Abe-naishinnō, l’imperatrice che regnò due volte

In questo blog parliamo spesso di fatti e persone appartenenti a quella che viene definita l’Epoca di Heian (784-1185). Il nome viene dalla città Heian, la Capitale della Pace e della Tranquillità, oggi nota come Kyōto. Heian è stata particolarmente importante in quanto è stata Capitale per tantissimo tempo. Ufficialmente, è rimasta tale anche dopo la nascita dello shōgunato.

Una capitale fissa è in contrasto con gli albori della dinastia imperiale: per generazioni la sede del Governo centrale è stata itinerante.

La morte era considerata come la più ripugnante delle contaminazioni, e nessuna morte era impura come quella del Figlio del Cielo. Defunto un sovrano, era uso spostare la residenza del successore e, di conseguenza, l’intera città. Nuova era, nuovo palazzo, nuova capitale!

La vecchia sede veniva proprio smontata: i pilastri divelti, le magioni fatte a pezzi, gli archivi, le botteghe, gli atelier, gli uffici, tutto veniva sradicato e spostato.

Questo aveva, ovvio, un costo mostruoso, e divenne sempre meno sostenibile.

La prima “capitale” fissa fu costruita nel nord-ovest di quella che è oggi la città di Nara. Il nome di questa nuova città era Heijō-kyō, Bastione di Pace. La corte resterà qui per tre intere generazioni: dal 710 al 784.

La regione delle Capitali

Oggi parleremo di una porzione sostanziale e curiosa del Periodo Nara: i regni della principessa Abe, un personaggio tanto importante quanto elusivo.

Come al solito, si tratta di un articolo che non vuole (non può) essere esaustivo: libri interi sono stati dedicati alla misteriosa imperatrice e al suo tempo. E non è escluso che in futuro non ritorni sull’argomento per sviscerare più in dettaglio certi aspetti. Questo è, se vogliamo, una sorta di “articolo-base” per familiarizzarci con lei e col periodo.

Quindi allacciate le cinture, perché oggi parliamo di una donna che gli uomini del suo tempo fecero l’errore di sottovalutare: Abe fu l’ultima imperatrice per secoli a venire, ma compensa ciò col fatto che regnò due volte. Abe è due imperatori al prezzo di uno!

Un necessario preambolo: la nascita di Heijō-kyō

La capitale Heijō-kyō

E’ il 707, e l’imperatore Monmu (r.697-707) muore all’improvviso a soli 25 anni. Nelle fonti la notizia non è preceduta da nessuna avvisaglia, nessuna malattia o indisposizione. Il che è leggermente sospetto. Ancora oggi si specula se si sia trattato di una sventurata sciagura, o se qualcuno non gli abbia servito uno sciroppo risolutivo.

Sta di fatto che il nostro lascia due possibili eredi: uno figlio avuto di una principessa imperiale e uno avuto da una donna Fujiwara.

I Fujiwara sono una famiglia relativamente nuova, fondata circa cinquant’anni prima da un uomo di nome Kamatari.

Abbiamo parlato di Kamatari in questo articolo: in breve, si tratta di uno del magico trio che rovesciò l’egemonia Soga e spianò la strada alle Grandi Riforme dell’era Taika, uno dei Magnifici Tre che trasformarono il Regno di Yamato nell’Impero del Giappone.

Tornando a noi, in questo periodo la dinastia regnante si trova legata ai Fujiwara, che hanno ormai occupato la nicchia ecologica dei Soga e forniscono consorti ai sovrani. Questo crea una “alleanza competitiva” col clan Imperiale. Per tutto l’VIII° secolo si alternano governi dominati dai principi e governi dominati dai Fujiwara.

Tornando a Monmu, per evitare che scoppi un casino sulla successione, la Corte decide di far subentrare sul trono la madre del defunto sovrano, che diventa Imperatrice col nome di Genmei (r. 707-715).

Nel 707 la Capitale si trova ancora a Fujiwara-kyō. Seguendo la tradizione, Genmei abbandona il sito e si sposta a nord-ovest, dove fa costruire Heijō-kyō (d’ora in poi chiamata Nara).

Nara è meglio collegata rispetto a Fujiwara-kyō e può accedere più facilmente al grande porto di Naniwa (oggi Osaka).

E’ costruita sul modello delle capitali Tang, una bella grata di strade perpendicolari mappate in parallelo con quelle di Fujiwara-kyō, per rimarcare la continuità simbolica tra il regno di Monmu e quello di Genmei.

Ricostruzione dell’avenue principale e della porta meridionale del Palazzo: quella che vedere non è una piazza, è la larghezza originale della strada principale nell’VIII° secolo, l’avenue correva da nord a sud collegando la porta meridionale del Palazzo alla porta meridionale della città

La popolazione di Nara nel 710 è stimata a 200.000 abitanti. La nuova capitale è 3 volte più grande di quella vecchia. Siamo all’alba del periodo di massimo potere della Famiglia Imperiale.

Abbiamo accennato in altri articoli di come i re di Wa abbiano affermato la propria legittimità con la costruzione di colossali tombe, i famosi kofun. Genmei però è una donna al passo coi tempi, una sovrana moderna, non una sciamana primitiva alla testa di un guazzabuglio di clan! Nell’VIII° secolo i tumuli sono passé, out, uncool, il nuovo simbolo di legittimità imperiale è il tempio buddhista, e ne vengono costruiti. Oh, se ne vengono costruiti! Nara diventa la città dei templi.

Flash-forward: la principessa Abe e la sua famiglia

La porta del Grande Tempio Orientale a Nara

Vi ricordate il figlio di Monmu, quello di madre Fujiwara? Diventa finalmente imperatore nel 724 col nome di Shōmu (r. 724-749). Una delle sue consorti è dama Asukabe, nipote diretta di Kamatari (per chi stesse prendendo appunti, Shōmu è sposato con sua zia materna).

Come suo padre vent’anni prima, Shōmu si trova con due figli: il principe Asaka, figlio di una principessa imperiale, e la principessa Abe, figlia di dama Asukabe. Abe è quindi per 2/3 Fujiwara.

Il Padiglione principale ricostruito nella zona archeologica

E’ il 729, i nostri sono sistemati in Nara da quasi vent’anni, e la corte è dominata dal Principe Nagaya. Sembrerebbe che la Famiglia Imperiale abbia ormai il sopravvento e che la nomina di Asaka a Principe di Sangue sia inevitabile.

Ma la Famiglia non ha fatto i conti con dama Asukabe. Nel 729 Nagaya incappa in incresciose accuse di sedizione e, prima che possa difendersi, la sua residenza è attaccata dai guerrieri dell’Imperatore. Il fatto che il generale in capo fosse fratello di dama Asukabe è certamente del tutto casuale.

Sta di fatto che Nagaya non viene mai condannato, perché non viene catturato: si suicida. Si “suicida”. Sì, insomma, probabilmente lo spaccia il comandante Fujiwara…

Quando si gioca il gioco del trono, am I right?

Vi ricordate quando GoT era un bello show? Che nostalgia…

Con Nagaya defunto e i suoi collaboratori opportunamente esiliati, i Fujiwara sono più che disponibili a riempire le più alte cariche dello Stato, ora vacanti.

I quattro fratelli alla testa del clan, zii materni della principessa Abe, dominano tra il 729 e il 737, periodo anche noto come il Regime dei Quattro.

Dama Asukabe diventa l’Imperatrice Kōmyō. Lei e Shōmu sono ferventi buddhisti, sponsorizzano largamente la religione, che ritengono vitale per il benessere del Paese. La principessa Abe è quindi cresciuta da due genitori politicamente aggressivi e autocratici, ma anche sinceramente devoti.

Non sono i soli: è un periodo di grande fermento religioso. Un esempio tra tutti è il monaco Gyōki (668-749), che raccatta un seguito tale da attirare l’attenzione della corte. Interi villaggi si spopolano al suo passaggio, migliaia di contadini si accodano al predicatore, abbandonano campi e distretti.

Shōmu cerca di limitare l’abilità di Gyōki di seminare scompiglio spirituale, ma il nostro risponde organizzando un gigantesco rave del Risveglio alla Capitale, con migliaia e migliaia di fedeli, al punto che il governo è costretto a cambiar musica.

Tutto questo scorrazzare e riunirsi in preghiera però finisce per avverarsi un problema: nel 735 scoppia una devastante epidemia di vaiolo.

E quando dico “devastante” non esagero: nel 737 il morbo ha spazzato via più di un terzo dell’intera popolazione dell’Arcipelago. In certe provincie il bilancio dei morti è del 70%, senza contare la gente lasciata per sempre inferma dalla malattia.

Il vaiolo non solo ha un’alta mortalità, ma può lasciare la persona sfigurata, causare deformazioni permanenti, danni agli organi interni o cecità. Quando la gente chiede “eh, ma come facevano le persone prima dei vaccini?”
Facevano così. Subivano e pregavano.

Interi villaggi spariscono, valli restano deserte, cadaveri abbandonati si ammucchiano ai lati delle strade, giacciono nelle case, i resti umani vengono sparpagliati da cani randagi e corvi.

Il vaiolo si abbatte sulla Capitale come un maglio, allunga i suoi tentacoli attraverso le belle strade perpendicolari, nelle residenze dei nobili, negli uffici del governo, nel Palazzo Imperiale.

Shōmu e Kōmyō sopravvivono, e così la principessa Abe.

I Quattro Fujiwara invece si ammalano. In meno di un mese finiscono tutti sottoterra. Kōmyō perde i propri fratelli, il clan resta decimato, decapitato di netto.

Il peggio dell’epidemia si scatena in agosto. Il cielo è rovente, le mosche riempiono le vie, i cadaveri gonfiano, esplodono sotto il sole, i liquami colano nei canali e nei pozzi.

Pensate a quello che sta capitando a noi ora, e provate a mettervi nei panni di qualcuno all’epoca, o anche della giovane Abe. Di certo doveva sembrare la fine del Mondo.

Segnaposti trovati negli scavi di Nara

Ma il mondo non era finito. L’epidemia rallenta. Nella Capitale dei morti, emerge un nuovo governo, controllato dalla Famiglia Imperiale nella persona di Tachibana no Moroe (684-757).

E la Famiglia Imperiale vuole che sia nominato come erede il principe Asaka.

Ma non va così. Shōmu e Kōmyō hanno preso una decisione: sarà la principessa Abe a ereditare.

Questa tensione porta a scontri anche violenti, e costringe Shōmu e la sua famiglia a spostare la residenza un sacco di volte negli anni a seguire.

La disputa dinastica si allevia però nel 744, quando il giovane principe Asaka defunge di colpo. Un altro membro della Famiglia Imperiale che si busca un brutto caso di Morte Improvvisa e Conveniente!

Sotterrato il figlio, Shōmu torna a Nara, dove si ammala a sua volta. Non muore, ma resta infermo. Nel 749 abdica in favore della principessa Abe, che all’età di 31 anni diventa l’Imperatrice Kōken. Da notare che Kōken non ha né figli né consorti, nonostante molti nel suo milieu tendessero ad accompagnarsi giovani.

La moderna città di Nara vista dalle colline orientali

Dopo tanta sfiga, il 749 è un anno propizio, più che propizio!

La Capitale torna a essere stabile.

Viene scoperto l’oro nella provincia di Mutsu

Il bodhisattva Hachiman viene installato a Nara

Al Grande Tempio dell’Est (il Tōdai-ji) viene ultimata la colossale statua di Vairocana. L’inaugurazione avviene nel 752 (tre secoli dopo gli scioglieranno la testa durante un massacro).

Il Grande Buddha

Ma le difficoltà per Kōken non sono finite: la sua autorità sarà messa in dubbio a più riprese, prima dagli uomini, e poi dagli dei!

Kōken

Kōken regna dal 749 al 758.

I suoi genitori sono ancora in vita e continuano ad esercitare la loro influenza sulla politica, Shōmu in quanto Imperatore ritirato, e Kōmyō in quanto Imperatrice madre. L’uomo più influente di corte, a questo punto, è Fujiwara Nakamaro, parente stretto di Kōmyō.

Nakamaro non solo è parente e protetto di Kōmyō, ma per anni riveste un ruolo di rilievo nell’amministrazione centrale, la gestione della casa dell’Imperatrice e gli affari militari.

Il regno di Kōken non si discosta molto da quello precedente di Shōmu: i nostri mantengono contatti diplomatici coi Tang e sponsorizzano il Buddhismo. Nell’est, continuano a incentivare la colonizzazione, ma mantengono rapporti cordiali con gli emishi, gente di cui abbiamo parlato qui e che non riconosceva l’autorità della corte di Yamato.

Emishi, da una rappresentazione del XIV° secolo

La situazione politica però è lungi dall’essere stabile: nel 757 il figlio di Moroe, Tachibana Naramaro, tenta un colpo di stato.

Naramaro ha molte ragioni per essere scontento: non ha potuto succedere al padre alla guida del governo, Nakamaro è un tiranno violento, e il candidato alla successione imperiale è imparentato con Nakamaro via matrimonio.

Peccato che Naramaro non sia proprio il migliore complottatore là fuori, e il piano viene presto spiattellato alla corte. Nakamaro salta sull’occasione e fa spacciare il rivale con tutti i suoi avversari.

Nel 758 Kōken abdica in favore di un parente, che diventa l’Imperatore Junnin. Junnin è imparentato per matrimonio con Nakamaro, che Junnin rispetta come un secondo padre.

Sembra proprio che Nakamaro e il suo figlioccio Junnin abbiano fatto cappotto, ma non è così. La realtà è che la situazione è molto instabile, e Kōken ha probabilmente calcolato che le conviene effettuare una ritirata strategica se vuole restare rilevante a corte senza rischiare di restare coinvolta in congiure dilettantesche.

E difatti il regno di Junnin è molto bizzarro. Il nostro non sembra mai diventare un vero e proprio sovrano, al punto che la corte non si prende nemmeno la briga di cambiare il nome di era com’era costume all’inaugurazione di un nuovo regno.

Sotto una superficie di baciabbracci e volemosebbene, sta gradualmente montando l’antagonismo tra la volitiva Kōken e l’autoritario Nakamaro.

Il Padiglione principale del Palazzo

Nel primo paio d’anni tutto sembra filare liscio. Kōken e Junnin si trasferiscono perfino alla residenza di Nakamaro. Tre amiconi!

Sembra un pelino strano che Kōken si premuri di riprendere il controllo delle Guardie della Cinta, prima tenuto da Nakamaro, ma a parte questo la nostra sembra più occupata con la propria vita spirituale che con gli affari di stato.

Il Tempio del Grande Buddha

Kōmyō muore nel 760. A 42 anni, Kōken è de facto il membro più anziano e prominente della famiglia. Il che la mette in una posizione delicata rispetto a Junnin. Peraltro, ora che Kōmyō è defunta, Kōken diventa l’Imperatrice ritirata, il nuovo polo di autorità a corte, come suo padre e sua madre erano stati prima di lei.

Questo la mette in competizione con Nakamaro, che stava facendo una carriera stellare e teneva Junnin in palmo di mano.

Le cose prendono però una svolta imprevista quando Kōken si ammala. E’ il 761, e la nostra si trova allettata. Medici e santoni cercano di portarle sollievo, senza risultato. Kōken sta morendo.

E un giorno si presenta a lei un monaco. Il suo nome è Dōkyō, Specchio della Via.

Dōkyō intento in uno dei suoi loschi riti, particolare dalla stampa di Utagawa Kunisada, 1819

Dōkyō ha fama di essere un seguace di pratiche esoteriche e poco ortodosse. Non è proprio il genere di persona adatta alla cerchia di un’Imperatrice ritirata. Ma Kōken è determinata a non stirare le zampine, e lo lascia avvicinare.

Non è chiaro cosa succeda a questo punto. Dōkyō stregoneggia qualcosa, e par funzionare, perché Kōken migliora. La malattia svanisce, il suo corpo si fortifica. A 43 anni Kōken rifiorisce.

E i nodi che si erano accumulati tra lei, Junnin e Nakamaro vengono tutti al pettine tutti insieme.

Mesi dopo la miracolosa guarigione, nel 762, Kōken rompe i piatti coi due, raccatta la propria gente e il suo nuovo consigliere spirituale e torna a Nara, dove fa emettere un Ordine solenne in cui spoglia Junnin delle proprie prerogative e si riappropria del potere decisionale.

Ovvio, questo rende Junnin molto infelice, ma Nakamaro la prende ancora peggio. Il nostro ha impestato la corte e l’amministrazione coi propri amici e parenti, ma con Junnin relegato a ragazza pon-pon e addetto agli addobbi floreali, la sua posizione è minacciata.

Per due anni l’Imperatrice ritirata e il Ministro dei Ministri si prendono a cornate in un braccio di ferro sempre più feroce.

Finché nel 764 Nakamaro non decide di agire.

Come accennato, il nostro aveva piazzato figli e alleati in numerose posizioni militari.

Nel 9° mese decide di passare all’azione e inscatolare la fastidiosa carampana con le cattive: ordina a uno dei suoi di inviare messaggeri ai guerrieri delle provincie e di radunare 6.000 soldati alla Capitale. Di certo le Guardie della Cinta non possono misurarsi contro 6.000 gagliardi combattenti a cavallo!
Per poter convocare i summenzionati 6.000 però Nakamaro deve dimostrare di agire in nome e per conto del Governo. In altre parole, li deve convocare via dei messaggeri ufficiali.

A questo punto il Giappone ha un sistema di strade e di cavalli postali ben sviluppato: le stazioni coi cavalli, disseminate a tappe di una trentina di chilometri le une dalle altre, permettono ai messaggeri ufficiali di spostarsi tra la Capitale e le capitali provinciali.

Per poter usare questi cavalli e provare quindi di essere un messaggero legittimo, il funzionario riceve dal governo dei sonagli speciali, ekirei. Il portatore di ekirei è un messo legittimo.

Ed è su questo banale ma vitale dettaglio che Nakamaro si rompe il muso.

Nakamaro ha preparato il suo colpo di stato, messo in allerta le truppe provinciali, infiltrato i suoi ovunque e accaparrato i governatorati delle provincia chiave.

Kōken non fa niente di tutto ciò: Kōken (avvertita che si stavano aprendo le danze), manda uno dei suoi a far manbassa delle ekirei. Requisisce i sonagli.

E paralizza all’istante l’intero apparato ribelle.

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Rappresentazione grafica del complotto di Nakamaro

Nakamaro si aspetta di vedere arrivare da un momento all’altro migliaia di guerrieri ai suoi ordini. Invece è incastrato alla Capitale, incapace di chiedere aiuto, solo con Kōken, che, ricordiamolo, controlla le Guardie.

Nakamaro è un tacchino che si è barricato nella tana di un dingo affamato.

Per sette giorni le Guardie della Cinta assediano Nakamaro nella sua residenza, come anni prima era toccato al Principe Nagaya. Solo che questa volta Nakamaro non viene “suicidato”. Non ce n’è bisogno. Kōken lo fa trascinare sulle rive del lago Biwa, dove viene scapitozzato.

Junnin non viene ucciso, ma solo deposto ed esiliato. Per chi segue questo blog, non ammazzare il cugino è un’altra scelta che fa di Kōken una figura molto atipica nel panorama storico giapponese.

Shōtoku

La nostra risale sul trono: nuova carriera, nuovo nome, Shōtoku!

Il governo viene riformato, zeppato con i capiclan che hanno avuto il buonsenso di restarle fedeli. La nostra è ormai autocrate indiscusso dell’Impero, e questo mette a disagio molti dignitari.

Cosa combinerà mai questa volitiva quarantenne? Questa strana donna che non ammazza il cugino, non si sceglie un marito, questa che si autoproclama Imperatrice per la seconda volta così, senza nemmeno appellarsi a un precedente dignitoso?

Il suo più fidato consigliere resta Dōkyō, e le chiacchiere subito si scatenano.

Come minimo questa carampana dalla menopausa incipiente è la sua amante, è senza dubbio manipolata da questo carismatico e misterioso stregone.

E’ fuori di dubbio che Shōtoku fosse una credente fervente, che si considerasse “al di fuori del mondo”. E’ anche fuori di dubbio che favorì il clero buddhista più dell’aristocrazia laica.

Il Grande Tempio Occidentale, costruito nel 764

Ma questo può essere anche spiegato col fatto che il clero le era sempre stato fedele, mentre gli aristocratici laici avevano cercato di silurarla due volte. Uno diventa un po’ diffidente, a lungo andare…

E’ anche innegabile che Dōkyō fosse una delle persone a lei più vicine, che lei lo definisse il suo “maestro” e che, grazie al favore di lei, Dōkyō abbia fatto una carriera mai vista prima. Addirittura Shōtoku lo fa nominare “Re della Legge” (法王), una carica che non era mai stata concessa prima né mai lo sarà dopo.

Però

C’è sempre un però

Il problema delle fonti scritte è che spesso non sono neutrali, ma molto parziali. Scremata la paranoia dell’autore confuciano, se esaminiamo i fatti ci rendiamo conto che Dōkyō non si vide mai concedere nessun incarico temporale. La carriera di Dōkyō è strettamente spirituale ed ecclesiastica. Quando viene nominato Ministro e poi Re, Shōtoku specifica sempre che si tratta di Ministro e Re del culto buddhista. Dōkyō non ottenne mai nessun potere effettivo.

Quello è nelle mani di Shōtoku, che non lo condivide.

Scorcio del tempio orientale

Shōtoku è quindi padrona indiscussa della corte. La sua autorità però viene messa di nuovo in discussione, non più dagli uomini, ma dagli dei.

E’ l’ultimo round, e questa volta è Shōtoku contro le Potenze Iperuranie!

E’ il 769, un oracolo arriva da parte del Gran Bodhisattva Hachiman: se si vuole che le carestie cessino, che il regno sia pacificato, che la prosperità ritorni, Shōtoku deve nominare il monaco Dōkyō come suo successore.

Questo messaggio da parte di Hachiman in persona ha sulla corte e la Capitale l’effetto di una granata a frammentazione tirata in una cristalleria. Per molti è un segno inequivocabile della fine imminente della dinastia. Lo hanno detto per anni: Shōtoku è una poveretta tenuta al guinzaglio da un mago senza scrupoli. Ora gli consegnerà il trono e la dinastia che si protrae indietro nel tempo fino alla Dea del Sole giungerà a fine!

Solo che Shōtoku, fervente credente, reagisce a questo messaggio divino con sorprendente (e onestamente sospetta) cautela.

-Che oracolo bizzarro.- Commenta -Certo, se questo è ciò che gli dei vogliono, non posso che obbedire. Solo che… metti che abbiamo capito male? Per essere proprio sicuri, chiediamo cosa ne pensa il mio personale indovino. Per conferma, sai.

Da notare che l’oracolo viene dal santuario di Usa Hachimangū, in Kyūshū, e il governatore del momento è il fratello minore di Dōkyō. Coincidenze, senza dubbio.

Ad ogni modo meno male che Shōtoku controlla perché, INCREDIBILMENTE, il secondo indovino trae dal dio un messaggio del tutto diverso!

Secondo il nuovo responso, non solo Shōtoku è la legittima e indiscussa sovrana, ma chiunque provi a mettere in dubbio la legittimità della Famiglia Imperiale è una minaccia per il Paese e deve essere annientato.

Che dire, per essere una con una fede cieca nel suo mago, Shōtoku sapeva dar prova di notevole scetticismo.

Fontana presso il padiglione della luna, nel Tempio Orientale

Ci sono ovviamente conseguenze per questo tiro furbino da parte dei parenti di Dōkyō, ma Dōkyō stesso non viene punito. Forse Shōtoku decise che era innocente, o che non ci avrebbe riprovato.

E’ anche possibile che la nostra abbia avuto pietà: la sua salute si stava di nuovo deteriorando, e nessuna formula magica aveva più effetto. Shōtoku stava morendo, ci sta che non abbia avuto il cuore di far uccidere quello che senz’altro era un uomo importantissimo per lei.

Un anno dopo l’incidente, Shōtoku muore senza eredi. Dopo di lei viene scelto come successore il principe Shirakabe, che discende non dal ramo di Tenmu (ramo che era stato dominante sin dal 673), ma dal ramo di Tenji (r. 668-671).

Tenmu aveva usurpato il trono alla morte di Tenji, e 100 anni dopo il suo lignaggio si esaurisce, permettendo al ramo più antico di riemergere. Ah, i corsi e i ricorsi…

光仁天皇
L’Imperatore Kōnin, precedentemente noto come Principe Shirakabe

In molti si sono interpellati sulla mancanza di consorti e di eredi di Kōken/Shōtoku.

A parte il pettegolezzo maligno su Dōkyō, pare proprio che l’Imperatrice non avesse amanti o compagni. E’ possibile che semplicemente non le piacessero gli uomini: checché ne pensino certi gamers, i diversamente eterosessuali non sono un’invenzione dei SJW per rovinare i videogiochi.

E’ anche possibile che Kōken/Shōtoku abbia deciso di non correre il rischio di una gravidanza, visto che di parto si moriva male e con una certa frequenza.

C’è però qualcosa di deliberato nel fatto che non si sia nemmeno presa la briga di designare un successore, magari un parente (come era avvenuto con Junnin). Magari aveva rotto i piatti con tutti i parenti e non si fidava di nessuno di loro. Magari la sua sincera fede nel potere del Buddhismo la portò a credere che il karma positivo maturato con le sue numerose opere pie avrebbe portato al trono un successore degno.

Con la nuova interpretazione dell’oracolo di Hachiman, Kōken/Shōtoku assicura l’intoccabilità della Famiglia Imperiale, sancisce in modo inequivocabile che il trono può andare solo a un membro del suo clan. Forse questo le bastava.

Non si premurò nemmeno di proteggere di Dōkyō, che fu prontamente pensionato in un monastero di Shimotsuke non appena lei morì. Il fatto che non l’abbiano fatto fuori conferma che nemmeno i successori di lei lo ritenevano una minaccia.

Il mondo che Shōtoku lascia al suo successore Kōnin (r. 770-781) non è dei migliori.

Tanto per cominciare la nomina del principe Shirakabe scatena la virulenta opposizione del ramo imperiale di Tenmu e del clero di Nara, tanto che dopo pochi anni il nuovo ramo regnante decide di abbandonare la Capitale e spostarsi. Da un punto di vista economico, la situazione aveva cominciato a languire sotto il regno di Shōmu e non era migliorata nei decenni. Per di più, non appena la vecchia stira le zampe, gli emishi decidono che è ora di riprendere le ostilità: sotto il regno di Kōnin comincia la Guerra dei 38 anni nelle provincie orientali.

Il regno di Kōken/Shōtoku non è rivoluzionario o particolarmente innovativo: l’Imperatrice si situa in perfetta continuità con le politiche economiche, amministrative e religiose portate avanti da suo padre e suo nonno. Tolte le paranoie, il giudizio e le fisime dei suoi contemporanei, Kōken/Shōtoku non fu una sovrana particolarmente migliore o peggiore dei suoi predecessori. Fu di certo molto abile, audace e scaltra, ma come governante fu straordinariamente normale per il suo tempo.

E’ solo che dovette far molta fatica per poter governare nello stesso modo in cui suo padre aveva governato.

La morale della favola è sempre la stessa: mai fidarsi dei cugini!

MUSICA!


Bibliografia

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NAOKI Kōjirō, “Nara and Toudai-ji”, trad. BOCK Felicia, in SHIVELY Donald et MC CULLOUGH William, The Cambridge History of Japan, vol. 1, Cambridge University Press, Cambridge, 1993, p. 241-256

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TSUBOI Kiyotari et TANAKA Migaku, The Historic city of Nara, The Center for East Asian Studies, Paris, 1991

KUMAGAI Kimio, Emishi to jōsaku no jidai, Yoshikawa kōbunkan, Tōkyō, 2015

NIINO Naoyoshi, Tamuramato to Aterui, Yoshikawa kōbunkan, Tōkyō, 2007

HIGUCHI Kazushi et SATO Yayoi, “Nara jidai kōki ni okeru Kōken no suii”, in Artes Liberales n.72, Iwate daigaku jinbun shakai kagaku-bu kiyō, giugno 2003, p. 141-156

Prima delle grandi riforme: diplomazia, suicidi, e l’Incidente di Isshi

Uno degli eventi fondamentali nella Storia del Giappone è la cosiddetta Riforma di Taika: una serie di riforme radicali enunciate dall’Imperatore Kōtoku nel 646 che trasformarono profondamente il Paese. Prima di Kōtoku c’era il regno di Wa, 50 anni dopo c’era l’Impero del Giappone. Prima di Kōtoku c’era una coalizione di capi-clan, 50 anni dopo c’era uno stato burocratico basato su un Codice di leggi alla cinese.

La Riforma è un soggetto interessantissimo se si vuole capire il meccanismo di state formation giapponese. Ma altrettanto interessante è il mezzo secolo che precede Kōtoku. Come è stato possibile passare da una situazione all’altra? Cos’è successo, cosa ha spianato la via alla modernizzazione?

Si tratta di una combinazione tra il tracollo dell’equilibrio geopolitico nella regione (Cina-Corea-Giappone) e l’esplodere di irrisolvibili tensioni politiche nel regno di Wa stesso.

Una dinastia sparisce, generali si ribellano, e un uomo viene fatto a pezzi nella sala del trono: oggi parliamo dell’Incidente di Isshi!

Contesto politico e diplomatico

Il sipario si alza agli inizi del VII° secolo. Nella Penisola coreana troviamo il regno di Goguryeo nel nord, il regno di Baekje nel sud-ovest, e il regno di Silla a est. I più assidui lettori potrebbero chiedersi: «hey, ma non c’era una Confederazione di Gaya incuneata tra Baekje e Silla?»

E la risposta è sì, c’era. Il letterale vaso di coccio tra i due vasi di bronzo. Nel 562 è stata cannibalizzata da Baekje e, soprattutto, da Silla, lasciando i giapponesi senza uno dei loro partner commerciali e diplomatici principali.

Nelle isole, il regno di Wa controlla il grosso di Kyūshū, la parte occidentale e centrale di Honshū, e ha una forte influenza sulla piana del Kantō, anche se tracciare confini veri e propri è una questione complicata. A questo punto il re di Wa è una sorta di «capo tra i capi» che si appoggia su una classe di capi-clan suoi alleati. La sua influenza non è stabilita direttamente sul territorio, ma «irradia», diventando sempre più debole verso est e nordest, fino a svanire nel nulla nelle regioni dominate dagli emishi, simpatici piromani a cavallo di cui abbiamo parlato qui.

Tra la fine del VI° e gli inizi del VII°, il regno di Wa sta subendo quella che Fried definisce secondary state formation, ovvero un’evoluzione da stato “tribale” verso uno stato burocratico a seguito dell’influenza di stati vicini più avanzati.

