Vita da Campo: Somme 2016

La mattina è umida e nuvolosa. Al primo passo fuori dalla tenda, sprofondo nella mota gelata fino al ginocchio. Ha piovuto tutta la notte, mannaggia al demonio.

E’ il primo “campo-off” a cui partecipo. Niente pubblico, siamo solo noi, una federazione di gruppi , a manovrare in un campo in mezzo al niente. Una bella idea e una bella attività, se il tempo non ci odiasse.

Zampetto verso il fuoco, gli stivali già pieni di fango. Siamo nel dipartimento della Somme, se la giornata gira male possiamo sempre lasciar perdere le armature e ricreare qualcosa dal corposo catalogo “Giornatacce autunno/inverno 1916”.

Il campo inizia con con calma, con un piccolo atelier per quelli che vogliono imparare ad accendere il fuoco con acciarino ed esca. Ha l’aria divertente! E la figlia dodicenne del capo ci riesce, quindi io, dall’alto dei miei 28 anni, dovrei arrivarci in un battibaleno. Che sarà mai? Di certo tutte quelle ore passate a guardare Dual survival saranno servite a qualcosa!

Sono servite a farmi capire che se mai mi troverò spiaggiata in culo ai lupi, morirò di ipotermia.

PUTTANA L’EVA DELLA MAJALA ‘NGRIFATA TRAVESTITA DA PIRATA! (foto di Natalja, link a fine articolo)

Mi applico, picchio il pezzo di metallo sul selce, nemmeno una scintilla. Il motto della mia famiglia è Uccidere morendo, quindi insisto. Dopo la prima ora ho perso la pelle delle nocche e pezzetti di ciccia, il sangue comincia a colarmi tra le dita.

Dopo un altro po’ non ho tirato su una scintilla, ma il capo ora si trova un bellissimo set di selci arrotondati che manco ciottoli di fiume. Alla fine di un week-end di freefight vichingo le uniche ferite che avrò saranno quelle che mi sono fatta da sola prendendo a nocchini un sasso, evviva!

Alla fine la bimba mi toglie l’acciarino di mano. La scusa è che sua sorella vuole provare, la verità è che vuole evitare che finisca di snudarmi le ossa delle falangi. Mollo i balocchi alla terzogenita del capo, una ragazzina di sette anni appena. Mi allontano alla svelta: so già in due graziosi colpetti lo scricciolo appiccherà fuoco alla legna fradicia e voglio tenermi un pochino di autostima per il resto della giornata.

Dietro le tende, gli uomini sono in cerchio, uno di loro al centro con un berretto in testa e nella mano un sacco legato a una corda.

Il gioco è tanto semplice quanto divertente: strappargli il berretto di testa senza prenderti saccate nel muso. All’occorrenza, il sacco è pieno di paglia, ma già gli astanti discutono sulla possibilità di alzare la posta. Un sacchetto i sabbia, magari? O qualche sasso… O magari dei chiodi arrugginiti! Ok, però c’è un problema: se metti roba pesa nel sacco è vero che puoi spaccare la faccia a qualcuno, ma devi considerare gli effetti collaterali, tipo che il tizio nel mezzo potrebbe affaticarsi il braccino.

Non sarebbe più ganzo con un sacco pieno di ghiaia? Ti muscoli anche la spalla! 

(foto di Natalja, link a fine articolo)

Quando ci chiamano al rancio, la pioggia ricomincia. Aumenta. Inizia a grandinare. Il panno del padiglione comincia a incurvarsi, carico d’acqua. Il capo fa cenno verso l’estremità della tavola.

-Siete troppo vicini al bordo, vuotatelo o scansatevi.

Nessuno gli dà corda, stiamo mangiando un delizioso rancio di grano, pollo e cipolle, il mondo al di fuori delle nostre scodelle non esiste nemmeno.

