Tombe scoperchiate: un breve assaggio di preistoria coreana e il Cimitero di Daho-ri

Oggi tanto per cambiare vorrei parlare della Corea.

Quando iniziai a studiare Storia Giapponese, la Corea era quel posto nei dintorni che i Giapponesi invadevano ogni qualche secolo.

In realtà la Storia coreana, in particolare per quel che riguarda il periodo preistorico e protostorico, è assolutamente indispensabile per capire le rocambolesche vicende dell’Arcipelago.

Il piccolo problema è che la Storia coreana non gode manco da lontano della stessa mole divulgativa dedicata alla Storia cinese o giapponese, per lo meno non in lingua occidentale. In lingua giapponese già si trova di più, ma, dati i rapporti un tantinello disfunzionali che corrono tra i due paesi, farsi un’idea della Storia coreana basandosi su ricercatori giapponesi è un pochettino… hum… problematico.

Non so di preciso perché, ma la Corea sembra un po’ la sorella zitella dell’Estremo Oriente.

Fortunatamente per noi esiste gente come Gina Barnes e Mark Byington!

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Mappa delle moderne provincie sudcoreane

La preistoria coreana è un soggetto vastissimo (DUH!). Oggi voglio limitarmi a offrire un’infarinatura generale di riferimento e, per rendere il tutto un pochino più gustoso, concludere con un saporito bocconcino archeologico. Giusto per avere quel dettaglio concreto che piace tanto a noi storici dei materiali (Storia dei Materiali, una branca che suona avvincente come il cemento che asciuga ma che in realtà è molto peggio del cemento che asciuga).

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Cominciamo con l’identificare un periodo: il Periodo Samhan, ovvero «dei tre Han». o «Proto-Tre Regni». Gli «Han» in questione non sono da confondersi con gli Han cinesi (漢): «Han» riferito alla Penisola coreana (韓) è un termine piuttosto vago usato per identificare tre polities, tre proto-stati che pendono forma da qualche parte tra il 300 a. C. e lo 0. Si tratta di grumi di polis legate tra loro da relazioni più o meno solide e gravitanti attorno ad alcuni centri più grandi e importanti.

I limiti del Periodo Samhan non fanno l’unanimità. Per Gina Barnes, questa fase si situa tra lo 0 e il III° secolo d. C., e corrisponde alla Tarda Età del Ferro. Per alcuni ricercatori coreani, il periodo comincia già dal 100 a. C., o dal 300 a. C., durante l’ultima fase dell’Età del Bronzo.

I sostenitori della tesi del 300 a. C. hanno dalla loroparte le fonti cinesi che, seppur posteriori, fanno riferimento alla situazione coreana del 300 a. C. parlando di «tre Han». Come vedremo, le foti cinesi sono state messe insieme secoli dopo questo periodo, quindi da sole provano poco. Tuttavia sono generalmente molto affidabili, e sembrano confermate da alcuni dati archeologici: a partire dal 300 a. C. si diffonde nella Penisola quella conosciuta come la Slender bronze dagger culture, un nuovo complesso culturale distinto dalla cultura dei dolmen precedente.

Questa innovazione sarebbe un inizio dell’incipiente processo di state formation che, secondo questa corrente storiografica, avrebbe portato alla nascita di Federazioni Han già nel II° a. C.

Secondo Lee Jaehyun, la Cultura del Bronzo coreana è divisibile in due categorie: una che segue lo stile della Slender bronze dagger culture tipica del Liaoning, e una in stile tipicamente coreano, entrambe esemplificate da forme distinte di daga.

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Daga in bronzo in stile Liaoning, l’oggetto-emblema della Slender bronze dagger culture. Questo reperto è stato trovato nella contea di Buyeo, nella provincia di Chungcheon, è conservato nel National Museum of Korea in Seul.

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Daga in bronzo in stile coreano, ritrovate nella contea di Hwasun nella provincia del Jeolla meridionale. Reperti conservati nel National Museum of Korea in Seul.

La daga in stile Liaoning ha un’inconfondibile forma a liuto ed è diffusa dal nordest della Cina alla penisola, ma ne troviamo pochi esempi in Corea, quasi sicuramente beni importati.

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In blu i ritrovamenti di daga in bronzo in stile Liaoning, in rosso i ritrovamenti di daghe in bronzo in stile coreano

La Korean-style slender bronze dagger culture presenta numerosi aspetti originali, il che spinge Lee Jaehyun a supporre che si tratti in realtà di una cultura indipendente. E’ caratterizzata da oggetti rituali in bronzo, tra cui spiccano specchi e armi, ma anche sonagli e strumenti. Nella sua fase formativa, notiamo diverse caratteristiche in comune con la cultura del bronzo in stile Liaoning. La fase successiva, detta «di espansione», è caratterizzata da uno sviluppo di oggetti più originali, tra cui ferri di lancia e alabarde.

Tra la fine del II° secolo a. C. e il II° secolo d. C., questa cultura declina, mentre in parallelo si sviluppa la Cultura del Ferro. Gli specchi decorati in linee sottili e i sonagli diventano progressivamente più rari, mentre si favoriscono oggetti rituali in bronzo sotto forma di armi, come punte di lancia decorative.

La prima fase della Cultura del Ferro nel sud della Corea si sviluppa tra il IV° e il II° secolo a. C. e presenta molte similitudini con quella tipica del regno di Yan, da cui è stata probabilmente importata. In questa fase però la Cultura del Ferro resta molto limitata nelle regioni di Jeolla e Chungcheong.

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Prego ammirare la mia padronanza di Paint

E’ con la seconda fase, alla fine del II° secolo a. C., che la produzione di ferro si diffonde nella penisola. Questa nuova ondata presenta caratteristiche smaccatamente Han (Han nel senso degli Han della Cina). E’ in questa fase che si situa la Tomba n.1 del cimitero di Daho-ri, che andremo a studiare!

La diffusione del ferro come materiale di prestigio/mezzo di scambio e lo sviluppo delle miniere nella regione dello Yeongnam favorirono una vasta rete commerciale che legava le polities sudcoreane con le Comanderie cinesi di Lelang e Daifang, con Mahan, con le regioni degli Ye orientali e le isole giapponesi. Quest’industria è la base della crescita economica che favorirà il maturare delle polities di Saro e Guya negli staterelli di Gyeongju e Gimhae, con cui il regno di Wa avrà strettissimi legami diplomatici e commerciali nel suo periodo di formazione.

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I Tre Han e le due comanderie

Tornando ai Tre Han, si tratta di Mahan (futuro regno di Baekje), Byeonhan (futura Confederazione di Gaya) e Jinhan (futuro regno di Silla, ovvero gente cattivissima se diamo spago alle fonti giapponesi dell’VIII° secolo).

A noi interessa in particolare Byeonhan e la futura Gaya, una delle entità politiche più importanti nello sviluppo del regno di Yamato in Giappone, e una delle meno conosciute.

Il problema è che mentre abbiamo una qualche forma di documentazione indigena per entità come Baekje, Silla o Goguryeo, gli annali di Gaya non sono sopravvissuti in nessuna forma, e quindi le uniche fonti storiche riguardo questa sfuggente Confederazione e la sua Storia sono tutte fonti straniere compilate dai paesi vicini.

Purtroppo anche l’aspetto archeologico è problematico, e vale la pena parlarne prima di tuffarci nel bellissimo sport della violazione di tombe: i primi studi archeologici legati a Gaya o alle polities che la precedettero risalgono agli anni ’20 e furono portati avanti dai giapponesi.

Da buona potenza coloniale e nazionalista, il Giappone non era proprio mosso da un sincero desiderio di conoscenza (anche perché il sincero desiderio di conoscenza raramente si presta a confermare l’ideologia nazionalista, ideologia storicamente molto recente). Insomma, i giapponesi hanno scoperchiato un botto di tombe, fatto manbassa della roba più bella che c’era e se la sono portata via senza documentare i siti. E considerato il volume di bombe che si son buscati vent’anni dopo, de facto una quantità ragguardevole di patrimonio di Gaya è finito in fumo.

(C’è anche un lunghissimo dibattito se Gaya fosse o non fosse una colonia Wa, ma questa lattina di vermi l’apriremo un’altra volta).

I primi scavi condotti nel bacino del Nakdong dai Sudcoreani risalgono gli anni ’70, ma il grosso dei siti di Gaya, come Daho-ri e la Tomba n.1, sono documentati a partire dagli anni ’90. Purtroppo, con l’eccezione della regione di Gimhae, i dati archeologici per Periodo Samhan di Gaya sono relativamente pochi.

Ovviamente anche il dato archeologico va trattato con cautela: la maggioranza dei siti a nostra disposizione sono siti funerari. E l’arte funeraria è importantissima, sia chiaro, dato che spesso le pratiche mortuarie consistono in una sorta di ricostruzione essenziale dell’identità del morto (la sua appartenenza a una certa classe, clan, professione, ecc), ma la morte è solo uno degli aspetti della vita degli esseri umani. Alla fine, l’arte mortuaria è una storia che i vivi raccontano su loro stessi e sul defunto, e non abbiamo molti elementi da comparare a detta storia.

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Concluso questo preambolo interessantissimo che, son certa, vi avrà tenuto col fiato sospeso, tuffiamoci nella parte divertente: violare tombe!

Tomba n.1 del cimitero di Daho-ri

Il sito archeologico di Daho-ri (茶戸里) si trova nella zona di Changwon, capoluogo della regione sudcoreana del Gyeongsang meridionale, ovvero la parte sudorientale della penisola coreana.

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Vista aerea del sito di Daho-ri

Il sito è stato scavato tra il 1988 e il 1998 e oggi gode dello status ufficiale di Sito Nazionale Storico n.327. Non solo ha fornito un considerevole numero di artefatti, ma si tratta di un sito usato per un lasso di tempo considerevole: durante i 10 anni di scavi abbiamo trovato 69 tombe con sarcofago in legno, 4 con sarcofago a giara, e perfino una tomba con camera in pietra del Periodo di Gaya, il che significa un lasso di tempo che va dal II° secolo a. C. al VI° secolo d. C..

Daho-ri è a una decina di chilometri dal fiume Nakdong, un’importantissima arteria di scambi che scorre fino a Gimhae e Busan, il che lascia supporre che questa zona avesse contatti frequenti col resto della regione via il fiume.

Daho-ri stesso è nelle vicinanze di altri siti, tra cui insediamenti fortificati e cimiteri.

Purtroppo una delle prime cose rilevate all’inizio dello scavo nel 1988 è che il sito era stato saccheggiato. Ma è stato comunque possibile estrarre informazioni preziose.

Oggi voglio parlare in particolare di quella che è chiamata Tomba n.1.

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La Tomba n.1 scoperchiata

Come buona parte del sito, la Tomba n.1 è stata trovata saccheggiata e stravolta, ma il sarcofago di legno era ancora in buono stato. Trattandosi di un mostro monossilo, probabilmente era troppo pesante e solido per i ladri. Sotto di esso abbiamo potuto recuperare un certo numero di oggetti funerari, a conferma che nascondere la roba sotto il letto è una grande idea.

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Esistono due tipi di sarcofago in legno, in Corea: il sarcofago monossilo realizzato da un singolo tronco scavato, e il sarcofago di assi, una sorta di «bara», simile in stile ai sarcofaghi Han.

La maggioranza dei sarcofaghi in legno coreani sono a «bara». E’ possibile che i sarcofaghi monossili siano una forma più arcaica e che l’uso della «bara» sia invalso più tardi, a seguito dell’influenza delle Comanderie.

La Comanderia di Lelang, probabilmente la più importante nel traffico tra Byeonhan e gli Han cinesi, venne fondata nel 108 a. C., dopo che l’Imperatore Wu rase al suolo la polity di Gojoseon (Vecchia Joseon), polity situata nel nordovest della Penisola. Questa guerra avrebbe portato un afflusso notevole di esuli al sud, provocando un’evoluzione nella cultura e nei costumi funerari.

Le tombe con sarcofago in legno, dette mokkwanmyo (木館墓), cominciano a manifestarsi nel sito di Daho-ri nel I° secolo. Secondo Kim Daesik, dell’Università di Hongik, questa evoluzione nei costumi segna l’apparire di una classe dirigente (tombe di questo genere ovviamente necessitano un investimento non indifferente di risorse, tempo e lavoro) diversa da quella indigena precedente.

Poesse che il misterioso defunto della Tomba n.1 fosse un immigrato Gojoseon?

In realtà per le fonti cinesi la stretta relazione tra Gojoseo e gli staterelli coreani predata il I° secolo: il primo riferimento in tal senso viene da quello che è anche il primo testo a riferirsi alle polities della Penisola col termine «Han», il Sanguozhi (Storia dei Tre Regni). Il Sanguozhi, iniziato da Chen Shou del regno di Jin (233-297) e completato e annotato da Pei Songzhi del regno dei Song (372-451), è un testo importantissimo, nonostante sia stato completato secoli dopo i fatti narrati.

Nel libro, re Jun di Gojoseon avrebbe perso una guerra contro il generale Wei Man del regno di Yan (che gli succede sul trono di Gojoseon) e sarebbe quindi fuggito a sud, diventando «Re di Han».

Alcuni hanno situato questi fatti tra il 194 e il 180 a. C. Potrebbe darsi che il II° secolo sia il periodo in cui il termine Han riferito alla Corea entra in uso.

Altri hanno criticato questo approccio fiducioso alle fonti cinesi, notando che potrebbe benissimo trattarsi di un termine usato anacronisticamente.

Per altri ancora, si può iniziare a parlare di «Han» con l’apparizione archeologica di un nuovo indicatore culturale, la ceramica con bordo aggiunto (粘土帯土器), che ha origine nella penisola del Liaodong e si diffonde nel resto della Corea verso il 300 a. C.

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Esempio di vaso degli inizi dell’Età del Ferro, ritrovato in Seo-gu, distretto di Incheon, conservato nel National Museum of Korea

Avvincenti discussioni filologiche a parte, già dal III° secolo a. C. il sud della Corea è caratterizzato da polities che intrattengono scambi regolari col Nord della Cina e Gojoseon. Byeonhan, la polity che interessa a noi, si sviluppa a partire dal II°-I° secolo a. C.

Quando parliamo di polities per Byeonhan, parliamo davvero di entità politiche di taglia ridotta: secondo Yi Hyunhae gli staterelli più grandi di Byeonhan contavano 2-3.000 famiglie, e quelli minori appena 6-700. Si trattava con ogni probabilità di costellazioni di città semi-indipendenti che agivano di concerto in materia di diplomazia e politica estera.

Dalla fine del II° sec a. C., spuntano cimiteri di gruppo attraverso tutta la provincia del Gyeongsang. Questo è accompagnato da una diffusione senza precedenti del sarcofago in legno e da un aumento sensibile degli artefatti nel corredo funebre. Compaiono tombe come la Tomba n.1, palesemente erette per capi. La varietà nella struttura e nel corredo suggerisce peraltro una certa diversità culturale in seno alla classe dirigente, il che presuppone una società più complessa e stratificata. Yi Hyunhae si accorda col dire che questo è dovuto a un massiccio influsso di migranti, i buona parte provenienti da Gojoseon.

Questo sembra confermato dal fatto che in Daho-ri continuiamo a trovare oggetti in continuità con il passato, come le ceramiche «non decorate» (Mumun) nere e marroni. Ma notiamo anche un influsso crescente di oggetti in metallo o in lacca simili in stile e in qualità a quelli fabbricati dagli artigiani di Gojoseon.

Secondo Kim Daesik, possiamo interpretare questi dati come segue:

  • gente portatrice di conoscenze e tecniche nuove arriva e viene assimilata in una nuova classe dirigente (come direbbe uno degli spauracchi della “Destra Razionale”, Foucault, potere e sapere sono spesso strettamente correlati).
  • Questo apporto tecnologico però non provoca stravolgimenti traumatici nella struttura sociale locale, che mantiene molta continuità col passato
  • Ne deriva che le società agricole indigene erano stabili e sviluppate.

L’arrivo di gente nuova sembra riecheggiare nel mito fondatore di Gaya raccontato nel Samguk Yusa: Un uomo di nome Suro discende dal cielo sul picco del monte Kuji, e vi stabilisce il suo regno. I nove capi (kan, 干) della regione di Gimhae lo scelgono quindi come capo.

Per Kim, il mito suggerisce la fusione tra culture locali e una cultura straniera, aliena.

Spessissimo la classe dirigente è descritta come aliena o celeste in origine, questa interpretazione ha valore in quanto supportata da elementi archeologici.

Per quel che riguarda Daho-ri in particolare, troviamo 3 tipi di tomba con sarcofago, classificati in base alla taglia e alla profondità della fossa: le tombe grandi (con sarcofagi di 240-278 cm per 100-136 cm e una profondità di 120-205 cm), che spesso hanno una buca di taglia ridotta al centro del pavimento, poi sigillata dal sarcofago; le tombe piccole (160-200 cm per 55-64 cm e una profondità di 20-40 cm); e le tombe così così (200-270 cm per 80-125 cm e una profondità di 90-168 cm, sono di poco più piccole delle tombe di tipo 1 ma, come le tombe di tipo 3, sono sprovviste di buca supplementare).

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Il sarcofago monossilo della Tomba n.1

La Tomba n.1 data del I° secolo a. C. La sua posizione in seno al cimitero non presenta particolarità degne di nota, ma dalla quantità e qualità del corredo funebre possiamo dedurre che si tratta della tomba di qualcuno relativamente importante.

La fossa ha una pianta rettangolare con gli angoli arrotondati e misura circa 278cm in lunghezza, 136 cm in larghezza e 205 cm in profondità, orientata lungo un asse sudest-nordovest. Presenta una buca realizzata al centro del pavimento, poi coperta dal sarcofago.

Il sarcofago stesso è imponente: ricavato scavando e aprendo in due un tronco di quercia di 350 anni, per un risultato che misura 240 cm per 85 cm, riempiendo di fatto quasi la totalità della fossa con la sua massa.

Il sarcofago è ancora più impressionante se si considera che le seghe da legno non erano ancora state inventate e che l’intera faccenda è stata realizzata con accette e fuoco.

La tecnica ricorda quella per realizzare le canoe monossili. Yi Young Hoon nota che la tradizione della canoa-sarcofago si ritrova anche nella tradizione funeraria del Sichuan del periodo dei Regni Combattenti (V°-III° secolo a. C.) e nella cultura Dong Son vietnmita (1.000 a. C. – 100 d. C.).

Parte del coperchio è stata rovinata dai ladri, ma all’interno abbiamo comunque trovato una daga laccata, una collana di perle di vetro, una coppa di legno e una lama di scure a testa piatta. Si tratta probabilmente degli effetti personali del morto, di cui purtroppo non ci resta niente.