[Nota: il termine “stato tribale” è oggetto di un sacco di polemica pallosissime discussioni dibattito, è usato qui solo per intendersi, non sminuzzatemi le scatole a riguardo che vi sculaccio]

Nel 604 viene stilata una lista di 17 principi che avrebbero dovuto reggere il governo del domani, la famosa “Costituzione in 17 articoli”. Non si tratta di una vera e propria Costituzione, ovviamente, quanto di un elenco di principi sulle virtù e il ruolo del governo. Un punto però, il 12, è molto chiaro:

[…] Un paese non ha due signori. Il popolo non ha due sovrani. Il sovrano è il solo signore del Paese e dei sudditi. […]

All’atto pratico si tratta di una dichiarazione di intenti di muoversi da un sistema basato sul paradigma Re di Wa -> Capi-clan -> sudditi a uno in cui Re di Wa -> sudditi.

Fino a questo punto i capi clan di gran parte delle isole, chiamati in giapponese kuni no miyatsuko, “capi di territorio”, hanno sostenuto il re di Wa, ma continuano a incarnare il potere politico, militare e religioso nella loro zona. La corte di Yamato (di cui fanno parte i capi dei clan più importanti) ha la ferma intenzione di eliminare questo anello intermedio in favore di un sistema più centralizzato e moderno. Per fare questo, i nostri partecipano attivamente a scambi di tecniche e idee con la Cina dei Sui e i regni coreani (soprattutto Baekje).

Un fatto viene però a stravolgere l’equilibrio dell’intera regione: 618, i Tang rovesciano i Sui e prendono il controllo della Cina.

Goguryeo è il primo regno a saltare nel letto coi Tang, anche perché si erano appena fatti un guerrone colossale coi Sui (vincendolo!).

Il secondo regno a legarsi ai Tang è Silla, acerrimo nemico di Baekje e di Wa.

Le cose si mettono male per il regno di Wa, e peggiorano quando una spedizione militare contro Silla, datata 623, si conclude in un colossale buco nell’acqua.

Lo stravolgimento geopolitico del Continente non è l’unica grana del regno: la corte era dominata da decenni ormai dal clan dei Soga. Costoro erano gente tanto potente quanto pericolosa, il sovrano stesso doveva trattarli coi guantini se ci teneva alla pelle.

Non è un’iperbole: il sovrano Sushun cercò di liberarsi di loro e finì sgozzato come un cinghiale.

La Corea

E le cose continuano a peggiorare: in pochi anni, i Tang pacificano le proprie frontiere e iniziano ad accarezzare l’idea di una bella espansione. I primi a preoccuparsi sono i regnanti di Goguryeo. E hanno ragione di sentirsela sdrucciolare: secondo Gernet a partire dal 627 i Tang lanciano quella che definisce «una delle più grandi espansioni militari della storia della Cina».

I Wa legano rapporti diplomatici coi Tang, interessati in particolar modo al loro sistema politico e militare. Wa deve modernizzarsi e i Tang sono un ottimo modello da seguire.

Un modello che però va applicato alla svelta: con lo scoccare del 641 è chiaro che i Tang hanno gli occhi sulla Penisola coreana.

Uno potrebbe pensare che, confrontati alla minaccia Tang, i regni coreani abbiano cercato di far fronte comune, magari tentando di rompere la stretta alleanza tra Silla e la nuova dinastia cinese.

Ma no: il re di Baekje decide che ora è il momento perfetto per attaccare Silla, primo alleato dei Tang in Corea.  Spoiler: nonostante iniziali successi militari, l’Imperatore Tang fa la voce grossa e il re di Baekje deve ritirarsi con un nulla di fatto.

E la classe dirigente di Goguryeo non se la cava molto meglio. Invece di fare fronte unito contro la minaccia straniera, il re e i ministri decidono che il pericolo più imminente per la corona è uno dei loro: Yeon Gaesomun, un militare molto influente. Troppo influente. Si decide che è meglio farlo fuori (perché assassinare i tuoi generali all’alba di una guerra è un’idea grandiosa!).

Il piano viene sospeso quando Gaesomun li invita tutti a un sontuoso banchetto.

Per nulla sospetto, vero?

Oh beh. Re e ministri accettano l’invito, Gaesomun fa sbarrare le porte e li fa uccidere tutti.

Surprised Pikachu is a Meme About Knowing Better

Gaesomun non usurpa il trono, ma mette in carica re Bojang, che, spoiler sarà l’ultimo re di Goguryeo.

E i Wa?

Anche dai Wa c’è poco da essere allegri: il regno è nella morsa di una crisi economica, il clan Soga è sempre più impopolare a Corte, e gli emishi hanno cominciato a risentire la pressione coloniale nel loro territorio (e un emishi risentito è un emishi che brucia villaggi).

Quindi tirando le somme:

  • sul piano estero l’alleato principale di Wa, Baekje, è impegnato a cercare rogne coi Tang e con Silla
  • un altro alleato potenziale, Goguryeo, è ora controllato da un generale poco socievole
  • la frontiera nordorientale è a fuoco
  • alla Capitale i vari capifamiglia stanno arrotando i coltelli.

Il regno ha disperato bisogno di riforme, ma invece che costruttivi progetti si tessono intrighi, tutto va male e le cose stanno per prendere una piega ancora peggiore.

La corte di Wa e il gran botto del 645

Alla morte della regina Suiko (628) l’erede al trono è il principe Yamashiro, figlio del Principe Shōtoku, una delle figure più influenti del periodo nonché autore putativo della Costituzione in 17 articoli. Yamashiro però è inviso ai Soga, e in particolare al loro capo, Soga no Emishi (non un nome etnico, si tratta del suo nome personale), che riesce va farlo estromettere dalla discendenza imperiale.

Fun fact: Yamashiro era figlio della sorella di Soga no Emishi. Come si vedrà dall’albero genealogico: Yamashiro, Furuhito, Iruka e Kurayamada erano tutti cugini.

Al posto di Yamashiro i Soga spingono con successo la nomina del principe Tamura (poi sovrano Jōmei), che NON era legato a loro di parentela. Come per cui i legami di sangue non sempre fanno aggio.

Il problema si ripresenta nel 642, quando Jōmei stira le zampine. Chi deve succedergli?

I Soga favoriscono il principe Furuhito, figlio di Jōmei e di una donna Soga. Un altro contendente però è il principe Naka, figlio di Jōmei e della consorte Kōgyoku.

Furuhito è un uomo adulto e ha il sostegno dei Soga, ma Naka è sostenuto dai principi imperiali opposti al clan. Per evitare che la situazione degeneri, si opta quindi per far salire sul trono Kōgyoku. Una seconda volta, la disputa è solo rimandata.

Allo scopo di spianare la strada alla nomina di Furuhito e falciare il supporto a Naka, Soga no Iruka, figlio di Emishi e uomo dal carattere conciliante e compassato di una mina magnetica del ‘39, decide che, per prima cosa, bisogna eliminare Yamashiro. Yamashiro aveva ottime ragioni di odiare i cugini, era un vecchio candidato al trono, e rappresentava un avversario politico molto scomodo.

“Feeling cute, might kill your whole family idk” (cit. Iruka)

E’ il cuore dell’inverno del 643, è buio, il freddo è pungente. Soga dà ordine ai suoi uomini: andate alla residenza del principe Yamashiro, uccidete lui, i suoi figli e tutta la sua gente.

Gli sgherri avanzano nella notte, arrivano alla residenza. Tutto tace. Stanno per scavalcare la porta quando delle lanterne appaiono sopra il muro. Sono gli uomini di Yamashiro.

I fart in your general direction!- Tuona il capo incoccando una freccia. –Your mother was a hamster and your father smelled of elderberries!

Yamashiro non è uno scemo, si aspetta un agguato. La sua gente scarica sulle capocce dei Soga una grandinata di frecce.

Dopo il primo shock, i Soga riprendono animo. Sono di più, sono meglio armati. Contrattaccano.

Yamashiro sa di non poter tenere la posizione. Scaltramente, getta delle ossa di cavallo della propria camera, appicca fuoco alla residenza e scappa insieme alla moglie e ai figli.

Dopo che le fiamme si sono calmate, gli sgherri di Iruka avanzano nel macello fumante. Hanno una mezza idea di dove si trovano gli appartamenti di Yamashiro, ci si dirigono scavalcando cadaveri e travi carbonizzate. Trovano i frammenti di osso nelle rovine fumanti.

-Aha ! Questa era la camera di Yamashiro, questo è senza dubbio il suo scheletro!

-Dici? Mi pare un po’ strano.

-E’ Yamashiro.

-Guarda che gambe, oh ! E’ proprio vero che aveva le ossa grandi…

-Ti dico che è Yamashiro.

-Senti, ma questo teschio mi pare avere un mento u po’ troppo volitivo. E questi dentoni poi…

-SENTI COSO, SONO LE 3 DI NOTTE, FA UN FREDDO CANE E ABBIAMO PERSO UN TERZO DEI NOSTRI, IO DICO CHE E’ YAMASHIRO E CHE POSSIAMO TORNARE A CASA!

Frattanto, nelle montagne, il Principe Yamashiro e i suoi fanno il punto della situazione. E’ chiaro che il momento delle discussioni è finito: Iruka ha dimostrato che no ha paura di usare le armi. Non resta che la guerra. Yamashiro potrebbe fuggire nelle provincie orientali, levare un esercito, combattere Iruka.

Questo però significa guerra civile. In un periodo in cui le casse languono, gli alleati sono inaffidabili e un esercito colossale e ultramoderno potrebbe decidere di attaccare a ogni momento. Chissà, magari una guerra civile è proprio ciò che Silla o i Tang aspettano.

Yamashiro non è disposto a correre questo rischio.

Dal Nihon shoki :

«Se facciamo come dici [NdT leviamo un esercito nell’est] saremmo certamente vincitori. Ma sento di non poter infliggere dieci anni di sofferenza sul popolo. Io sono solo un uomo, come posso portare dolore ad altri diecimila ? In futuro, non voglio che la gente dica che hanno perso le loro madri o i loro padri a causa mia»

Yamashiro non può trattare col suo nemico, e non vuole combattere, ma non ha intenzione di farsi catturare. Insieme ai suoi, ritorna al mucchio di cenere che era un tempo la sua residenza. Il tempio di famiglia è ancora in piedi. Yamashiro e la sua famiglia si riuniscono al suo interno e si suicidano tutti quanti.

Non sono morti per mano dei Soga, non sono morti in un incendio, non c’è modo di fingere che si sia trattato di un increscioso incidente. Yamashiro ha deciso di morire per risparmiare al regno la catastrofe di una guerra civile, e tosto diventa un esempio di virtù confuciana e fedeltà allo Stato. Yamashiro e i suoi non sono mere vittime di intrighi politici: ora sono martiri.

E chi ha strappato allo Stato e alla corona un uomo così fedele, così virtuoso?

Oh beh. Soga no Iruka.

Politicamente è un disastro.

Non solo: ora il nemico principale di Iruka, il principe Naka, poco più che un bambino in questa data, sa di non avere scelta. Non c’è accordo possibile, è solo questione di chi colpirà per primo.

Empresses Regnant of Japan - Empress Kōgyoku/Saimei - History of Royal Women
La faccia che fai quando sei regina di Wa e ti informano che Soga no Iruka ha di nuovo sterminato una famiglia di oppositori politici

Naka non è l’unico a odiare Iruka. Anche perché, considerati i metodi, Iruka non è tipo da farsi molti amici.

Tra quelli che lo odiano c’è un tale Nakatomi no Komako no Muraji. Non un pesce particolarmente grosso, tutto considerato. Ma è un sostenitore fedelissimo del principe imperiale Karu. Secondo lui, Karu incarna le virtù del sovrano benevolo, ed è quindi un candidato molto migliore di Furuhito.

Ma come fare a spingere la nomina di Karu, quando Furuhito ha dalla sua un clan potente e aggressivo come i Soga?

Komako ha bisogno di un alleato.

Un giorno, durante una partita della versione giapponese del calcio tra aristocratici, Komako incontra il giovane principe Naka.

I due si vanno a genio e presto scoprono di essere entrambi cultori di Confucio e degli insegnamenti del Duca di Zhou. Con mille precauzioni, i due iniziano a complottare contro Iruka.

Per evitare di essere scoperti, nascondono la loro amicizia, o parlano a bassa voce solo in luoghi pubblici, dove il frastuono impedisce ad orecchie indiscrete di ficcanasare.

I due decidono che la cosa più conveniente non è prendersela coi Soga nel loro insieme, ma di sfruttare le divisioni interne della famiglia.

Il capostipite dei Soga, quello che fece sgozzare il povero Sushun, era Soga Umako. Soga Umako ebbe molti figli, tra cui Soga Emishi, padre di Iruka, e Soga Kuramaro. Il figlio di Kuramaro è Kurayamada, erede del ramo secondario della famiglia. C’è poco amore tra i due cugini, primo perché i cugini in Giappone hanno tendenza a odiarsi, secondo perché Iruka è uno pericoloso e impulsivo, e terzo perché Kurayamada è relegato al secondo posto nel clan rispetto a Iruka.

Naka approccia quindi Kurayamada, che offre il proprio supporto (e la propria figlia) con pronto entusiasmo.

Mentre i congiurati congiurano, Iruka e suo padre costruiscono residenze fortificate. A Komako e Naka pare evidente che non c’è modo di stanarli con le cattive. Bisogna zompare Iruka mentre non è i una delle sue basi.

E la possibilità si presenta nel 645.

E’ il sesto mese, l’Imperatrice terrà una grande udienza in cui le saranno presentati i doni da parte dei re coreani e le sarà letto il rapporto sullo stato geopolitico della penisola.

Naka nasconde una lancia nel padiglione e si prepara ad attaccare con un paio di alleati.

Il principe Furuhito è presente, e così Iruka, che arriva armato di spada. Komako riesce però a metterlo a proprio agio e a convincerlo a lasciare l’arma prima di prendere il proprio posto.

Tutto è pronto. Kurayamada deve leggere il rapporto dalla Corea alla regina. La lettura del rapporto è il segnale per gli amici di Naka che è ora di intervenire e uccidere Iruka!

Kurayamada si alza per leggere il documento. Naka passa ordine alle guardie di bloccare le uscite e non fare passare nessuno, per nessun motivo.

I due alleati di Naka intanto tremano all’idea di attaccare l’uomo più pericoloso e potente del Paese. Entrambi si sentono male, vomitano per la tensione, cercano di restare saldi.

Intanto Kurayamada sta leggendo. Linea dopo linea, recita i carateri cinesi a voce alta. Naka e i suoi dovrebbero attaccare, ma niente si muove. Kurayamada sente gli occhi di Iruka piantati addosso. Il rapporto è quasi finito.

Il suo corpo era fradicio di sudore, la sua voce vacillava e le sue mani tremavano.

Kuratsukuri no Omi [Iruka, NdT] si insospettì e chiese: «perché tremi così?»

[Kura]yamada no Maro rispose: «Sono in soggezione perché sono così vicino a Sua Maestà, e senza volere sto sudando.»

Vedendo il terrore e l’esitazione dei suoi, Naka afferra la lancia e si avventa per primo. Gli altri lo seguono, sguainano le spade, irrompono nel mezzo della sala, colpiscono Iruka alla base del collo e alla gamba.

Iruka si trascinò presso il seggio dell’Imperatrice, e chinando il capo disse:

«Coloro che succedono al soglio imperiale sono i figli del cielo. Non credo di aver alcuna colpa, ma se ve ne sono, che siano investigate!»

L’Imperatrice era sconvolta, e disse a Naka no Ōe:

«Non so di cosa si tratti. Cosa sta succedendo?»

Naka no Ōe si prosternò e disse:

«Kuratsukuri [Iruka, NdT] si adopera per rovesciare il trono, e metterà fine al lignaggio. Come accettare che i discendenti del cielo siano rovesciati in favore di Kuratsukuti?»

[…] L’Imperatrice si alzò e se ne andò nella sala, Allora Saeki no Muraji Komaro e Wakainukai no Muraji Amita uccisero Iruka no Omi.

Scapitozzamento di Iruka, dal Tōnomine engi emaki

Così moriva uno degli uomini più potenti del Paese, fatto a pezzi nella sala del trono, abbandonato dalla propria sovrana.

Il cadavere fu portato alla residenza di suo padre. Sapendo che era solo questione di tempo prima che i soldati venissero a finire il lavoro, Emishi incendiò la propria residenza e morì nel rogo, portando con sé i tesori e la biblioteca del clan.

Una settimana dopo, Kōgyoku abdicava in favore del principe Karu. Naka divenne principe ereditario alla tenera età di diciannove anni. Una ventina d’anni dopo sarebbe a sua volta salito al trono col nome di Tenji. Nakatomi Komako fu premiato col nome di Fujiwara e divenne Fujiwara no Kamatari, capostipite del potentissimo clan Fujiwara (che vedete comparire negli articoli su Masakado o sulla Guerra di Genpei). Quanto al principe Karu, divenne l’Imperatore Kōtoku, il grande riformatore.

Rogo della residenza di Emishi, dal Tōnomine engi emaki

Questo colpo di mano del principe Naka, principe Karu e Nakatomi Komako fu decisivo nella Storia della corte: I tre architetti del colpo di stato furono quelli che lanciarono la Grande Riforma di Taika, che, basandosi sui principi della Costituzione in 17 articoli, catapultò il regno di Wa dallo stadio di proto-stato clanico a quello di impero burocratico basato su leggi scritte e governato da un’aristocrazia civile costituita da funzionari.

Ma di Taika e del Codice amministrativo parleremo un’altra volta.

Per ora imparate dalla triste sorte di Iruka: la morte del tuo nemico non è necessariamente una buona notizia.

MUSICA


Bibliografia

Un articolo sugli scavi archeologici svolti alla residenza di Iruka in Nara

COHEN Ronald e SERVICE Elman R., Origins of the State : The Anthropology of Political Evolution, Institute for the Study of Human Issues, Philadelphia, 1978

GERNET Jacques, Le monde chinois, vol. 1, Pocket, Paris, 2008

GRAFF David A., HIGHAM Robin, A military History of China, University Press of Kentucky, Lexington, 2012

INOUE Mitsusada, dans HALL John Witney, JANSEN Marius B., KANAI Madoka, TWITCHETT Denis, éd. The Cambridge History of Japan vol. 1, Cambridge University Press, Cambridge, 1993

INOUE Mitsusada, SAKAMOTO Tarō, IENAGA Saburō, ŌNO Susumu, Nihon shoki (jō, ge), Tōkyō, Iwanami Shoten, 1968

KUJI Fujio, Nihonjin to uma no bunkashi, Tōkyō, Bushindō,  2016

LI Ogg, Recherche sur l’Antiquité Coréenne vol. I – Ethnie et Société de Koguryou, Collège de France, Paris, 1980

MORI Kimiyuki, Higashi Ajia no dōran to Wakoku, Tōkyō, Yoshikawakōbunkan, 2006

NAGASAKA Kaneo, Jūshichi-jō kenpō, Yūzankaku, Tōkyō, 1937

TAKAHASHI Takashi, Emishi, Chūkōshinsho, Tōkyō, 1989

Genpei 2.2: più dell’onore poté il digiuno

E’ ora di riprendere dopo lungo oblio la nostra saga sulla sanguinosa Guerra di Genpei, il lungo conflitto che mise fine al potere dell’aristocrazia civile e portò alla nascita del Bakufu di Kamakura, il «Governo della Tenda», noto in occidente come «shogunato».

Rapido riassunto: uno scazzo dinastico degenera in lotta armata nel 1180 e catalizza conflitti e ostilità latenti che si scatenano uno dopo l’altro effetto-domino fino a scatenarsi in un tripudio di sangue e merda generalizzato.

Siamo agli inizi del 1183, la guerra dura da tre anni, la carestia infuria, il paese è roso da rivolte e faide. Kyūshū è in fiamme, e perfino lo Shikoku, il Molise del Giappone, è un vespaio.

Tre contendenti emergono dalla bolgia di sberle e legnate nei denti:

  • I Taira, sotto la guida del nuovo capo Munemori (il patriarca Kiyomori è morto da poco), padroni della Capitale e padroni del traffico marittimo. Nella loro base di Rokuhara, sono ufficialmente il clan più potente del Paese e controllano l’Imperatore.
  • Minamoto Yoritomo, basato in Sagami, erede del ramo principale del clan e alla testa di una vasta coalizione di bande della piana del Bandō. Tra costoro spiccano gli Hōjō, i Miura, i Sasaki, i Chiba, i Takeda di Kai.
  • Minamoto Yoshinaka, il più giovane del mazzo, abile tattico la cui base principale è in Shinano ma che si trova ormai comodamente installato nel governo provinciale di Echigo, a sua volta a capo di una sostanziosa coalizione di bande dell’Hokuriku. Per ora, Yoshinaka non ha ancora perso una battaglia (a differenza di Yoritomo, che salvo un colpo di culo formidabile, sta prendendo un fracco di legnate).

Considerato lo stato disastroso del paese, Yoritomo tenta di trovare un compromesso coi Taira. E’ una buona proposta, e tutti ne convengono. Ma Munemori ha daddy issues e rifiuta per principio. Ciliegina sulla torta, la missione Taira di «pacificazione» (termine tecnico giapponese per indicare brutale repressione di ogni qualsivoglia dissenso), inviata in Hokuriku per stanare Yoshinaka, fallisce miseramente.

E qui ci ritroviamo. In un paese incendiato da siccità, carestia e odio.

005

I tre centri di potere: Heian per i Taira, Kamakura per Yoritomo, la capitale provinciale di Echigo per Yoshinaka

I Taira sono cinti dal casino: Kyūshū, Shikoku, e ora anche i monaci di Kumano, nel Kii, rilanciano la rivolta. Questi ultimi ce l’hanno coi Taira per via della distruzione dei templi di Nara.

Alla fine del nono mese dell’anno precedente, i rivoltosi di Kumano avevano occupato Shishigaseyama e dichiarato il loro aperto supporto a Yoritomo.

004

In rosso, nel centro, la provincia dove si trova la Capitale, tenuta dai Taira;
Contrornate in arancione, le provincie toccate da disordini e rivolte;

In verde barrato nel nord, il territorio controllato da Kiso Yoshinaka;
In aranciano barrato nell’est, il territorio controllato (più o meno bene) da Minamoto Yoritomo

Tra i sostenitori di Yoritomo in Kumano spicca un certo Tanabe Tanzō. Il suo nome non è nuovo nelle fonti: in molti sospettano che sia lui il delatore che ha avvertito i Taira della lettera del Principe Mochihito, all’origine della guerra. Questo dato non è confermato in tutte le fonti, quindi prendetelo con le molle.

Quello che sappiamo con relativa sicurezza è che è nato nel 1130 e che a questo punto riveste una funzione importante nell’amministrazione monacale di Kumano. Suo padre si chiamava Tankai, ma il Sonpi bunmyaku suggerisce che Tanzō fosse in realtà un figlio naturale di nientemeno che Minamoto no Tameyoshi (il nonno di Yoritomo, e ve lo dico perché questa faccenda è peggio di Beautiful e mi diverte incasinarvi le idee).

Tanzō è legato ai Taira e si occupa della marina militare nella provincia di Kii. Come altri in Kumano, il rogo dei templi di Nara è un momento di rottura critico, e Tanzō si ribella.

Questo tradimento gli viene perdonato, ma la frattura è insanabile: nel nono mese, Tanzō raggiunge Yoritomo e diventa de facto il nuovo ammiraglio dei Minamoto. Di certo i ribelli si rendono conto che, se vogliono sconfiggere i Taira, clan padrone del mare, hanno bisogno di una flotta un minimo decente.

Nel frattempo anche Yoshinaka sta consolidando la propria posizione, espandendo la sua sfera di influenza fino in Ecchū.

Munemori si ritrova quindi con rivolte ad ovest e due poteri ostili che dall’Est strisciano con lentezza inesorabile verso la provincia di Yamashiro e la Capitale Fiorita. Si può consolare con l’ida che Yoshinaka e Yoritomo si odiano, e hanno altrettanta probabilità di attaccare i Taira che di sbranarsi tra loro.

Minamoto no Yoshinaka (il tizio più in alto), attorniato da altri tostissimi guerrieri, dal pennello di Utagawa Kuniyoshi (1848)

Il 1182 e 1183 sono contraddistinti da lavori politici più che fati d’arme: la carestia infuria e senza cibo e foraggio gli eserciti non vanno da nessuna parte.

Secondo Kamo no Chōmei (1155-1216), nulla cresce per due anni. Vi riporto il brano in intero per dare un’idea dell’orrore che regnava in Giappone in questo periodo.

Alcuni disertarono le loro terre e se ne andarono in altre provincie, e altri lasciarono le loro case e si accamparono sulle colline. Vari tipi di preghiere furono recitate, ma le cose non migliorarono. E poiché la gente della Capitale dipendeva in tutto dalle terre d’attorno, quando nessun contadino veniva più con il cibo, come potevano costoro continuare la loro solita esistenza? Anche se gli abitanti portavano i loro beni sulla via e supplicavano la gente di comprarli come mendicanti senza vergogna, nessuno li degnava di uno sguardo, e se mai c’era qualcuno disposto a barattare il denaro era tenuto a poco, ma non c’era modo di convincerli a separarsi dai cereali. Gli accattoni riempivano le strade e il loro clamore era assordante.

Così il primo anno passò, e fu già difficile da vivere, sperammo in un miglioramento in quello seguente, ma fu peggio, dacché si scatenò una pestilenza, e le preghiere della gente non servirono a nulla. Man mano che i giorni passavano, gli abitanti si sentivano come pesci quando l’acqua gocciola via, e cittadini rispettabili che di solito indossavano cappelli e scarpe ora andavano scalzi a mendicare casa per casa. E mentre guardavi sconvolto tali scene, costoro si accasciavano e morivano sulla strada. E contro i muri e lungo le vie potevi vedere ovunque i corpi di coloro che erano morti di fame. E non c’era nessuno per portarli via, un fetore terribile colmava le strade, e la gente passava distogliendo lo sguardo. Le strade normali erano già in terribile stato, ma nei bassifondi presso il fiume non c’era nemmeno spazio per far passare carri o cavalli.

I manovali poveri e taglialegna e gente così, quando non poterono più tagliare legna da ardere e nessuno li aiutava, presero a distruggere le loro capanne e a portarne i pezzi in città per venderli. E ciò che un uomo poteva trasportare non era abbastanza da procurargli il cibo per sopravvivere un giorno.

Ed era sconvolgente vedere frammenti con lacca rossa o foglia d’oro e d’argento ancora attaccati spuntare in questi mucchi di legna. E questo è perché quelli che non potevano procurarsi nient’altro facevano irruzione nei templi di montagna e rubavano immagini e utensili e li facevano a pezzi per venderli come legna da ardere. Squallidi e degenerati sono i tempi in cui si compiono simili azioni.

Un’altra cosa molto triste era che coloro che avevano figli che amavano molto invariabilmente morivano prima di loro, perché si privavano di tutto per dare ai loro figli e figlie ciò di cui avevano bisogno. E così i figli sopravvivevano sempre ai genitori. E c’erano infanti che continuavano a succhiare il seno della madre, non capendo che era già morta.

Testimonianze come questa sono ciò che a mio parere restituisce alla Storia lo spessore e la nitidezza che il tempo tende a offuscare. Spesso quando studiamo eventi remoti, i protagonisti appaiono impersonali, personaggi di un racconto più che non persone in carne ed ossa.

Testimonianze come questa riportano a galla l’umanità delle persone. Oggi come allora, i genitori amano i figli. Oggi come allora, quando una situazione terribile si protrae, legami e strutture si sfaldano, e gente che aveva famiglia, vita, lavoro, si trova sola, per la strada, a crepare in solitudine. Oggi come allora, catastrofi climatiche possono privare qualcuno di tutto, e non c’è niente che puoi fare se non pregare dei che non ascoltano e cercare di sopravvivere un giorno in più, perché magari domani pioverà, magari domani arriveranno dei viveri, magari domani sarà diverso.

Gaki, spettri dominati da una fama atroce e insaziabile. Le loro pance sono dilatate come quelle dei morituri, le loro bocche sono sproporzionatamente grandi, ma il loro collo è troppo stretto per inghiottire anche un sorso d’acqua, e il cibo si muta in fuoco non appena tocca le loro labbra. Il Gaki è la personificazione del tormento di qualcuo che sta morendo di fame.
La simpatica scenetta in questione è ripresa dal Gaki sōshi, del Museo di Nara

Uno potrebbe pensare che una situazione del genere ponga necessariamente fine a una guerra che è cominciata come scazzo dinastico tra alti dignitari. Ma nonostante le grandi campagne militari siano per la maggior parte fuori questione, il fermento continua, in particolare a Kamakura, dove la Rivoluzione non dorme mai!

-Siamo praticamente padroni del Bandō.- Dice Yoritomo, durante una riunione. -E’ ora di regolare i conti con mio cugino Yoshinaka.

-”Praticamente” padroni.- Nota qualcuno. -Un sacco di bande di Hitachi non hanno risposto all’appello. Se ci spingiamo a nord, ci scopriamo ad est.

-Non ho cugini famosi in Hitachi, possiamo prendere il rischio. Invece ho un cugino famoso in Hokuriku.

-Per ora Yoshinaka non si è mostrato ostile.

-E’ nella natura stessa dei cugini di uccidersi a vicenda prima o poi.

-Giusto.

-Quindi, se non ci sono altri parenti problematici da fare a pezzettini, io direi di mettere su una spedizione di taglia ridotta e-

-Capo!- Un piantona arriva di corsa. -Capo, hai mica uno zio in Hitachi?

-Oh no.

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Vi presento Minamoto no Yoshihiro, che chiameremo il Sire di Shida per evitare confusione tra tutti gli Yori e gli Yoshi del clan Minamoto.

Il Sire di Shida è terzo figlio di Minamoto no Tameyoshi e fratello minore del padre di Yoritomo. «Shida» altro non è che il nome della sua base principale, nella provincia di Hitachi.

003

La provincia di Hitachi, nel sud potete notare il distretto di Shida

Il Sire di Shida non era mai stato amico del padre di Yoritomo. Fin da ragazzo, il suo fratello preferito era il secondogenito, Yoshitaka. I due sembrano inseparabili sin dall’infanzia: servono insieme alla Capitale e si trasferiscono insieme in Hitachi a fine turno. In questa remota provincia orientale, i due restano uniti, uno il supporto dell’altro. Cosa che non piace per nulla al padre di Yoritomo: Hitachi è nel cuore del Bandō, una provincia produttrice di cavalli e una zona strategica importantissima. Il nostro teme che i due fratelli possano unire le loro forze per rovesciarlo.

Che belle le famiglie disfunzionali, non trovate?

Nel 1155, il figlio maggiore di Yoshitomo (e fratello maggiore di Yoritomo) risolve la situazione spacciando suo zio Yoshitaka.