Finché un colpo di vento non scuote il padiglione. Ulf è in piedi a capo del tavolo, tende una mano verso il mestolo per rabboccarsi la ciotola. Sulla testa gli cade un gavettone da quaranta litri che lo pianta in terra tipo piolo e lo zuppa come una spugna. Io lo guardo mentre affoga e penso ai romanzi di Licia Troisi, con Nihal sconvolta perché all’accademia militare si addestrano anche mentre piove. A volte mi dico che gli scrittori fantasy dovrebbero essere obbligati a un campo storico, per legge.

Il pomeriggio è dedicato alle manovre. La mia armatura è bellissima, luccicosissima e fuorissimo di almeno un secolo rispetto al periodo storico della compagnia, ma sticazzi, finché lo spiego al pubblico la mia coscienza è (quasi) a posto.

Cominciamo con roba semplice. Muro, avanti, dietro, carica, dietrofront… Non ho memorizzato gli ordini e faccio un po’ fatica a seguire.

Plus, il mio scudo è la metà di quello degli altri. Siccome sono gente antipatica, non lo chiamano nemmeno scudo, lo chiamano “targa” direttamente. Sono un sacco simpatici quando fanno così.

I postulanti tengono botta bene, ma verso la fine puoi leggergli la sofferenza in faccia. Uno scudo non sembra tanto pesante, i primi cinque minuti che lo tieni in mano.

Una bella linea ordinata (foto di Natalja, link a fine articolo)

Finite le manovre, ci mettiamo a menare sul serio. E’ il mio momento preferito, anche se mi ammazzano subito.

Niente duelli, solo combattimenti di gruppo. Alle volte va benone, alle volte una delle due linee si disfa come burro, e allora le botte ti grandinano addosso da tutte le parti. E’ sempre buffo sentire un capoccia che urla “tenete la linea” quando tutti sono mischiati a cane sciolto. Dio, ai tempi saremmo morti così alla svelta!

La mia schiena comincia a farsi sentire, ma resisto. Ci raggruppiamo, carichiamo di nuovo. L’altra squadra rompe il nostro muro, mi arriva un fendente preciso sulla capoccia. Non so chi me lo abbia tirato, ma la botta mi rincalcagna la testa nelle spalle, le orecchie mi rimbombano. Tu ma’ majala!

Ci raggruppiamo di nuovo. La testa mi pulsa, gli occhi mi fanno male. Niente di grave, ho picchiato capocciate peggiori, ma m’irrita il fatto di aver lasciato la mia zucca esposta.

Verrà un giorno in cui avrò avuto l’agio di prepararmi ammodo e in cui sarò scattante come… boh, come qualcosa di animato, invece che come il mio solito “sacco di cemento dimenticato”.

Alla fine ci ritiriamo un po’ pesti ma soddisfatti. E’ tardo pomeriggio, tempo di far qualche passo di ripetizione, di discorrere di quanto la lamellare in cuoio sia pratica ma mai documentata in nessuna fonte esistente, di fare incetta di calzini asciutti.

L’aria si raffredda alla svelta man mano che il sole cala. Le ragazze ricamano e tessono, l’Aldegarda affetta la carne per lo stracotto di stasera. Io mi cavo gli stivali dopo solo venti minuti di erculei sforzi. Il cuoio è fradicio, ho i piedi come prugne. So di avere dei calzini di ricambio da qualche parte, ma so anche che nel casino della nostra tenda sarà impossibile trovarli. Ci rinuncio, prendo gli scarponi dell’esercito, tanto al buio non si notano.

Acqua a catinelle. Ogni. Singolo. Campo.

C’è chi viene per le botte, chi per la Storia, chi per la compagnia, ma di ripiego tutti siam qui per la cucina dell’Aldegarda. La marmitta di stracotto evapora in meno di quindici minuti cronometrati. Purtroppo non ce n’è abbastanza per una terza portata, e il dolore è tale che non abbiamo altra scelta che annegare il dispiacere nell’alcol.

La sera accanto al fuoco è uno dei momenti migliori del campo. Il freddo è carogna, ma bruciamo ciocchi enormi da un giorno e mezzo ormai, la buca vomita un calore da bolgia dantesca.