Sotto il sarcofago, c’è la buca di cui sopra, che misura 65cm per 55 cm per una profondità di appena 12 cm. Qui abbiamo trovato asce con manico in legno ancora intatto (usate probabilmente per scavare la fossa, oggetti laccati tra cui una coppa a piede, fasci di spago, castagne e foglie. Abbiamo anche recuperato pezzi di una spessa corda, usata senza dubbio per calare il sarcofago nella fossa.

Nella buca secoondaria si trovava una cesta di bambù piena di oggetti: due daghe in bronzo laccate (che hanno permesso di ricostruire finalmente la daga bronzea coreana del periodo), una daga in ferro laccata, una daga in ferro con impugnatura in legno, due frammenti di daga in ferro, un coltello in ferro laccato con una guardia ad anello, una punta di lancia in bronzo e quattro punte di lancia in ferro.

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Daga in bronzo con fodero, conservata al National Museum of Korea

La cesta conteneva anche strumenti, come cinque ferri di ascia in ferro colato e due falcetti con manico in legno, o ornamenti e oggetti di prestigio, come uno specchio decorato, una fibbia da cintura in bronzo, cinque anelli in bronzo di cui uno decorato con un motivo seghettato.

Abbiamo anche trovato delle monete wuzhu (che ritroviamo anche in altri siti contemporanei, siano essi sepolture o siti fortificati), una campanella di bronzo per cavalli e cinque pennelli di foggia particolare (dotati di setole a entrambe le estremità). La presenza dei pennelli è uno dei più antichi esempi di cultura della scrittura nella regione. I pennelli sono peraltro accompagnati da un coltello apposito la cui funzione era grattar via i caratteri errati dalle tavolette di legno (uno dei supporti di scrittura più comuni anche in Giappone, dove vengono chiamate mokkan).

La campana per cavalli e la fibbia in bronzo sono in chiaro stile Han, arrivati in Daho-ri senza dubbio a seguito di scambi con Lelang.

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Specchio in bronzo decorato con motivi di stelle e nuvole stilizzate, conservato nel National Museum of Korea

Yi Young Hoon ipotizza che la cerimonia funeraria si svolgesse nelle tappe seguenti :

  • Il cadavere e parte del corredo erano deposti nel sarcofago, che era quindi chiuso. Il sarcofago era trascinato per i «piedi» al luogo di inumazione, dove venivano realizzate la fossa e la buca della cesta.
  • La cesta era deposta nella buca e il pavimento era ricoperto da contenitori quadrati e circolari contenenti offerte di cibo e bevande, insieme ad altri doni funerari come asce e mazze. Castagne erano quindi gettate nella fossa.
  • Il sarcofago era calato nella buca e le corde erano tagliate.
  • Uno strato di terra era zeppato tra il sarcofago e le pareti, e su di esso venivano poste altre offerte funerarie, probabilmente oggetti preziosi in ferro e in lacca.
  • Altra terra era zeppata nella fossa, fino ad arrivare a livello del coperchio del sarcofago. A questo punto altri oggetti in lacca erano posti sul coperchio, il resto della fossa veniva riempito e la terra veniva accumulata fino a formare un basso tumulo.

Yi Young Hoon cita come esempio simile la Tomba n.11 sempre in Daho-ri, dove possiamo individuare almeno tra strati cerimoniali con offerte di punte di freccia, contenitori in lacca e un arco laccato trovati in differenti livelli.

E’ anche importante notare che gli oggetti laccati estratti dalla Tomba n.1 presentino una tecnica raffinata e nettamente diversa dal metodo di laccatura usato in Lelang. Il che mostra come l’industria della lacca fosse a questo punto non solo sviluppata, ma originale in questa regione.

I ferri d’ascia presenti nel canestro non erano adatti a essere montati su un manico e usati: si tratta in realtà più di una forma di lingotto, un’unità base di ferro. La Corea del Sud e in particolare questa zona, era un grosso produttore che esportava un volume considerevole di questi lingotti verso le Comanderie Han e le Isole Wa. I Wa in particolare erano dipendenti dalla produzione coreana, ma di questo riparleremo magari quando racconteremo della fine di Gaya.

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Asce-lingotto estratte dalla Tomba n.1, conservate nel National Museum of Korea

E’ da notare che nei siti funerari di Chinhan e Byeonhan troviamo oggetti indigeni o oggetti cinesi, con poca roba importata da altri posti. Per fare un confronto, nella polity di Mahan gli oggetti di importazione Han sono molto più rari. Questo a dimostrazione che nel Periodo Samhan le Comanderie avevano legami diversi con le varie polities presenti nella penisola.

La sovrabbondanza di ferro lascia supporre che il morto della Tomba n.1 fosse coinvolto nel commercio del ferro con Lelang.

I cimiteri sono associati con centri di potere. Il numero di sepolture e la taglia di tombe, come anche la ricchezza dei corredi, lasciano presupporre che verso il I° secolo a. C. nei pressi di Daho-ri si trovasse un centro amministrativo ed economico di prima importanza.

you made it how ya feel now - Condescending Wonka | Make a Meme

Toh, qualcuno è arrivato a fine articolo!

E’ un fatto indiscutibile che la Corea sia servita da ponte tra il Continente e le Isole giapponesi, portando con il suo flusso di mercanti e immigrati tecniche, idee, materiali. Per ricercatori come Takesue Jun’ichi, i toraijin, gli immigrati coreani, furono fondamentali nella rivoluzione tecnica e culturale che segna la fine del periodo Jōmon e l’inizio del Periodo Yayoi. L’apparizione in siti archeologici giapponesi di daghe in bronzo coreane preannuncia l’incipiente processo di state-formation che portò all’emergere del Regno di Yamato e, eventualmente, alla nascita dell’Impero Giapponese.

E’ impossibile studiare la preistoria e la protostoria giapponese senza tener conto di ciò che succedeva sul Continente, e in particolar modo in Corea.

Sicché oggi ho voluto offrire un assaggio del complicato e affascinante mondo della preistoria sudcoreana.

MUSICA!


Bibliografia

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KIM Taesik, “Sources for the Study of Kaya History”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 3, Harvard University, Cambridge, 2012, p. 17-48

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LEE Ki-baik, A New History of Korea, trad. WAGNER Edward W., Harvard University Press, Cambridge, 1984

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RHEE Song-nai et al. “Korean Contributions to Agriculture, Technology, and State Formation in Japan: Archaeology and History of an Epochal Thousand Years, 400 B.C.–A.D. 600.” Asian Perspectives, vol. 46, no. 2, 2007, pp. 404–459

SHIN Michael D., Korean History in Maps, Cambridge University Press, 2014

YI Hyunhae, “The Formation and Developement of the Samhan”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 2, Harvard University, Cambridge, 2009, p. 17-60

YI Young Hoon, “Tomb 1 at the Taho-ri Site in Ch’angwon”, in BYINGTON Mark et al., Early Korea, vol. 2, Harvard University, Cambridge, 2009, p. 155-178

 

Pagina del National Museum of Korea

 

 

 

 

Emishi, gli eterni sconosciuti

Non si può studiare la storia giapponese pre-XIII° senza incappare in questo strano termine.

Emishi.

Fin dalle prime fonti storiografiche autoctone, nell’VIII° secolo, questo nome compare, e quasi sempre in circostanze drammatiche. Gli emishi si sono ribellati, gli emishi hanno bruciato i fortini di frontiera, gli emishi hanno teso un agguato al governatore e se lo sono mangiato con le fave e un buon chianti…

Bruciare fortini in particolare sembra essere stato un gran passatempo.

Person Who Speaks A Language Other Than Geek Is This A Barbarian ...

Nonostante gli emishi abbiano bruciato fortini imperiali per secoli, le informazioni al loro riguardo sono paradossalmente poche e confuse. Anche perché non scrivevano, che è una cosa che mi rende sempre molto triste.

La prima domanda che sorge spontanea a questo punto è: chi erano questi piromani impenitenti?

Chi erano gli emishi?

Emishi - Wikiwand

Emishi rendono omaggio al Principe di Sangue Shōtoku (il tizio a cavallo che sembra dire “‘sto frustino po’ esse’ de piuma o po’ esse’ de fero”), dallo Shōtoku taishi eden emaki, XI° secolo

La parola “emishi” (蝦夷 in un delle sue grafie più correnti) compare per la prima volta nel Nihon shoki, in riferimento al secondo mese del ventisettesimo anno del regno dell’Imperatore Keikō (98 d.C.). Un tale Takeshiuchi no Sukune torna da un viaggio delle regioni orientali e riferisce:

Tra i barbari orientali, c’è il pese (国) di Hitakami (日高見). In quel paese, uomini e donne legano i propri capelli in forma di martello, si tatuano e la gente è valorosa. Sono chiamati emishi. La terra è fertile e vasta, può essere presa con un attacco.

“Ho scoperto questo nuovo paese.”

“Figo, ma lo possiamo saccheggiare o no?”

Tutto il mondo è paese.

Ad ogni modo è importante sottolineare che Keikō è un sovrano semi-leggendario che secondo la tradizione avrebbe regnato tra il 71 e il 130 d.C. Non solo a quell’epoca non esisteva nessun “impero”, ma è relativamente certo che le isole giapponesi fossero un coacervo di tribù agrarie che si aggregavano e si disgregavano. In altre parole, non solo non esisteva l’impero, non esisteva nemmeno lo stato. Quella qui riportata è una leggenda trascritta agli inizi dell’VIII°, e non può essere assolutamente presa in parola.

L’idea che i fantomatici abitanti dell’est avessero costituito uno stato, Hitakami, è pure molto improbabile. L’esistenza di questo “paese” è propugnata anche da fonti cinesi, in particolare il Tongdian (通典), completato agli inizi del IX° secolo. E’ però più che probabile che i Cinesi tenessero queste informazioni dagli inviati Giapponesi, quindi la fonte cinese non “conferma” l’informazione, piuttosto “ripete per sentito dire”

Una cosa però è sicura: gli emishi vivono nella parte orientale e nordorientale di Honshū.

E’ anche importante notare che “emishi” non è l’unico termine usato per parlare della gente del nordest: ebisu, emisu, ezo, ecc. Sono pure termini usati in diversi contesti e periodi, ma non è chiaro in base a cosa e una discussione filologica esaustiva sull’argomento rischia di essere complicata (vorrei tenere questo articolo sotto le 3.500 parole, possibilmente!) [Edit: ho miseramente fallito]

Quotes about Boring book (45 quotes)

Il Tongdian non è la sola fonte cinese che fa riferimento a delle popolazioni insediate nel nordest del regno di Yamato. Lo Xin Tangshu (新唐書) o Nuovo Libro dei Tang, scritto nell’XI° secolo, descrive un’ambasciata del 668 dove l’inviato Wa è accompagnato da gente orientale. Costoro sarebbero dotati di una gloriosa barba di quattro piedi (120 cm!) e di un’incredibile abilità con arco e frecce.

Una delle teorie sulle origini del termine “emishi” è appunto che sia una distorsione della parola yumishi, (弓人 o弓師), “arciere” o “maestro d’arco”. Il secondo kanji di emishi è dopotutto “夷”, che può essere interpretato come una fusione del kanji di “arco” (弓) e “grande” (大).

Un’altra spiegazione attribuisce invece l’origine alla parola che gli Ainu usavano per riferirsi a loro stessi, ovvero emchu o enchu. E’ verosimile che questa parola, all’orecchio dei Wa della regione centromeridionale, suonasse qualcosa come emisu o emishi.

Quale di queste sarà la spiegazione corretta?

A dire il vero una non esclude l’altra, dacché i kanji possono essere stati usati per trascrivere una parola fonetica e scelti in base al loro significato implicito. In parole povere, può darsi che dovendo scegliere quali ideogrammi usare per trascrivere “enchu” i Giapponesi abbiano optato per i segni che indicavano le abilità di arcieri degli emishi.

Quindi voilà, la prova che gli emishi erano Ainu, giusto?

Terminator Wrong GIF - Terminator Wrong - Discover & Share GIFs

Diciamo pure che “emishi” viene proprio da una parola Ainu e indicava gli Ainu.

Se Ainu = emishi, non è affatto detto che tutti gli emishi = Ainu.

Un altro passaggio del Nihon shoki, un po’ più affidabile stavolta, viene dal capitolo sul regno dell’Imperatrice Saimei (655-661). Il settimo mese del quinto anno (670) del regno dell’imperatrice, la corte spedì un’ambasciata alla corte dei Tang in Cina (al potere dal 618). Il brano è molto più vicino alla data di compilazione del Nihon shoki e si basa sui diari lasciati da due membri della spedizione.

Stando alla fonte, i Giapponesi portano al Figlio del Cielo un uomo e una donna emishi.

L’ambasciata è avvenuta davvero, dacché è confermata dalle fonti cinesi. Queste però non menzionano buffi primitivi a seguito dell’ambasciatore Wa, quindi non siamo proprio sicurissimi di come si sia svolta davvero l’udienza con Gaozong [Edit: erroneamente chiamato Gaozong nella versione precedente].

Stando al Nihon shoki, l’imperatore Gaozong li riceve il decimo mese intercalare. Dopo aver chiesto come sta Saimei, bene grazie, e i nipoti, bene anche loro, mi raccomando salutamela e tante buone cose, Gaozong s’interessa finalmente dei due emishi.

L’Imperatore quindi chiese: -Questo paese degli emishi, dove si trova?

Risposero rispettosamente: -E’ nel nordest.

L’Imperatore quindi chiese: Quanti tipi di emishi esistono?

Come nel primo passaggio, gli emishi sono gente nordorientale. Considerato che lo stato di Yamato è ancora giovane nel 670, può darsi che con “nordest” si intendesse il nord di quella che è oggi la prefettura di Miyagi.

Miyagi Prefecture - Wikipedia

La prefettura di Miyagi, anticamente parte della Privincia di Mutsu

E’ chiaro che Gaozong interpreta il termine “emishi” non come il nome di un popolo particolare (come gli Ye o gli Han o i Wa), ma come un termine generico per indicare gente non meglio specificata che vive in una certa regione (e chiede quindi “quanti tipi di emishi esistono”).

Dalla risposta degli ambasciatori giapponesi capiamo che questo è esattamente il modo in cui il termine viene usato:

Risposero rispettosamente: -Ce ne sono di tre tipi. Quelli che sono molto lontani sono chiamati Tsugaru (都加留), quelli dopo Ara-emishi (粗蝦夷) e i più vicini sono i Nigi-emishi (熟蝦夷). Questi emishi sono Nigi-emishi. Ogni anno inviano un tributo alla corte.

Tsugaru, normalmente scritto “津軽”, è una penisola nell’estremo nord dell’isola di Honshū. Quanto agli altri due, non è offerta nessuna indicazione geografica particolare. Gli Ara sono lontani, i Nigi sono vicini e portano un tributo. Secondo Hanihara, gli Ara (termine che evoca l’idea di violenza e riottosità) sono gli stronzi che non si piegano all’auto-evidente superiorità degli Yamato, mentre i Nigi sono bravi e mandano un tributo.

In altre parole, Ara e Nigi indicano due gruppi politici, non etnici.

Nel 1960, Inoue presentò l’ipotesi che i Nigi fossero gruppi stanziati nelle regioni più prossime al territorio controllato da Yamato, ovvero quelli che sono oggi i dipartimenti di Miyagi, Yamagata o Fukushima.

La discussione con Gaozong continua.

L’Imperatore chiese: -Questo paese conosce i cinque cereali?

Risposero rispettosamente: No. Mangiano carne.

L’Imperatore chiese: -Questo paese ha abitazioni?

Risposero rispettosamente: -No. Vivono nel cuore delle montagne sotto gli alberi

Per citare il Barbagli “ gente che andava nuda a caccia di marmotte quando noi già s’accoltellava un Giulio Cesare.”

Sappiamo grazie a dati archeologici che queste informazioni sono fake news: la risicoltura arriva nel nordest con uno o due secoli di ritardo rispetto a Kyūshū, ma era già ampiamente diffusa dal I° secolo d.C. almeno. Dato l’ambiente montuoso e il clima rigido, è probabile che la gente del nordest abbia comunque dato più spazio a caccia e pesca rispetto ai burrosi contadini del Kinai, ma dire che non coltivavano è falso. Stesso vale per le case: abbiamo ritrovato case seminterrate molto simili al tipo di tugurio senza finestre in cui dormivano i glebani delle ricche regioni occidentali.

Insomma, da un punto di vista archeologico, i poracci dei barbari campavano più o meno allo stesso modo dei poracci dell’Impero (male e poco). Sai che sorpresa.

International Workers’ Day

Poracci of the world UNITE!

Lo scopo di questo passaggio nel Nihon shoki non è quello di descrivere con accuratezza etnografica gli emishi, ma di distinguerli dai sudditi di Yamato. Yamato è un regno, è civilizzato, usa la scrittura, coltiva, costruisce capitali, proprio come i cinesi!

Quindi gli emishi sono barbari, scimmie che dondolano dagli alberi e non sono capaci di coltivare! Uomini e donne si pettinano alla stessa maniera, perfino. Cioè. Bah. Sai che si è arrivati al picco della bestialità quando va di moda il gender neutral.

Tirando le somme, emishi è un termine vago che indica popolazioni del nordest di Honshū che non riconoscono appieno l’autorità del clan Yamato (che è disceso dalla Dea del Sole, quindi devi proprio essere scemo per non capire che bisogna fare come dicono loro!).

La domanda che spesso sorge a questo punto è: ma gli emishi saranno mica gli Ainu?

Famiglia Ainu di Hokkaidō

Per chi non ha pratica, gli Ainu sono una popolazione etnicamente diversa dai giapponesi e che occupa principalmente l’isola settentrionale di Hokkaidō. Hanno una lingua diversa, costumi e riti completamente differenti, e un aspetto distinto rispetto al resto dei cittadini giapponesi.

Per un lungo periodo si è supposto che gli Ainu fossero gli aborigeni del Giappone, ricacciati gradualmente sempre più a nord via via che popolazioni di ceppo mongoloide arrivavano dalla Corea con la loro agricoltura figa, i loro cavalli e le loro belle armi di ferro.

Queste teorie non sono più attuali, ma ad ogni modo, gli emishi erano Ainu?

La risposta veloce è

Fact Check: Was there an increase in Violent Crime in Colorado ...

La risposta lunga è, comunque no, ma facciamo un minimo di chiarezza.