Annientato dalla perdita del fratello, il Sire di Shida si ritira nel suo territorio e resta fuori dalla guerra. Per più di 20 anni, si occupa della sua terra, senza mai cercare il conflitto con il governatore Taira della provincia. Perché dovrebbe, dopotutto? Non sono stati i Taira ad assassinare suo fratello.

Anche dopo l’inizio della ribellione, il Sire di Shida resta fuori dai giochi.

Ma nel 1183, con la guerra in stallo e il mondo in fiamme, il Sire di Shida decide di agire.

Forse teme il crescente potere di suo nipote Yoritomo, un uomo per cui non può avere che diffidenza e ostilità. Forse teme che Yoritomo trascini il clan nell’ennesima guerra persa, dannandoli tutti. Forse è irato col nipote che mostra scarsissima considerazione a suo riguardo. Forse vuole unirsi alle forze di Yoshinaka. Non lo sappiamo.

Toujours est-il, il Sire di Shida decide di agire.

Il 20 del secondo mese del 1183, il Sire di Shida lascia la propria base nel sud di Hitachi e comincia la lunga marcia passando via Shimotsuke verso Kamakura, dove conta sorprendere e spacciare suo nipote Yoritomo.

La congiura viene però scoperta: Yoritomo raccatta i suoi e va incontro a suo zio, incontrandolo a Nogi no miya. E proprio mentre il Sire di Shida si prepara a dare battaglia, uno dei suoi tradisce e prende le parti di Yoritomo.

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Il teatro delle operazioni

Segue una battaglia ferocissima. Così feroce che la memoria del macello è sopravvissuta nei toponimi del luogo, noto come Jigokuzawa (la palude dell’inferno) o Todorokizawa (la palude del fracasso).

Nonostante gli sforzi, il Sire di Shida perde: sconfitto, può solo ritirarsi precipitosamente e rifugiarsi sotto la protezione di Kiso Yoshinaka.

La Battaglia di Nogi no miya può sembrare aneddotica: ok, sono due parenti che si scannano tra di loro provocando la morte di centinaia di poveri stronzi che non c’entrano niente. Che c’è di nuovo?

Da un punto di vista politico questa battaglia segna un cambiamento importante nell’equilibrio del Bandō: fino a questo punto Hitachi era rimasta potenzialmente ostile a Yoritomo. Alcune bande della provincia si erano unite alla causa di Yoritomo, ma la loro lealtà era condizionata. Con la sconfitta del Sire di Shida, Yoritomo non solo ha eliminato un grosso notabile locale e possibile competitore, ma ha messo le mani su un ricco patrimonio. Per 30 anni il Sire di Shida è stato fuori dalle beghe politiche e si è dedicato solo a curare le proprie terre. Ora il frutto di tanto lavoro finisce dritto nelle rapaci zampine di Yoritomo, che usa subito il nuovo capitale per ricompensare i suoi e assicurarsi la fedeltà dei capetti di Hitachi. Con Nogi no miya, Yoritomo mette al sicuro la propria retroguardia.

Non solo, ma Yoritomo si assicura una vittoria di cui ha davvero bisogno. Con il nuovo lustro e i nuovi mezzi, può sperare di fare i conti con Yoshinaka.

Stando allo Heike monogatari, Yoritomo non riesce a strappare a suo cugino una vera e propria sottomissione, ma riesce a confinarlo nell’Hokuriku, sloggiandolo dalla provincia di Kōzuke, e a fargli inviare suo figlio come ostaggio a Kamakura.

Il primo round tra i due si conclude così con un netto vantaggio per Yoritomo.

Yoritomo

Yoritomo mentre medita nuove infamie

Mentre i Minamoto regolano conti tra di loro, i Taira ritentano di pacificare l’Hokuriku. Con minacce e pedate rimettono insieme un esercito, e il 17 Koremori riparte.

Dallo Heike monogatari:

Avendo ricevuto l’autorizzazione di esigere rifornimenti, una volta passata la barriera di Ōsaka saccheggiarono lungo la strada tutti gli uffici e le magioni, senza rispettare i prodotti delle tasse né i beni pubblici, e dacché al loro passaggio portavano via tutto ciò che trovavano, in Shiga, Karasaki, Mitsukawajiri, Mano, Takashima, Shihotsu e Kahizu, la popolazione non poteva resister loro e fuggì per monti e valli.

L’esercito messo insieme è un mostro mastodontico di migliaia e migliaia di uomini, Uesugi ipotizza anche 40.000! Si tratta di un miscuglio mal accozzato di vassalli dei Taira e coscritti strappati alle provincie obtorto collo. La coesione è bassa e il morale ancora più basso.

Koremori divide l’armata in due parti : una deve avanzare attraverso Tsuruga, a nord del lago Biwa, via il passo Konome. L’altra attraversa il passo Tochinoki, da Ōmi a Echizen. Il 26 fanno giunzione in Echizen senza troppi intoppi.

Intoppi che cominciano il giorno dopo, quando i Taira incocciano nel castello di Hiuchi, protetto da 6.000 cavalieri secondo lo Heike monogatari, tenuto da un ramo filo-Minamoto dei Fujiwara settentrionali e dal superiore monastico Saimei del tempio Heizen (pure pro-Minamoto).

La montagna è dietro, la montagna è davanti. Davanti alla fortezza scorrevano i fiumi Nōmi e Shindō. Alla confluenza dei due, [i difensori] avevano stabilito una diga di enormi alberi abbattuti, rinforzata da una prodigiosa quantità di graticci, così che a est come a ovest l’acqua era salita fino ai piedi dei monti e si sarebbe detto un lago.

Insomma, i grandi eserciti difficilmente possono scorrazzare in giro inosservati: i difensori sapevano che sarebbero arrivati e hanno creato un troiaio paludoso che Alberto I del Belgio levati.

L’acqua è un’ottima difesa, ma non bisogna mai fidarsi dei preti: nottetempo Saimei sgattaiola fuori e scocca ai Taira una freccia. E’ cava. Al suo interno i nemici trovano un messaggio arrotolato. E’ una lettera di Saimei in persona.

“Questo lago non è sempre stato qui. E’ solo l’acqua dei torrenti di montagna ostruiti da un po’. Al calar della notte, inviate i vostri valletti d’arme e fate loro distruggere i graticci. Le acque scenderanno in poco tempo. Appena i vostri cavalli potranno toccare, attraverserete. Quanto a me, li colpirò alle spalle.”

George Washington Treason - Laughshop.com

“People gather, scatter, they go left and right following their interests. That is not surprising.” (Masakage Yamagata ci insegna la politica, dal film Kagemusha)

Il giorno dopo, fangosi ma invitti, i Taira avanzano su Hiuchi, che viene prontamente abbandonato dai difensori.

Sembra che la pacificazione dell’Hokuriku, a questo giro, sia partita proprio bene.

Ma i Taira non hanno contato su Yoshinaka, che dopo l’umiliazione politica impartitagli da Yoritomo ha un sacco bisogno di ripulire il proprio onore col sangue di qualcuno.

Nella prossima puntata, la Battaglia di Kurikara!

MUSICA!

Puntate precedenti:

Genpei 0.1

Genpei 0.2

Genpei 1.0

Genpei 1.1

Genpei 1.2

Genpei 1.3

Genpei 2.0

Genpei 2.1


Bibliografia

FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Harvard University Press, 1995, Cambridge

FRIDAY Karl, Samurai, warfare and the state, Routledge, 2004, New York

FUKUDA Toyohiko, SEKI Yukihiko, Genpei kassen jiten, Yoshikawa kobunkan, 2006, Tokyo

KAMO NO CHOMEI, Trad. Sadler A. L., Ten foot square hut, Charles E. Tuttle Company, 1993, Sidney

ROYALL Tyler, The tale of the Heike, Viking, 2013, New York

SIEFFERT René, Le dit des Heiké, Verdier, 2012, Lonrai

SOUYRI Pierre-François, Histoire du Japon Médiéval – Le monde à l’envers, Tempus, 2013, Paris

UESUGI Kazuhiko, Genpei no sōran, Yoshikawa Kōbunkan, 2007, Tōkyō

 

 

Emishi, gli eterni sconosciuti

Non si può studiare la storia giapponese pre-XIII° senza incappare in questo strano termine.

Emishi.

Fin dalle prime fonti storiografiche autoctone, nell’VIII° secolo, questo nome compare, e quasi sempre in circostanze drammatiche. Gli emishi si sono ribellati, gli emishi hanno bruciato i fortini di frontiera, gli emishi hanno teso un agguato al governatore e se lo sono mangiato con le fave e un buon chianti…

Bruciare fortini in particolare sembra essere stato un gran passatempo.

Person Who Speaks A Language Other Than Geek Is This A Barbarian ...

Nonostante gli emishi abbiano bruciato fortini imperiali per secoli, le informazioni al loro riguardo sono paradossalmente poche e confuse. Anche perché non scrivevano, che è una cosa che mi rende sempre molto triste.

La prima domanda che sorge spontanea a questo punto è: chi erano questi piromani impenitenti?

Chi erano gli emishi?

Emishi - Wikiwand

Emishi rendono omaggio al Principe di Sangue Shōtoku (il tizio a cavallo che sembra dire “‘sto frustino po’ esse’ de piuma o po’ esse’ de fero”), dallo Shōtoku taishi eden emaki, XI° secolo

La parola “emishi” (蝦夷 in un delle sue grafie più correnti) compare per la prima volta nel Nihon shoki, in riferimento al secondo mese del ventisettesimo anno del regno dell’Imperatore Keikō (98 d.C.). Un tale Takeshiuchi no Sukune torna da un viaggio delle regioni orientali e riferisce:

Tra i barbari orientali, c’è il pese (国) di Hitakami (日高見). In quel paese, uomini e donne legano i propri capelli in forma di martello, si tatuano e la gente è valorosa. Sono chiamati emishi. La terra è fertile e vasta, può essere presa con un attacco.

“Ho scoperto questo nuovo paese.”

“Figo, ma lo possiamo saccheggiare o no?”

Tutto il mondo è paese.

Ad ogni modo è importante sottolineare che Keikō è un sovrano semi-leggendario che secondo la tradizione avrebbe regnato tra il 71 e il 130 d.C. Non solo a quell’epoca non esisteva nessun “impero”, ma è relativamente certo che le isole giapponesi fossero un coacervo di tribù agrarie che si aggregavano e si disgregavano. In altre parole, non solo non esisteva l’impero, non esisteva nemmeno lo stato. Quella qui riportata è una leggenda trascritta agli inizi dell’VIII°, e non può essere assolutamente presa in parola.

L’idea che i fantomatici abitanti dell’est avessero costituito uno stato, Hitakami, è pure molto improbabile. L’esistenza di questo “paese” è propugnata anche da fonti cinesi, in particolare il Tongdian (通典), completato agli inizi del IX° secolo. E’ però più che probabile che i Cinesi tenessero queste informazioni dagli inviati Giapponesi, quindi la fonte cinese non “conferma” l’informazione, piuttosto “ripete per sentito dire”

Una cosa però è sicura: gli emishi vivono nella parte orientale e nordorientale di Honshū.

E’ anche importante notare che “emishi” non è l’unico termine usato per parlare della gente del nordest: ebisu, emisu, ezo, ecc. Sono pure termini usati in diversi contesti e periodi, ma non è chiaro in base a cosa e una discussione filologica esaustiva sull’argomento rischia di essere complicata (vorrei tenere questo articolo sotto le 3.500 parole, possibilmente!) [Edit: ho miseramente fallito]

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Il Tongdian non è la sola fonte cinese che fa riferimento a delle popolazioni insediate nel nordest del regno di Yamato. Lo Xin Tangshu (新唐書) o Nuovo Libro dei Tang, scritto nell’XI° secolo, descrive un’ambasciata del 668 dove l’inviato Wa è accompagnato da gente orientale. Costoro sarebbero dotati di una gloriosa barba di quattro piedi (120 cm!) e di un’incredibile abilità con arco e frecce.

Una delle teorie sulle origini del termine “emishi” è appunto che sia una distorsione della parola yumishi, (弓人 o弓師), “arciere” o “maestro d’arco”. Il secondo kanji di emishi è dopotutto “夷”, che può essere interpretato come una fusione del kanji di “arco” (弓) e “grande” (大).

Un’altra spiegazione attribuisce invece l’origine alla parola che gli Ainu usavano per riferirsi a loro stessi, ovvero emchu o enchu. E’ verosimile che questa parola, all’orecchio dei Wa della regione centromeridionale, suonasse qualcosa come emisu o emishi.

Quale di queste sarà la spiegazione corretta?

A dire il vero una non esclude l’altra, dacché i kanji possono essere stati usati per trascrivere una parola fonetica e scelti in base al loro significato implicito. In parole povere, può darsi che dovendo scegliere quali ideogrammi usare per trascrivere “enchu” i Giapponesi abbiano optato per i segni che indicavano le abilità di arcieri degli emishi.

Quindi voilà, la prova che gli emishi erano Ainu, giusto?

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Diciamo pure che “emishi” viene proprio da una parola Ainu e indicava gli Ainu.

Se Ainu = emishi, non è affatto detto che tutti gli emishi = Ainu.

Un altro passaggio del Nihon shoki, un po’ più affidabile stavolta, viene dal capitolo sul regno dell’Imperatrice Saimei (655-661). Il settimo mese del quinto anno (670) del regno dell’imperatrice, la corte spedì un’ambasciata alla corte dei Tang in Cina (al potere dal 618). Il brano è molto più vicino alla data di compilazione del Nihon shoki e si basa sui diari lasciati da due membri della spedizione.

Stando alla fonte, i Giapponesi portano al Figlio del Cielo un uomo e una donna emishi.

L’ambasciata è avvenuta davvero, dacché è confermata dalle fonti cinesi. Queste però non menzionano buffi primitivi a seguito dell’ambasciatore Wa, quindi non siamo proprio sicurissimi di come si sia svolta davvero l’udienza con Gaozong [Edit: erroneamente chiamato Gaozong nella versione precedente].

Stando al Nihon shoki, l’imperatore Gaozong li riceve il decimo mese intercalare. Dopo aver chiesto come sta Saimei, bene grazie, e i nipoti, bene anche loro, mi raccomando salutamela e tante buone cose, Gaozong s’interessa finalmente dei due emishi.

L’Imperatore quindi chiese: -Questo paese degli emishi, dove si trova?

Risposero rispettosamente: -E’ nel nordest.

L’Imperatore quindi chiese: Quanti tipi di emishi esistono?

Come nel primo passaggio, gli emishi sono gente nordorientale. Considerato che lo stato di Yamato è ancora giovane nel 670, può darsi che con “nordest” si intendesse il nord di quella che è oggi la prefettura di Miyagi.

Miyagi Prefecture - Wikipedia

La prefettura di Miyagi, anticamente parte della Privincia di Mutsu

E’ chiaro che Gaozong interpreta il termine “emishi” non come il nome di un popolo particolare (come gli Ye o gli Han o i Wa), ma come un termine generico per indicare gente non meglio specificata che vive in una certa regione (e chiede quindi “quanti tipi di emishi esistono”).

Dalla risposta degli ambasciatori giapponesi capiamo che questo è esattamente il modo in cui il termine viene usato:

Risposero rispettosamente: -Ce ne sono di tre tipi. Quelli che sono molto lontani sono chiamati Tsugaru (都加留), quelli dopo Ara-emishi (粗蝦夷) e i più vicini sono i Nigi-emishi (熟蝦夷). Questi emishi sono Nigi-emishi. Ogni anno inviano un tributo alla corte.

Tsugaru, normalmente scritto “津軽”, è una penisola nell’estremo nord dell’isola di Honshū. Quanto agli altri due, non è offerta nessuna indicazione geografica particolare. Gli Ara sono lontani, i Nigi sono vicini e portano un tributo. Secondo Hanihara, gli Ara (termine che evoca l’idea di violenza e riottosità) sono gli stronzi che non si piegano all’auto-evidente superiorità degli Yamato, mentre i Nigi sono bravi e mandano un tributo.

In altre parole, Ara e Nigi indicano due gruppi politici, non etnici.

Nel 1960, Inoue presentò l’ipotesi che i Nigi fossero gruppi stanziati nelle regioni più prossime al territorio controllato da Yamato, ovvero quelli che sono oggi i dipartimenti di Miyagi, Yamagata o Fukushima.

La discussione con Gaozong continua.

L’Imperatore chiese: -Questo paese conosce i cinque cereali?

Risposero rispettosamente: No. Mangiano carne.

L’Imperatore chiese: -Questo paese ha abitazioni?

Risposero rispettosamente: -No. Vivono nel cuore delle montagne sotto gli alberi

Per citare il Barbagli “ gente che andava nuda a caccia di marmotte quando noi già s’accoltellava un Giulio Cesare.”

Sappiamo grazie a dati archeologici che queste informazioni sono fake news: la risicoltura arriva nel nordest con uno o due secoli di ritardo rispetto a Kyūshū, ma era già ampiamente diffusa dal I° secolo d.C. almeno. Dato l’ambiente montuoso e il clima rigido, è probabile che la gente del nordest abbia comunque dato più spazio a caccia e pesca rispetto ai burrosi contadini del Kinai, ma dire che non coltivavano è falso. Stesso vale per le case: abbiamo ritrovato case seminterrate molto simili al tipo di tugurio senza finestre in cui dormivano i glebani delle ricche regioni occidentali.

Insomma, da un punto di vista archeologico, i poracci dei barbari campavano più o meno allo stesso modo dei poracci dell’Impero (male e poco). Sai che sorpresa.

International Workers’ Day

Poracci of the world UNITE!

Lo scopo di questo passaggio nel Nihon shoki non è quello di descrivere con accuratezza etnografica gli emishi, ma di distinguerli dai sudditi di Yamato. Yamato è un regno, è civilizzato, usa la scrittura, coltiva, costruisce capitali, proprio come i cinesi!

Quindi gli emishi sono barbari, scimmie che dondolano dagli alberi e non sono capaci di coltivare! Uomini e donne si pettinano alla stessa maniera, perfino. Cioè. Bah. Sai che si è arrivati al picco della bestialità quando va di moda il gender neutral.

Tirando le somme, emishi è un termine vago che indica popolazioni del nordest di Honshū che non riconoscono appieno l’autorità del clan Yamato (che è disceso dalla Dea del Sole, quindi devi proprio essere scemo per non capire che bisogna fare come dicono loro!).

La domanda che spesso sorge a questo punto è: ma gli emishi saranno mica gli Ainu?

Famiglia Ainu di Hokkaidō

Per chi non ha pratica, gli Ainu sono una popolazione etnicamente diversa dai giapponesi e che occupa principalmente l’isola settentrionale di Hokkaidō. Hanno una lingua diversa, costumi e riti completamente differenti, e un aspetto distinto rispetto al resto dei cittadini giapponesi.

Per un lungo periodo si è supposto che gli Ainu fossero gli aborigeni del Giappone, ricacciati gradualmente sempre più a nord via via che popolazioni di ceppo mongoloide arrivavano dalla Corea con la loro agricoltura figa, i loro cavalli e le loro belle armi di ferro.

Queste teorie non sono più attuali, ma ad ogni modo, gli emishi erano Ainu?

La risposta veloce è

Fact Check: Was there an increase in Violent Crime in Colorado ...

La risposta lunga è, comunque no, ma facciamo un minimo di chiarezza.

E’ importante notare che la cultura Ainu ha ricevuto riconoscimento e tutela solo molto di recente. Gli Ainu di oggi sono i sopravvissuti della feroce politica di assimilazione attuata a partire dal governo Meiji. E con “assimilazione” intendo un tentativo pianificato e sostenuto di cancellare del tutto la popolazione, via soppressione della cultura, distruzione dei luoghi di culto, violenza omicida e stupri sistematici.

Gli Ainu di oggi portano l’eredità delle atrocità commesse contro di loro e queste sono ormai parte integrante del loro attivismo culturale, politico e sociale. L’argomento è davvero interessante e merita uno spazio a sé: in questo articolo voglio parlare della popolazione Ainu prima che questo tentato genocidio impattasse in modo così drammatico la loro esistenza. Ci tenevo però a segnalarlo perché se mai vi incuriosisce la cultura promossa dalla comunità Ainu dovete essere coscienti di questo terribile capitolo nella loro storia.

Com’era la situazione prima che il governo giapponese decidesse di uniformare la popolazione?

Cominciamo col dire che differenze tra il sudovest e il nordest del Giappone sono sempre esistite: la ceramica di tipo Jōmon, ad esempio, compare circa 12.500 anni fa in Kyūshū, e procede lentamente arrivando in Hokkaidō solo 8.500 anni fa.

Tradizionalmente il lungo periodo Jōmon è considerato finito quando l’agricoltura (in particolare la risicoltura) diventa un’attività economica centrale, intorno al III° secolo a.C. Questa progressione è accettata per le isole di Kyūshū, Shikoku, e per buona parte di Honshū, ma non per il resto del paese. Più o meno nello stesso periodo in cui avviene la transizione Yayoi, in Hokkaidō e nel nordest di Honshū si passa nel Periodo Zoku-Jōmon (o Epi-Jōmon), ovvero un periodo in cui troviamo un nuovo tipo di ceramica ma che presenta una grande continuità col periodo precedente.

Nusamai type pottery

Ceramica Nusamai datata 2.700-2.400 anni fa e ritrovata nello scavo dell’Abitazione 13 nel sito di Sakaeura II, nel nord di Hokkaidō (dalla collezione di materiali archeologici del bacino inferiore del fiume Tokoro). Il sito di Sakaeura II appatiene alla Cultura di Okhotsk, distintamente non Giapponesi.

Da un punto di vista archeologico, abbiamo quindi una Cultura che si generalizza in quasi tutto l’arcipelago, fino al III° secolo a.C., quando inizia una sorta di “speciazione”, tra la cultura del sudovest e del centro, e quella del nordest e di Hokkaidō. Mentre nel sudovest e nel centro si sviluppa una società stratificata e un primo embrione di stato, in Hokkaidō e nel nordest troviamo tracce di differenziazione sociale (piccoli tumuli con ceramiche Sue e spade di ferro, ecc.), ma nulla che lasci supporre una stratificazione vera e propria.

SakuraeII_House1

Abitazione 1 in Sakurae II, esempio di cultura Satsumon

House3_Hiraide

Abitazione 3 del sito di Hiraide nella prefettura di Nagano (Honshu centrale), esempio di cultura Haji (dal tipo di ceramica del periodo, diffusasi dal IV° secolo d.C.). P1,2,3,4 indicano i buchi lasciati dai pilastri del tetto.

La fase successiva nella storia di Hokkaidō, chiamata Cultura Satsumon (VIII°-XIII° secolo), comprende agricoltura e utensili in ferro, ma anche una spiccata influenza della cultura Okhotsk, smaccatamente marittima. Sia siti Satsumon che siti Okhotsk coesistono per secoli sulle coste settentrionali dell’Isola di Hokkaidō.

Tokoro_chashi

Abitazione 1 dal sito di Tokoro Chashi in Hokkaidō, uno degli esempi meglio documentati di Cultura Okhotsk

Si tratta di Ainu?

In realtà non possiamo davvero parlare di Ainu prima del XIII° secolo.

Ancora negli anni ’70 era oggetto di dibattito se gli Ainu fossero gente Jōmon rintuzzata a Hokkaidō dai Wa meridionali, o gente arrivata nel XIII° dal nord. Aikens e Higuchi ipotizzano che gli Ainu siano diretti discendenti della cultura Satsumon.

Ad ogni modo l’archeologia conferma una divergenza culturale sud-sudovest-centro VS nordest-Hokkaidō, con i due estremi geografici che presentano la più grande diversità.

L’archeologia non è l’unico approccio alla questione: come accennavo nel mio articolo sullo stato, il concetto di “razza” è ormai riconosciuto come il pasticcio pseudoscientifico che è, ma checché ne dicano i “race realists” e altra feccia simile, questo non significa assolutamente che le differenze somatiche tra gruppi vengano ignorate o negate. In altre parole, le differenze somatiche esistono (dato oggettivo), la razza (concetto intellettuale che interpreta tale dato) è stato superato in favore di un approccio nettamente migliore e più scientifico (e che quindi si presta meno a bizzarre interpretazioni politiche).

A questo proposito, Hanihara sostiene che morfologicamente non c’è nessuna differenza tra gli scheletri del periodo Satsumon e i moderni scheletri degli Ainu. In altre parole, la gente di Satsumon aveva già l’aspetto dell’Ainu moderno. In contrasto, il sud-ovest del Giappone mostra, a partire dalla fine del periodo Jōmon, una somiglianza crescente con altre popolazioni del Nord-est Asiatico. Questa somiglianza è particolarmente evidente in Kyūshū e diminuisce progressivamente che ci si sposta verso il nordest dell’isola di Honshū.

In altre parole, la gente del nordest e di Hokkaidō mantiene le caratteristiche somatiche della popolazione Jōmon molto più a lungo rispetto ai gruppi che vivevano in altre regioni.

E che ne è della lingua?

La lingua Giapponese e quella Ainu sono diverse, ma hanno anche similitudini strutturali e lessicali importanti. Secondo Aikens e Higuchi, si tratta in entrambi i casi di lingue Altaiche, e secondo il metodo glottocronologico avrebbero cominciato a separarsi tra i 5.000 e gli 8.000 anni fa (più o meno quando il Giapponese iniziò a distinguersi dal Peninsulare da cui deriva anche il Coreano). I dialetti regionali odierni sono pure separabili in due ceppi distinti, che spaccano il paese in Nordest e Sudovest.

The best dialects memes :) Memedroid

Non sembra, ma Americano e Australiano sono lingue molto vicine

In realtà Robbets fa notare che non c’è per niente consenso sulla parentela genealogica del Giapponese, Coreano e altre lingue Trans-Eurasiatiche. Cioé, è apparente che Giapponese e Coreano sono legati, e pare che le lingue Tungusiche delle regioni vicine siano il parente prossimo più probabile, ma queste similitudini sono genealogiche (queste lingue hanno un antenato in comune) o semplicemente frutto della vicinanza geografica e dell’inevitabile meccanismo di appropriazione?

Nota rilevante: quando si parla di “lingue Altaiche” non si intende che gli Altai furono effettivamente la regione di origine di questa comunità linguistica. Già negli anni ’20 il linguista Ramstedt, un colosso della linguistica altaica, situa la possibile zona di origine  più a est, sui monti Da Hinggan.

Nel 1996 Juha Janhunen ipotizzò che, nonostante Mongolo, Tunguso, Coreano e Giapponese non fossero geneticamente legate, le comunità linguistiche rispettive avevano probabilmente origine nella stessa zona geografica che va dalla Corea alla Manciuria Meridionale. Da un punto di vista culturale, queste comunità sarebbero legate a quella che è definita oggi la Cultura di Hongshan.

Hongshan

Zona della Cultura di Hongshan

La comunità linguistica del proto-Giapponese e proto-Coreano sarebbe situata nel nord della Penisola Coreana.

Secondo Robbets esiste bel et bien una relazione genealogica tra il Giapponese, il Coreano e altre lingue Trans-Eurasiatiche (chiamate anche Altaiche). In altre parole, la lingua dei Wa e quella dei coreani sono strette parenti.

Pin on Owls and Pussycats

 

Quindi, che conclusioni possiamo trarre?

Già dagli inizi del periodo Jōmon notiamo delle differenze economiche e culturali tra la gente che viveva nel nordest di Honshū e Hokkaidō, e quella che viveva nel sudovest di Honshū e Kyūshū (Shikoku compare sempre pochissimo perché, per qualche oscura ragione, non se la fila mai nessuno!). Somaticamente la popolazione sembra molto uniforme nell’Arcipelago. E’ molto probabile che, oltre alle differenze culturali, economiche e religiose, i vari gruppi parlassero lingue diverse ma vicine tra loro.

Dalla fine del Periodo Jōmon iniziamo a notare una distanza progressiva sia a livello culturale che economico che politico che somatico.

Secondo Hanihara, gli isolani del periodo Jōmon, gli Ainu e gli abitanti delle isole Ryūkyū sarebbero geneticamente distinti dalla popolazione agricola del Periodo Yayoi e dai giapponesi moderni. In particolare, i geni della gente Jōmon e Ainu mostrano spiccate similitudini col genoma degli abitanti del Sudest Asiatico, mentre la gente Yayoi e i moderni giapponesi sono geneticamente simili a popolazioni del Nordest Asiatico.

Esistono anche nette differenze morfologiche tra la popolazione Yayoi e quella Jōmon. Stando agli scheletri, possiamo ipotizzare che la gente Jōmon fosse probabilmente alta di media 1,50m, con spalle larghe e una struttura robusta, nasi pronunciati e denti piccoli. La gente Yayoi pare avesse un’altezza media di 1,60m, fosse più slanciata, con nasi più piccoli e denti più grandi.

Questo supporta la teoria di ondate di immigrazione che si intensificano agli inizi del Periodo Yayoi e che avrebbero spinto la gente Jōmon verso la periferia.

Occhio però: c’è stata anche tanta mescolanza, e Hanihara non suggerisce assolutamente che Giapponesi e Ainu siano due popolazioni perfettamente distinte. Al contrario, i Giapponesi moderni hanno, chi più chi meno, similitudini con gli Ainu. In altre parole, gli Ainu derivano dai Jōmonesi, mentre i Giapponesi derivereddero da una commistione (più o meno importante) di Jōmonesi e immigrati continentali del Periodo Yayoi. Le similitudini tra Giapponesi e Ainu aumentano nelle regioni nordorientali di Honshū, dividento il paese in due regioni etniche tra Kyūshū e Hokkaidō, con una vasta zona grigia nel mezzo. La regione del nordest di Honshū e Hokkaidō mantengono una maggiore continuità col Periodo Jōmon per un lasso di tempo più lungo che non la regione del sudovest, che aveva frequenti e vivaci contatti con la penisola coreana e la Cina.

Un’ulteriore divisione avviene a partire dall’VIII° secolo: in Hokkaidō appare la cultura Satsumon, mentre il nordest di Honshū è progressivamente colonizzato da gente della regione centrale e meridionale. Come accennato a inizio articolo, questo si è accompagnato a migrazioni, deportazioni e guerre. Ciò nonostante, come abbiamo visto, la popolazione del nordest di Honshū non viene del tutto assimilata dai Wa: mantengono tratti linguistici, somatici e culturali nettamente distinti da quelli della regione centrale. Allo stesso tempo, adottano caratteristiche delle popolazioni centromeridionali, differenziandosi dagli Ainu di Hokkaidō ma sensa essere del tutto assorbiti dai Giapponesi meridionali.

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Quindi, tornando alla nostra domanda: gli emishi  sono Ainu?

No, gli emishi vengono prima degli Ainu.

Gli emishi e gli Ainu hanno origini comuni?