Metà della gente che è pigiata accanto a me non la conosco, è da troppo tempo che partecipo poco o pochissimo alla vita dell’associazione. Cerco di ricordare facce e nomi e socializzare, qualcosa che mi riesce ancora meno che menar le mani o accendere il fuoco con un cazzo di acciarino.

Per fortuna restano sempre alcol e canzonacce oscene.

Il gruppo intona qualche delicato stornello francese, quando il Fortunato crolla a una spanna dalla fornace. Lo tirano su. Il tizio è chiucco cotto. Lo spingiamo su uno sgabello. Dove eravamo rimasti?

Ah sì, han fatto più battaglie le tue mutandine che tutti i giapponesi alle Filippine, giusto…

Il coro riprende, verte per qualche strana ragione sulle canzoni Disney. Perché la cosa più logica dopo le chiappe della pastora è I’ll make a man out of you. Non che mi lamenti, ma ho un nutrito repertorio di canti osceni in latino, e non ho mai occasione di cantarlo con qualcuno!

Oh, mio padre li conosce, ma se provo a cantarli quando sono a casa dei miei mia mamma mi lava la bocca col sapone. Ha fatto il classico.

Quando pare che anche il repertorio Disney sia esaurito, un movimento alla mia destra. Il Fortunato crolla di nuovo sulla buca. Per essere uno dei nostri migliori combattenti, ha davvero un equilibrio di merda stasera. Gli astanti lo acchiappano per la tunica prima che finisca in barbecue. Il capo s’incazza come una iena.

Mobbastaveramenteperò! Pintatelo fuori dal foco, che se si rosticcia è colpa mia!

Il Fortunato viene spintonato nelle tenebre, a riflettere sull’Assenzio e sul baricentro del corpo umano.

La bottiglia verde continua a girare. Non sono una grande fan di Assenzio, prenderei un Famous Grouse a mani basse se ci fosse, ma non sono neanche tipo da lamentarsi quando mi danno da bere gratis. E poi mi servirà: nella tenda sta crescendo il muschio.

Una delle nuove reclute è Melissa, una ragazza simpaticissima. Stiamo parlando di linguistica e università quando un’ombra si profila nel buio. E’ di nuovo il Fortunato. Lo vediamo arrivare come una valanga. A un passo dal cerchio, ha uno scatto da giaguaro.

WHAM.

Testa per prima diritta nel girone infernale.

-Merda!

Lo tiriamo fuori dal culo di Belzebù. La sua faccia è nera. Qualcuno gli passa le mani sul viso, la fuliggine vien via. Ha ancora gli occhi e ha ancora i capelli, ma sulla fronte, la guancia e il naso restano croste nere. La pelle è cotta e croccante. Evviva, è riuscito a battere Bjorn nel primato di ubriachezza suicida!

Lo prendiamo in due io e il Franco, lo trasciniamo via.

-Ora di andare a nanna.

Non ne vuole sapere. Si allontana a bordo campo per pisciare. Giuro che se casca sul filo spinato lo lasci lì. Quando torna indietro zigzaga abbelva.

-Ok, è fatta.- Lo trasciniamo alla tenda. -Ora di dormire.

-Nono.- Punta i piedi. Non fosse che fa il doppio di me, lo pigerei dentro a pedate. -Non ssssono briaho…

-No, infatti.- Sfodero un sorriso a trentadue denti. -Lo sappiamo. Infatti ti devi riposare.

-Naaah. Non voglio perghé brinda la supercazzola con scappellamento a destra…

Mi spiega perché sta benissimo e vuole restare con noi. Sarebbe interessante non fosse che non c’è nessun nesso logico tra parole (o, a tratti, tra sillabe). Resto lì a sentirlo, annuendo col mio sorrisone.

-Ma certo. Appunto. Esatto! E’ proprio come dici tu, devi sederti un po’ per tornare dopo. Proprio. Per l’appunto, ti stendi e ti riprendi.

Riusciamo a pigiarlo in terra sulla soglia. Esito. Non ha una coperta o, se ce l’ha, l’ha persa nel bailamme. Gli butto addosso il mio mantello prima di chiudere la tenda. Checazzo.