E’ importante notare che la cultura Ainu ha ricevuto riconoscimento e tutela solo molto di recente. Gli Ainu di oggi sono i sopravvissuti della feroce politica di assimilazione attuata a partire dal governo Meiji. E con “assimilazione” intendo un tentativo pianificato e sostenuto di cancellare del tutto la popolazione, via soppressione della cultura, distruzione dei luoghi di culto, violenza omicida e stupri sistematici.

Gli Ainu di oggi portano l’eredità delle atrocità commesse contro di loro e queste sono ormai parte integrante del loro attivismo culturale, politico e sociale. L’argomento è davvero interessante e merita uno spazio a sé: in questo articolo voglio parlare della popolazione Ainu prima che questo tentato genocidio impattasse in modo così drammatico la loro esistenza. Ci tenevo però a segnalarlo perché se mai vi incuriosisce la cultura promossa dalla comunità Ainu dovete essere coscienti di questo terribile capitolo nella loro storia.

Com’era la situazione prima che il governo giapponese decidesse di uniformare la popolazione?

Cominciamo col dire che differenze tra il sudovest e il nordest del Giappone sono sempre esistite: la ceramica di tipo Jōmon, ad esempio, compare circa 12.500 anni fa in Kyūshū, e procede lentamente arrivando in Hokkaidō solo 8.500 anni fa.

Tradizionalmente il lungo periodo Jōmon è considerato finito quando l’agricoltura (in particolare la risicoltura) diventa un’attività economica centrale, intorno al III° secolo a.C. Questa progressione è accettata per le isole di Kyūshū, Shikoku, e per buona parte di Honshū, ma non per il resto del paese. Più o meno nello stesso periodo in cui avviene la transizione Yayoi, in Hokkaidō e nel nordest di Honshū si passa nel Periodo Zoku-Jōmon (o Epi-Jōmon), ovvero un periodo in cui troviamo un nuovo tipo di ceramica ma che presenta una grande continuità col periodo precedente.

Nusamai type pottery

Ceramica Nusamai datata 2.700-2.400 anni fa e ritrovata nello scavo dell’Abitazione 13 nel sito di Sakaeura II, nel nord di Hokkaidō (dalla collezione di materiali archeologici del bacino inferiore del fiume Tokoro). Il sito di Sakaeura II appatiene alla Cultura di Okhotsk, distintamente non Giapponesi.

Da un punto di vista archeologico, abbiamo quindi una Cultura che si generalizza in quasi tutto l’arcipelago, fino al III° secolo a.C., quando inizia una sorta di “speciazione”, tra la cultura del sudovest e del centro, e quella del nordest e di Hokkaidō. Mentre nel sudovest e nel centro si sviluppa una società stratificata e un primo embrione di stato, in Hokkaidō e nel nordest troviamo tracce di differenziazione sociale (piccoli tumuli con ceramiche Sue e spade di ferro, ecc.), ma nulla che lasci supporre una stratificazione vera e propria.

SakuraeII_House1

Abitazione 1 in Sakurae II, esempio di cultura Satsumon

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Abitazione 3 del sito di Hiraide nella prefettura di Nagano (Honshu centrale), esempio di cultura Haji (dal tipo di ceramica del periodo, diffusasi dal IV° secolo d.C.). P1,2,3,4 indicano i buchi lasciati dai pilastri del tetto.

La fase successiva nella storia di Hokkaidō, chiamata Cultura Satsumon (VIII°-XIII° secolo), comprende agricoltura e utensili in ferro, ma anche una spiccata influenza della cultura Okhotsk, smaccatamente marittima. Sia siti Satsumon che siti Okhotsk coesistono per secoli sulle coste settentrionali dell’Isola di Hokkaidō.

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Abitazione 1 dal sito di Tokoro Chashi in Hokkaidō, uno degli esempi meglio documentati di Cultura Okhotsk

Si tratta di Ainu?

In realtà non possiamo davvero parlare di Ainu prima del XIII° secolo.

Ancora negli anni ’70 era oggetto di dibattito se gli Ainu fossero gente Jōmon rintuzzata a Hokkaidō dai Wa meridionali, o gente arrivata nel XIII° dal nord. Aikens e Higuchi ipotizzano che gli Ainu siano diretti discendenti della cultura Satsumon.

Ad ogni modo l’archeologia conferma una divergenza culturale sud-sudovest-centro VS nordest-Hokkaidō, con i due estremi geografici che presentano la più grande diversità.

L’archeologia non è l’unico approccio alla questione: come accennavo nel mio articolo sullo stato, il concetto di “razza” è ormai riconosciuto come il pasticcio pseudoscientifico che è, ma checché ne dicano i “race realists” e altra feccia simile, questo non significa assolutamente che le differenze somatiche tra gruppi vengano ignorate o negate. In altre parole, le differenze somatiche esistono (dato oggettivo), la razza (concetto intellettuale che interpreta tale dato) è stato superato in favore di un approccio nettamente migliore e più scientifico (e che quindi si presta meno a bizzarre interpretazioni politiche).

A questo proposito, Hanihara sostiene che morfologicamente non c’è nessuna differenza tra gli scheletri del periodo Satsumon e i moderni scheletri degli Ainu. In altre parole, la gente di Satsumon aveva già l’aspetto dell’Ainu moderno. In contrasto, il sud-ovest del Giappone mostra, a partire dalla fine del periodo Jōmon, una somiglianza crescente con altre popolazioni del Nord-est Asiatico. Questa somiglianza è particolarmente evidente in Kyūshū e diminuisce progressivamente che ci si sposta verso il nordest dell’isola di Honshū.

In altre parole, la gente del nordest e di Hokkaidō mantiene le caratteristiche somatiche della popolazione Jōmon molto più a lungo rispetto ai gruppi che vivevano in altre regioni.

E che ne è della lingua?

La lingua Giapponese e quella Ainu sono diverse, ma hanno anche similitudini strutturali e lessicali importanti. Secondo Aikens e Higuchi, si tratta in entrambi i casi di lingue Altaiche, e secondo il metodo glottocronologico avrebbero cominciato a separarsi tra i 5.000 e gli 8.000 anni fa (più o meno quando il Giapponese iniziò a distinguersi dal Peninsulare da cui deriva anche il Coreano). I dialetti regionali odierni sono pure separabili in due ceppi distinti, che spaccano il paese in Nordest e Sudovest.

The best dialects memes :) Memedroid

Non sembra, ma Americano e Australiano sono lingue molto vicine

In realtà Robbets fa notare che non c’è per niente consenso sulla parentela genealogica del Giapponese, Coreano e altre lingue Trans-Eurasiatiche. Cioé, è apparente che Giapponese e Coreano sono legati, e pare che le lingue Tungusiche delle regioni vicine siano il parente prossimo più probabile, ma queste similitudini sono genealogiche (queste lingue hanno un antenato in comune) o semplicemente frutto della vicinanza geografica e dell’inevitabile meccanismo di appropriazione?

Nota rilevante: quando si parla di “lingue Altaiche” non si intende che gli Altai furono effettivamente la regione di origine di questa comunità linguistica. Già negli anni ’20 il linguista Ramstedt, un colosso della linguistica altaica, situa la possibile zona di origine  più a est, sui monti Da Hinggan.

Nel 1996 Juha Janhunen ipotizzò che, nonostante Mongolo, Tunguso, Coreano e Giapponese non fossero geneticamente legate, le comunità linguistiche rispettive avevano probabilmente origine nella stessa zona geografica che va dalla Corea alla Manciuria Meridionale. Da un punto di vista culturale, queste comunità sarebbero legate a quella che è definita oggi la Cultura di Hongshan.

Hongshan

Zona della Cultura di Hongshan

La comunità linguistica del proto-Giapponese e proto-Coreano sarebbe situata nel nord della Penisola Coreana.

Secondo Robbets esiste bel et bien una relazione genealogica tra il Giapponese, il Coreano e altre lingue Trans-Eurasiatiche (chiamate anche Altaiche). In altre parole, la lingua dei Wa e quella dei coreani sono strette parenti.

Pin on Owls and Pussycats

 

Quindi, che conclusioni possiamo trarre?

Già dagli inizi del periodo Jōmon notiamo delle differenze economiche e culturali tra la gente che viveva nel nordest di Honshū e Hokkaidō, e quella che viveva nel sudovest di Honshū e Kyūshū (Shikoku compare sempre pochissimo perché, per qualche oscura ragione, non se la fila mai nessuno!). Somaticamente la popolazione sembra molto uniforme nell’Arcipelago. E’ molto probabile che, oltre alle differenze culturali, economiche e religiose, i vari gruppi parlassero lingue diverse ma vicine tra loro.

Dalla fine del Periodo Jōmon iniziamo a notare una distanza progressiva sia a livello culturale che economico che politico che somatico.

Secondo Hanihara, gli isolani del periodo Jōmon, gli Ainu e gli abitanti delle isole Ryūkyū sarebbero geneticamente distinti dalla popolazione agricola del Periodo Yayoi e dai giapponesi moderni. In particolare, i geni della gente Jōmon e Ainu mostrano spiccate similitudini col genoma degli abitanti del Sudest Asiatico, mentre la gente Yayoi e i moderni giapponesi sono geneticamente simili a popolazioni del Nordest Asiatico.

Esistono anche nette differenze morfologiche tra la popolazione Yayoi e quella Jōmon. Stando agli scheletri, possiamo ipotizzare che la gente Jōmon fosse probabilmente alta di media 1,50m, con spalle larghe e una struttura robusta, nasi pronunciati e denti piccoli. La gente Yayoi pare avesse un’altezza media di 1,60m, fosse più slanciata, con nasi più piccoli e denti più grandi.

Questo supporta la teoria di ondate di immigrazione che si intensificano agli inizi del Periodo Yayoi e che avrebbero spinto la gente Jōmon verso la periferia.

Occhio però: c’è stata anche tanta mescolanza, e Hanihara non suggerisce assolutamente che Giapponesi e Ainu siano due popolazioni perfettamente distinte. Al contrario, i Giapponesi moderni hanno, chi più chi meno, similitudini con gli Ainu. In altre parole, gli Ainu derivano dai Jōmonesi, mentre i Giapponesi derivereddero da una commistione (più o meno importante) di Jōmonesi e immigrati continentali del Periodo Yayoi. Le similitudini tra Giapponesi e Ainu aumentano nelle regioni nordorientali di Honshū, dividento il paese in due regioni etniche tra Kyūshū e Hokkaidō, con una vasta zona grigia nel mezzo. La regione del nordest di Honshū e Hokkaidō mantengono una maggiore continuità col Periodo Jōmon per un lasso di tempo più lungo che non la regione del sudovest, che aveva frequenti e vivaci contatti con la penisola coreana e la Cina.

Un’ulteriore divisione avviene a partire dall’VIII° secolo: in Hokkaidō appare la cultura Satsumon, mentre il nordest di Honshū è progressivamente colonizzato da gente della regione centrale e meridionale. Come accennato a inizio articolo, questo si è accompagnato a migrazioni, deportazioni e guerre. Ciò nonostante, come abbiamo visto, la popolazione del nordest di Honshū non viene del tutto assimilata dai Wa: mantengono tratti linguistici, somatici e culturali nettamente distinti da quelli della regione centrale. Allo stesso tempo, adottano caratteristiche delle popolazioni centromeridionali, differenziandosi dagli Ainu di Hokkaidō ma sensa essere del tutto assorbiti dai Giapponesi meridionali.

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Quindi, tornando alla nostra domanda: gli emishi  sono Ainu?

No, gli emishi vengono prima degli Ainu.

Gli emishi e gli Ainu hanno origini comuni?

Sì. In realtà pare proprio che tutti gli abitanti delle isole giapponesi siano discendenti dei Jōmonesi, e che si siano sviluppati in modo diverso a seconda delle correnti culturali e migratorie a cui erano soggetti.

Quindi con emishi si intende un qualche tipo di gruppo proto-Ainu, in opposizione coi Wa della regione centro-meridionale?

No.

Possiamo affermare con relativa sicurezza che il nordest era abitato da gente diversa dal sudovest.

Ma è importante ricordare che emishi è un termine politico, non etnografico.

Come abbiamo visto, esistono varie tradizioni culturali, somatiche e linguistiche nell’arcipelago giapponese. Il termine “emishi” non indica un gruppo particolare, ma una regione. In principio, indicava “quelli che non sono sudditi del re di Yamato”, con gli anni lo troviamo affibbiato anche a funzionari del governo, che magari erano “discendenti di quelli che non sono sudditi del re di Yamato”.

In altre parole, gli “emishi” sono i “barbari orientali”.

Da un punto di vista etnico, la sola cosa che possiamo dire di loro è che i futuri Ainu discendono da (alcuni degli) emishi, ma non tutti gli emishi erano proto-Ainu.

Emishi comprende proto-Ainu, ma anche immigrati coreani provenienti dalla federazione di Gaya, o dal regno di Silla, o addirittura dal temuto regno di Goguryeo, comprende sudditi di Yamato che si sono dati alla macchia, gente che ha vissuto nel nordest per millenni, e gente che è arrivata dal Kantō per non dover sottostare al nuovo governo centralizzato.

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Non abbiamo modo di definire gli emishi con certezza. Le uniche fonti che ne parlano sono quelle di Yamato, che usano la parola “emishi” con lo stesso vago razzismo inconsistente con cui certi mentecatti italiani usano la parola “rifugiato”. Sembra che si stiano riferendo a qualcosa di specifico, ma nei fatti il significato assegnato alla parola è “quell’orda di gente aliena in contrasto con noi, società civile ed evoluta”.

E’ probabile che gli Yamato abbiano adottato questo tipo di tono e narrativa dai Cinesi. Nello Shan Hai Ching (山海経), il Classico delle montagne e dei mari, opera già in circolazione al tempo degli Han Occidentali (206 a.C.-9d.C.), compare il termine “毛民”, letteralmente “popolo peloso”, riferito a un popolo barbarico del nordest, che abita in delle isole del Pacifico ed è descritto come basso, peloso, primitivo, che vive in case scavate nel terreno.

Sounds familiar?

Uno dei termini che i Giapponesi usarono per riferirsi ai “barbari orientali” o emishi è ebisu “毛人”, “gente pelosa”, o mōteki “毛狄”, “nemici pelosi”.

Familiar yet?

In realtà i termini giapponesi si distinguono in senso ed uso da quelli cinesi, ma è possibile che lo Shan Hai Ching o la tradizione cinese in generale siano la fonte d’ispirazione per la scelta di detti termini.

Questo non significa che Ainu ed emishi non avessero nulla a che fare. Al contrario, hanno molto a che fare ed esistono importanti continuità culturali, linguistiche e somatiche tra gli abitanti del nordest e gli Ainu.

Il punto è che la realtà culturale ed etnografica dell’Arcipelago Giapponese è molto più complessa di un semplice Giapponesi VS Ainu.

Tra VIII° e XIII° secolo, periodo della “pacificazione” della regione nel nordest di Honshū, possiamo stabilire che gli emishi avevano sì tratti comuni con gli Ainu, ma pure tratti comuni con i Wa della regione centrale, e benché non si fossero coalizzati in una società stratificata di tipo statale come la corte di Yamato, il loro livello tecnologico era più o meno lo stesso di quello delle truppe imperiali.

Quanto alla loro organizzazione economica, c’erano ovvie differenze con le attività delle regioni più calde, ma gli emishi praticavano l’agricoltura, estraevano il ferro e allevavano cavalli proprio come i loro antipatici vicini colonizzatori (probabilmente allevavano più cavalli perfino, ma questa è un’altra storia).

Da quello che possiamo estrapolare, gli emishi erano stanziati in vari territori che gli imperiali chiamano mura, e organizzati su base clanica o tribale, in gruppi che potevano federarsi o dissolversi a seconda delle necessità, e che non di rado erano in guerra tra loro. In altre parole, un’organizzazione non troppo diversa da quella che si suppone aver caratterizzato il resto del Giappone prima del processo del secondary state formation che ha portato al regno di Wa.

Re_Yamato

Il re di Wa secondo le haniwa funerarie

E’ più che probabile che questo discorso sugli emishi non sia più attuale di qui a qualche anno. Le uniche fonti scritte di cui disponiamo sono estremamente parziali e povere in dettagli. Non solo: a differenza della Cina, la corte giapponese non ci ha lasciato nessuna opera “etnografica” degna di questo nome. Non solo non abbiamo testimonianze dirette, ma non abbiamo nemmeno un punto di vista esterno che sia ragionevolmente neutrale: la letteratura di questo periodo è estremamente politica.

Con il progresso della scienza, delle tecniche archeologiche e delle metodologie sociologiche ed etnografiche, è molto possibile che il nostro punto di vista su questa strana gente nordorientale cambi ancora, come già è avvenuto in passato.

Ora, volevo concludere col caveat che questo si tratta di un articolo molto superficiale sull’argomento, e che siete invitati ad approfondire, e che il dibattito storiografico non si conclude mai.

Ma ho di recente visto l’ennesimo video di un Tuttologo cianciare di Neomarxismo Postmodernista (se vi sembra una contraddizione in termini, non siete i soli), di come nelle Università sia praticamente IMPOSSIBILE dibattere di cose e di come tutti, studenti e ricercatori, DEBBANO confermarsi all’immutabile e definitiva sentenza dell’”accademia”.

E sapete che? Mi garba questo fantasioso mondo alternativo.

Quindi scordate gli ultimi paragrafi: Io sono il vostro profeta, ogni singola parola da me scritta è assolutamente corretta perché l’ho detto io, chiunque non sia d’accordo è Nazista e, per citare Karl Marx: “be gay, do crime!”.

MUSICA


BIBLIOGRAFIA

AIKENS Melvin C., HIGUCHI Takayasu, Prehistory of Japan, Academic Press, Londra, 1982

CRESCENTE Nadia. “Il Nord del Giappone verso la conversione agraria. Le più recenti indicazioni archeologiche.” Il Giappone, vol. 40, 2000, pp. 5–36

FRIDAY Karl F. “Pushing beyond the Pale: The Yamato Conquest of the Emishi and Northern Japan.” Journal of Japanese Studies, vol. 23, no. 1, 1997, pp. 1–24

HANIHARA Kazuro. “Emishi, Ezo and Ainu: An Anthropological Perspective.” Japan Review, no. 1, 1990, pp. 35–48

INOUE Mitsusada, SAKAMOTO Tarō, IENAGA Saburō, ŌNO Susumu, Nihon shoki (jō, ge), Iwanami Shoten, Tōkyō, 1968, Keiko 27/2; Saimei 5/10 int.