Sì. In realtà pare proprio che tutti gli abitanti delle isole giapponesi siano discendenti dei Jōmonesi, e che si siano sviluppati in modo diverso a seconda delle correnti culturali e migratorie a cui erano soggetti.

Quindi con emishi si intende un qualche tipo di gruppo proto-Ainu, in opposizione coi Wa della regione centro-meridionale?

No.

Possiamo affermare con relativa sicurezza che il nordest era abitato da gente diversa dal sudovest.

Ma è importante ricordare che emishi è un termine politico, non etnografico.

Come abbiamo visto, esistono varie tradizioni culturali, somatiche e linguistiche nell’arcipelago giapponese. Il termine “emishi” non indica un gruppo particolare, ma una regione. In principio, indicava “quelli che non sono sudditi del re di Yamato”, con gli anni lo troviamo affibbiato anche a funzionari del governo, che magari erano “discendenti di quelli che non sono sudditi del re di Yamato”.

In altre parole, gli “emishi” sono i “barbari orientali”.

Da un punto di vista etnico, la sola cosa che possiamo dire di loro è che i futuri Ainu discendono da (alcuni degli) emishi, ma non tutti gli emishi erano proto-Ainu.

Emishi comprende proto-Ainu, ma anche immigrati coreani provenienti dalla federazione di Gaya, o dal regno di Silla, o addirittura dal temuto regno di Goguryeo, comprende sudditi di Yamato che si sono dati alla macchia, gente che ha vissuto nel nordest per millenni, e gente che è arrivata dal Kantō per non dover sottostare al nuovo governo centralizzato.

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Non abbiamo modo di definire gli emishi con certezza. Le uniche fonti che ne parlano sono quelle di Yamato, che usano la parola “emishi” con lo stesso vago razzismo inconsistente con cui certi mentecatti italiani usano la parola “rifugiato”. Sembra che si stiano riferendo a qualcosa di specifico, ma nei fatti il significato assegnato alla parola è “quell’orda di gente aliena in contrasto con noi, società civile ed evoluta”.

E’ probabile che gli Yamato abbiano adottato questo tipo di tono e narrativa dai Cinesi. Nello Shan Hai Ching (山海経), il Classico delle montagne e dei mari, opera già in circolazione al tempo degli Han Occidentali (206 a.C.-9d.C.), compare il termine “毛民”, letteralmente “popolo peloso”, riferito a un popolo barbarico del nordest, che abita in delle isole del Pacifico ed è descritto come basso, peloso, primitivo, che vive in case scavate nel terreno.

Sounds familiar?

Uno dei termini che i Giapponesi usarono per riferirsi ai “barbari orientali” o emishi è ebisu “毛人”, “gente pelosa”, o mōteki “毛狄”, “nemici pelosi”.

Familiar yet?

In realtà i termini giapponesi si distinguono in senso ed uso da quelli cinesi, ma è possibile che lo Shan Hai Ching o la tradizione cinese in generale siano la fonte d’ispirazione per la scelta di detti termini.

Questo non significa che Ainu ed emishi non avessero nulla a che fare. Al contrario, hanno molto a che fare ed esistono importanti continuità culturali, linguistiche e somatiche tra gli abitanti del nordest e gli Ainu.

Il punto è che la realtà culturale ed etnografica dell’Arcipelago Giapponese è molto più complessa di un semplice Giapponesi VS Ainu.

Tra VIII° e XIII° secolo, periodo della “pacificazione” della regione nel nordest di Honshū, possiamo stabilire che gli emishi avevano sì tratti comuni con gli Ainu, ma pure tratti comuni con i Wa della regione centrale, e benché non si fossero coalizzati in una società stratificata di tipo statale come la corte di Yamato, il loro livello tecnologico era più o meno lo stesso di quello delle truppe imperiali.

Quanto alla loro organizzazione economica, c’erano ovvie differenze con le attività delle regioni più calde, ma gli emishi praticavano l’agricoltura, estraevano il ferro e allevavano cavalli proprio come i loro antipatici vicini colonizzatori (probabilmente allevavano più cavalli perfino, ma questa è un’altra storia).

Da quello che possiamo estrapolare, gli emishi erano stanziati in vari territori che gli imperiali chiamano mura, e organizzati su base clanica o tribale, in gruppi che potevano federarsi o dissolversi a seconda delle necessità, e che non di rado erano in guerra tra loro. In altre parole, un’organizzazione non troppo diversa da quella che si suppone aver caratterizzato il resto del Giappone prima del processo del secondary state formation che ha portato al regno di Wa.

Re_Yamato

Il re di Wa secondo le haniwa funerarie

E’ più che probabile che questo discorso sugli emishi non sia più attuale di qui a qualche anno. Le uniche fonti scritte di cui disponiamo sono estremamente parziali e povere in dettagli. Non solo: a differenza della Cina, la corte giapponese non ci ha lasciato nessuna opera “etnografica” degna di questo nome. Non solo non abbiamo testimonianze dirette, ma non abbiamo nemmeno un punto di vista esterno che sia ragionevolmente neutrale: la letteratura di questo periodo è estremamente politica.

Con il progresso della scienza, delle tecniche archeologiche e delle metodologie sociologiche ed etnografiche, è molto possibile che il nostro punto di vista su questa strana gente nordorientale cambi ancora, come già è avvenuto in passato.

Ora, volevo concludere col caveat che questo si tratta di un articolo molto superficiale sull’argomento, e che siete invitati ad approfondire, e che il dibattito storiografico non si conclude mai.

Ma ho di recente visto l’ennesimo video di un Tuttologo cianciare di Neomarxismo Postmodernista (se vi sembra una contraddizione in termini, non siete i soli), di come nelle Università sia praticamente IMPOSSIBILE dibattere di cose e di come tutti, studenti e ricercatori, DEBBANO confermarsi all’immutabile e definitiva sentenza dell’”accademia”.

E sapete che? Mi garba questo fantasioso mondo alternativo.

Quindi scordate gli ultimi paragrafi: Io sono il vostro profeta, ogni singola parola da me scritta è assolutamente corretta perché l’ho detto io, chiunque non sia d’accordo è Nazista e, per citare Karl Marx: “be gay, do crime!”.

MUSICA


BIBLIOGRAFIA

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CRESCENTE Nadia. “Il Nord del Giappone verso la conversione agraria. Le più recenti indicazioni archeologiche.” Il Giappone, vol. 40, 2000, pp. 5–36

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TAKAHASHI Takashi, Emishi, Chūkō shinsho, Tōkyō, 1989

YAGI Mitsunori, Kodai emishi shakai no seiritsu, Dōseisha, Tōkyō, 2010

La collezione di materiali archeologici del bacino inferiore del fiume Tokoro

 

 

 

Chi sono i samurai?

Chi frequenta la Fortezza avrà intuito che la sottoscritta ha una fastidiosa tendenza alla pignoleria. Negli Studi Umanistici ci fanno una testa così sul lessico e la scelta dei termini, e hanno ragione: a seconda il contesto la stessa parola può voler dire cose molto diverse. Se lo scopo del linguaggio è comunicare informazioni e concetti, è indispensabile chiarire fin da subito cosa si intende con cosa e in che contesto.

Potete immaginare quanto soffro ogni volta che apro un articolo di giornale e vengo assalita da valanghe di buzzwords tirate dentro ad glandus segugi.

Il punto è che usare le parole a cazzo è una pestilenza che, a mio modesto parere, sta facendo danni reali al nostro cervello. Invece di scambiare argomenti articolati, le discussioni si limitano a un palleggio di termini impropri che arrivano accompagnati dal loro bel pacchetto di concetti associati d’ufficio. Per usare un linguaggio meno tecnico, non è un confronto di punti di vista, quanto una sassaiola fatta a pallate di fango.

Oggi, nel mio piccolo, ho deciso di prendermela con una parola che mi provoca regolare ulcera: samurai ().

Priorità nella vita!
Arte dello straordinario artista contemporaneo Noguchi Tetsuya

Cosa vuol dire “samurai”?

Cominciamo col fare un distinguo importante: esistono termini usati dai contemporanei ed esistono termini usati dagli storiografi per descrivere a posteriori un fenomeno passato.

In diversi periodi della Storia giapponese samurai è stato usato per descrivere cose diverse.

Oggigiorno viene spesso impiegato in modo più o meno appropriato per descrivere il “guerriero giapponese”.

Tre problemi qui:

-Il termine originariamente non ha nessuna connotazione militare;

-per secoli non c’è stata nessuna definizione legale di “guerriero” come categoria sociale;

-cos’è un “guerriero”?

Cominciamo dall’ultima. Che cos’è un guerriero?

Tecnicamente, qualcuno che fa la guerra. L’immagine che la parola evoca è spesso quella del cavaliere pesante o del vichingo feroce, del combattente professionista formato dalla gioventù al mestiere delle armi. Ma “fare la guerra” comprende molto più del caricare lancia in resta o partecipare di persona a un combattimento. Peraltro gran parte dei “guerrieri” antichi praticavano altre attività economiche a parte il farsi ammazzare.

Non solo, ma che dire di tutti quelli che non sono combattenti d’élite? Se guerriero è “chi fa la guerra”, questo include fanti, esploratori, ingegneri, facchini…

Non voglio dilungarmi in questo articolo sul concetto di guerriero: il punto è che spesso la gente butta in giro la parola “guerriero” senza davvero porsi il problema del suo significato.

Passiamo al secondo punto: le definizioni contemporanee e quelle a posteriori.

C’è stato un periodo della Storia giapponese in cui i guerrieri erano in effetti una categoria sociale chiaramente e legalmente definita. Tuttavia la guerra e il mestiere delle armi (anche come professione esclusiva e vocazione) sono molto più antichi.

Il “guerriero” inteso come militare di professione la cui vocazione principale è la via delle armi esiste da prima della parola samurai.

Di recente abbiamo concluso una lunga serie di articoli su Taira Masakado e le ribellioni che squassarono l’Impero giapponese verso la metà del X° secolo. Taira Masakado era senza dubbio un guerriero e qualcuno che considerava la “via dell’arco e della freccia” come parte essenziale della propria identità. Non si sarebbe mai definito un samurai, tanto che l’appellazione gli viene appioppata da Friday come provocazione (vedi Taira no Masakado: the first samurai, di Karl Friday).

Usare samurai prima della nascita del Bakufu è problematico, ed è per questo che molti storiografi preferiscono il termine meno controverso di bushi (武士).

Ma cos’è un bushi?

Secondo il Progressive waeichū jiten, il dizionario giapponese-inglese di default sul mio Ex-word, il bushi è un guerriero. Questo ci lascia col problema accennato più in alto: tutti i bushi sono guerrieri, ma non tutti i guerrieri sono bushi. Cos’è davvero un bushi?

Secondo il dizionari giapponese-giapponese Kōjiten, il bushi è un guerriero professionista che si campa la vita col mestiere delle armi. Definisce questi individui come appartenenti a una specifica classe sociale che sarebbe esistita dall’epoca di Heian (794-1185) a quella di Edo (1603-1867).

Minamoto Tametomo separa due lupi, dal pennello di Utagawa Kuniyoshi (1798-1861)

Per non zavorrarci troppo, diciamo che con “guerriero” si intende in questo contesto l’arciere pesante a cavallo, antenato diretto dei samurai.

Questo tipo di combattente è necessariamente un professionista e predata l’epoca di Heian: nel 701 la Corte pubblicò un vastissimo corpus di leggi penali e civili (i famosi Codici, Ritsuryō), in cui si parla di unità di cavalleria e arcieri pesanti a cavallo.

Possiamo quindi dire che il bushi esisteva di certo già dal 701?

Hum…. dipende.

Se anche prendiamo Heian come riferimento, i militari dell’VIII° secolo non usavano la parola bushi per parlare di loro stessi. Il termine corrente all’epoca era mononofu o tsuwamono (), il cui kanji è lo stesso usato nei Codici per indicare i soldati di leva (quindi gente che non pratica le armi come professione, ma coscritti contadini) o musha (武者) (che indica più specificatamente “persona di guerra”).

Nello stesso periodo troviamo spesso il termine samurai come sostantivo del verbo saburau, ovvero “servire”. Come accennato, non ha nessunissima connotazione militare e indica semplicemente il servitore al servizio di un nobile.

Ricordiamo che prima del 1185 l’Impero giapponese è governato da un’aristocrazia strettamente civile che esercita la propria autorità tramite istituzioni burocratiche o legami personali di clientelismo. La carriera militare era considerata come molto inferiore rispetto a quella civile e riservata a gente che non poteva diventare letterato.

Secondo Okuda il significato di samurai sarebbe cambiato dopo la salita al potere dei militari alla fine della Guerra di Genpei (1180-1185): i bushi impiegavano guerrieri di basso rango come servitori, ergo il samurai passa da “servitore di un nobile” a “servitore di un nobile guerriero” a “servitore guerriero” e “guerriero/vassallo”.

Il samurai nel senso di guerriero non esiste prima del XIII° secolo. Ora lo sapete. Se volete riferirvi a chiunque prima di questa data, usate bushi o vi vengo a tirare le orecchie.

Fuoco e legnate durante i disordini di Heiji, propdromi della grande guerra civile tra Taira e Minamoto

Quindi per parlare di gente come Masakado basta usare bushi e son tutti contenti, no?

Sì, ma con cautela.

In storiografia contemporanea bushi è spesso usato per descrivere il guerriero feudale, ovvero qualcuno che andava in giro a scapitozzare dopo il XII° secolo, durante e dopo la Guerra di Genpei.

La Guerra di Genpei è un avvenimento cardinale della Storia giapponese: lo è a posteriori per gli storiografi e lo è stato per i contemporanei. La Guerra di Genpei ha cancellato il mondo di prima e ne ha creato uno nuovo.

Abbiamo una testimonianza interessantissima di questo evento grazie a Jien (1155-1225), un monaco poeta e storiografo che poté godersi lo sgretolamento del potere aristocratico, il collasso della dittatura Taira, la guerra civile e la nascita dello shōgunato sotto Minamoto Yoritomo e sua moglie Hōjō Masako. Il nostro ha parlato delle sue impressioni nel Gukanshō, dove descrive gli avvenimenti in questi esatti termini: il vecchio mondo è morto si entra ormai nel “mondo dei guerrieri” (musha no yo).

E’ molto comodo avere un evento storico così chiaro e distinto per orientarsi e con cui definire un “prima” e un “dopo”.

In realtà i bushi che hanno rivoluzionato il Giappone nel 1185 non sono apparsi nel 1180 ma sono il frutto di un’evoluzione graduale. E questo ci porta al secondo contenzioso del termine bushi!

Il bushi è il guerriero feudale, e costituisce la nuova classe dirigente dal 1185. Ok, ma da quando possiamo trovarli?

E soprattutto: cosa si intende con “guerriero feudale”?

Come accennato prima, il termine “feudale” è stato coniato a posteriori dagli storiografi. Si tratta di una parola usata per descrivere la Storia europea che è stata poi estesa alla Storia giapponese.

Verso la fine del Periodo Meiji (1868-1912), gli storiografi giapponesi avevano assorbito le nuove idee politiche e metodologiche dei ricercatori occidentali. Il Giappone stava furiosamente riacchiappando il ritardo tecnologico e occidentalizzando il Paese, e questo influenzò anche il modo di raccontare la Storia: si cerca di trovare similitudini e parallelismi con la vicenda europea e il punto comune tra le due realtà sembra essere il periodo feudale. Il sottinteso politico era che il Giappone era essenzialmente diverso dal resto dell’Asia, aveva una società più civilizzata e più vicina a quella occidentale, e per questo era riuscito a sfuggire alla brutale colonizzazione.

Il bushi doveva diventare l’equivalente del cavaliere medievale, nella storiografia e nell’immaginario nazionale.

Uno dei nomi più significativi agli inizi del XIX° secolo è quello di Asakawa Kan’ichi, uno strenuo difensore del parallelismo bushi-cavaliere. Secondo lui i bushi avevano origine nello sviluppo di una classe di proprietari terrieri nell’VIII°-IX° secolo. Col X° secolo questi notabili avrebbero cominciato ad armarsi e offrire i propri servigi a i più prominenti tra loro in cambio di protezione, per sopperire al vuoto delle istituzioni di Corte. Costoro sarebbero presto maturati in una vera e propria classe sociale, sottomessa a una Corte di aristocratici civili che si vuotava poco a poco del proprio potere reale.

Secondo Asakawa (ripreso anche da Samson), la classe guerriera si sarebbe evoluta per sopperire ai buchi di un sistema militare inefficace che non riusciva a proteggere i notabili locali e l loro famiglie (interpretazione molto vicina a quella offerta per lo sviluppo del Feudalesimo in Europa, nato dal crollo dell’Impero Romano).

I due fattori chiave dietro questo fenomeno sarebbero quindi da una parte un sistema militare scassato e il proliferare degli shōen, latifondi privati esenti da tasse e spesso immuni dalla legislazione ordinaria, che avrebbero minato in modo irreparabile l’autorità pubblica nelle provincie.

Okuda condivide questo punto di vista: i guerrieri del Bandō avrebbero creato una rete di legami personali parallela a quelli istituzionali per difendersi dall’inettitudine dell’autorità pubblica e dalla rapacità degli interessi privati.

Per chi ha seguito la rocambolesca vicenda di Masakado, è innegabile che i guerrieri orientali erano spesso piccoli proprietari terrieri e allevatori, e spesso si mettevano sotto la protezione di un notabile locale più importante: Taira Masakado interviene ad esempio per difendere gli interessi del suo gregario Fujiwara Haruaki, che sta avendo problemi con i funzionari provinciali inviati dalla Corte.

E’ anche innegabile che nelle provincie, specie quelle orientali, la legge ufficiale era applicata fino a un certo punto.

Allo stesso tempo è anche chiaro che i Codici hanno giocato un ruolo importante nella vicenda di Masakado: come sottolinea Hall, i Codici restarono in vigore e furono applicati (con più o meno zelo) fino almeno al X° secolo (quando furono affiancati ai Regolamenti dell’era Engi, i celeberrimi Engishiki).

Ishimoda Shō è quello che meglio ha elaborato la teoria secondo cui i bushi sarebbero stati un’evoluzione necessaria all’indebolimento delle istituzioni e avrebbero sviluppato la propria influenza fino a sbocciare, verso la fine di Heian, in una situazione in cui questa classe militare provinciale esercitava il proprio controllo su una vasta massa contadina ridotta, de facto, in servitù.

L’interpretazione di Ishimoda sottintende che questo processo di feudalizzazione sarebbe particolare al Giappone e distinguerebbe il popolo giapponese dal resto dei popoli orientali, facendone uno tradizionalmente capace di evolvere e superare vecchie istituzioni in nome della praticità.

Prima di progredire con questo appassionante discorso, i più svegli si saranno detti:

Spetta un secondo, ma hai sfrangiato le gonadi finora con la definizione di “guerriero”, e mo’ butti in giro il termine “feudale” così, a crudo?”

Right-oh!

Secondo il ponderoso tomo di storiografia comparata Les féodalités, Bournazel e Poly ripropongono la definizione di Sirinelli:

[FR]

Il s’agit de l’ensemble des institutions et des relations – juridiques ou autres – permettant la dévolution et l’exercice de ce que l’on appelle le pouvoir ou l’autorité, mais replacées de surcroit au sein des sociétés, des valeurs et des cultures qui les sous-tendent. Les systèmes politiques ainsi entendus incluent donc l’analyse des grandes constructions institutionnelles, mais également l’étude de leur soubassement social et culturel : le socle économique ou les rapports sociaux, assurément, mais aussi […] les idéologies, les cultures politiques, les représentations et les valeurs.

[IT]

Si tratta di un insieme di istituzioni e relazioni – giuridiche o meno – che permettono la devoluzione e l’esercizio di ciò che chiamiamo il potere o l’autorità, e collocate inoltre in seno alle società, ai valori e alle culture che le sottintendono. Il sistema politico così inteso include quindi l’analisi delle grandi costruzioni istituzionali, ma anche lo studio della loro base sociale e culturale : le fondamenta economiche o i rapporti sociali, di certo, ma anche […] le ideologie, le culture politiche, le rappresentazioni e i valori.

In altre parole il “feudalesimo” è caratterizzato da un certo tipo di istituzioni e relazioni, ma anche da cultura, rappresentazioni, strutture economiche ecc.

Ora, qualche sventurato a cui sia capitato di assistere a una “dotta discussione” di certi “appassionati” sulla storiografia avrà sentito buttare in giro termini come “marxismo” o “marxismo culturale”. Si tratta di un certo modo di studiare e interpretare la Storia che pone particolare accento sulla struttura economica di una società (per dirla in termini molto banali, tutto il resto è “sovrastruttura” e dipende direttamente dal sistema economico). L’”ossatura” della società è determinata essenzialmente dai rapporti di produzione.

Questo modo di vedere la Storia, che gli “appassionati” di cui sopra tirano fuori come se fosse una qualche recente moda appena sfornata dalle femministe della terza ondata, data in realtà degli anni ’50 e ’60 specie per ciò che riguarda la storiografia giapponese (e, a chiosa, l’ondata corrente del femminismo è la quarta e non la terza, ma quando si parla a vanvera capita di sbagliarsi).

Già negli anni ’60 lo storico francese Georges Duby aveva fortemente criticato questo approccio. Uno dei problemi era che la corrente marxista tentava di porsi in una maniera realista e pragmatica, ma gli uomini, gli esseri umani che costituiscono le società, non sono né realisti né pragmatici. I sentimenti (e i conseguenti comportamenti) degli individui e dei gruppi sociali rispetto al loro ruolo nella società non sono dettati dalla realtà economica, ma dall’idea che detti individui e gruppi sociali hanno della realtà economica!

Gli esseri umani non vivono nella realtà, vivono in un’idea, un racconto di realtà.

Che certamente ha a che fare con la realtà oggettiva, ma è comunque filtrata, interpretata e influenzata. La struttura economica è certamente fondamentale nell’evoluzione di una società nelle sue mille declinazioni (cultura, politica, guerra, arte, ecc.), ma è solo uno dei vari fattori in gioco.

In altre parole, una società è feudale non solo se la sua struttura economica è feudale, ma se le sue idee, se la sua visione è feudale.

Cosa si intende con “feudalesimo” in questo contesto?

A differenza degli europei, i giapponesi non hanno un termine indigeno che descriva la struttura feudale. “Feudalesimo”, hōken, è un termine tradotto e preso alla storiografia occidentale. E’ la traduzione dei concetti di feudalism o Lehnwessen. Come in Europa questi concetti sono associati al cavaliere, in Giappone sono stati legati al bushi.

Maki Kenji propone una lettura più “orientale” di hōken, proponendolo come traduzione di fengjiang, “fondare un feudo”, impiegato in Cina quando l’Imperatore concedeva delle terre a dei potenti, delegando loro l’autorità imperiale su quei territori. Per Kenji, il tratto determinante dell’hōken non è molto la sua relazione con una classe guerriera, ma la decentralizzazione del potere: hōken è da concepire in opposizione alla società centralizzata prevista dei Codici, gunken.

Se però torniamo un attimo a Jien, possiamo notare che ciò che più ha sconvolto i contemporanei durante il cambio di regime nel 1185 non è stata la decentralizzazione, quanto il carattere essenzialmente militare di questa nuova aristocrazia (soldati al potere? Pofferbacco, che cosa eterodossa!).

Ad ogni modo e quale che sia la declinazione che si dà al termine, è chiaro che il bushi è parte essenziale della faccenda. In altre parole, il feudalesimo giapponese non è necessariamente definito dal ruolo che il bushi gioca in esso, ma il bushi è una creatura feudale.

Chiedo scusa, ma DOVEVO USARE ‘STA STRONZATA o il pensiero mi avrebbe perseguitata fin nella tomba!

Negli anni ’50 gli storiografi cominciarono a rimettere in dubbio la centralità del guerriero nella società feudale. Questa nuova corrente toglieva il focus dai guerrieri per metterlo sul potere distante esercitato dai signori assenteisti sui loro latifundia nella provincia. Secondo Shimizu Mitsuo, i guerrieri locali non sarebbero la forza innovatrice descritta da Ishimoda Shō, ma un elemento classico, strumenti del potere che mantenevano il controllo dell’aristocrazia sui mezzi di produzione.

Tornando alla rivolta di Masakado come esempio, è innegabile che i vari capi e capetti armati esercitavano la loro autorità in nome e per conto della Corte.

Insomma, mentre in Europa il feudalesimo è accompagnato da un indebolimento dell’autorità centrale, in Giappone la Corte rimase saldamente in sella fino al disastro della Guerra di Genpei. In altre parole, il cavaliere feudale europeo sarebbe figlio dell’anarchia (o della debolezza istituzionale), mentre il bushi giapponese sarebbe l’evoluzione continua di un governo a modo suo forte e stabile.

E’ fuor di dubbio che la Corte mantenne il monopolio sulla legittimità del potere ben dopo la creazione del Bakufu di Minamoto Yoritomo.

L’interpretazione corrente della storiografia giapponese è una sorta di compromesso tra la visione frammentata di una provincia ingovernabile e quella di un Governo forte e continuo che esercitava la sua autorità attraverso i guerrieri. Secondo la versione più accreditata oggigiorno, ci sarebbe stata sì una spaccatura netta tra Capitale e provincia, ma la Corte avrebbe mantenuto il monopolio sulla legittimità e i guerrieri avrebbero esercitato il controllo sui provinciali ma senza porsi in opposizione diretta al potere aristocratico. Insomma, per un paio di secoli guerrieri locali e aristocratici civili avrebbero governato insieme in una struttura di potere comparabile a un leviatano sociale a due teste.

D’altro canto si è presentato un altro problema alla storiografia giapponese: quella delle particolarità regionali.

Per lunghissimo tempo intere popolazioni sono state del tutto scordate dagli storici (gli Ainu, gli Hayato, la gente delle Ryūkyū, ecc.). Ma se anche uno decidesse di sbattersene allegramente, i Wa stessi avevano strutture sociali, tratti culturali e caratteristiche linguistiche marcatamente differenti anche all’interno della sola isola di Honshū.

La creazione del Bakufu, di cui parleremo con calma in articoli appositi, potrebbe essere interpretata, ad esempio, come l’esportazione verso le regioni occidentali di forme di controllo e amministrazioni tipiche della società guerriera orientale.

Insomma, possiamo stabilire che in Giappone si sono verificate contingenze in cui la società ha tratti “feudali”, ma il termine “feudale” stesso è talmente problematico che oggigiorno viene spesso evitato. Gli si preferiscono altre formulazioni, come “società guerriera” o “rapporti di dipendenza”.

Tornando a noi, chi sono i bushi?

Il bushi è un individuo che può combattere come arciere montato a cavallo e che esiste in una rete sociale fatta di rapporti di dipendenza definibili come “feudali”.

In altre parole: l’arciere pesante a cavallo esiste almeno dal VII° secolo, il bushi si sviluppa a partire dal IX°-X° secolo. E ancora nemmeno l’ombra di un samurai!

Sia chiaro, a questo stadio non esiste ancora nessuna “classe guerriera”.

Nella sua accezione più banale, una classe sociale è un insieme relativamente omogeneo di individui che condividono la stessa situazione socioeconomica.

Da un punto di vista generale dell’Impero, per buona parte dell’epoca di Heian i bushi non hanno omogeneità culturale e non condividono la stessa posizione socioeconomica. I Codici delineano una società in cui non esiste una classe guerriera: i militari professionisti (gli arcieri pesanti a cavallo, soprattutto) sono individui della classe dei magistrati di distretto, della classe piccola aristocrazia o cadetti della classe nobiliare senza reali prospettive nella carriera civile.

Possiamo semmai parlare di “proto-classe” per quello che riguarda alcune regioni (vedi le particolarità regionali succitate). Ma in generale il Giappone non ha, nel X° secolo, una classe guerriera.

Questa si evolve nei secoli come sottocultura parallela alla cultura civile della burocrazia di Corte. Alcuni dei primi esempi di legami di dipendenza tipici della “società guerriera” possono essere trovati nel X° secolo, ma non abbastanza da poter parlare di classe.

In parole povere: dati questi presupposti, fino alla Guerra di Genpei, non si può davvero parlare di samurai.

A posteriori, possiamo vedere nei disordini del X° secolo le remote origini di quello che sarà un giorno il samurai. Come accennato nella conclusione della Rivolta di Masakado, il X° segna l’inizio, il primissimo embrione della società guerriera. Si parla in questo caso dell’evoluzione dei bushi.

La distinzione è importante perché gli uomini che si ribellarono nel Bandō, quelli che servirono nelle guerre di Hōgen e di Heiji e quelli che si ammazzarono nella guerra di Ōnin non sono gli stessi ed è bene esserne coscienti se si è interessati a capire le loro storie e i loro percorsi.

E dopo questa appassionante lungagnata ci do un taglio, che prevedo una lunga diatriba ricca di suspence su cosa significa il termine “feudale” e non voglio rovinarvi l’hype!

MUSICA!

(Non è metal, ma nell’attesa che i Sabaton si svitino i pollici dal culo vi cuccate questa, perché Gatsu daze! piace per forza, try try try!)


Approfondimenti

La banda di guerra

L’evoluzione del sistema militare dai Codici al X° secolo

La rivolta di Masakado (puntata 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10)

La guerra di Hōgen

La guerra di Heiji

La guerra di Genpei (puntata 1, 2, 3, 4, 5, 6, ongoing)

 

Bibliografia

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FUKUDA Toyohiko, Taira Masakado no ran, Tōkyō, Iwanami shōten, 1981

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LOT Ferdinand, La fin du Monde Antique et le début du Moyen Age, Paris, Albin Michel, 1989

 

 

Illustri Sconosciuti: Taira Masakado (3.3): I vincitori e gli immortali

Sono tempi di migragna qui alla Fortezza, ma il bello di essere in dottorato in Sotria è che, quale che sia il merdaio in cui ti trovi, sei costretto a leggere di gente messa peggio e mortamale.

Case in point: siamo finalmente giunti al gran finale della rocambolesca avventura di Masakado, il Ribelle del Bandō!

Per chi si fosse perso le puntate precedenti (recuperatevele, sono obbligatorie, poi vi ci interrogo), la grande rivolta delle ere Jōhei e Tengyō (935-940) parte come scazzo familiare tra Masakado, notabile locale senza funzione o rango, e i suoi zii e cugini, gente con funzioni amministrative e appigli politici.

Per anni questi ultimi tentano di cancellare Masakado della faccia della Terra, e per anni Masakado li riempie di calci nel culo, senza però prendersela con i rappresentanti della Corte. Masakado bada bene a non compiere azioni che possano essere percepite come aperta ribellione nei confronti dello Stato.

Dopo anni di guerriglia e un numero imprecisato di villaggi rasi al suolo, il nostro è riuscito a eliminare i suoi avversarsi, tranne l’infingardo cugino Sadamori.