Non è una buona idea. Quando vado a dormire, il freddo è feroce. Provo a coprirmi con le pelli, ma non basta. Mi sveglio a metà della notte che batto i denti e tremo come un tossico in astinenza. Al diavolo. Dopo un po’ il Fortunato ci sveglia di nuovo calpestandoci tutti. Perché avendo la scelta tra l’uscita lì accanto e quella all’altro capo della tenda, ha beccato la più pratica. Yay.

Il campo in un raro momento di sole

(foto di Natalja, link a fine articolo)

Il giorno dopo mi pare di avere il cervello in acqua, ma per lo meno non mi son presa malanni. Elge sta messo peggio di me: non è riuscito a ritrovare la sua coperta e non ha osato disturbare i compagni di tenda. La sua cortesia gli è costata cara. E’ rimasto sveglio accanto al fuoco tutta la notte e si è buscato una marmotta coi fiocchi. Non può inghiottire nemmeno l’acqua.

Mentre discutiamo su cosa fare nel caso il Fortunato emerga dalla tenda senza più la faccia, la sua capoccia bruciacchiata fa capolino. Ha due brutte ustioni sul viso, ma niente pus o carne esposta. Ha avuto fortuna, poteva rimetterci un occhio o lo scalpo. Il capo gli fa un cazziatone selvaggio. Il Fortunato ha la decenza di apparire contrito. Spero gli sia di lezione, o la prossima volta lo ritroviamo la mattina addormentato nella brace. Che a quel punto non lo ripeschi nemmeno, lo giri e fai cuocere l’altro lato.

Le manovre riprendono sonnacchiose e stanche. Ho la schiena a pezzi. Meglio tenersi sulla dane axe per oggi. Sarebbe una soluzione ottima, non fosse che i tizi in prima linea sono tutti più alti di me e io non ci vedo una ceppa di niente.

Una linea diversamente ordinata. Sulla destra, io zampetto cercando di ricordare quali elmi devo martellare e quali no

(foto di Natalja, link a fine articolo)

Oggi il capoccia decide di andar giù un po’ più pesante sui postulanti. Mette tutte le armi in asta davanti al muro e giù di affondi negli scudi con l’ordine “soprattutto non fate regali ai nuovi”. Vedo Melissa soffrire. Le va bene che son cotta come un befanino, sennò sai che botte su quello scudo!

Al secondo passaggio mi rendo conto che scegliere un’arma in asta è stata proprio una buona idea: l’esercizio consiste nel rannicchiarsi sotto lo scudo mentre il resto della compagnia ti cammina addosso. Dopotutto può capitare, se cadi durante una mischia. Guardo allibita mentre il capo marcia sulla gente con la massa di una montagna. Con mia grande sorpresa, sono tutti in grado di camminare alla fine dell’esercizio. L’essere umano è un animale straordinario.

Evito la mischia a questo giro. Va bene far contenta la mia osteopata, ma non bisogna esagerare, che poi la vizio.

Mi siedo accanto al fuoco. Non so quanto tempo ancora potrò giocare al guerriero vichingo, la mia schiena peggiora sempre un pochino. Ho deciso che il giorno che non potrò più portare le armi mi metterò a cucire e scassare i coglioni al mondo intero su fonti e storicità della tenuta. Tanto la mia lamellare futurista sarà a casa a prender polvere. Aha!

E’ stato un buon campo, nonostante il freddo e l’acqua e la grandine. Mi sono fatta male il giusto, non troppo da preoccuparmi, ma non troppo poco (mi sembra sempre di aver partecipato a metà quando rientro senza nemmeno un livido).

Bisogna davvero che vada a più campi di questo tipo. E bisogna che finisca il mio mantello imbottito. Che sia novembre o il quindici di luglio, la solfa è sempre la stessa: acqua, e un freddo assassino.

MUSICA!