ROBBETS Martine, “The historical comparison of Japanese, Korean and the Trans-Eurasian Languages”, in Rivista degli Studi Orientali, vol. 81, n.1/4, 2008, p.261-287

SASAKI Kaoru, Ainu to « Nihon », Yamakawashuppansha, Tōkyō, 2001

TAKAHASHI Takashi, Emishi, Chūkō shinsho, Tōkyō, 1989

YAGI Mitsunori, Kodai emishi shakai no seiritsu, Dōseisha, Tōkyō, 2010

La collezione di materiali archeologici del bacino inferiore del fiume Tokoro

 

 

 

Dello Stato: dotti bisticci su uova e galline

Sono passati mesi dal mio ultimo articolo. La ragione principale è una full immersion nella mia tesi dottorale, che dovrò ben finire un giorno o l’altro. Oh my, non vedo l’ora di raggiungere la crescente schiera di disoccupati ultraqualificati sotto i ponti di Parigi!

Per questo articolo, l’idea in principio era di scrivere una lungagnata mostruosa sullo stato di Yan o sul misterioso regno di Buyeo, dove i morti sono accompagnati da maschere di bronzo che urlano per sempre nel buio.

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Maschere mortuarie dal sito di Maoershan, National Museum of Korea, Seoul

Tutta roba molto figa, però mi sono resa conto che per una comprensione migliore era necessario un verboso e noioso preambolo sui termini impiegati dalla storiografia e dall’archeologia. Uno dei concetti che cicciano fuori sempre quando si parla di Buyeo (o anche di Wa) è quello di stato.

Quando una società primitiva si trasforma in Stato, perché, come?

Tutti impieghiamo il termine “stato”, di rado ci poniamo la questione del significato. Quindi oggi parleremo di questo: cosa chiamiamo stato? Come nasce e perché?

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Questions!

Lo stato: un appassionante dibattito sui termini

Prima d’impelagarci sulla natura dello stato è necessario introdurre prima il concetto di polity.

Polity viene definita da Yale Ferguson e Mansbach Richard come una qualsiasi entità politica o gruppo di persone aventi un’identità collettiva, che siano in grado di smuovere risorse e che siano organizzati in una qualche forma di gerarchia istituzionalizzata.

Spesso il termine polity viene impiegato per indicare gruppi umani organizzati senza sbilanciarsi troppo attribuendo loro caratteristiche anacronistiche o scorrette.

Anche il termine polity può però essere anacronistico, dacché presuppone un senso di identità collettiva. A che punto possiamo dire che un gruppo mostra segni di identità collettiva e cosa vuol dire “identità”?

Il principale problema quando si studiano gli esser umani è che non sono animali: non agiscono in base a condizioni oggettive, ma si comportano in buona parte sulla base di percezioni e sentimenti. E le percezioni e sentimenti non lasciano chiare tracce archeologiche.

Da un punto di vista meramente materiale, la razza umana è un continuum: possiamo riconoscere tratti etnici o culturali comuni, ma non possiamo identificare netti confini o usare detti tratti per isolare scientificamente una popolazione dall’altra. In altre parole, la realtà non è un Fantasy per adolescenti: le razze non esistono.

Quella che però esiste è l’identità. Esistono gruppi che si identificano come separati da altri. Questa distinzione non ha necessariamente base su dati oggettivi, ma ha effetti sulla realtà oggettiva, il che la rende reale.

In Storia si cerca di aggirare questo spinoso problema basandoci sul concetto di culture piuttosto che su quello di etnie.

Abbiamo “la gente della ceramica Mumun”, “quelli che fanno i tumuli a forma di buco di serratura” o “quelli che coltivano il riso in risaie allagate”. Il vantaggio è che ci possiamo basare su cose che la gente fa, che è il meglio che si possa sperare in contesti dove gli uomini non hanno lasciato documenti scritti in cui parlano della propria identità.

Ovvio, questo approccio porta con sé il suo ballino di problemi: una cultura archeologica è una convenzione diagnostica che riguarda particolari set di cultura materiale (come detto, il tipo di ceramica, o di arma, ecc.).

In archeologia occidentale c’è stata in passato la tendenza a dare per scontato che la gente all’origine di una determinata cultura archeologica in una determinata regione appartenesse anche a una determinata etnia.

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Ceramica Mumun, esempio di cultura archeologica coreana

In altre parole, se nella valle dell’Arno venivano trovati piselli di terracotta fabbricati nella stessa maniera e associati alla stessa forma di capanna di fango, si supponeva che la Gente dei Piselli fosse tutta della stessa etnia (il Popolo dei Glebani, per esempio).

Questo approccio cultura dei piselli = popolo dei piselli è ancora vero per certi archeologi cinesi. E si capisce: è comodo. Ho dei dati oggettivi che mi dicono che questa gente faceva la stessa roba (per lo meno in certi ambiti), magari i resti umani che ho si somigliano pure, ne deriva che sono la stessa gente!

E’ qui che la percezione e l’identità entrano in gioco.

Per restare in toscana, Fiorentini e Pisani hanno più o meno lo stesso aspetto, mangiano roba simile, costruiscono case simili e parlano lingue molto affini (ho sentito che ogni tanto si accoppiano pure tra di loro). Resta però il fatto inoppugnabile che Pisa merda.

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Scherzi a parte, non ha davvero importanza se ‘sta gente cucina, costruisce muore allo stesso modo: se si considerano di gruppi diversi questo avrà un effetto sulle loro azioni e sulla loro storia. Non solo: molti elementi culturali lasciano poche tracce archeologiche (musica, filosofia, credenze, dialetti, ecc).

Più etnie possono condividere la stessa cultura archeologica, o una sola etnia può manifestare numerose culture archeologiche. Insomma, questa corrispondenza cultura/etnia non può essere data per scontata.

Ma cosa si intende per etnia?

Nel 1969 Barth Fredrik propose che per delimitare un gruppo sociale l’accento non doveva essere messo sui tratti culturali, ma sugli ethnic boundaries, le delimitazioni etniche. Queste delimitazioni, questa identità etnica, sarebbe secondo Barth qualcosa che persiste attraverso diverse culture e sopravvive a fenomeni come le migrazioni.

La caratteristica dell’identità etnica è che non nasce da sé. Non esiste da sola: è qualcosa che viene sempre elaborato in funzione di qualcos’altro.

L’identità si costruisce in opposizione a qualcosa o a qualcuno. Si conviene che il nostro gruppo ha determinati attributi che gli altri non hanno (o hanno in modo diverso), e questo a prescindere dalla forma dei pitali o delle tombe.

Nel 1986 Smith Anthony ha offerto una definizione utile di etnia: si tratta di una comunità accomunata da un senso di unicità culturale e comunione storica:

A named human population with shared ancestry and myths, histories and cultures, having an association with a specific territory and a sense of solidarity. (The Ethnic Origins of Nations)

Una determinata popolazione umana che condivida ascendenze e miti, storie e culture, che abbia un’associazione con un territorio specifico e un senso di solidarietà.

Notare il miti e le storie: la narrativa è il modo con cui le società umane costruiscono il proprio mondo (o per lo meno la visione che ne hanno, che nella pratica è la stessa cosa).

Che conseguenze ci sono quindi per gli archeologi?

Gli esseri umani esprimono la propria identità attraverso la propria cultura materiale. Deve esserci un modo di raccattare indizi basandosi sui resti!

Dagli anni ’70 l’archeologia occidentale ha cercato di correggere il tiro individuando non tanto elementi culturali, ma insiemi significativi di elementi culturali e lo stile (stile inteso come la forma e non la sostanza di un oggetto) di detti elementi.

Lo stile diventa particolarmente riconoscibile quando si ha a che fare con società-stato, o per usare un anglicismo state-lever societies.

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Il tumulo attribuito all’Imperatore Nintoku. La forma, la taglia delle tombe e la ricchezza e qualità del corredo funerario sono indicatori molto usati per elaborare ipotesi sulla società Wa di prima dei Codici

Lo stato non è sempre stato un termine ben definito in Scienze Sociali.

Cohen ha individuato 3 tipi di definizione di stato, che optano per porre l’accento su 3 caratteristiche diverse:

  • Le definizioni basate sulla stratificazione sociale: mettono l’accento sulla correlazione tra l’emergere dello stato e la nascita di una società a classi stabili. Una stratificazione in classi presuppone che gruppi diversi godano di un diverso accesso alle risorse.
    Il primo ad articolare un discorso moderno sull’argomento è Rousseau, ma è il magico duo Marx-Engels ad avere l’impatto maggiore. Per quelli che sposano questo tipo di definizione, lo stato è il frutto di una società stratificata in cui la classe dirigente ottiene il controllo dei mezzi di produzione. Lo stato è elaborato per mantenere questo controllo e difendere i privilegi dell’élite.
    Fried Morton sposa questa posizione: per lui lo stato è un sistema di governo centralizzato che emerge inevitabilmente da un sistema di ineguaglianze istituzionalizzate in cui i capi hanno un accesso privilegiato alle risorse.

  • Le definizioni basate sulle strutture dello stato stesso: questo approccio si rifà a pensatori del XIX° come Herbert Spencer, Lewis Henry Morgan e Henry Maine. E’ stato ripreso a inizio XX° da gente come Hobhouse, Wheeler e Ginsburg, che definiscono lo stato come un sistema di relazioni di autorità gerarchiche in cui le unità politiche locali perdono autonomia e finiscono subordinate a un’autorità centrale.
    Cohen schiaffa nella stessa categoria le definizioni offerte da Wright e Johnson, che si focalizzano sul mezzi attraverso cui l’informazione è processata in uno stato. Adams invece mette l’accento su come l’energia è ottenuta e usata dal governo centrale. Per costoro le interazioni sociali sono transazioni o flussi di informazioni in cui strati più alti decidono e influenzano strati più bassi. Questo approccio è particolarmente usato dagli archeologi per trovare indicatori e poi catalogare le società sulla base di come trasferiscono informazioni o su come ottengono e distribuiscono l’energia.

  • Infine ci sono definizioni a posteriori che si concentrano su tratti diagnostici: quali sono gli elementi che accomunano i primi stati centralizzati? Il problema di questo approccio è che non si può ottenere un set standard di caratteristiche che sia applicabile a più di un pugno di società. Alcune fanno sacrifici umani altri no, alcuni chiedono totale fedeltà altri lasciano spazio alla semi-subordinazione, ecc.

Ma come si arriva allo stato?

In generale gli studiosi convengono che c’è una progressione da una società più semplice verso una società più complessa.

In antropologia occidentale, i modelli tassonomici principali sono quelli di Service e Fried.

Tra parentesi, questi due non erano d’accordo su un sacco di cose ma scrivevano comunque libri insieme. E’ uno spasso!

(Vabé, mi diverto male, ma se non mi divertivo male col cazzo che finivo in dottorato).

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Il modello di Service ipotizza un’evoluzione dalla banda, alla tribù, al chiefdom (il livello sopra quello puramente tribale, con un territorio controllato da un capo principale) e infine lo stato.

Per Fried, che riprende le teorie di Engels di lotta tra classi, si passa da un contesto primitivo con una società relativamente egalitaria e si procede verso società sempre più complesse: società a ranghi, società stratificata e società statale.

Personalmente non amo troppo il termine “egalitario” quando si parla di società umane, che sono sempre gerarchiche in una qualche misura. Quello che però si intende qui non è tanto che i Cromagnon fossero una democrazia, quanto che c’è una differenza sostanziale tra un anziano nel gruppo di cacciatori raccoglitori che funge da memoria storica del gruppo, e un re Yamato che può smuovere decine di migliaia di operai per costruire la sua tomba monumentale.

C’è anche da notare che la differenza tra una società complessa non statale e una statale non è netta.

Per Cohen il tratto che distingue lo stato da altri tipi di organizzazioni è la capacità della società statale di restare unita.

I non-stati tendono a spaccarsi in unità simili tra loro: una banda cresce fino a un certo punto, oltre il quale un gruppo decide di staccarsi e allontanarsi, costituendo una nuova banda simile alla prima. Stesso vale per le tribù e i chiefdoms. Lo stato è l’unica struttura che invece è costruita per resistere a questa tendenza centrifuga. Lo stato si può espandere senza dividersi, fagocitare altre polities, diventare eterogeneo e crescere senza i limiti stringenti di strutture meno complesse.

Questo perché lo stato ha la capacità di coordinare lo sforzo umano in azioni collettive di portata generale. Per ciò fare, lo stato evolve una classe dirigente o burocrazia governativa. I burocrati, come gerarchia ufficiale, fungono da collante tra i non-funzionari e il regime.

Nei chiefdoms la situazione è differente: anche loro possono avere funzionari e centri di organizzazione del potere, ma ogni nodo della rete è una replica dell’ufficio al centro del sistema. Quando la pressione è troppa, i nodi possono spezzarsi e sono già strutturati per essere repliche indipendenti capaci di eseguire funzioni governative.
Al contrario, negli stati antichi i funzionari al centro hanno funzioni uniche che non vengono svolte da nessun altro nel sistema. I centri di potere locali sono costruiti sul modello di quello centrale ma non ne sono una replica.

Byington cerca di offrire una definizione complessiva di stato: è una polity complessa, caratterizzata da una significativa stratificazione sociale, con almeno 2 classi (i governanti e i governati), un governo centralizzato con una burocrazia professionale, un corpus di leggi e un monopolio dell’uso legittimo della forza.

Ma viene prima la società stratificata, o la stratificazione è un effetto dello Stato?

Nasce prima l’uovo o la gallina?

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Nasce prima il Tuatara

Ci sono due modelli principali su come lo stato nasce: il modello di Service mette avanti l’integrazione e la cooperazione organizzata tra diverse parti della società; Fried d’altro canto mette avanti il conflitto, la lotta e la forza coercitiva dello stato.

Per chi spinge la teoria del conflitto, la centralizzazione deriva dalla competizione: gruppi lottano per il controllo di risorse limitate e alla fine uno dei contendenti vince stabilendo il controllo (almeno per un periodo) sulle risorse. Il punto è l’ineguale accesso alle risorse.

Per Fried l’ineguale accesso alle risorse è ESSENZIALE per la formazione di uno stato: un gruppo conquista l’accesso privilegiato a una risorsa e si trova quindi nella necessità di difendere detto accesso. La centralizzazione e il potere repressivo che mantiene la stratificazione sociale sono elaborati a questo scopo.

Fried distingue inoltre tra primary (pristine) states, ovvero stati che si sono spontaneamente evoluti, e secondary states, ovvero stati che si sono evoluti sotto l’influenza di stati vicini preesistenti.

Va da sé, i secondary states sono la forma più comune di state formation.

Service d’altro canto focalizza invece sull’aspetto di integrazione. Sì, lo stato ha conflitti, ma lo stato ha anche una capacità straordinaria di organizzare e coordinare grandi numeri di persone, spesso di diversi background etnici o ecologici. L’idea che lo stato sia tenuto insieme solo o soprattutto dalla minaccia della forza coercitiva da parte dell’autorità centrale è riduttiva: la gente in uno stato spesso supporta lo stato. Per Service quello che tiene insieme lo stato non è la violenza, ma la reciprocità e la legittimità.

Si può argomentare che non esiste legittimità senza una qualche forma di reciprocità, ma questo è un ginepraio per un altro articolo!

Da un punto di vista pratico, Service nota che un governo centralizzato offre protezione e sicurezza, strumenti per gestire le dispute, accesso a risorse in cambio di accettazione dell’autorità.

La principale opposizione tra Service e Fried sembra filosofica e porta sullo stato stesso, visto come un’entità benefica che richiede un prezzo per un vantaggio sociale generale (Service) o una struttura oppressiva nelle mani delle classi dirigenti volta a mantenere le classi subalterne nella loro condizione di sfruttamento (Fried).

Dall’alto della mia inesistente esperienza di ricercatrice io dico che entrambe sono vere. Ormai si considera che entrambi i punti di vista hanno limiti e meriti, e una posizione non esclude necessariamente l’altra.

Han Fei (?-233 a.C.), fondatore del Legismo e grande fan dell’uso della forza repressiva da parte dello Stato, perché gli uomini sono belve e solo uno Stato autocratico e severo può impedire ai glebani di sbranarsi tra di loro. Odiava la plebe e morì suicida.

Ma parliamo della storia, di come mai certe società diventano stati altre no.

Come per ogni fenomeno storico, è necessario un contesto che lo renda possibile, ed è necessaria l’interazione di un certo numero di fattori.

Fino agli anni ’70, il discorso accademico ha cercato di individuare i “fattori decisivi”, i prime movers all’origine della statalizzazione. Tradizionalmente questi si dividono in fattori sociali e fattori ambientali. Alcuni esempi di ipotetici prime movers possono essere l’aumento demografico, la circoscrizione di una società in un ambiente definito, una guerra di conquista, lo sviluppo di un complesso sistema di irrigazione, il commercio su lunga distanza, ecc.

Nel 1972 L’archeologo Flannery Kent intervenne nel dibattito su questo miracoloso “fattore catalizzante” criticando l’approccio semplicista alla questione e auspicando una visione più “multi-variabile” che tenesse conto di numerosi fattori contemporaneamente, inseriti in un contesto socio-ambientale.

L’intervento di Flannery fu preso sul serio e nel 1978 Cohen propose un nuovo modello che vede la formazione dello stato come un processo sistemico (ovvero avente un effetto su tutto il sistema/organizzazione) e multi-causale.

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Sta geremiade è quasi finita, tenete duro!

Come accennato prima, Fried ha introdotto la distinzione tra pristine states e secondary states. Nel 1992 Rhee Song Nai propone una nuova categoria, ovvero quella si stato autoctono.

Se il pristine state è un’evoluzione spontanea e il secondary state è l’effetto di una diretta influenza subita da parte di uno stato vicino, come spiegare la formazione di stati in regioni che non erano in diretto contatto con stati preesistenti?

Nella penisola coreana, ad esempio, possiamo constatare che polities si “statalizzano” sotto l’influenza di enti come la Cina dei Wei, pur non subendo una diretta minaccia o un contatto continuo.

Per Rhee, che parlava nello specifico del regno di Goguryeo, lo stato autoctono si forma sotto l’influenza di stati distanti. Alcuni dei fattori in gioco in questo caso sono il commercio su lunga distanza e la circoscrizione.

Il commercio è spesso un elemento importante nella nascita degli stati o nell’evoluzione delle società in generale: il commercio può introdurre una nuova tecnologia che stravolge del tutto le abitudini, può consolidare il potere dell’élite o può provocare uno slittamento del potere (per esempio la nascita di una prospera classe mercantile).

C’è un nesso tra la differenziazione organizzativa di una società e la sua abilità di mantenere reti di scambi commerciali: per esistere, il commercio necessita surplus, concentrazione dei beni, logistica, ecc.