Il teatro del dramma

Taira Sadamori, funzionario alla Corte e abile oratore, è alla fine riuscito a farsi dare ragione dal Governo (che ha voltato gabbana già varie volte, riguardo alla faccenda) e, in compagnia del cugino Tamenori e del brigante rispulizzito Fujiwara Hidesato, è di ritorno nel Bandō per la resa dei conti.

Per la precisione, siamo in questa zona qui

Dopo questo ennesimo tira e molla della Corte, Masakado decide di prendere l’iniziativa: in meno di niente conquista l’intera fetta nordorientale di Honshū con l’intenzione di costringere il Governo a scendere a patti.

Governo che, ricordiamocelo, si trovava alle prese con una cruentissima piaga occidentale: il pirata e pazzoide piromane Fujiwara Sumitomo.

Dopo deliberazione, la Corte decide di scendere a patti con quel manico omicida di Sumitomo e di spedire un esercito contro Masakado.

E oggi riprendiamo le fila di questo disastro noto come i Disordini delle ere Jōhei e Tengyō!

Masakado distribuisce labbrate, dal pennello di Tsukioka Yoshitoshi (1839-1892)

Come accennato, la Corte decide di scendere in guerra contro Masakado.

Di certo vi sarà capitato migliaia di volte di vedere film o leggere libri in cui gli eserciti semplicemente appaiono in giro, di solito direttamente sotto il balcone dei protagonisti. Gli eroi stanno discutendo di come difendersi dal cattivo di turno e puf, una sentinella arriva di corsa urlando “siamo sotto attacco!”.

E’ un cliché che io odio con la rovente passione di mille bombe atomiche. E’ una cosa stupida da morire e una totale mancanza di rispetto per l’intelligenza dello spettatore/lettore.

Senza nemmeno entrare nel merito di trasporti, tempo di percorso, vettovaglie e terreno da attraversare, poche società pre-industriali hanno potuto contare su un vero e proprio esercito permanente. Non solo, anche concedendo che tale esercito esista, una spedizione non è qualcosa che si organizza in due ore.

Secondo i Codici, il corpus di leggi ultimato nel 701 e ancora in vigore nel X° secolo, per mobilitare una banda di gente armata superiore a 20 individui era necessario un Editto Imperiale.

La faccenda doveva essere prima sottoposta al Consiglio di Stato, che creava una commissione deliberativa. La commissione studiava la situazione e sottometteva un rapporto al Consiglio. Dopo aver letto il rapporto e se non c’erano ulteriori questioni da ponderare, il Consiglio scriveva un Editto che veniva poi sottoposto al Figlio del Cielo (era rarissimo che il Figlio del Cielo non ratificasse subito le decisioni del Consiglio).

A questo punto l’affare passava al Ministero degli Affari Militari, che valutava l’investimento in armi, uomini e fondi, nonché quali unità impiegare e quando. Si trattava più di un preventivo che di un piano strategico vero e proprio.

Il rapporto dettagliato del Ministero veniva poi rigirato di nuovo al Consiglio di Stato, che doveva quindi decidere se agire e in che modo.

In altre parole, ci volevano mesi solo per decidere se lanciare una spedizione, quali mezzi impiegare e quali uomini incaricare delle operazioni. E questo presupponendo che i membri del Consiglio o del Ministero fossero inclini a darsi una mossa: come si evince dai vari diari degli alti dignitari di Heian, la burocrazia dell’epoca era ulteriormente rallentata da un fanatismo nevrotico per il protocollo e dall’assenteismo dilagante.

Sì, perché oltre a tutte le normali pastoie che un sistema burocratico porta con sé, la Corte di Heian era piagata anche da millemila dettami magico-religiosi.

E’ morto qualcuno nella tua famiglia o nei dintorni? Non puoi recarti alla cittadella perché sei impuro.

E’ l’anniversario della morte di un imperatore? Gli affari di stato sono sospesi per scaramanzia.

Non solo: certe direzioni erano considerate nefaste in certi giorni, sicché talora roba importante e urgente (come la nomina dei governatori delle provincie) era rallentata di giorni e settimane perché il Ministro della Destra non poteva andare verso l’ufficio, o perché il Ministro della Sinistra aveva un oroscopo deludente.

Insomma, una qualsiasi decisione del Governo centrale richiedeva tempo, tanto tempo.

Che fare quindi se, ad esempio, nello scorso mese hai perso ogni controllo su un terzo del Paese?

C’erano loopholes grazie a cui la Corte poteva muoversi con un pochettino più di celerità.

Intanto c’era una grande tolleranza per la regola dei “20 uomini”. Nella pratica, se smuovevi 100 uomini per uccidere un ribelle e garantire l’arrivo regolare delle carovane di tributi, eri pressoché impunito.

C’è anche il fatto che in questo periodo è ormai sviluppata la banda di guerra come unità tattica. Questo offre un’interessante zona grigia per quel che riguarda la regola dei 20 uomini. Se ad esempio io mobilito 15 dei miei gregari, sono all’interno della regola. Poi magari ognuno di quei gregari si porta dietro 3 fratelli, 6 cugini e 8 gregari armati. Ma quelli sono i loro uomini, no? E magari ognuno di quegli uomini è accompagnato da altri guerrieri a piedi o a cavallo, e via di questo passo.

Se però il lassismo non dovesse bastare, la Corte disponeva di Ordini di Persecuzione e Cattura, che davano via libera al ricevente di tale documento di mobilitare ogni mezzo disponibile per poter perseguire e catturare (o uccidere) la persona oggetto dell’Ordine stesso.

Chi viene investito di questo Ordine non solo può smuovere ogni mezzo a sua disposizione per eseguirlo, ma può anche esercitare punizioni e ricompense sugli uomini a lui sottoposti e può pretendere appoggio e rifornimenti da parte dei funzionari delle provincie specificate nell’Ordine.

Masakado aveva ricevuto un ordine del genere, ma i funzionari provinciali avevano fatto resistenza passiva e non avevano offerto alcun aiuto (anzi) nella caccia al gaglioffo Sadamori.

A questo giro l’Ordine viene conferito a Sadamori e a Fujiwara Hidesato.

Mentre quindi la Corte prende il tempo di mettere insieme un esercito ufficiale, nella provincia Hidesato riceve la benedizione imperiale per prendersela con Masakado.

Masakado che, pur avendo preso un terzo del paese in meno di niente, non ha avuto il tempo (né probabilmente l’intenzione) di unire i guerrieri locali sotto il proprio controllo o creare una struttura amministrativa alternativa. La propria fama di ottimo guerriero e capo benevolente è l’unica cosa che tiene insieme il suo esercito, composto da un’accozzaglia di bande eterogenee e spesso nemiche tra loro.

E’ il terzo anno dell’era Tengyō (940), la fine del primo mese, che per noi corrisponde agli inizi di marzo. Masakado ha dovuto congedare il grosso del suo esercito (è la stagione dei lavori agricoli) e si è ritirato in Shimōsa, dove si trovano le sue basi, con un migliaio di armati.

Appostati in Shimotsuke, Hidesato e Sadamori decidono di agire: radunano un esercito di 4000 uomini e partono contro il ribelle.

I cerchietti segnano la posizione delle capitali provinciali, ormai disertate dai funzionari salvo scribi, segretari e altri sbalterni

Come accennato a inizio articolo, gli eserciti non compaiono in giro a cazzo di cane, e il primo giorno del secondo mese Masakado viene avvertito che bande nemiche stanno marciando contro di lui. Masakado raduna i suoi e si dirige a sua volta verso Shimotsuke. L’avanguardia del suo esercito viene affidata a due dei suoi capibanda più importanti, tali Tsuneakira e Katsutaka.

Sono questi due matti a incocciare in Hidesato e Sadamori per primi. Dallo Shōmonki:

Qui Tsuneakaira, che si era guadagnato nomea di essere un uomo che da solo ne valeva mille, non deve far altro che osservare i nemici. Ora, senza informare il Nuovo Imperatore [Masakado, sulla diatriba riguardo al “nuovo imperatore”, vedere la settima puntata], avvicina la banda dell’ōryoshi Hidesato e l’attacca. Hidesato, che da lungo tempo ha esperienza della guerra, con facilità sconfigge e incalza l’esercito di Harumochi [Fujiwara Harumochi, alleato e generale in seconda di Masakado]. Il generale in seconda [Harumochi] e i soldati sono presi alla sprovvista dai tre guerrieri [Hidesato, Sadamori e Tamenori] e sono dispersi nella landa nelle quattro direzioni. Coloro che conoscono la via fuggono dritti come frecce scoccate. Coloro che non conoscono la via girano in tondo come ruote di carro. Solo pochi sopravvivono, molti sono quelli che muoiono.

E’ la prima sconfitta che Hidesato infligge a Masakado.

Perché Tsuneakira decide di attaccare senza prima chiedere al suo capo?

Ci sono molti fattori in gioco.

Tanto per cominciare Friday dice che probabilmente la superiorità numerica della gente di Hidesato rispetto all’avanguardia sotto Harumochi non era poi così schiacciante come lo Shōmonki vorrebbe farci credere. Dopotutto Masakado è all’apice del suo potere e, con tutto l’Ordine imperiale, Hidesato non ha ancora provato di essere all’altezza della situazione. Da come la faccenda è presentata nel Fusō ryakki, sembrerebbe in effetti che il grosso della truppaglia di Hidesato fosse composta da gente a piedi, mentre Tsuneakira era alla testa di arcieri pesanti a cavallo. Questo potrebbe avergli dato un’immeritata impressione di superiorità. Il che sarebbe ironico visto che il suo capo Masakado ottenne una delle sue più famose vittorie proprio con l’uso intelligente di arcieri a piedi contro gonzi a cavallo.

Un altro fattore è l’indipendenza di cui godevano i capibanda. Senza telefoni o radio, era impossibile chiedere il parere del capoccia per ogni decisione. La strategia generale e la tattica globale erano decise in anticipo, ma la guerra resta un affare imprevedibile e i capibanda dovevano poter prendere decisioni sul momento per evitare un disastro o sfruttare una ghiotta opportunità.

A difesa di Tsuneakira, se fosse riuscito subito a gettare scompiglio nella banda di Hidesato, avrebbe inflitto un danno di immagine gravissimo al partito lealista.

Purtroppo per lui, Hidesato non era una pera cotta come Sadamori, e il vecchio brigante riempie di legnate Tsuneakira, Harumochi e tutto il resto dell’avanguardia.

Quello che resta della gente di Harumochi ripiega precipitosamente, inseguita da Hidesato.

Verso le tre del pomeriggio, i fuggiaschi riescono a raggiungere il villaggio di Kawaguchi, dove si trova Masakado con il grosso dell’esercito ribelle.

Il più famoso guerriero del Bandō riveste le proprie armi e, sciabola in pugno, cavalca incontro a Hidesato alla testa dei propri uomini.

Il Nuovo Imperatore lancia un grido e tosto va, spada alla mano, si batte di persona. Sadamori leva gli occhi al cielo e dice:

“La banda privata è tale il fulmine sopra le nubi. I soldati del governo sono come gli insetti sul fondo della latrina. Eppure, se io non ho dalla mia parte la legge, il governo ha dalla sua parte il Cielo. I tremila soldati [ai nostri ordini] non saranno codardi, non diserteranno.”

L’esercito di Hidesato ha la superiorità numerica a questo punto, ma Masakado li prende a capocciate nei denti con furia inaspettata. La battaglia dura fino a notte, ed è solo ad altissimo prezzo che Hidesato riesce a prevalere. Al calar del buio, i ribelli si ritirano e i lealisti possono piantare il campo e leccarsi le ferite.

Tira una brutta aria. Quella che doveva essere una vittoria folgorante è stata strappata a stento. Masakado è in ritirata e in svantaggio, ma il suo onore resta intatto. Gli uomini sono stanchi e preoccupati e gli alleati che si sono uniti a Hidesato possono da un momento all’altro mollarlo e cambiar campo.

Hidesato non è felice della situazione. E’ un volpone e un buon tattico, ma non un mago, non può fare miracoli.

-Non preoccuparti.- fa Sadamori.-Sarò una pera cotta sul campo, ma ho un’arma che finora non mi ha mai deluso.

-E sarebbe?

-Le chiacchiere!

Così Sadamori riunisce gli astanti e li alletta con dolci parole [amaki], organizza i ranghi e raddoppia i loro numeri, e il tredicesimo giorno del secondo mese la potente banda giunge al confine di Shimōsa.

Mai sottovalutare il potere delle chiacchiere.

A me Sadamori sta sulle scatole (credo si sia inteso), ma resta un uomo assolutamente interessante. Non è un buon tattico, e nello Shōmonki non ci fa nemmeno una bella figura come essere umano, ma è un uomo intelligente. Non è un buon arciere, le sue armi sono le parole. Con la sola forza del proprio ingegno è riuscito a sopravvivere e restare in cresta in un mondo crudele fatto di violenza e sopraffazione. E’ riuscito a non farsi macinare né da suo cugino (un guerriero mille volte migliore di lui) né dall’indifferente e opportunista Corte di Heian. E ora, là dove l’astuzia e l’abilità bellica di Hidesato non bastano, l’arguzia e le capacità retoriche di Sadamori salvano la spedizione. E’ un momento degno del miglior Martin (vi ricordate quando Game of Thrones era ben scritto e ricco di dialoghi ben costruiti? Sì, lo rimpiango anche io).

Dal canto suo, Masakado decide di aspettare riposato un nemico stanco e costringe Hidesato e Sadamori a inseguirlo nel proprio territorio, mentre lui aspetta accampato sul lago Hiroe, nel distretto di Sashima. Ormai gli resta una banda di appena 400 fedeli. Harumochi e il Principe Okiyo, i suoi alleati più importanti, non compaiono nelle fonti a questo punto. Forse hanno preferito scappare.

E’ una brutta situazione per tutti in realtà: ogni giorno che passa le diserzioni dall’esercito di Masakado aumentano. Allo stesso tempo Sadamori e Hidesato non sono messi molto meglio: l’8 l’esercito ufficiale si è messo in marcia dalla Capitale. Il generale Tadabumi ha ordine di reclutare uomini in diverse provincie. Se Hidesato e Sadamori si fanno sorprendere da Tadabumi, saranno costretti a cedergli i propri uomini e la propria fetta di merito. Non solo: con ogni giorno che passa il rischio di diserzioni aumenta anche per loro! I loro alleati o sottoposti possono decidere di tornare a casa ai loro campi, o unirsi direttamente all’esercito di Tadabumi.

Hidesato ha scommesso tanto sulla testa di Masakado, se Tadabumi gli soffia la gloria non avrà di che ricompensare i propri uomini e la sua carriera di capo guerriero sarà conclusa in un gran mucchio di niente.

Il nostro ha bisogno di provocare uno scontro. Cerca di attirare Masakado in campo aperto appiccando fuoco alle sue residenze.

Funziona: Masakado decide di rischiare il tutto per tutto sulle pendici del monte Kita, nel distretto di Sashima.

In alto a sinistra, il Monte Kita

Il 14 del secondo mese del terzo anno dell’era Tengyō (aprile 940), alle tre del pomeriggio, Masakado viene raggiunto da Hidesato e Sadamori.

E’ piovuto poco, la terra è arida. Il vento soffia forte sulle pendici dell’altura, trascina nugoli di polvere smossa dagli zoccoli dei cavalli, dai sandali dei guerrieri a piedi. Masakado ha scelto di piazzarsi spalle al vento per dare un vantaggio ai propri arcieri, come nella prima battaglia dei Disordini, l’agguato di Nomoto.

Fa piazzare i mantelletti per riparare le sue linee, ma le folate glieli scuotono. Alcuni vengono rovesciati dalla bufera. A sud, gli uomini di Hidesato lottano per piazzare i loro, ma il vento e la polvere rendono l’impresa difficile. L’esercito lealista decide di non accanirsi sulle difese e avanzare verso i ribelli. Dopotutto i nemici sono in terribile svantaggio numerico, cosa può andare storto?

Fedele alla tradizione di pessime scelte tattiche, Sadamori, al comando del corpo centrale, tenta una manovra furba cambiando l’angolo di attacco. Questo crea disordine nella formazione, e Masakado ne approfitta.

Carica a capofitto nel cuore dell’esercito nemico, taglia attraverso la truppa di Sadamori come una palla di cannone. Sadamori cerca di difendersi, ma le sue frecce sono deviate dal vento. 80 dei suoi guerrieri di spicco mordono la polvere in pochissimo tempo, ridotti a puntaspilli dalla banda ribelle. Gli alleati, i soldati provinciali, gli amici del bel tempo e gli avventurieri sono presi dal panico. Davanti alla carica furibonda del più celebre guerriero del Bandō, quasi tremila guerrieri rompono in una fuga a rotta di collo. L’esercito di Sadamori e Hidesato si disintegra.

Hidesato, Sadamori e Tamenori battono in ritirata. Delle migliaia di uomini che si erano uniti a loro dietro lo stendardo imperiale, ne restano solo 300. Il vantaggio numerico è andato, il morale è annientato, Masakado è alle loro calcagna ed ha vinto di nuovo.

Ma in guerra tutto l’ingegno e il valore non valgono quanto una buona botta di culo.

I tre compari raggiungono una posizione dove il vento gira. Ora è Masakado a trovarsi col vento contrario. Hidesato coglie immediatamente l’occasione, l’ultima, e dà battaglia.

La collera del Cielo […] coglie [Masakado] […]. Il Nuovo Imperatore è colpito da una freccia guidata dal Cielo, tale Chiyō che solo crollò al suolo combattendo sul campo di Zhoulu. [Chiyō è un eroe mitico cinese, capo delle Nove Tribù Li, morì combattendo contro Huangdi, l’Imperatore Giallo, nel 2500 a.C., NdTenger].

Una freccia.

Una freccia fortunata che prende il capo nemico in faccia e lo stende secco sul campo di battaglia.

Quando il corpo di Masakado schianta nella polvere, i suoi sono presi dal panico e dalla disperazione, e fuggono. Sul colle polveroso restano poche centinaia di lealisti stremati e il cadavere del più celebre guerriero orientale.

La Storia non si fa coi se e coi ma, e qualsiasi what if è pura speculazione e fantasia. Tuttavia è indubbio che Masakado era a un soffio dal vincere anche quella battaglia, e uno non può che pensare: cosa sarebbe successo in quel caso?

Forse sarebbe riuscito finalmente a uccidere Sadamori, forse no. Di certo Hidesato e Sadamori non sarebbero riusciti a rimettere insieme una banda armata degna di questo nome. Che avrebbe fatto allora Tadabumi, il generale inviato dalla Corte?

Si sarebbe impantanato in una serie di operazioni militari o avrebbe cercato un compromesso?

Per averlo studiato, posso dire con relativa sicurezza che, a mio modesto parere, Masakado non aveva alcuna intenzione di creare un regno indipendente. Masakado, per quel che ho potuto capire, voleva costringere la Corte a reintegrarlo nella società. Voleva essere lasciato in pace coi suoi cavalli, i suoi gregari e la sua famiglia.

Forse avrebbe trattato con Tadabumi, forse no. Quel che è certo è che la Storia avrebbe avuto un decorso molto diverso se Masakado avesse vinto.

E’ impressionante pensare che, in quell’istante, il futuro dell’Impero fosse legato a una sola freccia, a un solo tiro di un solo arciere.

Quale arciere?

Non lo sapremo mai.

La testa del Nuovo Imperatore fu spedita alla Capitale il 25 del quarto mese (probabilmente conservata nel sale). 197 alleati di Masakado morirono sulle pendici del Monte Kita. I vincitori recuperarono dal campo di battaglia 300 mantelletti, 199 faretre, 51 sciabole e dei “documenti di tradimento” di misteriosa natura.

La testa di Masakado esposta alla folla

Nel decreto di Persecuzione e Cattura contro Masakado l’Imperatore aveva offerto l’immunità ai ribelli che si sarebbero arresi senza combattere, e in diversi lo fecero. Quanto ai capi della rivolta (Harumochi, il principe Okiyo, i fratelli di Masakado), furono uccisi alla spicciolata nei mesi che seguirono.

E’ la fine della rivolta, è il tempo dei castighi e delle ricompense.

I tre a ricevere maggiore beneficio furono Fujiwara Hidesato, Taira Sadamori e Minamoto Tsunemoto (il primo a dare l’allarme sulla ribellione).

Minamoto Tsunemoto fu promosso al quinto rango inferiore minore, entrando così a far parte della chiusissima casta dell’alta aristocrazia. Fu nominato keigoshi (ufficiale di persecuzione e cattura nelle regioni occidentali) e poi aggiunto minore del Governo Militare di Kyūshū. Poco tempo dopo, fu uno degli ufficiali che servirono sotto Ono no Yoshifuru nella repressione della rivolta del pirata Sumitomo. Fu lui a inaugurare una tradizione militare che doveva contraddistinguere la famiglia: Tsunemoto è l’antenato dei Seiwa-Genji, il ramo principale coinvolto nella Guerra di Genpei e che produsse il primo grande shōgun Minamoto Yoritomo.

Taira Sadamori era stato quello che più aveva sofferto della guerra. Suo padre era stato ucciso, sua moglie brutalizzata, le sue basi messe a ferro e fuoco, i suoi contadini sterminati, i suoi gregari decimati. Come compensazione ricevette il quinto rango superiore maggiore e fu nominato vicedirettore dell’Ufficio dei Cavalli. Qualche anno dopo fu nominato chinjufu shōgun nell’Est e, in vecchiaia, governatore di Tanba e Mutsu. Da lui discendono due lignaggi illustri:

  • gli Hōjō, tra cui Hōjō Masako, moglie di Yoritomo e una delle personalità politiche più importanti della Storia del Giappone

  • i Taira di Ise, ovvero il ramo di Taira no Kiyomori in persona, il Religioso Ministro che portò per la prima volta i guerrieri all’apice della gerarchia di Corte.

Ad ultimo, Fujiwara Hidesato è quello che raccolse i premi più gustosi, un po’ perché si era dimostrato il guerriero migliore e un po’ perché era un delinquente pericoloso ed era bene tenerselo buono. Il nostro fu elevato da bandito dell’est a niente meno che quarto rango di corte, con allegato un bel pacchetto di terre “ereditabili per sempre”. Divenne poi governatore di Shimōsa. La sua stirpe di pendagli da forca rimase radicata nel Bandō, e a sua volta risalta fuori nella Guerra di Genpei.

In altre parole, ritroviamo nei Disordini di Jōhei e Tengyō non solo il primo grande esempio di ribellione orientale, ma le origini dei 2 lignaggi guerrieri più importanti della Storia Giapponese. La Guerra di Genpei, su cui abbiamo una serie ongoing, fu una rivoluzione, un cambiamento epocale che trasformò profondamente e per sempre il Giappone, la sua cultura, la sua Storia, la sua struttura più profonda. La Guerra di Genpei è ciò che catapulta il Paese sotto il “Governo della tenda” dopo sei secoli continui di dominio incontrastato dell’aristocrazia civile.

E questo evento epocale ha origine sulle pendici del Monte Kita, sulle sponde del lago Hiroe, sulle rive del Mare Katori. La Rivolta di Masakado è la fornace in cui i Taira e i Minamoto furono forgiati.

Epilogo: l’immortalità dei perdenti

Forse l’eredità più duratura fu lasciata da Masakado stesso.

Dopo che la sua testa arrivò alla Capitale Heian (odierna Kyoto) fu esposta (primo caso documentato di esposizione di teste, a chiosa).

Stando a una leggenda, gli abitanti del quartiere furono colpiti da una serie di terribili sventure, presto attribuite allo spettro irato di Masakado. Per cercare di calmarlo, il ribelle fu elevato a divinità col nome di Kanda Myōjin. Kūya stesso, un celebre monaco del X° secolo, avrebbe eretto una stele a memoria del guerriero sconfitto. La nicchia in questione è ancora visibile.

Secondo un’altra leggenda narrata nel Zen-Taiheiki, la testa era stata appesa ai rami di un albero a un incrocio di Kyoto. I giorni passavano, ma la testa non si decomponeva: lo spirito irato del guerriero non poteva abbandonarla. I suoi occhi erano aperti, i suoi denti digrignati, e la notte la si poteva sentir ringhiare: “dove sono le mie membra, dov’è il mio corpo? Che mi raggiungano, per continuare a combattere!”

Un giorno la testa si scosse dall’albero e volò verso i resti del proprio corpo, abbandonato nell’Est, schiantandosi sul bordo di una risaia nel villaggio orientale di Shibazaki, che è oggi il quartiere di Ōtemachi in Tokyo. Terrorizzati, gli abitanti del luogo gli costruirono un cenotafio e fecero di Masakado il loro nuovo “dio delle risaie” (Kanda Myōjin).

Nel 1307 il monaco Shinkei avrebbe costruito un tumulo per la testa di Masakado, per proteggere gli abitanti della zona dalla vendetta dello spettro.

Masakado/Kanda continuò a essere trattato con riguardo, tanto che nel 1603 Tokugawa Ieyasu in persona fece spostare il santuario presso al castello di Edo per ottenere la protezione del terribile spettro. Ieyasu era un uomo di rara intelligenza e si guardò dal toccare il tumulo della testa, che restò ad Ōtemachi.

Nel 1923 degli archeologi ritrovarono il tumulo, con al suo interno una camera funeraria vuota.

Stiamo parlando del Giappone Moderno, il Giappone Potenza Mondiale, libero da superstizioni e arcaismi ridicoli. Il primo ministro dell’epoca autorizzò la distruzione del tumulo: al suo posto sorse il Ministero delle Finanze.

Nei due anni che seguirono il ministro delle finanze e 14 impiegati morirono di subitanee e strane malattie o in incidenti bizzarri. Decine di altri impiegati finirono feriti o si ammalarono.

Lo spettro di Masakado era tornato.

Guerrieri combattono contro Masakado e il suo esercito di spettri, dal pennello di Yoshikazu (attivo tra il 1850 e il 1870)

In realtà il tumulo distrutto era una tomba del 7° secolo che nulla aveva a che fare col noto guerriero, ma non ha importanza, perché la leggenda del Nuovo Imperatore era riaffiorata nella memoria degli abitanti di Tokyo.

I fantasmi non sono cose che esistono a prescindere, sono creati dai vivi. La cosa bella dei fantasmi è che, una volta che i vivi li hanno evocati, esistono. No, non ci sono anime con le catene che vanno in giro. Ma c’è il pensiero fisso, il timore, l’ossessione paranoica, il senso di colpa e vulnerabilità che avvelenano ogni ora della giornata. Di fatto, l’effetto degli spettri è reale, ed era molto reale per gli impiegati del ministero delle finanze di Tokyo.

La situazione divenne talmente drammatica che il governo decise di trasferire il ministero nel 1927, ricostruire il tumulo e fare una grande cerimonia per calmare lo spirito.

Sì, sul serio.

Nel 1927.

E non è finita.

Nel 1940 una folgore colpì il nuovo ministero delle finanze, bruciando quello e altri 9 ministeri adiacenti.

1940, ovvero 1000 anni esatti dalla morte di Masakado.

A quanto pare il Nuovo Imperatore non era ancora contento. Una nuova cerimonia fu eseguita per cercare di calmarlo, ma Masakado non è un uomo, Masakado è lo spettro che si annida nella cuore di un Paese in guerra.

Nel 1945 Tokyo fu bombardata, ma il tumulo di Masakado rimase intatto, un monumento beffardo ritto nelle rovine fumanti dell’Impero del Giappone.

Gli americani si installarono nel quartiere e decisero di spianare tutto per farci un bel parcheggio.

Di certo uno spettro del lontano passato giapponese non può tener testa al moderno bulldozer di un calvinista occidentale, giusto?

Sbagliato.

Il bulldozer urtò il tumulo e si rovesciò, uccidendo il conducente sul colpo.

Pensa te l’ironia: sei sopravvissuto alla guerra, sei nell’esercito d’occupazione di un paese che odi, e proprio quando stai per goderti un po’ di sana demolizione vieni assassinato dal fantasma di un guerriero morto più di mille anni prima.

I residenti spiegarono della leggenda e della maledizione di Masakado agli americani, che decisero che erano tutte cazzate superstiziose ma che ad ogni buon conto non valeva la pena verificare. Il monumento è sempre lì.

I’M STILL HERE BITCHES!

Sono andata a trovare Masakado due volte durante il mio soggiorno a Tokyo, con un mazzo di fiori. Entrambe le volte ho dovuto aspettare il mio turno, perché la fila dei fedeli con offerte è sempre lì.

Tutto intorno si costruisce, ma la stele non sarà toccata: è un cubo alberato nel mezzo dei cantieri

Tutto attorno sorgono grattacieli di grandi firme, e i loro impiegati sono tenuti a presentare doni a Masakado ogni tanto, per evitare di attirare la vendetta dello spettro sull’azienda. Chi non lo fa rischia di essere additato o mutato in capro espiatorio se gli affari vanno male. Quindi, in modo tipicamente giapponese, nessuno ammette di crederci davvero, ma tutti continuano a tenersi buono l’iroso guerriero che non si sa mai.

Trovarmi davanti al suo cenotafio mi ha fatto un grande effetto.

Ho studiato a lungo la vita di Masakado, al punto che ho quasi l’impressione di conoscerlo. Negli anni dei miei studi mi sono trovata davanti a ostacoli molto tosti. Poter portare dei fuori al monumento del ribelle è stato un traguardo.

Mi dispiace che sia morto in quel modo. I personaggi storici sono sempre così lontani per noi che talvolta ci appaiono come personaggi inventati, protagonisti di favole. Ma erano esseri umani, volevano bene e odiavano, temevano e speravano, prevaricavano e cercavano di sopravvivere.

Se solo Masakado potesse vedere, dopo mille anni e più, la fila di gente che continua a rendergli omaggio…

Chissà se questo lo avrebbe consolato. Non posso saperlo perché alla fine è impossibile conoscere davvero i morti (o i vivi, se è per questo).

Ma mi fa piacere aver visitato il monumento, e mi fa piacere vedere i grandi capitalisti che continuano a portare doni a Taira Masakado, il Nuovo Imperatore, la cui memoria continua a infestare la vita dei vivi con molto più vigore della memoria di mille imperatori legittimi prima e dopo di lui.

E’ ironico e un po’ tragico: un uomo che voleva solo vivere in pace è diventato un Immortale suo malgrado.

MUSICA!


Puntate precedenti

Prima puntata

Seconda puntata

Terza puntata

Quarta puntata

Quinta puntata

Interludio

Sesta puntata

Settima puntata

Ottava puntata


Approfondimenti

Il pirata Sumitomo

Breve storia del sistema militare giapponese, dalle origini a Masakado

La banda di guerra


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In vita e in morte: l’arrivo del cavallo in Giappone

Pochi animali hanno avuto un impatto sulla storia giapponese come il cavallo.

Il cavallo è stato guerriero, messaggero, oggetto di cerimonie, soggetto di poesia e pittura, strumento diplomatico e ragione di guerra. Il suo allevamento ha cambiato la struttura economica e sociale, ha modellato l’orografia stessa di certe regioni.