Fotografia: Natalja Photography

Serio e faceto: The revenant & Deadpool

Pasqua è trascorsa e io ho sempre meno fede negli esseri umani. Ergo questa settimana, invece di parlare di sanguinosi scontri che i protagonisti potevano probabilmente evitare con un minimo di pianificazione e buonsenso, mi butterò su un argomento più leggero: il cinema!

The revenant

 

Hugh Glass è una guida per un gruppo di cacciatori di pelli. Quando dei nativi li attaccano, è Glass che deve portare i suoi in salvo attraverso le montagne, lontani dal fiume Missouri e verso lo Yellowstone.

Purtroppo per tutti, Glass è aggredito da un orso e malamente masticato, tanto da non essere più in grado di camminare. Non potendo portarsi dietro un ferito in barella, il capo della spedizione decide a malincuore di lasciarlo indietro, insieme a un paio di compagni. La loro missione è accudire Glass fino a che non sarà defunto (nessuno crede troppo in una guarigione) per poi seppellirlo. Si offrono tale Fitzgerald, il giovane Bridger e il figlio di Glass, Hawke.

Restare fermi in un posto solo, però, è pericoloso, e Fitzgerald non ha nessuna intenzione di rischiare la pelle per un moribondo. Dopo aver assassinato il figlio di Glass, il tipo convince Bridger che un gruppo di indiani si sta dirigendo verso di loro, e i due abbandonano il ferito nella sua stessa fossa, senza armi e senza aiuto.

Solo con le proprie ossa rotte, in mezzo alla foresta innevata, Glass deve trovare il modo di sopravvivere, tornare dai suoi e vendicarsi.

Il film si ispira a una storia vera. Hugh Glass è esistito davvero, era davvero un cacciatore nella lontana terra di frontiera e prese parte alla spedizione di Ashley lungo il fiume Missouri. Nel 1823 lui e gli altri degli Ashley’s hundreds furono davvero attaccati da degli indiani Arikara e poso dopo Glass fu davvero aggredito da un orso e masticato così male da lasciar le costole esposte.

La storia non è verificabile al di là di ogni dubbio, ma pare che in effetti Glass sia stato lasciato con un tale Fitzgerald e un ragazzo (probabilmente Bridger), incaricati di accudirlo. Davvero questo Fitzgerald avrebbe convinto il ragazzo ad abbandonare il ferito e avrebbe lasciato Glass ai corvi dopo avergli fregato il fucile.

Dopo 6 settimane nella foresta, Glass riuscì a trascinarsi fino a un avamposto. Rimessosi in piedi, il nostro partì alla ricerca dei suoi ex-compagni per esporre loro i suoi sentimenti riguardo all’intera vicenda. O per staccar loro la testa, una delle due.

Nella realtà, Glass dovette rinunciare alla vendetta. Bridger era un ragazzino ai tempi e il nostro decise di perdonarlo. Quanto a Fitzgerald, quando lo trovò questo si era arruolato nell’esercito statunitense, e uccidere un soldato era una faccenda poco igienica.

Il film non segue la storia vera alla lettera, aggiungendo sottotrame come quella del figlio di Glass o la ricerca del capo indiano. Rispetto ad altri film del tipo “ispirato a una storia vera” resta comunque molto vicino alla fonte.

“Ricapitoliamo: lo mangia un orso, precipita da un perrupo, atterra su un formicaio, mentre cerca di trascinarsi via una freccia lo centra senza ucciderlo, e alla freccia ci trova legata una bolletta del gas…”

La trama è molto semplice, come semplice è la vicenda a cui si ispira. Iñárritu non risparmia nulla al suo protagonista, che appare minuscolo in una Natura sterminata e indifferente. Il paesaggio ha un ruolo centrale, con lunghe riprese e momenti di apparente immobilità. Più il film procede, più si ha l’impressione che le vere protagoniste siano le montagne, un regno di neve e lento ritmo stagionale in cui gli uomini si agitano e si scannano per ragioni più o meno gratuite.

Passaggi onirici si alternano con momenti molto realistici, aumentando il senso di solitudine e smarrimento.

