il guerriero afferrava l’asta poco sopra la punta e la sfilava da sotto il laccio tirandola in avanti.

Il cavallo giapponese non era grandissimo. Mediamente, misuravano sui 133 cm al garrese, ma ne avevano anche di “grandi”, alti 15o-155 cm circa (5 shaku). I giapponesi non ferravano i cavalli. (Se non vi eravate posti la questione, shame on you!)

Friday cita un esperimento della NHK, che avrebbe fatto cavalcare un tizio carico per simulare il peso di un’armatura, al fine di sfatare il mito del cavallo infaticabile. Per quanto divertente, questo esperimento lascia un po’ il tempo che trova: dovremmo provare con la precisa razza usata come cavallo da guerra, e dovremmo provare con un cavallo addestrato apposta, altrimenti è fuffa.
horse

Immagine dimostrativa, da notare che sella e staffa non sono storicamente corrette

La sella e i finimenti somigliano molto a quelli europei e non mi perderò in dettagli. Unica nota interessante: la staffa a quest’epoca è a coppa, ingloba il piede dell’arciere, offrendo una discreta stabilità. Il cavallo era guidato con le briglie e con un frustino di salice che poteva essere legato e lasciato penzolare al polso destro del guerriero.

Infine, come noterete nella figura, il cavaliere del Bandō porta una tachi, o sciabola lunga. Questo tipo di lama è apparsa probabilmente agli inizi del X° secolo, anche se la sua evoluzione è ancora un soggetto controverso. A differenza della katana successiva, non viene tenuta contro il corpo ma appesa alla cintura, come le spade europee, e col filo rivolto verso il basso (spaccare la faccia di un tizio a piedi sguainando non ha prezzo!).

Ma veniamo agli uomini a piedi, i sacrificabili! Anche costoro erano armati di arco. L’altra arma tipica era la hoko, la picca, arma inastata di 4 m circa, con lama piatta a doppio taglio sui 36 cm. Talvolta alla base della lama ci sono due uncini che si piegano verso l’esterno (per bacchiare i cavalieri).

Questi ardimentosi erano protetti da dei tate, scudi fissi simili ai nostri mantelletti, costituiti da 2 o 3 tavole di legno di 2-3 cm di spessore. In altezza arrivavano a livello d’occhio del tizio a piedi ed erano larghi più o meno quanto le spalle di un uomo.

Sia chiaro, questo equipaggiamento non era alla portata di tutti e non tutte le bande avevano un arsenale completo. D’altro canto il numero di unità cambiava. La banda più piccola poteva contare appena un cavaliere con uno o due compagni a piedi, mentre le più grandi mettevano insieme fino a un’ottantina di cavalieri (ovvero circa 200 persone tra tutti).

La battaglia

In teoria, una battaglia avrebbe dovuto essere uno svolgimento molto ritualizzato. I due contendenti si trovano in un luogo prestabilito, si schierano, si scambiano dichiarazioni di guerra, magari si scaldano con qualche duello individuale tra cavalieri.

Ora, questa era la teoria, e pare che in alcune occasioni sia anche stata seguita! Come vedremo in futuro, la pratica corrente era tutt’altra. La tattica regina del massacro giapponese è l’imboscata o l’attacco a sorpresa. Niente appuntamenti, niente dichiarazioni, si tendono trappole e si incendiano le case nottetempo, un po’ come gli islandesi che più o meno nello stesso periodo organizzavano assassinii a sorpresa ai cessi (un giorno parleremo anche di loro). D’altro canto, l’arte della guerra è l’arte dell’inganno, lo era allora e lo sarà finché non ci estingueremo.

Ergo, anche in caso di casino grosso, dove si muovevano decine, magari centinaia di bande alla volta, non c’era nessuno schieramento campale, nessun quadrato di picchieri: ogni gruppetto, coordinandosi più o meno bene (di solito molto bene) con gli altri, cercava di beccare un gruppetto nemico con le brache in mano.

Voglio sottolineare che i guerrieri di quest’epoca sono molto diversi dall’immagine Edo che certi film ci hanno lasciato. Un guerriero preso con le brache in mano diventava campione di cento metri piani in mezzo secondo: l’idea di morire per sport è molto moderna, nel X° non si combatte una battaglia persa, si taglia la corda (a meno che il tuo capo personale non sia incastrato, allora la storia cambia).

Un guerriero combatte per onore e fama. Ma a differenza di altri periodi, nel X°, non è il comportamento di un uomo a dargli onore e fama, bensì il numero di vittorie.

Fuggire dopo una sconfitta macchia il tuo onore e diminuisce la tua fama. Ma morire è peggio. Chi resta vivo può riprendersi, chi muore per orgoglio è cibo per vermi, e i morti hanno sempre torto.
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Uomini e cavalli, la joint venture più epica della Storia della zoologia!

I guerrieri di questo periodo sono uomini affascinanti. Il ritratto che ne esce dai documenti, tolta l’aura di oVVoVe e disprezzo degli aristocratici (gli autori di detti documenti) è quello di energumeni egocentrici, bellicosi, sentimentali, filiali, superstiziosi, ma capaci di un cinismo e di un pragmatismo eccezionali. E’ bello studiarli ed è bello sapere che tra te e loro ci sono dieci secoli di distanza di sicurezza. E’ bello capirli ed è bello non averli come vicini di casa.

Un giorno vi parlerò di uno di loro in particolare: Taira no Masakado. Un buon guerriero e un pessimo politico, destinato a far pipare il culo di ministri e mercanti ancora oggigiorno.

Well that’s all folks! And as always,
Stand up and fight!

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[1]   1 chō di quest’epoca misura circa 400 shaku per lato, e uno shaku misura circa 30 cm. Se non ho fatto troppo casino coi calcoli (leggasi: è probabile che abbia fatto casino coi calcoli), il tutto dovrebbe fare qualcosa come un po’ meno di 3400 m per lato.
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Bibliografia

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