Per quanto riguarda la circoscrizione, il termine indica un limite al territorio o all’accesso alle risorse. Se queste limitazioni portano a urti coi vicini, questo può incoraggiare il senso di identità di cui parlavamo a inizio articolo o anche a una centralizzazione dell’autorità (un’autorità centralizzata semplifica l’organizzazione della difesa).

Le pressioni esterne possono controbilanciare le tensioni interne a una società, spingerla a stratificarsi e statalizzarsi. Niente di meglio di un nemico per stimolare il senso di identità. Come dice Byington, the clear notion of “us” depends largely on a “them” to which draw contrast.

La pressione esterna, la scarsità di risorse, la necessità di organizzare e gestire strutture complesse come commercio o irrigazione sono tutti fattori capitali nella creazione di uno stato, pristine, secondary o autoctono. Nessuno di questi elementi è però sufficiente, preso da solo.

Come tutto ciò che riguarda le società umane, non esiste una formula matematica sempre applicabile.

Esistono mille tipi di autorità e strutture sociali, e le loro forme sono determinate da innumerevoli fattori (ambiente, storia, cultura, livello tecnologico, mezzi di produzione, ecc.). La natura delle società fa sì che di solito è impossibile determinare con certezza cosa sta influenzando cosa: se è il commercio a incoraggiare la stratificazione sociale e la specializzazione o se il commercio si sviluppa perché c’è stratificazione e specializzazione.

Personalmente trovo che la discussione sull’uovo e la gallina abbia un interesse relativo: questi fattori si influenzano l’un l’altro, evolvono e cambiano insieme.

A parer mio la costante che caratterizza ogni forma gerarchica umana non è tanto il potere coercitivo o l’accesso privilegiato a risorse strategiche (che, to be fair, sono spesso fattori), quanto la legittimità del potere politico.

Le società sono adattamenti evolutivi e hanno determinato la nostra sopravvivenza in un mondo dove quasi tutto cercava di ucciderci. Ma le società si basano principalmente su una serie di convenzioni. Anche il sentimento identitario, alla fine, non è che un accordo su un certo numero di convenzioni.

Il fatto che siano convenzioni non le rende meno importanti: una convenzione può essere inventata di sana pianta e basata sul nulla assoluto, ma il fatto che sia condivisa da un certo numero di individui fa sì che abbia un effetto, e quindi sia reale.

La legittimità è pure una convenzione, a mio modesto parere tra le più arcaiche e radicate nella nostra psiche.

La legittimità può essere costruita, manipolata o minata, ma nessuna classe dirigente ha mai avuto un controllo totale e duraturo su di essa. La legittimità del potere politico è la chiave di volta necessaria a tenere insieme e una qualsiasi gerarchia, e abbiamo numerosi esempi di classi dirigenti che, pur avendo il monopolio del potere coercitivo, non sono riuscite ad evitare lo sgretolamento della loro società. La legittimità è quella cosa che i cinesi chiamavano il Mandato del Cielo.

Ma questo è argomento per un altro verboso articolo!

Per ora mi limito a parlare di stato, che ritengo di aver punito a sufficienza i miei lettori (per ora!).

WE ARE BACK IN BUSINESS BITCHES!

MUSICA!


Bibliografia

BYINGTON Mark E., The Ancient State of Puyo in Northeast Asia, Harvard University Press, Cambridge, 2016, p.279-306

COHEN Ronald et SERVICE Elman R., Origins of the State : The Anthropology of Political Evolution, Institute for the Study of Human Issues, Philadelphia, 1978

WEBSTER David, “Warfare and the Evolution of a State: A Reconsideration”, in American Antiquity, vol.40, n° 4, Cambridge University Press, Cambridge, 1975, p.464-470

Letture aggiuntive

BARTH Fredrik, Ethnic Groups and Boundaries, 1969

FLANNERY Kent, “The Cultural Evolution of Civilization”, in Annual Review of Ecology and Systematics 3, 1972

FRIED Morton, The Evolution of Political Society: an Essay in Political Anthropology, 1967

RHEE Song Nai, “Secondary State Formation: The Case of Kuguryo State”, in Pacific Northeast Asia in Prehistory: Hunter-Fisher-Gatherers, Farmers, and Sociopolitical Elites, 1992

SERVICE Elman, Primitive Social Organization: An Evolutionary Perspective, 1962

VERMEULEN Hans e GOVERS Cora, The Anthropology of Ethnicity: Beyond “Ethnic Groups and Boundaries”, 2000

In vita e in morte: l’arrivo del cavallo in Giappone

Pochi animali hanno avuto un impatto sulla storia giapponese come il cavallo.

Il cavallo è stato guerriero, messaggero, oggetto di cerimonie, soggetto di poesia e pittura, strumento diplomatico e ragione di guerra. Il suo allevamento ha cambiato la struttura economica e sociale, ha modellato l’orografia stessa di certe regioni.

In passato ho accennato alla Storia del cavallo domestico, a come, da ronzino di poche regioni della steppa, il nostro si sia diffuso sul Pianeta intero (invito a leggere i commenti e a clickare sul link fornito dall’ottimo compare Ghezzi).

Ho anche scritto della teoria di Egami Namio, secondo cui un popolo di cavalieri altaici avrebbe invaso l’arcipelago e fondato la dinastia di Yamato. Come potete leggere nell’articolo, la teoria è stata disputata e non è ormai accettata da nessuno, ma l’occasione ci ha permesso di apprezzare in parte l’apporto importantissimo delle polities coreane a quella che diventerà poi la cultura giapponese.

Ma come è arrivato il cavallo in Giappone, e quando? Per quale ragione?

Può parer bizzarro, ma il primo lavoro del cavallo sull’Arcipelago non è stato in campo militare o agricolo.

Il cavallo che arrivò in Giappone era un cavallo sacro, e oggi parliamo del suo debutto sulle isole.

Perché?

Perché è una storia affascinante che vi farà certamente guadagnare un sacco di punti con gli amici al bar!

Ufficiali di polizia a cavallo, dal Ban dainagon ekotoba

Tanto tempo fa, nel Miocene (23-5 milioni di anni fa), là dove un giorno esisterà il Giappone, sgambettavano lieti due adorabili animaletti: l’Hipparion e l’Anchiterium, due mammiferi perissodattili considerati come gli antenati dei cavalli nostrani. A questo stadio il Giappone non era un arcipelago, ma una massa di terra collegata al continente. Il magico duo poté quindi diffondersi nelle vaste foreste di laurisilve e scorrazzare lieto su colline e litorali.

Anche le belle cose però finiscono, e col declino dell’Era Glaciale questi equidi preistorici diminuisconoe finiscono per svanire senza lasciare discendenti. Con l’innalzamento del livello del mare, 18.000 o 12.000 anni fa, il Giappone si trova infine tagliato dal Continente.

Secondo Aikens, i primi umani arrivarono in Giappone alla stessa maniera dell’Hipparion e dell’Anchiterium, nel Pleistocene Medio, circa 200.000 anni fa (data attribuita al sito di Sozudai, nel nord-est di Kyūshū, dove abbiamo ritrovato quelle che potrebbero essere le più antiche tracce di attività umane sulle isole). A questo punto, è probabile che gli equidi giapponesi fossero già estinti.

Gli anni passano, e mentre sul continente si evolvono cavallucci simili alle bestie nostrane, il Giappone resta del tutto privo di equidi.

Verso il 10.000 avanti cristo le prime forme di ceramica compaiono in Kyūshū, marcando l’inizio del lungo Periodo Jōmon (10.000-300 a.C.). Il cavallo resta assente dai siti archeologici e dall’Arte. Non esiste nel mondo e non esiste nella mente dei primi abitanti delle isole.

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Fossile di Hipparion, notare le tre ditina là dove il nostro cavallo ne ha uno solo

Rare tracce ricompaiono di quando in quando verso la seconda metà del Periodo Jōmon. Si tratta senza dubbio di bestie importate dalla Corea e trasportate via nave. I ritrovamenti equini sono di conseguenza rarissimi: Kidder cita ad esempio il cumulo di Ataka, nel dipartimento di Kumamoto, risalente probabilmente al Jōmon medio. Qui avremmo trovato le ossa di un piccolo cavallo. Resti simili sono saltati fuori in Izumi, nel dipartimento di Kagoshima. In entrambi i casi le ossa non mostrano segni di mutilazione ed è possibile che gli animali in questione siano stati accuditi fino alla vecchiaia, come esotiche bestie simbolo di potere economico e politico.

Come accennato in articoli passati, gli scambi con la Corea sono una costante nella quasi totalità della storia giapponese, e a maggior ragione nella preistoria: il commercio tra la penisola e le isole era fiorente! Un esempio sono le tombe del sito di Donghwa-dong, dove abbiamo trovato molte ossidiane di Kyūshū e ceramiche tipiche dell’industria Jōmon.

In generale, l’uomo Jōmon è un cacciatore-raccoglitore : nonostante la presenza di un’industria relativamente sviluppata (vedi l’esporto di ossidiane), la gente di Jōmon non coltiva e, soprattutto, non alleva.

Verso il IV° secolo a.C. si verifica una vera e propria rivoluzione: dal continente arrivano la coltivazione del riso, il bronzo e l’allevamento. Ciò coincide con l’arrivo di gente nuova, dalla fisionomia diversa rispetto alla gente di Jōmon. Si tratta di coreani che, spinti dalla pressione demografica, traboccano sulle isole. E’ l’inizio del Periodo Yayoi (300 a.C. – 300 d.C.). I nuovi arrivati e le nuove tecniche si radicano presto in Kyūshū. Secondo Rhee e Song-Nai, i nuovi arrivati erano particolarmente inclini ai matrimoni misti, e in poche generazioni possiamo constatare il fiorire di una cultura originale.

E’ importante sottolineare che a questo stadio non c’è un confine netto e definitivo tra la cultura delle isole e quella della penisola: specie tra il nord-Kyūshū e il sud-Corea notiamo molte similitudini culturali e antropologiche, anche se gli isolani mantengono caratteristiche distintive (tipo la pratica della mutilazione dentale, roba che i coreani saviamente evitavano).

La cultura Yayoi è molto più cosmopolita di quella Jōmon (che pure non era proprio isolata). In particolare col I° secolo d.C., oltre ai numerosi scambi con la penisola coreana, i capi-clan Yayoi allacciano relazioni anche con gli Han, con la comanderia di Lelang e con quella di Daifang.

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Come avevamo accennato in articoli precedenti, l’Arcipelago del I° secolo è tutto fuorché un paese unito. Lo Han Shu racconta di una trentina di “paesi” governati da “re” che versavano un qualche tipo di tributo agli Han. Ovvio, che cosa intendessero i cronachisti cinesi con “paese” e “re” è un gran mistero.

In ogni caso col III° secolo la Cina entra in uno dei suoi ricorrenti periodi di guerre civili e macelli: è il celeberrimo periodo dei Tre Regni, fonte di ispirazione di innumerevoli romanzi, film, poesie, dipinti, ecc. Niente stimola la creatività umana come un bel bagno di sangue e trauma irrisolvibile.

Secondo Kuji, quest’apoteosi del clusterfuck fu uno dei fattori che spinsero la coalizione e unificazione delle centinaia di polities microscopiche disseminate per la penisola coreana e l’arcipelago giapponese. Nell’arcipelago, un clan in particolare emerse più potente degli altri, alla testa di una modesta coalizione di capifamiglia, capi di territorio, predoni assortiti e quant’altro: il clan Yamato.

Questa nuova entità politica allacciò rapporti diplomatici con i nuovi signori di Lelang (la dinastia fondata da Gongsun Du) e poi con i Wei, non appena questi si papparono la penisola del Liaodong. Perché, checché ne dicano i sovranisti e altri scoppiati, “farsi i cazzi propri in casa propria” era una cosa cretina da pensare anche nel Giappone preistorico.

Tornando ai Wei, verso la metà del VI° secolo i nostri fanno compilare il ponderoso Wei shi, il Libro dei Wei. In questo testo compare il Wajin den, la prima traccia scritta delle isole giapponesi.

Secondo il Wajin den, le isole erano abitate da un popolo chiamato “Wa” (simpaticamente trascritto col kanji di “nanerottolo”, poi cambiato per amor di pace). Costoro erano divisi in numerosi “regni” (di nuovo, saggesù che cosa si intendesse per “regno”) di cui il più importante sarebbe stato Yamatai, sotto la savia guida della regina-sciamana Himiko. La sovrana sacra avrebbe intavolato relazioni con i Wei nel 239. Il ritrovamento di specchi Wei conferma che sì, effettivamente ci furono scambi in questo periodo tra il sovrano Wei e le élites isolane.

La storia di Himiko e l’immortale dibattito so dove si trovasse davvero Yamatai sono argomenti degni di una tesi dottorale, e non ci dilungheremo in questo articolo, perché oggi parliamo di cavalli!

E secondo il Wajin den i Wa NON avevano cavalli.

Come si spiega allora il fatto che abbiamo trovato tracce della loro presenza ben prima del 239 e l’inizio delle relazioni Wei-Wa?

Il Wajinden e il Wei shi in generale sono fonti solitamente considerate come attendibili, ma in questo caso paiono in contrasto coi dati archeologici.

La prima cosa da considerare è che in Giappone i cavalli erano di certo molto più rari rispetto alla penisola coreana o alla Cina. Inoltre, al tempo della stesura del Wei shi, i cavalli del Continente erano usati come bestie da trasporto, da lavoro e da guerra. Erano diffusissimi e parte integrante della vita economica, sociale, politica e militare.

Lo stesso non si può dire del Giappone: la quasi totalità dei resti equini in Giappone sono associati in modo chiaro a contesti rituali, in particolare funerari.

Farris e Yokoyama propongono che i cavalli siano stati importati in principio come bestie da carne.

Ora, il problema è che, come animale puramente alimentare, il cavallo fa pietà. Un sacco di altre bestie domestiche producono più carne e latte per un investimento molto minore in risorse.

Farris cerca di parare a questo problema ipotizzando un consumo strettamente rituale della carne di cavallo.

Non ho trovato dati che parlino di consumazione rituale di carne di cavallo, ma una cosa è sicura: questo animale era, dal II° al V° secolo, una creatura sacra e magica.

Se i resti del Periodo Jōmon non mostrano segni di violenza, lo stesso non si può dire degli scheletri equini della fine di Yayoi e dell’inizio del Periodo Kofun (IV°-VI° secolo). In altre parole, con il III° secolo e gli stravolgimenti politici del Continente, il Giappone assorbe non solo nuovi concetti politici e sociali, ma un nuovo sistema simbolico e mitologico dove il cavallo riveste un ruolo capitale diverso da quello che ha potuto incarnare fino ad allora.

Il cavallo di fine Yayoi non viene allevato fino alla vecchiaia, viene sacrificato, un trattamento di favore di solito riservato solo ad elementi davvero importanti!

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Una delle regioni che offrono il più alto numero di esemplari antichi è quella di Kawachi. Durante il Periodo Jōmon questa zona (in particolare quella che è oggi la piana di Uemachi) era una baia in comunicazione diretta con la baia di Osaka. Col passare dei secoli, questo corpo d’acqua si trovò tagliato dal mare e divenne prima una laguna e poi, nel Periodo Yayoi, un lago.

La più alta concentrazione di resti è nel sud di questa zona acquitrinosa (l’acqua aiuta la conservazione di certi materiali organici come il legno o l’osso, che sarebbero altrimenti digeriti dal terreno giapponese).

Stiamo parlando di siti come Misono, Kyūhōji, Kami, Nishi Iwata e altri. Negli strati datati al III° o inizi del IV° secolo abbiamo trovato denti, ossa e artefatti coreani.

Resti sono saltati fuori anche in altre regioni, come nel sito di Shiobu in Yamanashi, dove abbiamo trovato dei denti di cavalli vittime di un sacrificio dell’inizio del IV° secolo. Secondo Kuji si trattava di ronzini piccoletti, 125cm al garrese tutt’al più.

Secondo Momosaki, la più alta concentrazione di cavalli sacrificati si troverebbe in Kyūshū: abbiamo 3 esempi in Fukuoka, 26 in Kumano, 25 in Miyazaki e 2 in Saga.

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Testa di cavallo sacrificato, dal sito di Narai

L’associazione del cavallo con le élites e le loro tombe non è originale dell’Arcipelago giapponese, né è un’evoluzione recente. Al contrario: possiamo dire che è parte integrante del più antico e originale rapporto tra l’uomo e questo animale. Un’associazione che potrebbe rimontare a un tempo perfino più antico del più antico allevamento.

Fin dalle più remote origini dell’addomesticamento e l’allevamento, il cavallo è stato un simbolo sacro legato alla morte. Gideon Shelach cita il ritrovamento di cavalli sacrificali nei cimiteri di Meoqinggou e Dahuazhongzhuang, siti risalenti al I° millennio avanti Cristo e situati nell’attuale Cina (la zona studiata da Shelach copre parte di Heibei, Shanxi, Shaanxi, buona parte del Gansu e Qinghai, Liaoning e Mongolia Interiore, e la parte occidentale di Jilin e Heilongjiang).

I kurgans Pazyryk del Kazakistan risalgono al V° secolo a.C. In questi tumuli costruiti nelle valli degli Altai abbiamo trovato 69 cavalli intatti e 18 scheletri, tutte vittime costrette a seguire il loro padrone nella morte.

Questa prerogativa mortuaria del cavallo può essere ritrovata nel resto dell’Asia: nella sua espansione attraverso il continente, il cavallo domestico ha portato con sé il suo valore sacro e magico. Come nel celebre sito di Dereivka, in Ucraina, il cavallo accompagna il cavaliere in vita e lo segue nella morte.

Il sacrificio di cavalli associato a riti funerari era praticato anche nella penisola coreana, nella regione di Buyeo, e nello sciamanesimo del regno di Silla il cavallo accompagnava l’anima del defunto nell’Aldilà. A titolo d’esempio, i tumuli del sito di Hwangnam n.98, collocato tra la metà del IV° e la metà del V° secolo, contenevano una vittima di sacrificio umano e, sul cucuzzulo, indizi che lasciano supporre il sacrificio di cavalli bardati.

Usanze simili si ritrovano fin nella regione di Gaya, nel sud della penisola, in quella che diventerà Gumgwan Gaya: qui, verso la fine del III° secolo, lo stile di sepoltura subisce una drastica evoluzione. L’architettura della camera mortuaria cambia, i tesori funerari diventano più sfarzosi, e si prende la sana abitudine di sacrificare uomini e cavalli per il defunto, una simpatica pratica molto simile a quella di Buyeo.