La lentezza del ritmo è spezzata da scene di lotta cruente e rapide. In particolare l’ultima rissa riesce a essere sanguinosa e cruda come poche, senza mai apparire esagerata o “hollywoodiana”.

Ma di cosa parla davvero il film?

The revenant non spiattella il proprio messaggio e alla fine lascia la conclusione aperta a interpretazione.
Il tema portante pare venato da un forte nichilismo. Che tu sia un brav’uomo o un criminale, che tu persegua la vendetta o che tu rinunci, niente cambia. Sei solo, in un mondo selvaggio in cui la tua vita può finire da un momento all’altro per le ragioni più disparate. Un attacco indiano, orsi, un uomo in cerca di vendetta, il divertimento sadico di qualcuno… giusto o infame, ogni individuo deve lottare per tirare la prossima boccata d’aria.

Non c’è vera redenzione, se non la realizzazione che ogni fisima è futile e che la sola cosa reale è l’istinto di sopravvivenza davanti alle avversità.

Fin qui tutto bello, ma devo dire che ci sono delle parti di The revenant che mi hanno lasciato perplessa.

Ad esempio, Quando Di Caprio cade in acqua in un uggioso tardo pomeriggio: nonostante le ossa rotte, la neve e la sfiga, il nostro trova il modo di accendere un fuoco e asciugarsi senza andare in ipotermia o svenire dalla fatica. Non è impossibile quindi non lo definirei un buco di trama, ma resta molto poco probabile in un film che, per la maggior parte, è realistico.

Il subplot della ragazza indiana è un altro dente dolente per me. Il capo indiano è alla ricerca di sua figlia, rapita da dei bianchi. Nel far ciò, collabora con dei francesi, anche loro a cacia nella stessa zona. A loro, il capo porta pelli in cambio di cavalli e armi.
Codesti mangiarane sanno le motivazioni del capo E sono quelli che hanno rapito la ragazza!

Viene da chiedersi come la banda di nativi non si sia accorta, in uno dei suoi scambi coi francesi, che questi tengono dei prigionieri. Sono tutti a zonzo nel bosco, non è come se i froggies potessero nascondere la pulzella in cantina.
Ma diciamo che i frogs riescono a imbucare la ragazza in un cespuglio durante gli incontri col capo e gli altri guerrieri.
Perché dovrebbero correre il rischio di uno scazzo violento con una numerosa banda indiana? Si tratta di una squaw, non possono procurarsene un’altra che non sia la figlia di un capo fumino?

Anche perché non è che i francesi pianifichino di farci chissà cosa con questo ostaggio di riguardo, al contrario, la tizia è pura carne da stupro. Mi pare un comportamento da dodo, perfino per dei francesi.

The revenant non è un film perfetto in ogni aspetto, ma resta un’opera di ottimo livello. Peraltro, regia e recitazione, così come caratterizzazione e dialoghi, sono eccellenti. La lunga lista di premi e accolades ricevute è più che meritata.

Riassumendo…

Certi dettagli poco verosimili
Il subplot dell’indiana è poco credibile (ancorché non impossibile)
La storia
La recitazione
La regia
La scena dell’attacco dell’orso
I passaggi onirici
Il messaggio suggerito senza essere cacciato a pugni nella gola dello spettatore

 

Sia chiaro, non è un film che secondo me può piacere a tutti. E’ un film lento e freddo e spartano, a tratti surreale. E’ un po’ come Valhalla rising, senza storia cretina, senza dialoghi da lobotomia e senza colori saturati. Un bel prodotto, ma non proprio a gusto di chiunque. Ci sta che ritmo, tono e finale aperto vi risultino sgradevoli o frustranti.

Ciononostante, val la pena dargli una chance.

Dopotutto, è un film con il grande Gatsby, Mad Max e il generale Hux. Che volete di più?

Deadpool

Altro film, altro genere.

Cominciamo col dire che i film di supereroi non sono per nulla la mia tazza di tè. Non guardavo i cartoni da ragazzina, non ho mai letto i fumetti, quindi per me i supereroi americani sono grosso modo dei tizi strapompati in costumini da sfilata di Carnevale a Mykonos.