In passato ho accennato alla Storia del cavallo domestico, a come, da ronzino di poche regioni della steppa, il nostro si sia diffuso sul Pianeta intero (invito a leggere i commenti e a clickare sul link fornito dall’ottimo compare Ghezzi).

Ho anche scritto della teoria di Egami Namio, secondo cui un popolo di cavalieri altaici avrebbe invaso l’arcipelago e fondato la dinastia di Yamato. Come potete leggere nell’articolo, la teoria è stata disputata e non è ormai accettata da nessuno, ma l’occasione ci ha permesso di apprezzare in parte l’apporto importantissimo delle polities coreane a quella che diventerà poi la cultura giapponese.

Ma come è arrivato il cavallo in Giappone, e quando? Per quale ragione?

Può parer bizzarro, ma il primo lavoro del cavallo sull’Arcipelago non è stato in campo militare o agricolo.

Il cavallo che arrivò in Giappone era un cavallo sacro, e oggi parliamo del suo debutto sulle isole.

Perché?

Perché è una storia affascinante che vi farà certamente guadagnare un sacco di punti con gli amici al bar!

Ufficiali di polizia a cavallo, dal Ban dainagon ekotoba

Tanto tempo fa, nel Miocene (23-5 milioni di anni fa), là dove un giorno esisterà il Giappone, sgambettavano lieti due adorabili animaletti: l’Hipparion e l’Anchiterium, due mammiferi perissodattili considerati come gli antenati dei cavalli nostrani. A questo stadio il Giappone non era un arcipelago, ma una massa di terra collegata al continente. Il magico duo poté quindi diffondersi nelle vaste foreste di laurisilve e scorrazzare lieto su colline e litorali.

Anche le belle cose però finiscono, e col declino dell’Era Glaciale questi equidi preistorici diminuisconoe finiscono per svanire senza lasciare discendenti. Con l’innalzamento del livello del mare, 18.000 o 12.000 anni fa, il Giappone si trova infine tagliato dal Continente.

Secondo Aikens, i primi umani arrivarono in Giappone alla stessa maniera dell’Hipparion e dell’Anchiterium, nel Pleistocene Medio, circa 200.000 anni fa (data attribuita al sito di Sozudai, nel nord-est di Kyūshū, dove abbiamo ritrovato quelle che potrebbero essere le più antiche tracce di attività umane sulle isole). A questo punto, è probabile che gli equidi giapponesi fossero già estinti.

Gli anni passano, e mentre sul continente si evolvono cavallucci simili alle bestie nostrane, il Giappone resta del tutto privo di equidi.

Verso il 10.000 avanti cristo le prime forme di ceramica compaiono in Kyūshū, marcando l’inizio del lungo Periodo Jōmon (10.000-300 a.C.). Il cavallo resta assente dai siti archeologici e dall’Arte. Non esiste nel mondo e non esiste nella mente dei primi abitanti delle isole.

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Fossile di Hipparion, notare le tre ditina là dove il nostro cavallo ne ha uno solo

Rare tracce ricompaiono di quando in quando verso la seconda metà del Periodo Jōmon. Si tratta senza dubbio di bestie importate dalla Corea e trasportate via nave. I ritrovamenti equini sono di conseguenza rarissimi: Kidder cita ad esempio il cumulo di Ataka, nel dipartimento di Kumamoto, risalente probabilmente al Jōmon medio. Qui avremmo trovato le ossa di un piccolo cavallo. Resti simili sono saltati fuori in Izumi, nel dipartimento di Kagoshima. In entrambi i casi le ossa non mostrano segni di mutilazione ed è possibile che gli animali in questione siano stati accuditi fino alla vecchiaia, come esotiche bestie simbolo di potere economico e politico.

Come accennato in articoli passati, gli scambi con la Corea sono una costante nella quasi totalità della storia giapponese, e a maggior ragione nella preistoria: il commercio tra la penisola e le isole era fiorente! Un esempio sono le tombe del sito di Donghwa-dong, dove abbiamo trovato molte ossidiane di Kyūshū e ceramiche tipiche dell’industria Jōmon.

In generale, l’uomo Jōmon è un cacciatore-raccoglitore : nonostante la presenza di un’industria relativamente sviluppata (vedi l’esporto di ossidiane), la gente di Jōmon non coltiva e, soprattutto, non alleva.

Verso il IV° secolo a.C. si verifica una vera e propria rivoluzione: dal continente arrivano la coltivazione del riso, il bronzo e l’allevamento. Ciò coincide con l’arrivo di gente nuova, dalla fisionomia diversa rispetto alla gente di Jōmon. Si tratta di coreani che, spinti dalla pressione demografica, traboccano sulle isole. E’ l’inizio del Periodo Yayoi (300 a.C. – 300 d.C.). I nuovi arrivati e le nuove tecniche si radicano presto in Kyūshū. Secondo Rhee e Song-Nai, i nuovi arrivati erano particolarmente inclini ai matrimoni misti, e in poche generazioni possiamo constatare il fiorire di una cultura originale.

E’ importante sottolineare che a questo stadio non c’è un confine netto e definitivo tra la cultura delle isole e quella della penisola: specie tra il nord-Kyūshū e il sud-Corea notiamo molte similitudini culturali e antropologiche, anche se gli isolani mantengono caratteristiche distintive (tipo la pratica della mutilazione dentale, roba che i coreani saviamente evitavano).

La cultura Yayoi è molto più cosmopolita di quella Jōmon (che pure non era proprio isolata). In particolare col I° secolo d.C., oltre ai numerosi scambi con la penisola coreana, i capi-clan Yayoi allacciano relazioni anche con gli Han, con la comanderia di Lelang e con quella di Daifang.

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Come avevamo accennato in articoli precedenti, l’Arcipelago del I° secolo è tutto fuorché un paese unito. Lo Han Shu racconta di una trentina di “paesi” governati da “re” che versavano un qualche tipo di tributo agli Han. Ovvio, che cosa intendessero i cronachisti cinesi con “paese” e “re” è un gran mistero.

In ogni caso col III° secolo la Cina entra in uno dei suoi ricorrenti periodi di guerre civili e macelli: è il celeberrimo periodo dei Tre Regni, fonte di ispirazione di innumerevoli romanzi, film, poesie, dipinti, ecc. Niente stimola la creatività umana come un bel bagno di sangue e trauma irrisolvibile.

Secondo Kuji, quest’apoteosi del clusterfuck fu uno dei fattori che spinsero la coalizione e unificazione delle centinaia di polities microscopiche disseminate per la penisola coreana e l’arcipelago giapponese. Nell’arcipelago, un clan in particolare emerse più potente degli altri, alla testa di una modesta coalizione di capifamiglia, capi di territorio, predoni assortiti e quant’altro: il clan Yamato.

Questa nuova entità politica allacciò rapporti diplomatici con i nuovi signori di Lelang (la dinastia fondata da Gongsun Du) e poi con i Wei, non appena questi si papparono la penisola del Liaodong. Perché, checché ne dicano i sovranisti e altri scoppiati, “farsi i cazzi propri in casa propria” era una cosa cretina da pensare anche nel Giappone preistorico.

Tornando ai Wei, verso la metà del VI° secolo i nostri fanno compilare il ponderoso Wei shi, il Libro dei Wei. In questo testo compare il Wajin den, la prima traccia scritta delle isole giapponesi.

Secondo il Wajin den, le isole erano abitate da un popolo chiamato “Wa” (simpaticamente trascritto col kanji di “nanerottolo”, poi cambiato per amor di pace). Costoro erano divisi in numerosi “regni” (di nuovo, saggesù che cosa si intendesse per “regno”) di cui il più importante sarebbe stato Yamatai, sotto la savia guida della regina-sciamana Himiko. La sovrana sacra avrebbe intavolato relazioni con i Wei nel 239. Il ritrovamento di specchi Wei conferma che sì, effettivamente ci furono scambi in questo periodo tra il sovrano Wei e le élites isolane.

La storia di Himiko e l’immortale dibattito so dove si trovasse davvero Yamatai sono argomenti degni di una tesi dottorale, e non ci dilungheremo in questo articolo, perché oggi parliamo di cavalli!

E secondo il Wajin den i Wa NON avevano cavalli.

Come si spiega allora il fatto che abbiamo trovato tracce della loro presenza ben prima del 239 e l’inizio delle relazioni Wei-Wa?

Il Wajinden e il Wei shi in generale sono fonti solitamente considerate come attendibili, ma in questo caso paiono in contrasto coi dati archeologici.

La prima cosa da considerare è che in Giappone i cavalli erano di certo molto più rari rispetto alla penisola coreana o alla Cina. Inoltre, al tempo della stesura del Wei shi, i cavalli del Continente erano usati come bestie da trasporto, da lavoro e da guerra. Erano diffusissimi e parte integrante della vita economica, sociale, politica e militare.

Lo stesso non si può dire del Giappone: la quasi totalità dei resti equini in Giappone sono associati in modo chiaro a contesti rituali, in particolare funerari.

Farris e Yokoyama propongono che i cavalli siano stati importati in principio come bestie da carne.

Ora, il problema è che, come animale puramente alimentare, il cavallo fa pietà. Un sacco di altre bestie domestiche producono più carne e latte per un investimento molto minore in risorse.

Farris cerca di parare a questo problema ipotizzando un consumo strettamente rituale della carne di cavallo.

Non ho trovato dati che parlino di consumazione rituale di carne di cavallo, ma una cosa è sicura: questo animale era, dal II° al V° secolo, una creatura sacra e magica.

Se i resti del Periodo Jōmon non mostrano segni di violenza, lo stesso non si può dire degli scheletri equini della fine di Yayoi e dell’inizio del Periodo Kofun (IV°-VI° secolo). In altre parole, con il III° secolo e gli stravolgimenti politici del Continente, il Giappone assorbe non solo nuovi concetti politici e sociali, ma un nuovo sistema simbolico e mitologico dove il cavallo riveste un ruolo capitale diverso da quello che ha potuto incarnare fino ad allora.

Il cavallo di fine Yayoi non viene allevato fino alla vecchiaia, viene sacrificato, un trattamento di favore di solito riservato solo ad elementi davvero importanti!

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Una delle regioni che offrono il più alto numero di esemplari antichi è quella di Kawachi. Durante il Periodo Jōmon questa zona (in particolare quella che è oggi la piana di Uemachi) era una baia in comunicazione diretta con la baia di Osaka. Col passare dei secoli, questo corpo d’acqua si trovò tagliato dal mare e divenne prima una laguna e poi, nel Periodo Yayoi, un lago.

La più alta concentrazione di resti è nel sud di questa zona acquitrinosa (l’acqua aiuta la conservazione di certi materiali organici come il legno o l’osso, che sarebbero altrimenti digeriti dal terreno giapponese).

Stiamo parlando di siti come Misono, Kyūhōji, Kami, Nishi Iwata e altri. Negli strati datati al III° o inizi del IV° secolo abbiamo trovato denti, ossa e artefatti coreani.

Resti sono saltati fuori anche in altre regioni, come nel sito di Shiobu in Yamanashi, dove abbiamo trovato dei denti di cavalli vittime di un sacrificio dell’inizio del IV° secolo. Secondo Kuji si trattava di ronzini piccoletti, 125cm al garrese tutt’al più.

Secondo Momosaki, la più alta concentrazione di cavalli sacrificati si troverebbe in Kyūshū: abbiamo 3 esempi in Fukuoka, 26 in Kumano, 25 in Miyazaki e 2 in Saga.

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Testa di cavallo sacrificato, dal sito di Narai

L’associazione del cavallo con le élites e le loro tombe non è originale dell’Arcipelago giapponese, né è un’evoluzione recente. Al contrario: possiamo dire che è parte integrante del più antico e originale rapporto tra l’uomo e questo animale. Un’associazione che potrebbe rimontare a un tempo perfino più antico del più antico allevamento.

Fin dalle più remote origini dell’addomesticamento e l’allevamento, il cavallo è stato un simbolo sacro legato alla morte. Gideon Shelach cita il ritrovamento di cavalli sacrificali nei cimiteri di Meoqinggou e Dahuazhongzhuang, siti risalenti al I° millennio avanti Cristo e situati nell’attuale Cina (la zona studiata da Shelach copre parte di Heibei, Shanxi, Shaanxi, buona parte del Gansu e Qinghai, Liaoning e Mongolia Interiore, e la parte occidentale di Jilin e Heilongjiang).

I kurgans Pazyryk del Kazakistan risalgono al V° secolo a.C. In questi tumuli costruiti nelle valli degli Altai abbiamo trovato 69 cavalli intatti e 18 scheletri, tutte vittime costrette a seguire il loro padrone nella morte.

Questa prerogativa mortuaria del cavallo può essere ritrovata nel resto dell’Asia: nella sua espansione attraverso il continente, il cavallo domestico ha portato con sé il suo valore sacro e magico. Come nel celebre sito di Dereivka, in Ucraina, il cavallo accompagna il cavaliere in vita e lo segue nella morte.

Il sacrificio di cavalli associato a riti funerari era praticato anche nella penisola coreana, nella regione di Buyeo, e nello sciamanesimo del regno di Silla il cavallo accompagnava l’anima del defunto nell’Aldilà. A titolo d’esempio, i tumuli del sito di Hwangnam n.98, collocato tra la metà del IV° e la metà del V° secolo, contenevano una vittima di sacrificio umano e, sul cucuzzulo, indizi che lasciano supporre il sacrificio di cavalli bardati.

Usanze simili si ritrovano fin nella regione di Gaya, nel sud della penisola, in quella che diventerà Gumgwan Gaya: qui, verso la fine del III° secolo, lo stile di sepoltura subisce una drastica evoluzione. L’architettura della camera mortuaria cambia, i tesori funerari diventano più sfarzosi, e si prende la sana abitudine di sacrificare uomini e cavalli per il defunto, una simpatica pratica molto simile a quella di Buyeo.

Shin Kyung-Cheol suggerisce perfino che questo cambiamento e l’apparizione di una classe dirigente potente (abbastanza potente da potersi permettere un’atrocità come i sacrifici umani) sarebbero da spiegarsi con una massiccia immigrazione di alti papaveri di Buyeo.

Insomma, se la Corte di Wa è stata trasformata e consolidata dall’arrivo massiccio di nobili di Baekje, Gumgwan Gaya sarebbe stata partorita dopo l’immigrazione di nobili di Buyeo.

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Haniwa di cavallo della regione di Nara

L’associazione tra il cavallo e la tomba dell’élite è quindi una caratteristica originale e fondamentale della cultura equestre generale. In Corea constatiamo che questo legame tra il capo e il cavallo non è esclusivo alla sfera funeraria: il cavallo pare un simbolo indispensabile di legittimità regale.

Nel primo capitolo del Samguk sagi, la più antica cronaca dei regni di Corea, compilata nel 1145, viene raccontata la nascita del fondatore della dinastia di Silla, Hyeokgeose. Il nostro amico dal nome complicato è un fanciullo divino nato da un uovo, e il suo arrivo viene annunciato da un misterioso cavallo che svanisce dopo aver attratto l’attenzione sul mitico sovrano.

Il cavallo non è quindi solo un simbolo di potere e prestigio, ma un messaggero divino, un veicolo del Fato per portare nel mondo il legittimo sovrano e scortare la sua anima nell’Aldilà dopo la morte. Il cavallo è, nel mondo reale e nel mito, il compagno del Re.

Storie simili a quella raccontata dal Samguk sagi si ritrovano anche nel Nihon shoki, documento molto più antico e che narra delle origini e delle vicissitudini della Famiglia Imperiale giapponese. Un episodio relativamente conosciuto è quello del cavallo di creta, narrato nel 14esimo rotolo, al settimo mese del nono anno del regno dell’Imperatore Yūryaku (r. 456-479):

Il primo giorno fu detto, nella regione di Kawachi: “C’è una donna, la figlia di Tanabe no Fubito Hakuson del distretto di Asukabe, moglie di Fuminobito Kariryō del distretto di Furuichi. Hakuson venne a sapere che sua figlia aveva partorito e andò ad offrire i propri auguri alla residenza del marito, e tornò verso casa a notte, alla luce della luna.

Alla collina di Ichibiko (sotto la tomba di Homuta) incontrò qualcuno che cavalcava un cavallo rosso. Il cavallo s’innalzò come un drago e subito fuggì, impaurito come un cigno. Il suo corpo miracoloso era come il crinale di un colle, di forma davvero inusuale. Hakuson si avvicinò e, avendo visto il cavallo, lo desiderò.

Frustò il cavallo bianco-bluastro che stava cavalcando e allineando le loro teste allineò le loro redini. Il cavallo bluastro restava indietro dacché le sue zampe erano pigre, non riusciva a raggiungere [il cavallo rosso].

L’uomo che cavalcava il cavallo migliore si rese conto che Hakuson lo voleva, e si fermò, e scambiò i cavalli, e ognuno prese quello dell’altro. Hakuson ottenne il cavallo migliore e fu molto felice, e galoppò nel proprio cortile.

Rimosse i finimenti e nutrì il cavallo e lo lasciò dormire.

Il giorno dopo il cavallo migliore si era tramutato in un cavallo di creta. Hakuson pensò che fosse una cosa bizzarra e andò a investigare alla tomba di Homuta, dove trovò il suo cavallo bluastro tra i cavalli di creta della tomba. Lo riprese e rimise il cavallo di creta al suo posto.

In questo strano passaggio abbiamo tutti gli elementi che contraddistinguono il cuore simbolico della cultura equestre: la nascita di un erede, il viaggio, la tomba.

La notte è spesso considerata come un momento di passaggio, dove il mondo dei vivi e quello dei morti si toccano e si confondono. Di solito questa vicinanza è percepita come qualcosa di estremamente pericoloso, una coincidenza spazio-temporale in cui i morti possono contattare i vivi e trascinarli nel loro mondo. Da questo punto di vista Hakuson è fortunato: il suo incontro col fantasma non pare lasciargli nessuna conseguenza negativa e Hakuson può recuperare il suo cavallo vivo e tornare a casa.

Come abbiamo visto più in alto: il cavallo accompagna l’uomo alla nascita, nella vita, e nella morte.

Il Nihon shoki ci trasmette anche chiari riferimenti alla pratica di sacrifici umani e di cavalli sulle tombe dei membri della Famiglia Imperiale. Stando alla fonte, l’imperatore mitico Suinin (r. 29 a.C. – 70 d.C.) avrebbe ordinato la creazione delle haniwa come sostituti di uomini e animali.

sacrificio

Quello che mi viene in mente ogni volta che sento qualcuno cianciare di “antiche tradizioni”

E’ fuori di dubbio che la cultura equestre sia stata portata in Giappone da immigrati della penisola coreana. La maggior parte delle tracce di allevamento sono, in questo periodo, nel Kinai e nell’isola di Kyūshū: due regioni particolarmente soggette all’influenza civilizzatrice della Corea (è divertente dire una cosa del genere in una sala piena di dottorandi e poi indovinare dall’espressione del viso chi degli asiatici è giapponese e chi è coreano).

Non solo, possiamo concludere senza ombra di dubbio che cavallo e allevamento sono rimasti sotto il controllo dei nuovi arrivati per un lungo periodo: artefatti coreani sono spessissimo associati a questa nuova attività.

Ora però viene da chiedersi: il signor Kim arriva da Gaya con queste bestie strafighe per cui i capi-clan isolani stravedono. Perché il signor Tanaka del villaggio accanto non lancia un business simile? Perché il cavallo resta così raro, perché la sua presenza pare limitarsi a così poche regioni per tanto tempo?

Va bene che non ci si inventa allevatori, ma quanto ci vorrà mai ad imparare ed esportare il sistema?

Come in tutte le cose, probabilmente ciò fu il frutto di numerosi fattori.

Intanto ci sta che i locali non affini agli scambi con i coreani fossero troppo conservatori per imparare qualcosa di nuovo. Ricordiamoci che l’unica cosa più difficile che cacciare un’idea nuova nella capoccia di qualcuno è tirarne fuori una vecchia (detto che venne creato per l’esercito ma che funziona con la maggioranza della gente in generale).

Immagino il signor Tanaka che coltiva il suo miglio e intanto sbircia da sopra la siepe tutti questi immigrati strambi che parlano questa lingua che non si capisce e con queste bestie, che io davvero non so, ma dove andremo a finire, puzzano e mordono, sì guarda, mordono! E poi per farci che, per sacrificarli in cima ai tumuli? No, no, mi spiace, un tempo sui tumuli ci si sacrificava esseri umani, un tempo i sacrifici erano cose serie, mica ora che ci portano su ‘ste bestie, e vogliamo parlare dell’odore? Uno non si sente più padrone in casa sua!

Al di là del signor Tanaka e delle sue lungimiranti opinioni, parte del Giappone non si presta molto all’allevamento di cavalli: il cavallo è una bestia da prateria, e a parte la piana del Kantō il Giappone è scarso in pianure erbose.

Il Kantō sarà in effetti una delle regioni trainanti nella produzione di cavalli (in particolare cavalli da guerra), ma in questo periodo la zona è ancora fuori portata del clan Yamato e tagliata fuori in buona parte dall’influsso coreano. Peraltro non esistono strade in questo periodo, molti dei trasporti avvengono via mare e i cavalli non incassano bene questo tipo di gita.

Infine, c’è il fattore culturale: la cultura equestre è una novità venuta da fuori e importata dalle élites. Ci vorrà tempo prima che si innesti e sia assimilata dal resto della popolazione aborigena.

La diffusione dei centri di allevamento e l’uso del cavallo nel rituale funerario della classe dirigente marcano, a mio modesto parere, l’inizio dell’esistenza di una cultura equestre nell’Arcipelago.

Come accennato prima, i cavalli non sono proprio una novità sulle Isole. Ma il ruolo rituale e funebre del cavallo è un nocciolo arcaico e distintivo della più antica cultura equestre. Il cavallo è stato uno psicopompo molto prima di essere un guerriero, un contadino o un mezzo di trasporto.

Durante l’epoca Jōmon e la prima parte del Periodo Yayoi i cavalli sono rarità esotiche e oggetti di sfarzo.

Con l’ascendere del clan Yamato la forma più originale ed essenziale della cultura equestre arriva finalmente nelle Isole. Adesso il cavallo non è più un raro bene di lusso. Il cavallo è un simbolo indispensabile di legittimità regale, porta con sé il primo embrione dell’idea di Sovrano e Dignità Imperiale.

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Ricostituzione della regina Himiko

Questo stato di cose doveva ovviamente cambiare. Il cavallo diventerà l’elemento militare più stimato della storia e il mezzo di trasporto prediletto. Cavallo e allevamento rivestiranno un ruolo assolutamente centrale nello sviluppo della Corte di Yamato, la sua espansione e il crollo del monopolio politico dell’aristocrazia civile nel XII° secolo.

Allo stesso tempo il cavallo non perderà mai del tutto la sua carica sacrale: anche dopo la fine dei sacrifici, il cavallo resterà per secoli parte integrante del rituale di Corte.

Fin nel XII° secolo possiamo forse ancora intravedere, nel Rituale della presentazione dei puledri all’Imperatore, un barlume ancora vitale dell’antichissima cultura equestre nata nella Steppa. Un’eredità forgiata dai capitribù dell’Asia centrale e sopravvissuta fino all’aristocrazia dell’Impero del Giappone.

MUSICA 


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Il Samguk sagi

Il Nihon shoki

Illustri sconosciuti: Taira no Masakado (3.2): L’Impero colpisce ancora

Vento freddo soffia sulla plaga di cenere. E’ una spianata corrosa dagli elementi, sotto un perenne cielo di piombo senza sole e senza pioggia. Lapidi consunte punteggiano la terra sterile.

I nomi a stento si leggono. Laramanni’s weblog, Wunderkind trilogy, Druhim Vanashta

E’ il cimitero dei blog defunti.

Nessuno viene qui, è una regione dimenticata.

Sassolini franano da un monticello di cenere e detriti. Il mucchietto sobbalza.

Una crepa si apre nel fango rinsecchito.

Emerge un indice, un indice puntato, attaccato a un pugno chiuso. Il ditino sentenzioso si erge lento e rachitico in mezzo al cimitero. Da sotto la polvere arriva ovattata una voce nasale.

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ACTUALLY…

Vi sono mancata?

No, non credevo nemmeno io.

Ad ogni modo risiamo qui, in questo luogo di recriminazioni e lagne, a trascinare a calci nel culo la mia serie di articoli preferita, ovvero le mirabolanti avventure del mio compare Masakado, altresì noto come Nuovo Imperatore!

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Masakado in abito di Corte

La scorsa puntata avevamo lasciato Masakado in cresta all’onda della vittoria: ha raso al suolo Hitachi e si è mangiato senza colpo ferire le 8 provincie del Bandō, dove ha piazzato uomini di fiducia per gestire l’ordinaria amministrazione. I funzionari sono stati impacchettati con riguardo e inviati sotto scorta alla Capitale. Il nostro ha anche preso cura di scrivere una lettera al Ministro degli Affari Supremi Fujiwara no Tadahira. In un elegante rimbalzo tra captatio benevolentiae, recriminazioni e velate minacce, Masakado segnala al suo vecchio patrono di essere aperto al dialogo, almeno in principio.

Il ribelle non ha di che essere troppo ottimista, però: tutto questo casino è scoppiato perché voleva far fuori suo cugino Sadamori e suo cugino Tamenori. Ora come ora, vittoria o meno, i due cugini sono sempre vivi e sempre a piede libero.

Oggi però vorrei fare una brevissima pausa dalle vicissitudini familiari dei guerrieri orientali per dare un occhio a ciò che capita alla Capitale. E “ciò che capita alla Capitale”, in questo momento, è una grandinata di rogne come poche se ne è viste in tempi recenti.

Solito promemoria, sia mai che vi scordate dove ci si trova

La notizia della presa della provincia di Hitachi arriva a Heian (attuale Kyoto) il 2 del dodicesimo mese dell’era Tengyō (939). Il 22 arrivano dei messaggeri da Shinano, e di nuovo il 27 e il 29: Masakado ha preso Shimōsa e Kōzuke. La sera stessa arriva anche il governatore di Musashi: la provincia è perduta.

E’ una sventagliata di pessime notizie, e ricordiamoci che la Corte ha già una bella gatta da pelare con la flotta pirata di Fujiwara Sumitomo.

Ho parlato di Sumitomo in dettaglio in questo articolo. Qui basti sapere che questo ex-funzionario ha barattato un mediocre impiego nell’amministrazione civile per una folgorante carriera di predone e piromane.

A differenza di Masakado, il nostro è un criminale puro e semplice. Depreda villaggi e navi. I funzionari che cadono nelle sue grinfie sono torturati e uccisi, o rispediti alla Corte con naso e orecchie mozzate. Le loro mogli e parenti sono stuprate e buttate in mare. Roghi sono appiccati lungo la riva del fiume verso la Capitale.

E in questo clima arrivano le notizie dall’Est. Masakado, quello che nessuno ha mai preso davvero sul serio, si è appena mangiato un terzo del Paese.

E’ quasi sicuro che Masakado non volesse fare il re indipendente né il nuovo Imperatore, ma volesse solo costringere la Corte a patteggiare.

Non è l’impressione che ne tirano però gli aristocratici: per loro è evidente e sicuro che il prossimo obbiettivo di Masakado sarà la Capitale stessa.

Ma l’Imperatore Suzaku e la sua Corte non sono tipi da aspettare imbelli i comodi altrui! Senza por tempo in mezzo organizzano riti e preghiere.

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Può sembrare stupido o naif per il lettore contemporaneo (forse).

Credi che un guerriero orientale stia marciando verso casa tua con migliaia di predoni assetati di sangue, e che fai? Paghi la Wanna Marchi per mettergli il malocchio.

E’ sempre bene evitare di ragionare in questo modo. Dopotutto l’interesse della Storia è anche cercare di capire un punto di vista distante nel tempo e nello spazio. Tadahira, Suzaku e tutti gli altri erano sinceramente convinti di poter influenzare il destino di Masakado con la magia. Ogni tempo ha il proprio mito, ogni società le sue idee bizzarre. Noi, per esempio, crediamo nel trickle-down.

Un mago taoista (il tizio in bianco sulla destra) offre un qualche tipo di lettura a un gruppo di principoni in ghingheri (Immagine tratta dal Tamamonomahe)

Fermo resta che nessuno mantiene il potere col solo aiuto della Wanna Marchi, e l’aristocrazia di Heian prende anche misure pratiche per schiacciare la ribellione.

Per prima cosa vengono spediti a Shinano degli ispettori speciali (kogenshi).

In secondo luogo ci si preoccupa di difendere la Corte: degli inviati speciali (keikokushi) sono spediti alle barriere che delimitano la regione della Capitale, di modo da bloccare le vie d’accesso alla Città Fiorita.

Torri provvisorie sono tirate su in fretta e furia lungo la cinta del Palazzo (sì, Heian non aveva mura, e le mura della “cittadella” non avevano strutture difensive permanenti, nessuno se ne capacita ma questa cosa è rimasta per SECOLI).

Mentre riti e preghiere continuano, vengono nominati in meno di una settimana dei Prosecutori Speciali (tsuibushi), funzionari militari con carica temporanea la cui missione è quella di riportare la pace nei circuiti a loro assegnati. Vi risparmio i nomi, ma basti sapere che quasi tutti sono militari professionisti con esperienza.

In tutta questa fervente attività, un nome risalta fuori: Minamoto Tsunemoto.

Vi ricordate di lui?

Non è un guerriero, è un funzionario civile. E’ stato mandato nell’Est e si è azzuffato con un magistrato locale in una disputa fiscale presto degenerata nei disordini di Musashi.

Al tempo, Masakado era intervenuto riportando la pace, ma Tsunemoto aveva comunque rischiato di lasciarci la pelle. La cosa gli era rimasta di traverso ed era tornato alla Capitale per accusare Masakado e amici di tradimento e ribellione.

Come da prassi, era stato buttato al gabbio nel mentre che l’inchiesta si sviluppava.

Oh beh, ora che Masakado si è pappato otto provincie il problema non si pone più davvero. Tsunemoto viene tirato fuori di galera per essere nominato generale in seconda nell’esercito lealista (lo ritroveremo più tardi nell’organigramma della spedizione ufficiale).

L’11 della prima luna del terzo anno di Tengyō, la Corte emette un editto ufficiale di condanna contro Masakado e i suoi. Coloro che si schiereranno contro il ribelle orientale saranno ricompensati con terre, ranghi e funzioni. E per chi riuscisse a ucciderlo, la Corte riserva in premio l’abito di Porpora e l’abito di Cinabro, ovvero il quinto e quarto rango di Corte.