Shin Kyung-Cheol suggerisce perfino che questo cambiamento e l’apparizione di una classe dirigente potente (abbastanza potente da potersi permettere un’atrocità come i sacrifici umani) sarebbero da spiegarsi con una massiccia immigrazione di alti papaveri di Buyeo.

Insomma, se la Corte di Wa è stata trasformata e consolidata dall’arrivo massiccio di nobili di Baekje, Gumgwan Gaya sarebbe stata partorita dopo l’immigrazione di nobili di Buyeo.

Haniwa

Haniwa di cavallo della regione di Nara

L’associazione tra il cavallo e la tomba dell’élite è quindi una caratteristica originale e fondamentale della cultura equestre generale. In Corea constatiamo che questo legame tra il capo e il cavallo non è esclusivo alla sfera funeraria: il cavallo pare un simbolo indispensabile di legittimità regale.

Nel primo capitolo del Samguk sagi, la più antica cronaca dei regni di Corea, compilata nel 1145, viene raccontata la nascita del fondatore della dinastia di Silla, Hyeokgeose. Il nostro amico dal nome complicato è un fanciullo divino nato da un uovo, e il suo arrivo viene annunciato da un misterioso cavallo che svanisce dopo aver attratto l’attenzione sul mitico sovrano.

Il cavallo non è quindi solo un simbolo di potere e prestigio, ma un messaggero divino, un veicolo del Fato per portare nel mondo il legittimo sovrano e scortare la sua anima nell’Aldilà dopo la morte. Il cavallo è, nel mondo reale e nel mito, il compagno del Re.

Storie simili a quella raccontata dal Samguk sagi si ritrovano anche nel Nihon shoki, documento molto più antico e che narra delle origini e delle vicissitudini della Famiglia Imperiale giapponese. Un episodio relativamente conosciuto è quello del cavallo di creta, narrato nel 14esimo rotolo, al settimo mese del nono anno del regno dell’Imperatore Yūryaku (r. 456-479):

Il primo giorno fu detto, nella regione di Kawachi: “C’è una donna, la figlia di Tanabe no Fubito Hakuson del distretto di Asukabe, moglie di Fuminobito Kariryō del distretto di Furuichi. Hakuson venne a sapere che sua figlia aveva partorito e andò ad offrire i propri auguri alla residenza del marito, e tornò verso casa a notte, alla luce della luna.

Alla collina di Ichibiko (sotto la tomba di Homuta) incontrò qualcuno che cavalcava un cavallo rosso. Il cavallo s’innalzò come un drago e subito fuggì, impaurito come un cigno. Il suo corpo miracoloso era come il crinale di un colle, di forma davvero inusuale. Hakuson si avvicinò e, avendo visto il cavallo, lo desiderò.

Frustò il cavallo bianco-bluastro che stava cavalcando e allineando le loro teste allineò le loro redini. Il cavallo bluastro restava indietro dacché le sue zampe erano pigre, non riusciva a raggiungere [il cavallo rosso].

L’uomo che cavalcava il cavallo migliore si rese conto che Hakuson lo voleva, e si fermò, e scambiò i cavalli, e ognuno prese quello dell’altro. Hakuson ottenne il cavallo migliore e fu molto felice, e galoppò nel proprio cortile.

Rimosse i finimenti e nutrì il cavallo e lo lasciò dormire.

Il giorno dopo il cavallo migliore si era tramutato in un cavallo di creta. Hakuson pensò che fosse una cosa bizzarra e andò a investigare alla tomba di Homuta, dove trovò il suo cavallo bluastro tra i cavalli di creta della tomba. Lo riprese e rimise il cavallo di creta al suo posto.

In questo strano passaggio abbiamo tutti gli elementi che contraddistinguono il cuore simbolico della cultura equestre: la nascita di un erede, il viaggio, la tomba.

La notte è spesso considerata come un momento di passaggio, dove il mondo dei vivi e quello dei morti si toccano e si confondono. Di solito questa vicinanza è percepita come qualcosa di estremamente pericoloso, una coincidenza spazio-temporale in cui i morti possono contattare i vivi e trascinarli nel loro mondo. Da questo punto di vista Hakuson è fortunato: il suo incontro col fantasma non pare lasciargli nessuna conseguenza negativa e Hakuson può recuperare il suo cavallo vivo e tornare a casa.

Come abbiamo visto più in alto: il cavallo accompagna l’uomo alla nascita, nella vita, e nella morte.

Il Nihon shoki ci trasmette anche chiari riferimenti alla pratica di sacrifici umani e di cavalli sulle tombe dei membri della Famiglia Imperiale. Stando alla fonte, l’imperatore mitico Suinin (r. 29 a.C. – 70 d.C.) avrebbe ordinato la creazione delle haniwa come sostituti di uomini e animali.

sacrificio

Quello che mi viene in mente ogni volta che sento qualcuno cianciare di “antiche tradizioni”

E’ fuori di dubbio che la cultura equestre sia stata portata in Giappone da immigrati della penisola coreana. La maggior parte delle tracce di allevamento sono, in questo periodo, nel Kinai e nell’isola di Kyūshū: due regioni particolarmente soggette all’influenza civilizzatrice della Corea (è divertente dire una cosa del genere in una sala piena di dottorandi e poi indovinare dall’espressione del viso chi degli asiatici è giapponese e chi è coreano).

Non solo, possiamo concludere senza ombra di dubbio che cavallo e allevamento sono rimasti sotto il controllo dei nuovi arrivati per un lungo periodo: artefatti coreani sono spessissimo associati a questa nuova attività.

Ora però viene da chiedersi: il signor Kim arriva da Gaya con queste bestie strafighe per cui i capi-clan isolani stravedono. Perché il signor Tanaka del villaggio accanto non lancia un business simile? Perché il cavallo resta così raro, perché la sua presenza pare limitarsi a così poche regioni per tanto tempo?

Va bene che non ci si inventa allevatori, ma quanto ci vorrà mai ad imparare ed esportare il sistema?

Come in tutte le cose, probabilmente ciò fu il frutto di numerosi fattori.

Intanto ci sta che i locali non affini agli scambi con i coreani fossero troppo conservatori per imparare qualcosa di nuovo. Ricordiamoci che l’unica cosa più difficile che cacciare un’idea nuova nella capoccia di qualcuno è tirarne fuori una vecchia (detto che venne creato per l’esercito ma che funziona con la maggioranza della gente in generale).

Immagino il signor Tanaka che coltiva il suo miglio e intanto sbircia da sopra la siepe tutti questi immigrati strambi che parlano questa lingua che non si capisce e con queste bestie, che io davvero non so, ma dove andremo a finire, puzzano e mordono, sì guarda, mordono! E poi per farci che, per sacrificarli in cima ai tumuli? No, no, mi spiace, un tempo sui tumuli ci si sacrificava esseri umani, un tempo i sacrifici erano cose serie, mica ora che ci portano su ‘ste bestie, e vogliamo parlare dell’odore? Uno non si sente più padrone in casa sua!

Al di là del signor Tanaka e delle sue lungimiranti opinioni, parte del Giappone non si presta molto all’allevamento di cavalli: il cavallo è una bestia da prateria, e a parte la piana del Kantō il Giappone è scarso in pianure erbose.

Il Kantō sarà in effetti una delle regioni trainanti nella produzione di cavalli (in particolare cavalli da guerra), ma in questo periodo la zona è ancora fuori portata del clan Yamato e tagliata fuori in buona parte dall’influsso coreano. Peraltro non esistono strade in questo periodo, molti dei trasporti avvengono via mare e i cavalli non incassano bene questo tipo di gita.

Infine, c’è il fattore culturale: la cultura equestre è una novità venuta da fuori e importata dalle élites. Ci vorrà tempo prima che si innesti e sia assimilata dal resto della popolazione aborigena.

La diffusione dei centri di allevamento e l’uso del cavallo nel rituale funerario della classe dirigente marcano, a mio modesto parere, l’inizio dell’esistenza di una cultura equestre nell’Arcipelago.

Come accennato prima, i cavalli non sono proprio una novità sulle Isole. Ma il ruolo rituale e funebre del cavallo è un nocciolo arcaico e distintivo della più antica cultura equestre. Il cavallo è stato uno psicopompo molto prima di essere un guerriero, un contadino o un mezzo di trasporto.

Durante l’epoca Jōmon e la prima parte del Periodo Yayoi i cavalli sono rarità esotiche e oggetti di sfarzo.

Con l’ascendere del clan Yamato la forma più originale ed essenziale della cultura equestre arriva finalmente nelle Isole. Adesso il cavallo non è più un raro bene di lusso. Il cavallo è un simbolo indispensabile di legittimità regale, porta con sé il primo embrione dell’idea di Sovrano e Dignità Imperiale.

Himiko

Ricostituzione della regina Himiko

Questo stato di cose doveva ovviamente cambiare. Il cavallo diventerà l’elemento militare più stimato della storia e il mezzo di trasporto prediletto. Cavallo e allevamento rivestiranno un ruolo assolutamente centrale nello sviluppo della Corte di Yamato, la sua espansione e il crollo del monopolio politico dell’aristocrazia civile nel XII° secolo.

Allo stesso tempo il cavallo non perderà mai del tutto la sua carica sacrale: anche dopo la fine dei sacrifici, il cavallo resterà per secoli parte integrante del rituale di Corte.

Fin nel XII° secolo possiamo forse ancora intravedere, nel Rituale della presentazione dei puledri all’Imperatore, un barlume ancora vitale dell’antichissima cultura equestre nata nella Steppa. Un’eredità forgiata dai capitribù dell’Asia centrale e sopravvissuta fino all’aristocrazia dell’Impero del Giappone.

MUSICA 


Bibliografia

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Il Samguk sagi

Il Nihon shoki

Tumuli a buco di serratura e altre stravaganze post-mortem

Sono mesi e mesi che il blog giace in abbandono. Per il grande ritorno (si fa per dire) ho deciso di scegliere un argomento gioioso, celebrativo e ottimista: PRATICHE FUNERARIE!

Pratiche funerarie mostruosamente poco pratiche.

Quote by Terry Pratchett, Artist Paul Kidby

Stiamo parlando del misterioso periodo di prima della scrittura, l’alba dello Stato, quando dalla bolgia di polities senza nome un embrione di Impero maturava. Quando la misteriosa Himiko, amica dei Wei e regina-sciamana dei Wa, governava dal suo palazzo-tempio. Quando Yamatai si costruiva, un clan alla volta, un territorio alla volta. Quando gli Imperatori mitici, bisnipoti del Sole, bastonavano barbari e facevano bizzarre osservazioni geomantiche dall’alto di colline.

E’ il periodo delle Tombe Monumentali.

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Tomba monumentale in quel di Sakai

Ho già accennato al Periodo Kofun nel mio articolo su Egami Namio e l’introduzione del cavallo in Giappone.

Oggi vorrei in particolare concentrarmi sulle tombe stesse, con un occhio di riguardo a una tipologia particolare e iconica: le tombe a forma di buco di serratura.

Mille e un gusti di kofun

“Kofun” (古墳) significa, letteralmente, “antico tumulo”. E’ un termine impiegato per descrivere un tipo di sepoltura diffusa tra la fine del III° e dell’VIII° secolo.

La varietà nella categoria è immensa, in forme, taglie, struttura e corredo. Ne abbiamo piccoli, grandi, con fossato, senza, con più fossati, quadrati, tondi, ottagonali, a forma di uccello padulo (ok, forse questo no)!

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Ad esempio, questo è un kofun, il mausoleo di Nintoku a Sakai

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Sempre il kofun di Nintoku, se lo fotografi senza droni e in controluce

Anche questa puzzetta qui è un kofun!

Come accennato, parleremo in particolare del kofun a buco di serratura, così chiamato dagli occidentali perché la traduzione letterale di zenpō-kōen kofun fa ridere i polli (“antico tumulo che è tondo davanti e quadrilatero dietro”).

Cominciamo subito col dire che l’idea di fare un montarozzo grosso sul defunto non è una cosa originale. La mia modesta opinione è che i primi uomini volessero premunirsi contro eventuali evasioni post-mortem di nonnetti rompicoglioni e zie ficcanaso. So che quando certuni dei miei parenti stirano le zampette la tentazione di sotterrarli sotto un cumulo di mattoni e una colata di cemento stile sarcofago di Chernobyl è piuttosto forte.

Ad ogni modo, sto divagando.

Quale che sia la motivazione d’origine, sta di fatto che i tumuli esistono in Europa e in Asia, dalle valli del Kazakistan alla Corea e al Giappone. Che la gente del Regno di Wa seppellisse così i propri capoccia non è quindi cosa strana.

Ci sono due caratteristiche uniche alla situazione giapponese: la taglia e la forma.

I tumuli maggiori in Giappone hanno perimetri di centinaia di metri. Sono circondati da fossati multipli. In origine erano strutturati a gradoni e ricoperti di pietre, poi decorati con migliaia di haniwa, statue in terracotta di varia foggia. E questo senza contare la camera funeraria, il sarcofago e il corredo funebre.

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Ricostruzione del Kamezuka-kofun in Oita. I cilindri in terracotta che vedete sono haniwa

Provate a immaginare per la costruzione del tumulo di Nintoku: le migliaia di operai e artigiani specializzati, vasai, fabbri, orafi, con tutta la logistica che ne consegue. E’ necessario trasportare l’argilla, il minerale di ferro (che molto spesso era importato dalla federazione di Gaya, nel sud della Corea). Gli alloggi per tutta questa gente, le bestie da soma, i cuochi, gli sguatteri, i portatori, i cavatori…

Immaginate la plaga disboscata, tronchi e ramaglie ammassate per forni e bivacchi, la polvere, le mosche, il tanfo di sudore e di bufali. Incidenti sul lavoro un giorno sì e l’altro anche. Sacerdoti e sciamani, astronomi e santoni che ispezionano i lavori. I carri con i lingotti di ferro, quelli con la polvere d’oro e il mercurio, scortati da uomini a piedi armati di scudo e lancia. I cavalli trascinati ai fossati per i sacrifici rituali.

Haniwa a forma di palazzo, dal kofun di Imashirozuka

Alle volte è facile dimenticare le più triviali delle questioni logistiche, tipo dove cacava tutta questa gente? Avevano secchi e la portavano via? Avevano scavato trincee?

E tutto questo per seppellire una, due persone.

Bello sbattimento. E io che non volevo pagare per il “dott.” in ottone sulla lapide di mio nonno…

Insomma, chiunque sia finito ad ammuffire sotto tonnellate di terra, pietra e terracotta poteva mobilitare interi villaggi e monopolizzare il lavoro di migliaia di adulti. Ce lo aspetteremmo in uno stato avanzato, da una società stratificata e complessa. Ma quale che sia la definizione che diamo di “stato”, il Giappone del III° e IV° secolo di certo non qualifica.

Un plastico degli scavi di Kami, dal museo di Osaka

E’ però importante notare che, anche prima del III° secolo, il Giappone non era estraneo alle sepolture ridicolmente grandi. Nel sito di Kami, nella regione di Ōsaka, abbiamo trovato una tomba del periodo Yayoi (250 a.C. – 300 d.C.), rettangolare, di 15m per 25m.

Né è davvero una novità un corredo funerario ricco: nel sito Yayoi di Tatetsuki, nel dipartimento di Okayama, abbiamo ritrovato qualcuno seppellito con perle, monili e altra roba.

Quello che secondo Tsude Hiroshi distingue in modo essenziale le tombe del periodo Yayoi da quelle del Periodo Kofun non è il tumulo o la ricchezza del tesoro funerario, ma la forma a serratura.

Come vedete questo tipo di tumulo ha una parte a pianta tonda, una a pianta quadrangolare (spesso non rettangolare) ed è costituito da gradoni (spesso tre).

允恭天皇陵古墳(市の山古墳・古市古墳群)レーザー測量

Kofun a serratura (fonte in bibliografia)

E’ dura capire da dove sia arrivata questa nuova forma architettonica. C’è chi suppone che sia un’elaborazione giapponese di un concetto continentale, tipo le tombe-palazzo Han del I° secolo d. C. Secondo alcuni ricercatori coreani sarebbe una forma architettonica nata nella Penisola e poi importata sull’Arcipelago.

E’ vero che si trovano tumuli molto simili ai kofun a serratura in Corea, tipo il tumulo Jukam-ri, nel sud della regione di Jeolla. Tuttavia questo tumulo data del V° o VI° secolo, ovvero ben dopo l’inizio del Periodo Kofun in Giappone. E’ forse forse più probabile che sia stato il Regno di Wa a influenzare la sud Corea, con buona pace loro.

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Esempio di tomba Yayoi quadrata a sommità piatta, da “San.in no shigū tosshutsu-kei funbo”

Per altri studiosi si tratta di una naturale evoluzione dei tumuli Yayoi. Di certo la gente di Yayoi costruiva tumuli circondati da fossati. Inoltre abbiamo quelle che sono chiamate “tombe quadrate a sommità piatta” (方形台状墓), tumuli a pianta quadrata con proiezioni agli angoli. E’ un’ipotesi stuzzicante, anche contando che questo tipo di sepoltura era prevalente nel Kinai, cuore palpitante del kofun a serratura.

Oltre alla forma, la taglia, come detto su, è degna di nota. A partire dal IV° secolo iniziamo a trovare kofun a serratura monumentali, e continueranno a crescere e a diffondersi fino al loro picco assoluto nel V° secolo.

Il tesoro funerario è pure degno di attenzione: come sottolinea anche Egami nel suo Minzoku kokka (1967), il corredo del primo periodo, fino al IV° secolo incluso, è costituito da oggetti sacri e rituali, in particolare da specchi di bronzo.

Si tratta spesso di specchi cinesi fabbricati tutti dallo stesso atelier e con lo stesso stampo. Il più tipico è lo specchio con bordo a sezione triangolare e decorato con motivi di animali e divinità.

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Esempio di specchio con bordo a sezione triangolare e motivi di animali e divinità (三角縁神獣鏡)

Nel Libro dei Wei, quando la regina Himiko scrive all’Imperatore, costui risponde mandandole in dono un centinaio di specchi. Tale oggetto aveva un valore rituale e di prestigio ed era usato come dono diplomatico. Sull’Arcipelago, un capo che era riuscito a procurarsi uno stock di preziosi specchi cinesi poteva a sua volta usarli come dono per cimentare alleanze e amicizie con subalterni o altri capi. Almeno parte di questo “patrimonio” in specchi seguiva il capo nella tomba.

Tutti questi elementi (la taglia, la forma, i gradoni, gli specchi, le statue, ecc.) contribuivano a fare della tomba monumentale un luogo sacro di indubbia importanza. Ma in che termini?

Non avendo fonti scritte (mortacci loro!) siamo costretti a ipotizzare.