Di quelli che ho visto, la maggior parte mi son risultati troppo campati per aria per esser presi sul serio, divertenti al meglio, con qualche rara eccezione.

Quando sono andata a vedere Deadpool non mi aspettavo niente di più di una boiata tutta cazzotti e battute cretine.

Ci sono cazzotti e battute cretine. E il film è divertentissimo!

Finalmente un supereroe psicopatico, violento, trollesco e che non riflette cupamente dal bordo di un cornicione nella città notturna. Sa anche disegnare!

La trama è elementare a livelli parodistici, ma non pretende di essere un film complesso o serio. E’ un film cialtrone e spassoso che si presenta come film cialtrone e spassoso. Ma andiamo con ordine.

Wade è un mercenario con “soft spots” e “hard spots”. La sua vita fatta di violenza e prevaricazione prende una nuova piega quando incontra Vanessa, una prostituta con un carattere esplosivo. Entrambi sono matti come cavalli e si intendono subito, iniziando un’appassionata liaison.

Tutto molto bello, finché Wade non ha un mancamento. All’ospedale, gli diagnosticano un cancro terminale. Incapace di affrontare la decadenza e l’agonia davanti alla donna che ama, Wade se la svigna e finisce nelle grinfie di una losca organizzazione, che gli promette di curare il suo cancro, regalargli superpoteri e rifargli la carrozzeria della macchina.

Essendo disperato e anche un po’ coglione, Wade zompa sull’occasione e inizia un trattamento a base di tortura, tortura, e un po’ di tortura. L’esperimento dovrebbe sottoporre il suo corpo a uno stress tale da provocare una mutazione.

Solo che questi buoni samaritani non hanno intenzione di fare di Wade un nuovo supereroe: il loro losco scopo è di farne uno schiavo ultra-potenziato da vendere al miglior offerente.

Dopo essere riuscito a evadere, Wade, ora sfigurato, assume l’identità di Deadpool e si lancia nella caccia al proprio aguzzino in un tripudio di schioppettate, mani mozzate e gente spiaccicata.

Non ho letto i fumetti di Deadpool né visto i cartoni, quindi baso il mio giudizio esclusivamente su questo film, e il personaggio è geniale. Per quanto un eroe immortale e de facto invulnerabile possa essere un problema (toglie tensione, sappiamo che è indistruttibile), la personalità di questo assassino seriale compensa in toto la cosa.

La vicenda ruota in buona parte attorno alla storia d’amore tra il protagonista e la sua ganza, e una volta tanto il legame tra i due risulta originale e credibile. Sono entrambi fuori di testa, ma l’intesa è realizzata molto bene senza essere melensa o noiosa.

La recitazione costituisce una fetta molto importante del buono in questo film. Tutti sono molto bravi, ma Reynolds in paricolare è da schiantare. Dopo filmacci come Amityville horror e Wolverine Origins, è un piacere vederlo in roba che vale almeno il prezzo del biglietto. Nella fattispecie, il personaggio di Deadpool è uno spasso, e Reynolds pare divertirsi come un matto nell’interpretarlo.

Tirando le somme…

La tizia ritrovata viva alla fine è improbabile perfino per gli standard di questo film
Qualche gag infelice, quella finale è telefonatissima
Deadpool
La recitazione
La cialtroneria autoironica
L’azione truculenta
Il rapporto tra il protagonista e la sua ganza
I personaggi di contorno

Non c’è molto da aggiungere. Non è un film profondo e non è un film che se la tira. A tratti le gag sono un po’ forzate, ma nell’insieme tutto fila bene, condito con una buona dose di gore e violenza tamarra. Mi piace quando un film non scorreggia più alto del proprio culo, per usare un francesismo. Deadpool non finge di essere più di quanto non sia.

A differenza di The revenant, questo film può piacere a tutti ed è consigliatissimo, a meno che non siate particolarmente sensibili al sangue.

MUSICA!