E’ un premio straordinario. Ottenere il quinto o quarto rango comporta tutta una serie di rendite e possibilità, ma non solo: col quinto rango un uomo entra ufficialmente nell'”alta” aristocrazia. Vuol dire passare dal gruppo che subisce le decisioni al gruppo che le decisioni le prende. Un premio del genere può determinare il futuro della famiglia per decine, centinaia di generazioni! E’ la chiave d’accesso al “Popolo del Cielo”.

Il 14 vengono nominati dei funzionari di 3° rango delle diverse provincie perdute. Costoro cumulano la loro funzione con ōryoshi, una funzione temporanea prettamente militare volta ad imporre gli ordini imperiali in zone, hum, “complicate”.

Tra costoro (i futuri enforcers dell’Impero nell’Est) troviamo dei nomi noti, ovvero due fratelli Taira, Kinmasa e Kintsura.

No, non potete sapere chi siano, perché finora non credo di averli mai nominati.

Ma potete indovinare.

Sono cugini di Masakado. Perché ovvio che sono cugini di Masakado. Per la precisione, figli di Yoshikane, lo zio-nemesi che il nostro ha annientato un da un po’ di tempo ormai.

E le vecchie conoscenze non finiscono qui: l’ōryoshi di Hitachi è il malefico Sadamori! Il nemico giurato di Masakado (e la ragione dietro alla presa di Hitachi per cominciare, ma non stiamo a sottilizzare).

L’ōryoshi di Shimotsuke invece è una faccia nuova: Fujiwara Hidesato.

“Faccia nova” per modo di dire, in realtà. Hidesato è un uomo notevole, per cui val la pena spendere qualche parola.

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Fujiwara Hidesato camuffato da persona perbene
Dettaglio da 
Sōshū Sashima Dairi-zu (総州猿島内裏図) di Toyohara Chikanobu (1838-1912)

Hidesato è un discendente di Fujiwara Uona. Membro del ramo principale dei Fujiwara, Uona è stato Ministro della Sinistra, ovvero la seconda carica più importante dell’Impero (la prima è ovviamente Ministro degli Affari Supremi, perché Imperatore non conta).

Essere alto papavero è una gran ganzata, ma chi sporge la testolina espone il collo, e Uona viene falciato in pieno da uno scandalo che gli costa l’esilio in Kyushu. E’ la fine della sua carriera e della carriera dei suoi discendenti. Il suo quarto figlio, Fujinari, non ottiene nemmeno un impiego alla Capitale. No, il disgraziato viene nominato funzionario di terzo rango nella provincia di Shimotsuke.

Da figlio di Ministro a subalterno fisso in una provincia orientale è una colossale culata in terra.

Fujinari però è uno tosto: non si perde d’animo e si rimbocca le maniche. Con gli anni riesce a scattare di carriera e diventare vicegovernatore della provincia. Sempre un cazzo rispetto a ciò che gli prometteva la vita solo pochi anni prima, ma nessuno ha mai coltivato niente sui sogni infranti. Invece di accanirsi a voler tornare in seno alla Corte, Fujinari sposa una brava ragazza di una buona famiglia del posto, e volta le spalle per sempre a una carriera nell’alta aristocrazia, ma senza tagliare del tutto i contatti con la Gente del Cielo.

Le generazioni si susseguono in provincia, e Shimotsuke si rivela essere un buon posto per i Fujiwara di Uona: il nonno di Hidesato diventa governatore, e il padre di Hidesato diventa funzionario di terzo rango e ōryoshi.

Oryoshi, protettore della pace dell’Imperatore. Ah!

Hidesato è il primo della famiglia a potersi considerare un “guerriero”. Lo vediamo comparire per la prima volta ne sedicesimo anno dell’era Engi (916), alla testa di una banda di delinquenti armati.

Il figlio del commissario è un mariuolo pericoloso e violento, che sorpresona, eh?

Se suo padre e suo nonno si erano assestati in una dignitosa carriera di funzionari, il giovane Hidesato opta per il mestiere che più gli si confà: il brigante. Il Nihon kiryaku lo nomina di nuovo nel 929 come capo-predone della regione.

Sono anni selvaggi di cui si sa poco, se non che il nostro fa un sacco di danni. Me l’età porta giudizio, e pochi anni dopo il nostro pare tornato dal lato buono della legge. Dopotutto nel 939 Hidesato ha ormai la cinquantina suonata, e uno nella sua posizione non arriva a quell’età senza un minimo di buonsenso: non è più un giovane arciere avventuroso, è un uomo maturo con famiglia ed è bene iniziare a preparare un buon nido per la vecchiaia.

E così abbiamo il wonder team di inviati per pacificare il Bandō! Un ex-brigante redento, tre ex-condannati per tradimento… di tutti gli ōryoshi, solo 1 (un tal Tōyasu) ha la fedina penale pulita. Chiaramente per la Corte serve un ribelle per acchiappare un ribelle.

Gli ōryoshi sono scelti di solito tra gente locale o con forti legami sul posto. La speranza è che usino la propria posizione per tirare dalla loro parte le bande armate della zona.

La strategia della Corte non si basa solo su di loro, però: viene organizzata una spedizione ufficiale da manuale!

Il 18 viene nominato un Gran Generale per la Pacificazione dell’Est (Seitō taishōgun), ovvero il capo dell’esercito “ufficiale”.

Per avere un’idea di quanto la Corte prendesse sul serio la minaccia Masakado basti pensare che la funzione di Seitō taishōgun era stata abolita nell’811. Ricompare in questa occasione (100 anni dopo) e mai più fino al XII° secolo.

Organigramma della spedizione ufficiale. Notare il nome di Minamoto Tsunemoto tra i generali in seconda.

Il tizio nominato generalissimo dell’est non è un militare, ma un funzionario civile sulla settantina, di rango medioalto. Costui è affiancato da 4 generali in seconda tra cui ex-funzionari scacciati da Masakado. Senza dubbio costoro sono stati scelti per via dei loro contatti sul territorio.

Il 18 e il 20 vengono anche scelti dei “sovrintendenti” (gungen e gunsō), tre Fujiwara che si erano distinti per i loro ripetuti sforzi di NON proteggere la pace dell’Imperatore. Si tratta del trio Tōkata, Shigeyasu e Fumimoto, tre sgherri del pirata Sumitomo che hanno saltato la barricata in cambio di ranghi e funzioni. Fumimoto in particolare era stato il braccio destro di Sumitomo in occasione del linciaggio del vicegovernatore della provincia di Bizen.

Gente ammodo insomma.

Per la cronaca, Tōkata e Shigeyasu rimasero a Corte e finirono i loro giorni come grassi burocrati, mentre Fumimoto tornò a scorrazzare con Sumitomo e finì morto ammazzato male come è spesso il caso con i pirati.

藤原純友(安政2年、芳直画、築土神社蔵)

Fujiwara Sumitomo, dal pennello di Utagawa Yoshinao (metà XIX°)

Le spade rituali simbolo dell’autorità militare sono consegnate al generalissimo l’8 del secondo mese. E’ passato un mese e mezzo dalle prime notizie di Hitachi, e finalmente pare che l’esercito lealista sia pronto a darsi una mossa.

Si tratta di un esercito strutturalmente simile a quello previsto dai Codici.

Tuttavia la scelta degli uomini è degna di nota: un alto funzionario civile presiede una spedizione i cui capi esecutivi sono non solo militari di professione (quasi tutti, Tsunemoto è ancora un newbie), ma in molti casi uomini con rancori personali verso il capo ribelle.

In questo modo i nobili contano di certo di sfruttare gli interessi privati degli ufficiali, il tutto mantenendo sotto controllo la situazione.

E’ una tattica vecchia come il mondo. Hai una banda di facinorosi che minaccia il tuo potere? Mandagli contro un’altra banda di facinorosi che minaccia il tuo potere. Mal mal che vada se ne saranno ammazzati un po’ tra di loro, e per te è tutto di guadagnato.

Non è il caso per tutti. Ovvio che Sadamori aveva ragioni personali per voler far la guerra al cugino. Ma Hidesato?

Si potrebbe argomentare che lo zio di Hidesato era uno dei funzionari deposti da Masakado nella sua folgorante conquista dell’Est, ma pare una motivazione molto debole.

Nah, Hidesato è un bandito e un avventuriero. Ha fiutato ricompense ed è probabilmente per quelle che è arrivato. Dopotutto il nostro era già funzionario provinciale durante la conquista del Bandō e si era guardato bene dall’opporsi a Masakado.

Ora la faccenda è diversa: la Corte gli sta offrendo qualcosa in cambio dello sforzo.

Non che la partita fosse già decisa, eh. Quella di Hidesato è pur sempre una scommessa, niente gli assicura che l’esercito lealista uscirà vincitore da questa guerra. Anzi, il 26 arriva la notiziola che Masakado, alla testa di 13.000 guerrieri, sta andando a papparsi anche Mutsu e Dewa, le due provincie settentrionali. Non aiuta il fatto che uno dei fratelli di Masakado sia un personaggio importante nella regione, con legami stretti con i funzionari e le élites locali.

Il territorio controllato da Masakado all’apice della rivolta

Kawajiri sostiene che, con ogni probabilità, Masakado prese effettivamente il controllo anche di questa ultima regione.

E’ l’inizio del terzo anno dell’era Tengyō (940) e Masakado è de facto padrone di un terzo tondo dell’impero.

Come accennato nell’articolo precedente, il nostro non si era peritato di creare una struttura di potere originale, ma aveva piazzato dei fidi a tener la barca pari mentre lui si dedicava all’attività più importante di tutte: dare la caccia ai suoi cugini, Sadamori per primo. Alla testa di 5.000 uomini, il nostro passa Hitachi al colino per diritto e per rovescio, ma dopo 10 giorni gli infami parenti restano introvabili.

La caccia non è del tutto vana però: una banda incappa in un gruppo di fuggitivi sulle rive del lago Hiroma. Il gruppo viene braccato, catturato, malmenato e spulciato. E nel mucchio saltano fuori due donne. Sono la moglie di Sadamori e la vedova di Minamoto Tasuku (uno dei primi a prendere le armi contro Masakado, e uno dei primi a morire).

Essere donne, prigioniere di alto profilo e in mano alla soldataglia è una combinazione terribile, e le due sono subito aggredite, stuprate e pestate mentre un piantone corre ad avvertire i capibanda del fortunato ritrovamento.

I due si precipitano sul posto e sfilano le disgraziate dalle grinfie dei loro uomini. Sono ridotte male, ma sono ancora vive.

Ora, è importante sottolineare che in questa regione e in questo periodo la moglie di un uomo non diventava automaticamente membro della famiglia di lui. La linea materna aveva un’importanza pari (e talvolta superiore) a quella paterna: se una donna della famiglia X sposava un uomo della famiglia Y, lei restava comunque un membro della famiglia X. In certi casi era addirittura il genero ad essere “inglobato” nella famiglia della moglie.

In altre parole, Masakado è in guerra con Sadamori, non necessariamente con sua moglie, e lo stesso vale per la vedova di Tasuku. Peraltro, conto tenuto del clima da guerra civile, cercare conflitto con altri notabili locali non è necessariamente una buona idea.

I due capibanda intercedono per le due tizie, chiedono a Masakado che sia fatta loro la grazia di tornare a casa indisturbate. Masakado accetta e offre alle due dei doni in guisa di compensazione.

Non solo: stando allo Shōmonki, il nostro si perita anche di scrivere alla moglie di Sadamori per “sondare il suo cuore”.

La domanda viene formulata sotto forma di poesia:

Benché sia lontano, voglio chiedere al vento messaggero: dove risiede il fiore strappato dal suo ramo?

Il senso della poesie pare d’acchito chiedere notizie: dove andrai?

Anche se un secondo senso è facilmente indovinabile: che intenzioni hai?

La risposta di lei è molto più criptica:

Benché sia lontano, il profumo dei fiori si diffonde, e non mi sento sola.

Potrebbe essere un semplice ringraziamento, il “profumo dei fiori” potrebbe indicare la benevolenza di Masakado che l’ha salvata dalle mani dei guerrieri e le ha permesso di tornare a casa.

Potrebbe anche trattarsi di un velato avvertimento: ti ringrazio del tuo aiuto, ma sappi che non sono sola, non venirmi a cercare.

Non possiamo essere sicuri che queste poesie siano autentiche, ma per quel che sappiamo della struttura familiare della regione in questo periodo è probabile che Masakado abbia davvero cercato di conciliarsi la famiglia di lei.

Stupri a parte, la caccia di Masakado resta infruttuosa, e nel frattempo si è arrivati alla fine del primo mese, che nel nostro calendario corrisponde grosso modo al marzo del 940. E’ l’inizio della stagione agricola, e buona parte dei guerrieri sono anche contadini, allevatori o possiedono poderi e devono supervisionare i lavori.

Dobbiamo ricordare che il grosso dell’esercito è comunque formato da banrui, uomini che non hanno un legame personale con Masakado e lo seguono per timore o per profitto. Questa gente non è disposta a sacrificare il raccolto per il capo, e questo Masakado lo sa. A inizio primavera i banrui disertano, è una dura realtà dell’esistenza.

Il nostro decide quindi di scogliere l’esercito e se ne torna a casa con un migliaio di guerrieri.

Sadamori e Hidesato, intanto, non sono in Hitachi. Si sono acquattati in Shimotsuke con le loro bande di guerra (ovvia, soprattutto la banda di Hidesato e relativi alleati), in attesa di una buona occasione. E questa è una buona occasione.

A questo punto Sadamori e Hidesato hanno un decreto imperiale con la promessa di ricompense. Possono usarlo per levare truppe locali e convincere banrui riluttanti a correre dei rischi.

Ed è esattamente quel che fanno: in poco tempo, i nostri ammassano 4.000 uomini.

Masakado è popolare, ma un guerriero di questo periodo è fedele alla propria famiglia. Chi ha seguito Masakado mentre lui vinceva non ha nessun problema morale a cambiare partito ora che Hidesato è sceso in campo con una nutrita banda e un decreto.

La resa dei conti si avvicina.

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A questo punto della vicenda, qualsiasi cosa può capitare.

La Corte ha deciso di trattare con Sumitomo e non con Masakado probabilmente perché ha paura di Masakado. Sumitomo è un pirata, un mercenario, vuole soldi, vuole potere, vuole navi, ricchezze, tutte cose facili da capire e da cui la Corte si può, volendo, separare.

Ma Masakado?

Masakado ha preso un terzo del paese. Lascia intendere di voler trattare, ma vuol trattare davvero? Magari non vuole diventare Nuovo Imperatore, ma a questo punto potrebbe diventare Nuovo imperatore! E se tratti con lui, e ottieni il ritiro delle sue truppe e la restituzione delle provincie, chi ti assicura che al prossimo screzio con le autorità locali non ricapiti di nuovo?

Come puoi imporre la legge ad un uomo che ha dimostrato capacità del genere?

Non puoi. E pertanto non lo puoi tollerare. Anche se ha dato prova di buona volontà, anche se ha dato prova di voler trattare, anche se è un uomo di buonsenso che non ama la violenza gratuita (caratteristica rara tra i suoi pari). E’ un uomo che ha dimostrato di poter sfidare la Corte e vincere, e questo lo rende molto più pericoloso di una marmaglia di predoni piromani che mozzano nasi e bruciano villaggi.

Ovvio che con i se e con i ma la Storia non si fa, ma per quel che ho potuto imparare di Masakado, è probabile che, se la Corte avesse trattato e condannato Sadamori una volta per tutte, il nostro se ne sarebbe tornato a casa sua a fare l’allevatore. E’ quello che fa durante il primo interludio tra i disordini, e in generale l’impressione è che Masakado non avesse davvero l’ambizione di governare su un terzo di Honshū. Masakado era un uomo che amava la propria casa, la propria moglie e la propria pace di vivere.

Ironicamente, due degli uomini coinvolti nella repressione della rivolta saranno all’origine di lignaggi che finiranno per aggrapparsi alla Casa Imperiale come spire di convolvolo, fino a scalzarla dal potere esecutivo reale e a relegare il Figlio del Cielo in secondo piano.

Chissà, forse se Suzaku avesse trattato con Masakado, la Storia intera del Giappone sarebbe stata diversa.

Ma questo è materiale per un prossimo articolo. L’ultimo della saga!

MUSICA!


Puntate precedenti

Prima puntata

Seconda puntata

Terza puntata

Quarta puntata

Quinta puntata

Interludio

Sesta puntata

Settima puntata


Approfondimenti

Il pirata Sumitomo

Breve storia del sistema militare giapponese, dalle origini a Masakado

La banda di guerra


Bibliografia

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In lingua occidentale

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150° anniversario dell’inizio dell’era Meiji: una breve e superficiale introduzione

Quando parliamo di Giappone, una delle prime cose a cui la gente pensa sono i robot, seguiti dal porno tentacolare.

La terza cosa a cui pensa, però, è un vago coacervo di “antiche tradizioni”.

Il Sumo, il Judo, l’Ikebana, lo spirito di sacrificio e tutta quell’altra roba che offre tante citazioni fighe per la firma sui forum.

Va da sé, la realtà è sempre più complicata di quanto ci si aspetti di primo acchito.

Il Giappone non fa eccezione.

8° vista di Edo, Utagawa Hiroshige, 1797-1858

Il fatto è che molte delle cose che oggi riteniamo “un sacco tradizionali” sono il frutto di un lavoro immane, zelante, ma soprattutto recente. Ad esempio lo Shintoismo come religione di Stato. Lo Shintoismo di certo è la religione più antica in Giappone, no?

Sì. Ma si è presto mischiata al Buddismo. Lo Shintoismo in quanto fede separata, come viene percepito oggigiorno, nasce nel XIX° secolo.

In altre parole, ha la stessa età di Garibaldi.

E non è l’unico esempio. Pratiche particolari di una regione o specifiche a una certa classe sono state riprese, rielaborate, riplasmate ad arte in un brillante e gigantesco sforzo propagandistico di creazione nazionale.

In breve, a un certo punto il Giappone è stato costretto, baionette alle reni, a entrare nella modernità. Due opzioni si offrivano al “Regno dove il Sole nasce” (cit. Imperatrice Suiko): fare la fine della Cina, o diventare una Nazione.

Il 23 ottobre di 150 anni fa, il principe Mutsuhito inaugurò il proprio regno assumendo il nome di Meiji.

Il coraggio, il cinismo e l’intelligenza dimostrati dagli artigiani del nuovo regime sono straordinari, e personalmente non conosco esempi comparabili alla magnitudine di questa impresa. Questo periodo è tra i più interessanti nella Storia dell’Arcipelago, nel bene e nel male.

In occasione del centocinquantenario, ho voluto dedicare un breve capitolo introduttivo alla faccenda.

Si tratta di un’infarinata minima, quindi non aspettatevi una lista di 15 libri in bibliografia. Questo articolo non vuole essere un’analisi approfondita di questo incredibile momento storico, ma vuole dare gli strumenti minimi per apprezzare la ricorrenza.

E gli strumenti minimi per capire perché L’ultimo samurai fa schifo, ma questa è un’altra faccenda.

Tra gli splendori di Edo c’era anche l’allegra usanza del crocifiggere la gente.

Foto di Felice Beato

Il lento collasso del Bakufu

Con “Bakufu” (Governo della Tenda) si intende il regime militare che governa il Giappone (tra alti e bassi) a partire dal XII° secolo. Nella fattispecie, il Bakufu dei Tokugawa è una dittatura militare di stampo feudale che ha controllato il Giappone dagli inizi del XVII° secolo alla metà del XIX°. 260 anni e passa di governo dei samurai.

Per buona parte di questo periodo, i Tokugawa avevano optato per un rigido (ma non totale) isolazionismo. Avevano chiuso i porti e vietato ai propri sudditi di andarsene in giro, lasciando come unici partners stranieri Olanda, Cina e Corea.

Ci sono stati anche contatti saltuari con Russi, Inglesi, Americani e Francesi, tutta roba insignificante.

La faccenda funziona per un po’, ma tutte le cose belle hanno una fine: verso la metà del XIX° secolo la pressione dei Barbari del Sud (nanban, il simpatico nomignolo che i giapponesi avevano per gli occidentali) si fa più petulante e difficile da ignorare.

Notate che già ai tempi era impossibile per uno staterello isolano tenersi fuori dai giochi internazionali. Eppure certa gente pensa che ciò sia fattibile oggigiorno. Bah.

Ad ogni modo, gli Americani sono la testa d’ariete in questa faccenda. Aprendo i porti giapponesi sperano di potersi guadagnare un comodo scalo verso la Cina e un punto di rifornimento per i pescherecci che saccheggiano il Pacifico.

Questo nuovo interesse internazionale per i porti giapponesi casca in un brutto momento per il Regime. Lo shōgun è malato e senza eredi diretti. Questo pasticcio crea tensione tra il Consiglio degli Anziani (scelto tra i capi dei vassalli ereditari dei Tokugawa) e le varie famiglie con eredi putativi da spingere.

Non solo: una crisi economica latente rosicchia le casse di diversi feudi, un sovrannumero di guerrieri senza prospettive mina la stabilità della quiete pubblica e la scuola di Mito (feudo di uno dei pretendenti, Tokugawa Nariaki) sta ridiscutendo l’intero concetto di legittimità e origine del potere.

Insomma, ci manca soltanto che degli stranieri vengano a ficcanasa-E OH GUARDA, UNA NAVE DI UN BEL NERO ALLEGRIA.

La Nave Nera di Perry

E’ il 1853, e Perry porta una lettera da parte del Presidente, legata in punta a un cannone Paixhans. L’evento è una secchiata di benzina sul focolare della crisi politica.

Per dare un’idea del what the fuck are we even doing che si respirava nella capitale Edo in quei giorni, Francine Hérail cita l’estratto del diario di un funzionario del Bakufu.

La situazione interna del Bakufu è solo vuoto e contraddizione. Vogliamo abolire le regole del Bakufu. Non vogliamo rovinare il prestigio del Bakufu. Tra gli anziani non c’è nessuno che possa trattare con gli stranieri. I preparativi militari sono insufficienti. Nessuno ha il minimo ardore di battersi contro gli stranieri. Non vogliamo rovinare le istituzioni. Il Consiglio non riesce a prendere una decisione.

E mica è finita qui: 3 mesi dopo la simpatica visita di quel bell’uomo di Perry, i nostri si affacciano alla finestra e BAM, navi russe. Anche loro vogliono usare i porti.

Il Capo del Consiglio degli Anziani è Abe Masahiro, e non sa che pesci pigliare. A sua discolpa, è un momentaccio brutto.

Il nostro manda una lettera circolare ai daimyō, i feudatari: vuole suggerimenti su come trattare con gli stranieri, visto che, vi direte, nessuno è davvero così idiota da voler combattere cannoni a proiettili esplosivi con pallettoni di moschetto seicentesco.

Consideriamo però che i grandi vassalli sono a questo punto gente abituata fin dall’infanzia a dare ordini e a vederli eseguiti. Non che essere daimyō fosse particolarmente divertente, ma si tratta comunque di uomini abituati a vedere il resto delle persone scattare come lucertole a ogni comando. Non proprio la miglior base di partenza per chi vuole trattare con potenze più forti ed avanzate.

La risposta dei daimyō è quindi “aprire il Paese ai barbari è assolutamente IMPENSABILE”.

Da notare che Abe aveva fatto qualcosa di rivoluzionario, chiedendo l’opinione non solo dei vassalli diretti dei Tokugawa, ma anche dei daimyō esterni. Questa cosa mandò a fuoco le mutande di non poche vecchie mummie tradizionaliste.

Ci pensate? Per certuni questa misura era scandalo senza precedenti! Va da sé, ‘sta gente non aveva ancora visto niente.

L’arrivo di Perry, Kinuko Y. Craft (1940-)

Abe riceve due tipi di consiglio:

-Tokugawa Nariaki, del feudo di Mito e padre di uno degli eredi putativi, propone: “non possiamo accettare le loro condizioni, ma non possiamo vincere se ci attaccano, ergo la cosa più logica è combattere fino alla morte di ogni singolo sparuto samurai e far esplodere quello ce resta dell’Impero”.

-Ii Naosuke, del feudo di Hikone, propone la rivoluzionaria idea: “cerchiamo di guadagnare tempo, trattiamo, diamogli dei contentini finché non riusciamo a imparare come si fanno le navi quei cosi che sparano robe esplosive, e poi gli si fa un mazzo così!”

Questo presupponeva che gli occidentali fossero abbastanza stupidi da permettere al Giappone di imparare ed acquisire la nuova tecnologia.

Casca bene perché gli occidentali sono effettivamente così stupidi, e lo hanno provato a diverse riprese. Ma che ci vuoi fare, l’arroganza e il razzismo fanno sì che uno possa essere allo stesso tempo un genio tecnico e avere il cervello fermamente avvitato nel culo.

Ma sto divagando.

Nel 1854 il Bakufu firma la Convenzione di Kanagawa, in cui si stabiliscono tre punti principali:

  • Le navi straniere potranno ricevere combustibile (steampower bitches!)

  • I porti di Shimoda in Izu e Hakodate in Ezo (Hokkaido) saranno aperti

  • Le navi in difficoltà che capitano nei paraggi saranno soccorse.

Il tutto col (comprensibile) piano di “impariamo le navi e le cose che fanno BUM, e ributtiamo a mare tutta questa marmaglia palliduccia”.

Tutto bene ciò che finisce bene, vero?

Falso. Il lieto fine è solo il coitus interruptus del casino e viceversa, in un infinito circolo di sollievo e zappate sui piedi.

Mentre il Bakufu lavora per superare la crisi politica, gli occidentali spingono per concessioni più generose. In particolare, il console americano cerca di mettere a punto un trattato col Giappone che tagli fuori l’Inghilterra. Riesce anche a trovare delle orecchie simpatetiche nel Bakufu, specie dopo l’incidente di Arrow, in cui gli Inglesi avevano cannoneggiato Canton.

Tutto procede benone quindi, i Demoni Bianchi mettono insieme un bel trattatello, decidono di presentarlo al…

Già, a chi?

I nostri hanno dimenticato un piccolissimo dettaglio: chi comanda, l’Imperatore o lo shōgun?

Whoopsie daisy!

Gli stolti non sapevano che i veri signori erano (e sono tutt’ora) i gattini.
Utagawa Kuniyoshi (1796-1861)

Da bravi occidentali, ai nostri non era passato manco per l’anticamera del cervello che i giapponesi potessero avere un sistema radicalmente differente dal loro.

La cosa viene sfruttata subito dal Bakfu che, ricordiamocelo, vuole prender tempo per poter poi picchiare gli stranieri con le loro stesse armi.

Di conseguenza, quando il progetto di trattato viene messo a punto, il Bakufu dice “sì, molto carino, ora però lo deve firmare il Figlio del Cielo”.

Il nuovo capo del Consiglio degli Anziani, Hotta Masayoshi, si risolve ad andare a Kyoto nel 1858, ma se il Bakufu ha guadagnato tempo, lo stesso tempo è stato guadagnato anche dai daimyō esterni, fino ad ora tagliati fuori dalla grande politica.

Per costoro, gli stranieri sono un ottimo pretesto per schierarsi contro Hotta, il Consiglio e il Bakufu in generale. Un pretesto da solo non basta però, ci vuole una qualche forma di legittimazione.

E guarda te le coincidenze, a Kyoto c’è un’intera Corte di aristocratici civili infognati lì e tagliati fuori dall’esercizio del potere. Aristocratici che teoricamente detengono l’autorità, ma che di fatto non contano quasi nulla e che da generazioni sognano i bei tempi andati di quando erano loro a comandare.

Quando Hotta arriva a Kyoto, molti di costoro hanno adottato la causa xenofoba e anti-Bakufu dei daimyō esterni, e le trattative sono un fiasco. Hotta si dimette in disgrazia e smolla il posto a Ii Naosuke, che riesce a firmare un accordo di amicizia e commercio con gli yankees.

La faccenda prevede:

  • Scambio di rappresentanti diplomatici tra il Giappone e gli Stati uniti

  • Apertura progressiva dei porti di Nagasaki (in Kyushu), Yokohama e Niigata

  • Libertà di commercio

  • Numerose e mortalmente noiose clausole su diritti di dogana ed extraterritorialità.

Accordi simili furono firmati lo stesso anno con Inglesi, Francesi, Russi e Olandesi.

Tutto è bene ciò che finisce bene, no?

No.

Si sa come funzionano le cose: agli occidentali gli dai un dito e ti strappano il braccio alla spalla per spolparselo a piene ganasce.

Appena 4 anni dopo, l’Inghilterra, secondo la sua antica e rispettabile tradizione di bullismo e prevaricazione, costringe il Bakufu a rivedere i trattati rinunciando al diritto di fissare le regole doganali. Sono i famigerati “trattati ineguali”.

Sul momento, questi trattati divennero il perfetto casus belli per la politica interna.

Dovete immaginare una massa di guerrieri di basso rango incazzati come calabroni all’idea di essere bulleggiati dalle scimmie bianche per il solo fatto che le scimmie bianche hanno cannoni più grossi. Non è giusto, ecco!

Manco a farlo apposta, questa storia catalizza malcontenti e frustrazioni soggiacenti.

Sia chiaro, a ‘sto punto i daimyō hanno tutti più o meno ingollato l’idea che, per il momento almeno, i barbari bisognava cuccarseli. Questo però non impedisce loro di usare i trattati ineguali per delegittimare il Bakufu.

E anche a ragione! Per due secoli e mezzo hai tenuto il Paese con pugno di ferro perché “noi siamo il Governo della Tenda, noi siamo la dittatura militare, bada come siamo tosti”, e appena arrivano quattro scimmioni con le barche nere cali le braghe?

E’ dura da accettare.

E in tutto ciò, ricordiamocelo, ancora non è stato scelto un successore per lo shōgun!

Prodromi di guerra civile

Ora, secondo Hérail si possono individuare grosso modo due partiti dietro ai due eredi putativi.

  • Il partito di Mito, che sosteneva la candidatura del figlio di Nariaki, Yoshinobu. Il partito era costituito in particolare da daimyō esterni che volevano spingere l’evoluzione del governo verso una federazione di feudi sotto un consiglio interno dei vassalli ereditari.
  • Il partito conservatore, che sosteneva Iemochi dei Tokugawa di Kii ed era costituito dai vassalli ereditari.

Il Boia, Felice Beato

Il partito conservatore vince, e Ii Naosuke lancia il Ripulisti dell’Era Ansei, una campagna di epurazione politica volta ad impedire ai daimyō di allearsi tra loro e immischiarsi con le faccende di Corte. Gente arrestata, gente esiliata, gente decapitata o costretta a sbudellarsi, insomma ci siamo capiti.

Tra i condannati a morte figura tale Yoshida Shōin, guerriero del feudo di Chōshū, alleato della Corte Imperiale e considerato nemico del Bakufu. Prima di stirare le zampe, Shōin aveva ispirato e influenzato un congruo numero di rampolli dell’aristocrazia guerriera del feudo. E sai qual’è una buona idea quando hai un carismatico maestro che ti attizza giovani facinorosi? Renderlo un martire.