Secondo Mizuno Masayoshi e Kondō Yoshirō, il kofun rappresentava il luogo di sepoltura del capo, ma anche il luogo in cui l’autorità del capo stesso veniva trasmessa. In altre parole, non si trattava di una semplice tomba, ma di una fonte radiante di autorità legittima.

In particolare è stato tirato un parallelo tra i tre gradoni dei kofun a serratura e i tre gradoni delle colline cinesi dedicate al Jiaosi, un rito rivolto al Cielo che l’Imperatore Han officiava nei dintorni della Capitale.

Come fa notare Hirose, c’è il piccolissimo dettaglio che il kofun è una tomba (un’elaborata reggi-carcassa), mentre la collina del Jiaosi no. E’ però possibile che i tumuli monumentali, in quanto fonti dell’autorità regale, abbiano in effetti svolto una funzione simile alle colline a gradoni cinesi.

Un’altra possibilità per spiegare i tre livelli è data da Sofukawa Hiroshi: è possibile che i tre gradoni fossero un riferimento al monte Kunlun. Nella mitologia Han, il monte Kunlun (che pure ha 3 livelli) era il luogo di residenza del sovrano dopo la morte (e figura nell’arte funeraria, come nelle pitture del sarcofago nella tomba di Mawangdui).

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Possibile rappresentazione del monte Kunlun

Tirando le somme, col IV° secolo vediamo diffondersi nella regione di Nara tombe monumentali separate dalle sepolture del resto della plebaglia. Questo suggerisce un cambiamento radicale rispetto alla fine del Periodo Yayoi. Tanto per cominciare siamo davanti, de toute évidence, al fiorire di una classe dirigente capace di mobilitare risorse e lavoratori su una scala senza precedenti. La società si è evoluta da una clanica/tribale a una più stratificata e complessa, con un concetto di autorità nuovo.

Non solo: col IV° e V° secolo i kofun si diffondono in altre regioni, fino all’isola di Kyūshū e buona parte dell’Isola di Honshū. L’adozione di questo metodo di sepoltura stravagante è con ogni probabilità il sintomo del diffondersi dell’influenza e del controllo del Regno di Wa sul resto delle polities isolane. Scambi di doni, soft power, conquista cruenta o politica delle cannoniere? Non possiamo saperlo per certo, ma è sicuro che la Corte di Wa di questo periodo allunga i propri tentacoli e tira a sé quelli che prima erano territori indipendenti.

I kofun monumentali non sono peraltro l’unico elemento che ci spinge a ipotizzare la nascita di una élite capace di reclamare un monopolio sul surplus economico.

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Vignetta del 1896, perché certe cose sono eterne. Almeno nel V° secdolo l’élite aveva la decenza di farsi ammazzare a sciabolate, ogni tanto

I villaggi del periodo Yayoi sono tipicamente circondati da un qualche tipo di fortificazione (palizzate, fossato, ecc.). Verso la fine del periodo iniziamo a vedere in certe regioni l’emergere di granai più grandi del consueto. Qualcuno sta cominciando ad ammassare più beni degli altri, ma ancora le costruzioni non sono separate in termini spaziali dal resto delle capanne e magazzini.

Col III° secolo la situazione cambia: i villaggi non sono più fortificati, ma magioni con grandi magazzini cominciano a spuntar fuori come funghi, e queste sono fortificate. In altre parole, vediamo comparire un’élite che si separa anche in termini di spazio dal resto della plebaglia, che reclama le risorse per sé e che può permettersi di garantire la protezione dei villaggi limitrofi.

E’ addirittura possibile che la classe dirigente in questione abbia attivamente scoraggiato la fortificazione dei villaggi, un po’ come Richelieu smantellò i castelli della nobiltà francese.

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Richelieu e il suo Umano da compagnia si apprestano a smantellare fortezze (Philippe de Champaigne)

Una svolta importante avviene nel V° secolo, il periodo d’oro dei tumuli a serratura. Un sacco di cose cambiano! Tra le tante, i kofun di questo tipo si diffondono, crescono in taglia e in opulenza. Le zone di Furuichi e Nakamozu, in quel di Ōsaka, annoverano migliaia di tumuli! Non solo, nel tesoro l’oggetto di prestigio che la fa da padrone non è più lo specchio cinese, ma la sana, pratica e tosta armatura. Questa non solo la puoi mettere per andare a picchiare la gente, ma è fabbricata nel Kinai, chilometro zero, ruspante ed equosolidale!

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Armatura in ferro, Museo Naizonale di Tokyo

Ne saltano fuori a mazzi, in certi tumuli troviamo decine di set completi di corazze, elmi, gorgiere, frecce, lance, finimenti per cavalli…

Questo cambiamento ha portato Egami Namio a teorizzare nientemeno che un’invasione su larga scala dell’Arcipelago. In altre parole, l’antica aristocrazia Wa, composta da sacerdoti e sciamani, sarebbe stata soppiantata a legnate da un popolo straniero guidato da un’aristocrazia militare.

Come discusso nell’articolo succitato, i dati archeologici non confermano questa ipotesi (anzi), ma è certo che il cambio di stile  nelle tombe e nel corredo indica una notevole evoluzione politica, sociale  e spirituale, di certo legata in buona parte alla pressione straniera, l’arrivo in massa di rifugiati coreani e la consolidazione della polity di Wa in Stato vero e proprio.

Questo è il periodo dei tumuli più grandi, come quelli attribuiti a imperatori di dubbia esistenza e mirabolanti leggende come Ōjin.

Il problema maggiore dello studio di queste tombe è che per il governo giapponese si tratta di monumenti sacri e pertanto off-limits. E’ impossibile scavarli o aprirli.

La cruda verità è che i nazionalisti non vogliono scoperchiarli e scoprire che PERDINDIRINDINA, MA SONO PIENI DI COREANI! Ecco!

Insomma, siamo incastrati a studiare solo i tumuli a serratura di mezza tacca, che probabilmente appartenevano al gradino subito sotto le élites più importanti. Non possiamo quindi essere sicuri se le armature sono una componente dominante anche nelle tombe più grandi oppure no.

In ogni caso, si parlava di immigrazione: il corredo dei kofun conferma gli stretti rapporti che il Regno di Wa intratteneva col Continente nel V° secolo. Un esempio possono essere delle perle trovate nel  kofun di Iwase senzuka, molto simili a degli esemplari tipici della regione di Kyongju in Corea. E’ molto probabile che si tratti di importazioni. In un kofun del complesso di Niizawa senzuka invece abbiamo trovato una corona d’oro molto simile a monili fabbricati dagli Yan settentrionali. E via così, gli esempi abbondano.

Un altro indizio sulla situazione diplomatica dei Wa ci viene dal Libro dei Song (Sō sho), scritto da Shen Yue nel 493 e che copre gli eventi dal 420 al 479. Shen Yue nomina “cinque re di Wa” che avrebbero spedito ambascerie dai Liu Song per guadagnare prestigio e legittimare il loro potere.

Immagine correlata

Perché, in un periodo di fermento politico e diplomatico, capi e capetti dovrebbero investire così tanto in tombe di lusso?

Opere come queste servono in realtà diversi scopi. Tanto per cominciare, val la pena ricordare che nel V° secolo siti come Nakamozu e Furuichi erano relativamente vicini al mare. Non è da escludere che una delle funzioni dei kofun più grandi fosse quella di essere visibile dai marinai. Mercanti e viaggiatori che andavano e venivano tra il regno di Wa e il Continente erano costretti ad ammirare queste opere mastodontiche, mostruose, impressionanti. E gli ufficiali Wa potevano spiegare agli stranieri allibiti:

“Quello? Oh, niente, ci ho seppellito mio nonno buon’anima. E quello un pochino più piccoletto lì è per il mio cagnolino Fuffy. Sapete com’è, noi c’abbiamo così tanta gente e così tanta ricchezza e così tanto potere che alle volte non sappiamo bene cosa farci.”

In un periodo in cui i tuoi vicini sono falciati da gente tostissima con mire espansionistiche, non è una cattiva idea curare il proprio prestigio.

Lo stesso valeva per i capoccia delle altre polities Giapponesi: potevi seguire i Wa e partecipare della loro gloria e ricchezza, o potevi metterti contro i Wa e pagarne le conseguenze.

Secondo l’archeologo e storico Matsugi Takehiko, questi tumuli erano anche strumenti di propaganda e coesione sociale. Li definisce kyōshikei monuments (仰見型モニュメント), ovvero strutture a cui la gente guarda per definirsi, con soggezione e trasporto (un po’ come i fiorentini guardano la Statua del Mal di Testa). Si tratta di opere ciclopiche il cui ruolo sociale era creare un forte senso di appartenenza e identità culturale.

E’ anche molto probabile che, come accennato più su, il tumulo restasse un elemento attivo nella vita religiosa del Regno di Wa, e che il defunto rimanesse come protettore del popolo e della classe dirigente.

Con il VI° secolo il numero di kofun a serratura monumentali declina, e continua a declinare per tutto il VII°, fino a sparire, insieme ai grandi kofun in generale a prescindere dalla forma. Le tombe diventano più piccole, e spesso raggruppate tra loro (clusters). La quantità di armature pure diminuisce in favore della spada decorata, nuovo simbolo di autorità e prestigio da portarsi dietro nel Regno dei Morti. Dopotutto una spada rituale è più leggera di un’armatura e più pratica di uno specchio se vuoi stapparti una birra.

Vero, in certe regioni più remote la gente ha continuato a fare tumuli fin nell’VIII° secolo, ma si sa che i provinciali sono sempre in ritardo sulle mode: a quel punto la figata per tirarsela non era più una collina artificiale in cui chiudere il cognato, ma il tempio. Il regno di Paekche aveva infatti portato il Buddismo in Giappone, un set completo di sutra, statue e frati che fungevano da libretto delle istruzioni.

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Una foto da Google Earth di Nakamozu, in Sakai

Tirando le somme

I kofun monumentali a serratura sono stati uno strumento politico e culturale molto importante nella delicata fase di state-formation del Regno di Wa. La loro diffusione in altre regioni testimonia dell’adozione, da parte dell’aristocrazia locale, dei costumi Yamato. In altre parole, testimonia dell’avvicinamento, da parte di territori indipendenti, all’orbita Wa.

C’è un annoso dibattito su quanto il Regno di Wa del Periodo Kofun sia o meno uno “stato” e su che tipo di influenza o controllo la Corte poteva davvero esercitare sulle polities circostanti. Ok, i tuoi vicini hanno adottato il tuo stile di tombe, ma ti mandano tributi? Puoi esigerli? Puoi esigere ostaggi? Parteciperanno al tuo fianco in caso di guerra?

Per alcuni la Corte di Wa aveva una presa forte sui territori limitrofi. Per altri si trattava di una “federazione tribale” più o meno stabile. Secondo Sasaki (e la sottoscritta), il modello che meglio descrive la situazione è quello proposto da Tambiah per descrivere il Sud-Est Asiatico: il modello a mandala o galattico.

Secondo Tambiah, le varie polities del territorio (paesi, regioni, città, ecc), non sono “legate” (bounded) al centro, bensì “orientate verso il centro” (center-oriented). In altre parole, la polity centrale esercita un’attrazione su un certo numero di “satelliti” minori. Tale controllo si affievolisce man mano che ci si allontana dal centro.

I satelliti ripropongono al loro interno una riproduzione del modello centrale, ma sono a costante rischio di scissione.

Questo è verificato nel caso dei kofun a serratura: in certe regioni li vediamo comparire, poi sparire e poi riapparire più tardi. Per spiegarlo col modello di Tambiah, la classe dirigente di quella polity sarebbe finita nell’orbita Yamato e avrebbe preso a replicarne gli schemi. Si sarebbe poi allontanata dalla sua sfera di influenza, per riavvicinarsi infine anni dopo.

Lo sviluppo di clusters di kofun e il declino dei grandi kofun a serratura sono spesso interpretati come un segno che, se da una parte le tombe monumentali sono riservate a un gruppo sempre più ristretto di individui, dall’altro un numero sempre maggiore di persone ha il potere e i mezzi di permettersi un tumulo, sia pure di forma e taglia subalterna. E’ un segno del consolidamento del potere della Corte di Wa sul resto delle regioni.

Questo rafforzarsi dell’autorità Yamato, insieme con l’indebolirsi della minaccia straniera nel VII° secolo hanno certamente contribuito (tra le altre cose) a rendere i kofun monumentali desueti.

Nonostante certe regioni siano rimaste autonome (il nord-est resterà virtualmente incontrollabile fino al XII° secolo!), un nuovo tipo di Stato sta nascendo, uno fondato su leggi scritte, burocrazia, annali.

Con il tramonto dei grandi tumuli sorge l’epoca storica della parola scritta (e con buona pace di Fomenko, sì, abbiamo documenti scritti antecedenti al X° secolo cristiodio). L’epoca di Himiko si conclude, lasciando il posto all’epoca della Corte.

E i kofun?

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Sono sempre lì, quasi venti secoli dopo, e ancora non possiamo scavare queste tombe, non possiamo studiarle, perché i kofun monumentali continuano a svolgere la loro funzione: sono ancora e sempre fonti di unificazione, identità e legittimazione.

Magari un giorno le cose cambieranno, e noi cinici potremo fiondarci a scoperchiare sarcofagi e analizzare le ossa di dei dimenticati.

Nel frattempo ci tocca pazientare.

MUSICA!


Bibliografia

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TAMBIAH Stanley Jeyaraja, “The galactic polity in Southeast Asia”, in Culture, thought, and social action, 3–31, Harvard University Press, Cambridge, 1973

Foto del kofun a gradoni

La Teoria del Popolo di Cavalieri (kiba minzoku kokka)

Le origini dello Stato giapponese sono fumose e misteriose. Non avendo fonti scritte precise e con pochi dati archeologici su cui fare affidamento, l’argomento è ovviamente oggetto di perenne studio e dibattito.

Il Giappone compare per la prima volta nel Sankokushi, libro compilato dallo storico Chen Shou (233-297). Di solito le fonti di seconda mano sono da trattare con le molle, ma Chen Shou è in generale una persona seria, e il Sankokushi è considerato come all in all molto affidabile.

Nel trentesimo fascicolo, si descrivono 9 popoli orientali:

5 di questi sono popoli della steppa più o meno affini agli Xianbei, tra cui Buyeo e Goguryeo. Queste due popolazioni hanno giocato un ruolo di primo piano nella diffusione del cavallo da guerra in Corea e nello sviluppo delle tattiche di cavalleria.

I 4 gruppi restanti si trovano in quel della Penisola coreana. Costoro sono i Mahan, i Jinhan, i Byeonhan e i Wa.


Distribuzione etnica in Corea nel III° secolo

I Wa godono di particolare attenzione, con una descrizione dettagliata del loro Paese, dei loro costumi, della loro forma di governo, ecc.

Stando a Chen Shou, l’Arcipelago ospita diversi “regni”, di cui Wa è il più grande e importante. I suoi abitanti coltivano e tessono buona seta, hanno una società stratificata e complessa, seppelliscono i loro defunti in bare e in piccoli tumuli, non possiedono bovi o cavalli.

Sempre stando a Chen Shou, i Wa sono reduci da una guerra civile di 70-80 anni (roba alla Messicana!), causata dalla morte del loro re. Da questo decennale bagno di sangue e merda sarebbe emersa Himiko, la regina sacra, che avrebbe pacificato il territorio e guidato il Paese verso una rinascita politica e diplomatica.

Yup, il primo sovrano giapponese di cui si ha traccia storica è una donna. E ciò mi ricorda la crisi isterica di alcuni bloggers che tacciavano Game of Thrones di sessismo perché “iiiiih, cielo, donne al comando”. Chissà, magari taccerebbero di “propaganda nazifemminista” anche il buon Chen Shou (sicuramente un grande sostenitore della parità tra i sessi!).

Ma non divaghiamo: dopo aver ricostruito il suo regno, Himiko riallaccia scambi diplomatici con l’Imperatore Wei, che risponde alle sue lettere con l’invio di doni preziosi (confermati dagli scavi archeologici) e un riconoscimento ufficiale dell’autorità della nostra sul regno di Wa.

Himiko, da un disegno di Angus McBride

Non voglio dilungarmi troppo su Himiko, dacché la signora merita uno spazio tutto suo. Tornando al Sankokushi, com’è ovvio il testo pone tantissimi problemi agli storici: dove si trovava davvero il palazzo di Himiko, il suo territorio? Qual’era la natura del potere di Himiko e cosa questo ci racconta dell’origine dell’autorità regale in Giappone? Come veniva esercitata l’autorità? Come si è passati dal misterioso regno di Himiko a uno stato centralizzato, burocratizzato e moderno (ergo con una cavalleria pesante, assente ai tempi di Himiko secondo Chen Shou)? Qual’è la domanda alla risposta 42? Ecc.

Ognuno di questi quesiti (specie l’ultimo) è intrigante, ma oggi vorrei parlarvi di una teoria nata negli anni ’60 e tutt’ora oggetto di discussione nella ricerca storiografica sulle origini della Corte di Yamato.

Si tratta della “teoria del Popolo di Cavalieri” (kiba minzoku kokka) di Egami Namio: uno sguardo originale sulla nascita dello Stato, legandolo in particolare alla creazione della cavalleria pesante.

Egami Namio (1906-2002). Al di là di tutte le pulci che posso trovare al suo discorso, ho profonda ammirazione per chi, come lui, riesce a pensare al di fuori degli schemi di routine: senza slancio immaginativo il dibattito si affossa

Secondo Egami, l’economia è ciò che determina in primis l’evoluzione di una civiltà, e l’economia è determinata in primis dal contesto ecologico. Egami individua diverse zone climatiche: in quella toccata dal monsone (tra cui il Giappone) si sviluppa presto l’agricoltura, mentre nelle zone aride dell’Asia centrale, caratterizzate da deserti e praterie, si sviluppano pastorizia e nomadismo.

E’ in queste zone aride che evolvono i kiba minzoku, popoli di pastori cavalieri. Secondo Egami, le società agricole non elaborano capacità equestri se non in seguito alla pressione nomade.

Già in questa prima parte della teoria si possono trovare problemi, ma non perdiamoci in dettagli. Secondo il nostro, verso il 1000 a.C. i nomadi avrebbero strizzato le loro testoline desertiche e se ne sarebbero usciti con un’invenzione epocale: il morso in bronzo. Questo avrebbe permesso lo sviluppo della cavalleria, superiore in mobilità ed efficienza al carro da guerra. Con questo nuovo pezzo di equipaggiamento, i nostri sarebbero stati finalmente in grado di competere militarmente con i grassi imperi agricoli e urbani!