Manco a dirlo, la repressione dell’era Ansei provocò un certo qual malcontento verso il Bakufu, ormai visto come corrotto regime a letto con gli stranieri.

Sono i prodromi della guerra civile, l’alba del grido di battaglia sonno jōi, “onorare l’Imperatore, espellere i barbari”!

Facinorosi all’opera.
Foto di Felice Beato

Sia chiaro: non si tratta di mere reazioni isteriche da parte di xenofobi con una scopa in culo. C’erano innumerevoli problemi con l’apertura dei rapporti, dal cambio dell’oro al lievitare del prezzi alla fuga di mercanti, tutta roba di cui magari parleremo in altra sede.

Ora come ora voglio concentrarmi sul travaglio politico.

E a proposito di travaglio politico, Ii Naosuke viene assassinato nel 1860.

Gli succede Andō Nobumasa, che cerca di accalappiarsi la Corte proponendo un matrimonio tra una principessa imperiale e il giovane shōgun, il quattordicenne Iemochi.

L’Imperatore dell’epoca non ce l’ha particolarmente col Bakufu, ma il suo entourage è zeppo di aristocratici che non vedono l’ora di scardinare la dittatura militare e restaurare il potere della Corte come nel magico periodo di Heian. Per costoro, l’occasione è perfetta per minare la credibilità del Bakufu.

Accettano quindi il matrimonio, a patto che il Bakufu butti fuori i barbari e si rimangi i trattati. E così Andō si ritrova preso tra gli aristocratici da una parte e gli occidentali da quell’altra.

Vedi, se avessero ghigliottinato tutti i nobili quando ne avevano la possibilità, non si sarebbe posto il problema. O forse sì.

Ma sto divagando!

Andō è in una brutta situazione, ma non per molto, visto che nel 1862 si ritira a seguito di un increscioso incontro ravvicinato con una coltellata (cortesia di sei scalmanati di Mito). Sono i rischi della politica quando la politica è fatta bene.

Il giovane Iemochi. Sapete di cosa ha bisogno una dittatura in grave crisi? Di generalissimi quattordicenni!

Non è possibile trattare coi barbari se il partito pro-aristocrazia continua a minare la credibilità shogunale. Dopo l’attentato contro Andō, Shimazu Hisamitsu del feudo di Satsuma marcia su Kyoto, perché mobbastaveramenteperò.

Butta fuori a pedate tutti i partigiani più scalmanati della restaurazione (torneranno poco dopo) e si fa nominare dalla Corte consigliere ufficiale presso il Bakufu per portare avanti una sobria ma seria modifica del regime. Questa corrente riformista è chiamata “Alleanza tra Corte e Guerrieri”, kōbu gattai, altresì detta volemosebbene.

Come prima cosa viene creato un tutore per quel moccioso dello shōgun.

Siccome ci vuole una scelta politicamente savvy m anche deliziosamente ironica, il ruolo viene dato a Yoshinobu. Che era l’altro erede putativo. Evviva!

A questo punto abbiamo quindi, in grosso, 3 partiti:

  • I lealisti del Bakufu a Edo

  • I lealisti dell’Imperatore a Kyōto

  • I grandi daimyō che cercano di mediare ed evitare una guerra civile

E in tutto ciò i rapporti con i barbari sono usati senza alcuno scrupolo nella politica interna.

Una complessa , delicata e sfaccettata problematica riguardante degli stranieri che viene appiattita e sfacciatamente usata per propaganda interna, dov’è che l’ho già sentita? Hummm….

Guarda te i casi della vita, la xenofobia è un sentimento tanto più totalizzante in quella cospicua massa di guerrieri senza feudo, rendita o lavoro. Gente educata fin dalla nascita ad essere facinorosa e tosta, a sentirsi migliore e orgogliosa del proprio status, e che ora si trova senza prospettive, senza speranza e senza scopo.

Costoro sgrondano a Kyōto, alla ricerca di un qualche vago sentimento di identità e ragion d’essere, e se la prendono coi demoni bianchi, e se la prendono col Bakufu che amoreggia coi demoni bianchi, scordandosi che il Bakufu ha davvero poca scelta e che i demoni bianchi sono sì figli di puttana ma non sono la causa principale della crisi economica, dell’alienamento o della sclerosi del regime.

Sono sentimenti del genere che portano ad incidenti celebri come quello di Namamugi, dove degli inglesi vengono attaccati dalla scorta di un daimyō.

Nel 1863, Yoshinobu e il baby-shōgun accettano in principio di scacciare i barbari. Più una dichiarazione di intenti che altro, dacché, ricordiamocelo, militarmente i giapponesi contro gli occidentali hanno le stesse probabilità di un bambino di cinque anni contro il Predator.

Ma questo sfugge alla gente del feudo di Chōshū. Ve li ricordate? Sono quelli a cui il Bakufu ha martirizzato il maestro.

Costoro vengono a sapere della decisione di Kyōto, e con l’ottuso zelo di un doganiere svizzero cannoneggiano le barche che passano nello stretto di Shimonoseki.

Mappa dei luogi nominati. Hakodate non si vede perché è in Hokkaido (ovvero in culo agli orsi)

Sulle navi occidentali la gente si sorprende.

-Qualcuno ha scorreggiato?

-No, mi sa che era un petardo o qualcosa così.

-No, è un pilloro partito da quel fortino lì.

-Fortino? Non è il museo della Marina?

-No, guarda, ci hanno sparato di nuovo.

Manco a dirlo, gli occidentali spianano le batterie costiere di Chōshū. Poco dopo gli Inglesi mettono i puntini sulle i bombardando Kagoshima. Nel caso qualcuno si fosse scordato di Namamugi.

A parte i disgraziati di Kagoshima e la signora Kyoko che coltivava zagare sulle coste di Chōshū, il vero sconfitto della Battaglia di Shimonoseki è il Bakufu, che ha perso totalmente la faccia: non è più capace di controllare la situazione, non è più un interlocutore degno di quel minimo rispetto che gli occidentali erano disposti a riservare a dei non-bianchi.

E come al solito, quando cominci a puzzare di debolezza, i cani si avventano. Gli Inglesi si buttano a coltivare relazioni con la Corte e i feudi del sud a scapito del Bakufu, mentre i Francesi si accalapiano il regime di Edo.

Ma intanto che fa il partito conservatore, quello del “cerchiamo di fare fronte unito, cazzo di maniaci, che questi sennò ce se magnano”?

Per prima cosa, cerca di montare una spedizione punitiva contro Chōshū e di impadronirsi della guardia imperiale.

I capi di Chōshū decidono che, spetta, questo merdone sta per scoppiarci in faccia, cerchiamo di metterci una pezza e sottomettiamoci.

Oh beh, troppo tardi: gli intransigenti fanno un colpo di stato. Sotto la nuova élite, Chōshū si allea con Satsuma, dove pure c’è stato un ricambio di classe dirigente, ora costituita da guerrieri di medio rango.

Long story short, nel 1866 Chōshū respinge le truppe shogunali.

Nel frattempo Yoshinobu era riuscito a diventare shōgun. Gioia di breve durata. C’è ormai una guerra civile in sordina, il Bakufu si sta sgretolando, i barbari sono al confine che si leccano i baffi.

Occorre cambiare qualcosa, qualcosa di grosso, e subito.

Viene ritirata fuori dal cilindro l’idea di un gran consiglio di daimyō, a cui Yoshinobu parteciperebbe non come shōgun, ma come grande feudatario. In cambio, Yoshinobu deve semplicemente rinunciare al titolo di Generalissimo e mettere fine a un regime vecchio di 200 anni.

Ma le grane volano sempre a squadriglie, e a fine gennaio del 1868 l’Imperatore muore. E’ un terremoto politico. I guerrieri di Chōshū e Satsuma s’impossessano del palazzo e catapultano il giovanissimo Principe Mutsuhito al centro della scena politica. E’ l’inizio della sanguinosa Guerra di Boshin.

Il 23 ottobre Mutsuhito assume ufficialmente il nome di Meiji. Il Bakufu viene dichiarato illegittimo e i feudi di Yoshinobu sono requisiti. In novembre, Yoshinobu abdica al Castello di Edo.

Al Castello lo shogunato Tokugawa era nato, ed al Castello muore.

Yoshinobu rinuncia al titolo

260 anni e passa di dittatura ininterrotta, quindici generazioni di generalissimi, stroncati da un principe di sedici anni appena. Perché siamo in Giappone, e la Rivoluzione qui la fa l’Imperatore.

Le dimissioni di Yoshinobu non mettono fine alla guerra. Dopo due secoli di pax Tokugawa, il Paese doveva sanguinare.

Tutte le guerre sono crudeli, ma c’è un posto speciale nel Panteon dell’Orrore per le guerre civili. E questa qui non fa eccezione.

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I’m here to chew bubblegum and save the Empire. E se per farlo devo scimmiottare i Barbari del Sud, così sia.

Per quanto romanzesca sia l’immagine del principe adolescente che riconquista il proprio posto alla testa del Paese, non fu Meiji in persona a salvare il Giappone. La grandezza di Meiji fu di sapersi circondare di gente capace, saper ascoltare e saper rinunciare al proprio orgoglio per il bene del regno.

La Restaurazione Meiji è un periodo di storia brutale, fatto di rinunce, violenza, persecuzione politica e religiosa. E’ in questo periodo che vengono piantati i semi di ciò che sarà un giorno il fascismo giapponese, ovvero la balorda ideologia che portò l’Impero alla sconfitta e all’umiliazione.

Ma quanta scelta avevano i ministri e i loro collaboratori nel 1868?

Quasi un secolo dopo, Golda Meir dichiarò che era pronta a comprare armi agli odiati francesi, “anche se il loro leader fosse il demonio in persona”, pur di armare i propri soldati. Meiji e i suoi ministri erano altrettanto pronti a vendere l’anima se questo significava salvare l’Impero dalle mire fameliche delle potenza occidentali.

In 40 anni scarsi il Giappone passò da un mucchio di feudi che si trastullavano con archi e moschetti a una potenza marittima e militare capace dei sconfiggere i Russi. Con tutto il male e il dolore che la Restaurazione portò con sé, è difficile non ammirare la determinazione e l’ingegno degli architetti del nuovo regime.

Importarono il nazionalismo per salvarsi, e decenni dopo il nazionalismo fu una delle cause della rovina del Paese. Come detto su, la Storia è un ciclo infinito di sollievo e zappate sui piedi, e le soluzioni dei problemi di oggi sono spesso la causa dei problemi di domani.

MUSICA!


Bibliografia

Hérail francine, Histoire du Japon, POF, 1986

Nishiyama Matsunosuke, Edo Culture : daily life and diversions in Urban Japan, University of Hawai’i Press, 1997

Souyri Pierre-François, Nouvelle Histoire du Japon, Parrin, 2010

A pagare e a morire: brevi cenni sul sistema fiscale sotto i Codici

E’ il VII° secolo, il Giappone si trova tagliato fuori dalla Penisola Coreana e confrontato con una nuova dinastia cinese aggressiva e organizzata: i Tang.

E’ un secolo di grandi lavori e grande innovazione, di cui abbiamo già parlato in diversi articoli. Per chi si fosse perso le puntate precedenti: i nostri amici isolani si trovano a dover modernizzare il loro governo in fretta e furia onde non finire come sfigati satelliti di paesi più avanzati.

Non sarà l’ultima volta che capita.

Imperatori giapponesi: ogni 10-15 secoli si svegliano e modernizzano il Paese a pedatoni nel didietro

E’ il 645 quando iniziano i lavori per la grande riforma dell’era Taika. Le più brillanti menti dell’Arcipelago si riuniscono per trasformare un coacervo di staterelli, tribù e territori contesi in un Impero come dio comanda.

Una delle priorità pressanti era stabilire un governo burocratico passabile. Ora, la cosa che ai burocrati riesce meglio è magnare. Uffici, segretari, impiegati, tutto il circo ha bisogno di risorse. Tante risorse: il Governo Centrale arrivò a contare anche 50.000 funzionari!

Un nuovo sistema di tasse si imponeva, ed è questo nuovo sistema che compare nei Codici, il corpus di leggi pubblicato nel 701.

Lo studio di queste leggi e regolamenti è una forca caudina a cui nessuno storiografo sfugge, e quindi mi son detta: perché soffrire da sola? Come Sadako in RIngu, posso diffondere l’orrore!

Se vi cascano le palle alla sola idea della dichiarazione dei redditi, rallegratevi: oggi si parla di fisco!

Nazionalizzando i mezzi di produzione, il sistema dell’handen (班田)

Il primo passo per spintonare il povero glebano isolano dal vecchio sistema basato sui clan al nuovo concetto di suddito imperiale, è appropriarsi dei mezzi di produzione, ovvero la terra coltivabile. Se vuoi gente nuova, devi forgiare un nuovo sistema economico.

Coi Codici, la Corte si arroga il monopolio delle risaie, e con esso il privilegio di concedere il diritto di sfruttamento.

L’oggetto del contendere qui non è proprio la proprietà della terra, quanto il diritto d’uso delle particelle.

La Corte fa quindi manbassa di tutte le risaie del Paese, che sono divise in unità di superficie. L’unità base del nuovo sistema è il chō (), che misura grosso modo un ettaro (12.960 mq). Il chō è a sua volta suddiviso in 10 tan ().

A seconda del proprio status e della propria funzione, ogni suddito riceve il suo bel pacchetto di diritti di sfruttamento con correlato fardello fiscale, ma andiamo con ordine!

Il secondo passo, dopo l’appropriazione dei mezzi di produzione, è la riorganizzazione della popolazione.

I sudditi degli Yamato vengono tolti ai clan per essere ripettinati in un sistema che li suddivide in diverse categorie fiscali. La massa della plebe si divide per cominciare in liberi (ryōmin, 良民) e non-liberi (nuhi, 奴婢).

I liberi si dividono di nuovo in uomini e donne. Solo gli uomini sono imponibili, perché certuni se ne scordano ma i sistemi patriarcali sono una pena nel culo anche per la maggioranza dei maschietti.

Gli uomini sono divisi in base all’età:

  • I bambini: tra i 3 e i 6 anni (prima dei 3 manco contavi come essere umano).

  • I ragazzi: tra i 16 e i 21 anni.

  • I giovani: tra i 20 e i 21 anni.

  • Gli uomini validi: tra i 21 e i 61 anni, erano quelli a sopportare il grosso del fardello fiscale.

  • Gli uomini maturi: tra i 61 e i 69 anni.

  • Gli anziani: dai 69 anni in su.

Tra costoro ci sono gli uomini soggetti a tasse e corvées, chiamati seitei (正丁), e quelli troppo vecchi, troppo giovani o troppo malati per poter essere sfrusfttati strizzati imponibili e che beneficiano quindi di sgravi più o meno grandi (jitei, 次丁).

A seconda del sesso e del conseguente carico fiscale, a ogni suddito viene concesso il diritto di sfruttamento di un certo numero di lotti di risaie.

A partire dai 6 anni, i bambini maschi ricevono 2 tan di risaie (2.592 mq), mentre le bambine hanno diritto a 2/3 di questa superficie (1.728 mq), perché nei sistemi patriarcali le femminucce non sono esseri umani alla stregua dei maschietti.

Anche i servi sono tenuti di conto: hanno ancora meno delle bambine, circa 864 mq.

Per avere un’idea, la superficie data ai maschi era considerata quella minima necessaria per produrre abbastanza da mantenere un uomo per un anno.

Come vedremo, i maschi adulti erano oberati da un’infinità di tasse accessorie e servizi, quindi non bisogna immaginare che ognuno potesse campare della propria risaia di Stato e basta. La verità è che senza un nucleo familiare (moglie, sorelle, bambini, genitori, parenti, ecc.) pronto a coltivare la terra di Stato quando necessario, a portare avanti i campi asciutti, o a organizzare una qualche altra attività economica di contorno, un uomo non poteva sopravvivere del proprio lavoro sul lotto a lui assegnato. Nel Giappone classico, un uomo da solo muore.

Queste risaie assegnate dallo Stato ai sudditi erano chiamate kubunden (口分田), “risaie pro-capite”.

Oltre a queste, un individuo poteva ricevere ulteriori appezzamenti. Un uomo poteva, ad esempio, vedersi attribuire come ricompensa un lotto aggiuntivo per il resto della vita (shiden, 私田, questi caratteri possono significare cose diverse a seconda il contesto). Se un uomo aveva una funzione, gli erano inoltre attribuite delle “risaie di funzione” (shikiden, 職田) la cui rendita fungeva da stipendio.

Infine, una provincia poteva ritrovarsi con “risaie in eccesso” (konden, 墾田), o “risaie non attribuite”, che erano assegnate dalle autorità locali a un contribuente in cambio di una quota del prodotto.

Nella teoria, la popolazione, le varie tipologie di risaie e i lotti assegnati erano tutti pedissequamente annotati in appositi registri e le distribuzioni venivano aggiornate ogni 6 anni.

Cela va sans dire, questa cosa dei registri non ha mai funzionato a dovere.

Sia chiaro, al di là di quanto questo sistema abbia funzionato nella propria forma originale (poco), in certe regioni si diffuse con grande ritardo, tipo due secoli di ritardo. In altre invece fu una faccenda rapida, come in quel di Kibi, sul Mare Interno, dove abbiamo trovato tracce archeologiche della divisione delle risaie in tan. L’applicazione dei Codici non è mai uniforme sul territorio.

Ovvio, tutta ‘sta faccenda deve aver richiesto sforzi titanici di riorganizzazione e razionalizzazione delle superfici agricole.

Secondo Hall, è molto probabile che il sistema di lottizzazione non fosse proprio una novità, ma fosse già impiegato prima del 646 almeno in parte del Paese. Plus, in questo periodo non esiste ancora un vero e proprio concetto di “proprietà privata” (che, con buona pace di certa destra economica, è un costrutto culturale) relativo alla risaia: la risaia è un bene della comunità, sia che la comunità sia il clan, sia che la comunità sia il Governo.

Per lo Stato (che non aveva un’economia monetaria), una standardizzazione delle coltivazioni era necessaria per poter elaborare un sistema fiscale che fosse almeno lontanamente equo.

Sempre secondo Hall, è probabile che questa riforma sia stata in origine appoggiata da una buona fetta della popolazione. Tanto per cominciare la cosa riguardava solo le risaie umide (lasciando le terre asciutte, gli orti e lo sfruttamento delle foreste al di fuori del sistema fiscale), e in secondo luogo forniva un qualche tipo di protezione dei diritti di sfruttamento.

Questi vantaggi sono presto stati superati dai difetti: il carico fiscale e le corvée civili e militari richieste ai sudditi erano immani.

Questo perché il focus del sistema fiscale della Riforma non era davvero la terra, ma la forza lavoro. Quello che lo Stato voleva non era una rendita, ma il monopolio sull’individuo.

Ogni dannato chicco di riso, ogni dannata goccia di sudore

Contabile perde la salute calcolando calcolanda.

Sì, nel periodo Nara i giapponesi avevano sedie. Non so perché abbiano deciso di dismetterle. Ho il sospetto che l’abbiano fatto per far soffrire me in particolare.

L’abito disfatto è ispirato all’abito del contabile che interviene nel litigio tra i bambini nel Ban dainagon ekotoba.

L’uomo libero doveva allo Stato 4 tipi di contribuzione:

(), tassa in riso sulle risaie attribuite ai sudditi

Chō (調), tassa individuale in prodotti vari (importati e assortiti)

, (), corvée, che poteva essere soddisfatta pagando un pizzo (il pizzo si chiamava pure , )

Heishi-yaku (兵士役), servizio militare

Abbiamo già accennato alla leva e ai reggimenti provinciali nell’articolo sul sistema militare, quindi ci limiteremo a dire che ogni uomo doveva servizio alla provincia, 1 anno di servizio alla Capitale e 3 anni alla frontiera.

Quanto al resto, con ordine:

La tassa constava in origine di una percentuale relativamente bassa della produzione delle kubunden: da 3% al 5%.

La quota aumentò col tempo e fu aggravata da una nuova diavoleria: il prestito coatto in riso, suiko (出挙), a interesse. In pratica il glebano era costretto a prendere in prestito semi dall’autorità provinciale e rendere con interesse il debito dopo il raccolto. In altre parole era un modo per costringere il contribuente a coltivare i semi pubblici in cambio di molto poco.

Le corvées richiedevano 10 giorni l’anno di sevizio alla Capitale e 60 giorni l’anno di servizio alla capitale provinciale. I coscritti di corvée erano a disposizione per qualsiasi lavoro fosse necessario: scavare nuovi canali, cuocere tegole, costruire città… qualsiasi cosa!

A chiosa, ricordiamo che a questo stadio non esistono capitali fisse: in toeria, alla morte dell’Imperatore si sbaracca tutto e ci si sposta un po’ più in là. Perché la domanda che spinge avanti la Storia non è mai “perché?” ma “perché no?”.

La corvée era commutabile in tessuti. Del tessuto di canapa poteva sfangarti il servizio alla provincia, ma per il servizio alla Capitale un uomo doveva sborsare 26 shaku di seta (ovvero una pezza lunga 7m70 e larga 65cm). Per farsi un’idea al cambio attuale di quanto una pezza del genere potesse costare, basti sapere che sul mercato dell’epoca era considerata l’equivalente di 30 giorni di lavoro.

Ovviamente non tutti sono tenuti a fornire corvées.

Sono esentati:

  • i funzionari provinciali di terza classe (主政)

  • gli assistenti provinciali (主帳)

  • i membri del reggimento provinciale da soldato semplice a colonnello (大毅)

  • i capi archivisti dei pascoli di stato (長帳)

  • gli impiegati del servizio di posta (駅子)

  • gli uomini dei fuochi di segnalazione (烽子)

  • i dottori dell’Ufficio degli Studi Superiori

  • i medici

  • gli studenti

  • le persone di più di 80 anni (侍丁)

  • i capi-villaggio (里長)

  • i portatori di tributi (貢人)

  • gli uomini con un rango-ricompensa (勲位) fino al 9°

  • gli uomini con il rango di Corte iniziale (初位)

  • gli infermi

Sono pure esentati dalle corvées aggiuntive (雑徭)

  • i capi di circoscrizione urbana (坊長)

  • gli stimatori che lavorano all’Ufficio dei Magazzii di Corte (内蔵寮), del Dipartimento del Tesoro (大蔵省) e del Bureau del Mercato (市司).

Le corvées sono un gran fardello sull’uomo giapponese, ma la vera chicca sono i tributi in prodotti vari, chō.

Il primo articolo del capitolo sui tributi (賦役) elenca l’infinita lista:

Per ciò che riguarda i tessuti, ogni uomo adulto pienamente imponibile deve fornire:

  • 8 shaku e 5 sun di pongée di seta (2m52 x 65cm)

  • 8 shaku e 5 sun di tessuto di seta (2m52 x 65cm)

  • 6 shaku e 5 sun di seta della provincia di Mino (1m92 X 65cm)

  • 8 ryō di filo (111gr)

  • 1 kin di borra di seta (222gr)

  • 2  e 6 shaku di pezza di canapa (7m70 x 65cm)

  • ¼ di 1 tan di seta tessuta nel distretto di Mōda nella provincia di Kazusa (3m85 x 71cm)

Ognuno deve anche fornire una quantità ridicola di “prodotti importati” (雑物輸)

  • 10 kin di acciaio (2,22Kg)

  • 3 ferri di zappa (2Kg di ferro in totale)

  • 3 to di sale (7,2 l)

  • Circa 17Kg di molluschi (lunga dettagliata lista che vi risparmio)

  • Circa 82 l di molluschi (perché questi sono misurati a volume e non a peso? Ma che ne so…)

  • Circa 31Kg di pesci assortiti, essiccati e non.

  • Circa 30 l di pesci assortiti essiccati e non (vedi su)

  • Circa 208Kg di alghe assortite

  • 24 l di alghe che vanno misurate in volume per qualche ragione.

  • 14,4Kg di carni essiccate con ossa e tutto

  • Circa 58 l di erbe

  • 14,4 l di molluschi con conchiglia

  • Più 22 Kg di qualcosa di cui non sono riuscita a trovare il segno in nessun dizionario fino ad ora (vi terrò informati che so che ci tenete).

Di tutta questa roba, gli uomini parzialmente esentati (jitei) pagavano la metà e i ragazzi un quarto. Nella versione Yōrō i ragazzi pagavano un contributo in prodotti agricoli ed erano esentati dai prodotti importati.

Ma hey, mica finisce qui!

Per i fortunati contribuenti c’era anche una tassa in prodotti supplementari (調副物):

  • Circa 193gr di pigmenti

  • Circa 4,33Kg di prodotti vegetali

  • Circa 2,26 l di altri prodotti vegetali, ma calcolati in volumi

  • 280ml di wasabi

  • 6 fogli di carta (60cmx30cm)

  • 22ml di lacca

  • 222gr di cotone di varia provenienza

  • 0,24 l di sale (sì, di nuovo)

  • 0,96 l di prodotti animali assortiti

  • 1 paio di corna di cervo

  • 1 mola

E non è ancora finita!

  • 2 adulti devono fornire 1 stuoia in paglia di riso

  • 3 adulti devono fornire 1 stuoia in paglia

  • 14 adulti devono fornire 1 barile dalla capienza di circa 7 l

  • 20 adulti devono fornire 1 barile dalla capienza di circa 10 l

  • 35 adulti devono fornire 1 barile della capienza di circa 12 l

Non tutti erano soggetti alla “tassa in prodotti”. A sfangarsela erano

  • i toneri (舎人, uomini del seguito, termine che copriva una vasta gamma di funzionari subalterni, civili e militari)

  • i commessi alle scritture (史主)

  • i Tomobe (伴部, discendenti degli antichi vassalli del re di Wa che servivano nelle provincie o come supervisori degli atelier di artigiani)

  • le Guardie dei Gendarmi (兵衛府)

  • le Guardie della Cinta (衛士府)

  • gli uomini che già prestavano corvée alla Capitale (仕丁)

  • gli uomini in servizio alla frontiera meridionale (防人)

  • gli ufficiali in servizio alla Capitale (長内)

  • gli uomini di servizio nelle case degli alti dignitari (資丁)

  • gli assistenti personali annuali (事力)

  • i capistazione delle stazioni di posta (駅長)

  • i responsabili dei fuochi di segnalazione (烽長)

  • gli uomini con un rango di corte o con un rango-ricompensa uguale o superiore all’8°

  • i custodi delle tombe imperiali (陸戸)

  • i lavoratori subalterni (雑戸)

  • i lavoratori liberi impiegati dal Governo (品戸)

<br/><a href="https://i0.wp.com/oi64.tinypic.com/20pc9io.jpg" target="_blank">View Raw Image</a>Tomba imperiale (ne abbiamo parlato qui)

Il carico, tra le tasse, i prodotti, le corvées e il servizio militare, era enorme.

La gente disertava i propri villaggi mettendosi al servizio di privati in grado di difenderli. I funzionari consegnavano tributi danneggiati o incompleti e poi fuggivano dalla Capitale prima che i contabili potessero verificare i carichi. Disertori del servizio militare si davano al brigantaggio. Funzionari provinciali dichiaravano il falso o maneggiavano i registri per poter evadere le tesse. Cani e gatti vivenao insieme, ISTERISMO DI MASSA!

Ok, no, sto scherzando. Il sistema non è mai stato applicato in modo coscienzioso e non ha mai funzionato a dovere, ma non è collassato su se stesso come ci si potrebbe aspettare.

I burocrati si attivarono da subito per cercare di rattoppare le falle.

Già pochi decenni dopo la promulgazione, il sistema fiscale viene infatti modificato: le tasse vengono pagate sempre più in tessuti e riso, le corvées vengono ridotte e il servizio militare viene gradualmente abolito in gran parte del Paese.

Gli aggiustamenti e le correzioni sono rallentati da un rosario infinito di crisi di governo, scazzi alla frontiera e tentati colpi di stato (di cui parleremo con calma in articoli specifici).

Nonotante gli ostacoli e gli intoppi, verso la fine dell’VIII° secolo il servizio militare rimane solo in certe regioni nevralgiche ed è per il resto riservato a volontari presi di preferenza nella piccola aristocrazia provinciale o tra i cadetti della medio-bassa nobiltà. Non solo: ci furono vari tentativi, nel corso della seconda metà dell’VIII° secolo, di correggere il tiro, ridurre le sinecura, adottare un sistema di ridistribuzione un minimo più equo.

Niente di questo bastò a salvare l’ideale di Stato moderno e burocratizzato.

La ricchezza ha un tropismo verso l’1%, come è noto, e il Giappone Classico non fa eccezione. Nell’arco del secolo si costituirono latifondi privati, chiamati shōen, posseduti dall’alta aristocrazia. E tanta salute al monopolio dei mezzi di produzione da parte dello Stato.

Lo shōen è spesso citato come elemento indicativo del progressivo confondersi delle sfere pubblica e privata. L’accentramento del potere economico, l’assenza di una vera e propria ridistribuzione, come anche di una vera e propria burocrazia meritocratica, portano alla privatizzazione delle funzioni pubbliche. In altre parole, la funzione viene svuotata del proprio significato e si costituiscono dinastie di famiglie che monopolizzano determinate mansioni.

E’ la morte dello Stato inteso come struttura istituzionale trascendente gli individui.

Truppa di funzionari contempla con orrore la complessa imponenza del sistema fiscale dei Codici (forse).

Ban dainagon ekotoba

Non che i Codici siano stati aboliti o sommersi dal crescente cancro del nepotismo e dell’ingerenza privata. In realtà le leggi del 701 si sono trascinate in arrancante agonia fino al XII° secolo. Un po’ come le Capitali senza mura, le cose in Giappone hanno una strana tendenza a restare in giro nonostante ogni variabile in gioco si scagli contro di loro.

E’ il fascino di questo paese. Richiede Sospensione Volontaria dell’Incredulità per accettare fatti storici assodati.

Prossimamente parleremo degli shōen e dei legami personali che comportavano. Legami personali che contribuirono all’elaborazione del rapporto di vassallaggio che è alla base del successivo sistema feudale.

Per ora non voglio dilungarmi troppo, che si tratta di temi di molto noiosi e non voglio che qualcuno si addormenti con la faccia sulla tastiera.

MUSICA!


Bibliografia

HALL John Whitney, Government and local power in Japan – 500 to 1700, Princeton University press, Princeton, 1966

HERAIL Francine, Recueil de décrets de trois ères méthodiquement classés, livres 8 à 20, DROZ, Ginevra, 2008

INOUE Mitsusada, TSUCHIDA Naoshige, AOKI Kazuo, Ritsuryo, Imanami, Tokyo, 1976

KITAYAMA Shigeo, Ōchi seiji shiron, Iwanami shoten, Tokyo, 1970