Ed è quello che fanno, stando al libro di Egami, costringendo quei culimolli dei sedentari ad adattarsi a loro volta.

Tutto molto bello ed avvincente, ma cosa c’entra con il Giappone?

L’evoluzione della forma dei tumuli: III° secolo a, V° secolo b, VI° secolo c

Il cavallo si diffonde in Giappone durante il Periodo Kofun, altresì conosciuto come il Periodo dei Tumuli, tradizionalmente diviso in tre parti:

Primo periodo: fine III° secolo – fine IV° secolo

Medio periodo: fine IV° secolo – metà V° secolo

Tardo periodo: metà V° secolo – fine VII° secolo

Secondo Egami, sarebbe molto più appropriata una divisione in 2:

Primo periodo: fine III° secolo – fine V° secolo

Tardo periodo: fine V° secolo – fine VII° secolo

Stando a Egami, fino alla fine del V° secolo la struttura delle tombe e i corredi funebri hanno così tanti elementi di continuità con le sepolture anteriori (periodo Yayoi) che possiamo tranquillamente considerarlo come uno stadio tardivo di questa fase della preistoria giapponese.

Questa prima parte sarebbe caratterizzata da tumuli per lo più tondi o da forme primitive del tumulo a buco di serratura, con camere con pavimenti in argilla e sarcofagi a scatola o a forma di nave. Il corredo funebre è di solito relativamente ridotto e costituito soprattutto da oggetti di valore magico e sacro, come specchi, spade rituali o perle. A parte gli specchi cinesi (classico dono diplomatico), Egami considera che si tratta di manufatti tipicamente isolani, privi di forti influenze continentali.

Dalla fine del V° secolo la situazione cambia drasticamente: si diffondo i kofun (tumuli) monumentali a buco di serratura e compare una smaccata influenza continentale nella forma dei sarcofagi, nelle decorazioni murali delle camere funerarie, ma anche nella composizione dei corredi. Appaiono armi e oggetti di uso pratico, punte di freccia, armature, finimenti per cavalli.

Costume e tatuaggi facciali ripresi da una Haniwa, statuetta di terracotta posta nei pressi del tumulo

E’ fuori di dubbio che l’influenza del Continente si faccia di botto sensibile in questo periodo, ma come interpretarla?

Tra il III° e il V° secolo, la Cina era soggetta a gravi rivolgimenti, con la Rivolta dei Turbanti Gialli e la Guerra dei Tre Regni. Secondo Egami, le armi e i finimenti trovati nei kofun giapponesi sarebbero molto simili ad artefatti contemporanei usati in Manciuria e Mongolia dagli stessi “popoli di Cavalieri” che si stavano mangiando il nord della Cina e la Penisola Coreana.

Il nostro afferma che in questo periodo le tombe giapponesi mostrano una frattura storica, un passaggio da una cultura stanziale, pacifica e spirituale, a una nomade, bellicosa e pragmatica.

Che gli stanziali siano per natura più pacifici dei nomadi è una nozione molto spassosa, e su questo non ci piove. Tuttavia è è vero che la cultura centrasiatica conosce una diffusione epocale a partire dal III° secolo. I regni di Buyeo e Goguryeo sono nati da federazioni di nomadi, ed entrambi sono citati come pionieri nello sviluppo di una cavalleria pesante moderna ed efficace.

Tornando al regno di Wa, Egami sostiene che l’apparizione di armi e finimenti nelle tombe è troppo repentina e radicale per poterla giustificare con il semplice commercio. No, signore e signori! Egami è chiaro: nel V° secolo il Giappone è stato invaso da popoli altaici di cavalieri, che hanno spianato tipo schiacciasassi la sonnacchiosa cultura agricola dei Wa e hanno creato un nuovo regno, un regno centralizzato, gerarchico e feroce, tenuto insieme dalla frusta, dalla staffa e dal crudele morso dell’acciaio!

L’implicazione è colossale per la storiografia giapponese: la linea imperiale altro non sarebbe che lo stralcio esule e immigrato di selvaggi capibanda del deserto, probabilmente gente arrivata dai giovani regni di Goguryeo o Buyeo. Nei tumuli monumentali non si troverebbero quindi le spoglie dei discendenti della Dea Solare, ma le carcasse di predoni mongoli e delle capre loro consorti!

Come si può immaginare, quando Egami pubblicò questa nuova teoria, le mutande dell’accademia nipponica andarono a fuoco. Ma al di là del puro piacere di vedere il nazionalismo preso a pesciate nel viso, quanto possiamo accettare l’idea di Egami? E’ vero che l’invasione è l’anello mancante tra Yayoi e Kofun?

Egami basa la sua teoria sui ritrovamenti archeologici, ma anche sulle fonti mitiche. Testi come il Kojiki e il Nihon shoki raccontano la “teogonia” dell’Impero giapponese, ed Egami li integra nel proprio discorso, cercando di far combaciare le timelines.

Nell’edizione del ’67, il nostro spiega che i kiba sarebbero arrivati prima in Kyūshū, poi in Honshū, e si sarebbero stabiliti nel Kinai verso la fine del IV° secolo. La proliferazione delle tombe del secondo periodo (quelle con armi, finimenti, ecc.) è databile al tardo V° secolo.

Come accennato prima, ho mille problemi con il ragionamento di Egami, ma la falla più grande è il fatto che la cronologia non torna. Tra l’arrivo ipotetico di questi cavalieri e la diffusione delle tombe c’è un buco di un secolo. Perché?

Erano tutti longevi e nessuno moriva?

Per un secolo sono morti tutti in bizzarri incidenti di kayak d’alto mare?

Puzzavano tanto da vivi che per un secolo nessuno si è accorto dei decessi?

Annose questioni.

Ledyard ha cercato di proporre una nuova elaborazione della teoria, nel tentativo di appianare le contraddizioni. Secondo il nostro, verso la metà del IV° secolo i Buyeo avrebbero spinto verso il centro della Penisola sull’onda del caos politico e militare in atto nel nord della Cina. Qui costoro avrebbero fondato il regno di Baekje e avrebbero allacciato stretti rapporti con i Wa (presenti nell’Arcipelago ma anche nella regione meridionale della Penisola).Gli strettissimi rapporti diplomatici tra Baekje e Wa sono in effetti confermati dagli annali coreani e dall’archeologia giapponese.

La Spada dei Sette Rami! Trashosa trovata fèntasi? No, prezioso dono diplomatico dal re di Baekje al sovrano di Wa. Stando al Nihon shoki, il sovrano di Wa sarebbe di nuovo una donna, l’Imperatrice Jingū (aaaah, sessismo, iiih, i giapponesi dell’VIII° secolo erano femminazi!)

Ledyard si spinge ancora più avanti, proponendo un’interpretazione molto originale delle fonti scritte giapponesi. Nel Nihon shoki si parla in effetti di una campagna militare di Jingū contro la Corea (datata tradizionalmente al 369). Secondo Ledyard, questo passaggio potrebbe essere letto come la memoria deformata dell’invasione di Mahan dalla parte di Buyeo e la creazione del regno di Baekje.

In altre parole, la casa Imperiale giapponese avrebbe in effetti remote origini nomadi, e quelli giunti in Honshū altri non sarebbero che uno stralcio della monarchia di Baekje.

La campagna di Jingū verso l’Est sarebbe difatti da interpretarsi come una successiva spinta della gente di Buyeo verso l’isola di Kyūshū e Honshū e la successiva creazione della corte di Yamato.

L’idea di Ledyard è senza dubbio molto intrigante, ma si basa sulla teoria di Egami senza rimetterne in causa le basi archeologiche. E la discrepanza archeologica è proprio il chiodo nella bara della Teoria dei Cavalieri.

Edwards ha analizzato i corredi funebri di 137 tombe per mettere alla prova le tesi di Egami. Il buco di quasi un secolo tra l’arrivo di questi cavalieri e la diffusione delle loro tombe resta inspiegato. Peraltro, Egami si concentra sulle novità in contrasto con le sepolture precedenti, ma non considera i numerosi elementi di continuità, che pure esistono, tra il tardo Kofun e la fase precedente. Secondo Edwars, il pattern suggerisce più un’appropriazione culturale che non un’invasione brutale.

Se vogliamo riassumere la diffusione di equipaggiamenti equestri nei tumuli: prima del 425 solo l’1% delle tombe aveva finimenti nei corredi e la maggioranza di queste si trovano nel Kinai. Nel VI° secolo il 10% delle tombe ha elementi equestri, e i 2/3 di queste si trovano a est del Lago Biwa.

Concentrazione di siti funerari aventi elementi equestri nell’arco dei secoli

Se è vero che la teoria di Egami non tiene, è anche vero che la cultura equestre viene importata in Giappone, che si diffonde molto alla svelta e che in tempi molto ridotti il centro di produzione si sposta geograficamente verso est. Questo sviluppo dell’allevamento è peraltro strettamente legato allo sviluppo di uno Stato moderno e centralizzato.

Non solo: quando andiamo a studiare nel dettaglio i finimenti delle tombe, appare palese che l’origine della cultura equestre giapponese non è cinese ma coreana (con particolare apporto da parte del regno di Baekje, ma anche Goguryeo, Silla e la confederazione di Gaya).

I regni coreani hanno quindi giocato un ruolo fondamentale nella genesi dell’Impero Giapponese, ma quale?

La Penisola nel VI° secolo

Abbiamo già accennato al caos politico e militare che falcidiava la regione tra III° e IV° secolo. Antichi imperi crollano, nuovi regni nascono, e tra questi c’è Goguryeo, nel nord della Penisola. Il regno entra in una nuova eccitante fase nell’anno 300, quando re Micheon sale al trono (governerà per 31 anni) e lancia una radicale modernizzazione dello Stato, con a corollario una simpaticissima politica espansionista. La prima a pagare per il genio politico di Micheon è Lelang, ma non è la sola. Le altre polities coreane si affannano per resistere alla stella nascente di Goguryeo e alla sua terrificante cavalleria.

Questo provoca un vero e proprio esodo di migliaia di coreani verso le isole giapponesi, in particolare a partire della metà del IV° secolo. Si tratta di gente di ogni estrazione, tra cui molti tecnici, studiosi, aristocratici, allevatori, fabbri, artigiani, ecc.

Il regno di Wa aveva molti scambi e interessi sulla Penisola. Il Nihon shoki dice addirittura che l’Imperatrice Jingū condusse diversi interventi militari sul territorio, costringendo i governanti locali a riconoscere l’ascendenza politica di Wa. Pare eccessivo affermare che i Wa governassero territori sulla Penisola, ma le fonti coreane e cinesi confermano che il regno dell’Arcipelago era in effetti ritenuto un alleato di riguardo. In ogni caso, l’investimento politico, economico e militare dei Wa sulla Penisola è accertato.


Jingū durante la campagna militare in Corea (Tsukioka Yoshitoshi)

Durante il V° secolo il regno di Wa intervenne militarmente nella Penisola in favore di Baekje e Silla contro il regno di Goguryeo. I Wa non avevano cavalleria, e finirono per subire una sconfitta assolutamente devastante sulle rive del fiume Yalu agli inizi del V° secolo.

I Wa si trovano quindi sloggiati dal Continente. E questo è un problema, perché i nostri dipendono da esso per un sacco di importazioni, non ultime ferro, cavalli e oggetti in metallo. I nostri devono diventare indipendenti. Di più, devono modernizzare il proprio esercito, dotarlo di quella che è all’epoca l’avanguardia della tecnologia militare: il cavaliere pesante.

Il flusso migratorio di rifugiati coreani continua durante il V° e VI° secolo. Secondo Farris si arriva a picchi di 3000 persone l’anno, che per i tempi era assolutamente eccezionale. 1/3 della nobiltà della Corte di Yamato aveva origini coreane.

Invece di prendere a calci un cavallo morto e perseverare in campagne militari senza speranza, i Wa decidono di sfruttare la situazione a loro vantaggio: lungi dal cercare di porre un limite al flusso di immigrati, i nostri lo sfruttano, lo integrano nella politica generale della Corte.

La diffusione della cultura equestre in Giappone, fondamentale nella formazione di uno Stato centralizzato e di un esercito moderno, non è frutto di un’invasione, né il mero apporto dell’immigrazione. E’ un connubio tra un flusso migratorio ragguardevole e una politica deliberata della Corte di Wa.

I nuovi arrivati vengono inquadrati, installati sul territorio, viene data loro una funzione nella macchina statale e una missione. Le tecniche vengono sviluppate, incentivate, raffinate.

Farris sottolinea: « Equestrian skills, the birthright of every samurai, originated with the hated and feared Koreans. » (Heavenly warriors)

Verissimo. Niente immigrazione coreana, niente samurai. Allo stesso tempo queste mirabolanti skills attecchirono e si svilupparono grazie alla lungimiranza, la creatività e la pianificazione della classe dirigente del Kinai.

MUSICA!


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YOKOYAMA Sadahira, Kiba no rekishi, Toukyo, Koudansha, 1971

Breve storia del cavallo domestico

Un altro titolo potrebbe essere: Cavalleria catafratta – il prequel.

Oggi parleremo di un argomento diverso dal solito: il cavallo.

Non temete, sarà un articolo storico, tecnico e barboso come piace a noi!

Il cavallo è uno di quegli elementi della Storia militare che un sacco di gente dà per scontati. E’ un essere vivente che viene spesso trattato con la superficialità che si usa per gli oggetti: infili tot chili di acqua e carburante da una parte, va a tot Km all’ora, ha un’autonomia di tot, ecc.

E’ quell’elemento che nei film in costume fa ufficio da motocicletta: l’Eroe salta in groppa, ingrana e parte al galoppo senza un istante di esitazione.

Non si vede mai una scena in cui l’Eroe viene catapultato all’istante contro un palo e calpestato perché è saltato su un cavallo personale che accetta cavalieri che conosce. Non si vede mai l’Eroe che salta in groppa a un cavallo a caso e poi non va da nessuna parte perché, guarda te lo sculo, quello è un cavallo da tiro e non ha la minima idea di cosa fare quando qualcuno gli si siede sulla groppa. E via di questo passo.

Il punto è: il cavallo non è una macchina e l’esistenza stessa dei cavalli domestici è cosa tutt’altro che scontata.

Ergo oggi parleremo delle origini dell’allevamento e di questa mirabolante joint venture interspecifica!

Di cosa si parla

Cominciamo col dire che il cavallo moderno (Equus ferus caballus) è un mammifero erbivoro perissodattilo, ovvero un animale che cammina sulla punta delle dita (e non sulla pianta dei piedi, come noi). Per la precisione, su un numero dispari di dita, e per la precisione su un solo dito: il cavallo sgambetta allegramente sulla punta dell’equivalente equino del dito medio, di cui lo zoccolo è l’unghia. Da un punto di vista anatomico, quella che pare la caviglia è la nocca, quello che pare il ginocchio è il polso e il gomito è rattatignato vicino all’attaccatura della spalla.

Ciò detto, da quanto esistono i cavalli?

Non è facile da determinare. Secondo recenti studi sul DNA mitocondriale, 20 milioni di anni fa potevamo trovare fino a 13 genera equini. Di questi, alcuni si distaccano da una dieta fatta di foglie e arbusti per orientarsi verso un menù principalmente erbaceo, scelta vincente visto che il cambiamento climatico stava favorendo la diffusione di praterie là dove prima cresceva la boscaglia.

In due piccoli milioni di anni (come vola il tempo!), i fossili di equidi da arbusto declinano, mentre quelli da prateria si diffondono. Non immaginatevi però i nostri destrieri: secondo Budiansky, questi proto-cavalli annoveravano una grandissima varietà somatica.

I diretti antenati dei nostri cavalli sarebbero, pare, 2 (certi dicono 4, ma si va nel magico mondo della speculazione): il Tarpan, un cavalluccio che viveva nella zona eurasiatica, e il Przewalski, in Asia. Il Przewalski è l’unico cavallo selvatico ancora esistente, ed è mia personale opinione che a salvarlo sia stato il fatto che nessuno davvero sa come cazzo pronunciare il suo nome.

-Dove vai, Gurkuk?
-A caccia di Perzewe… Perez… Purzuru… A CACCIA DI CINGHIALI!

Questi due antenati potrebbero aver apportato caratteristiche differenti al cavallo moderno. Ad esempio, mentre la criniera del Przecoso è ispida e ritta sul collo, quella del cavallo contemporaneo è solitamente fluente, una caratteristica che avrebbe ereditato dal Tarpan.

Ad ogni modo, la lieta vita dei ronzini prende una brutta piega verso la fine del Mesolitico, quando i fossili diminuiscono bruscamente. Parafrasando la logica che ho sentito usare una volta a un fruttariano (yep, esistono!), questo potrebbe suggerire che i cavalli abbiano semplicemente smesso di morire dacché divenuti incredibilmente longevi (giuro).

Il Rasoio di Occam e il buonsenso suggeriscono invece che l’animale si sia avviato a decise falcate verso l’estinzione. Il cavallo sparisce dal Nord-America, dall’Europa occidentale, dalla Cina… inseguito dal lento ma inesorabile cambiamento climatico, il povero bestio si ritrova confinato all’Ucraina e una parte dell’Asia Centrale.

Questo fino al terzo millennio a. C., quando le sue ossa risaltano fuori, più numerose che mai! Cos’è successo?

Le origini dell’allevamento

Cominciamo col dire che l’addomesticamento del cavallo, come ogni fenomeno, si è verificato solo grazie al contesto: i fattori ambientali e i fattori etologici delle due popolazioni (quella equina e quella umana) rendevano possibile la collaborazione.

Tanto per cominciare, umani e cavalli si somigliano. Come l’umano, il cavallo è un animale sociale e gerarchico. In altre parole, sia gli umani che i cavalli capiscono istintivamente segnali di dominazione e sottomissione. L’atteggiamento sottomesso da parte di un animale può placare l’atteggiamento aggressivo da parte di un umano, in quanto l’umano capisce il messaggio: in quel contesto, le due specie parlano la stessa lingua.

Inoltre, se la vicinanza di un gruppo umano presenta per il cavallo indubbi rischi (dopotutto gli umani sono famosi per mangiare tutto ciò che si muove e anche ciò che sta fermo), presenta anche dei vantaggi: i grandi predatori stanno alla larga (per la ragione di cui sopra) e gli umani allevano cibo ad alto valore nutritivo.

Eh già, perché le prime creature addomesticate dagli esseri umani in modo sistematico non sono state i cavalli, ma le piante.

Poi i gatti arrivarono e iniziarono a demolire le basi stesse della nostra sopravvivenza…

C’è un’idea che circola secondo cui l’allevamento è quella cosa che gli uomini inventano quando l’agricoltura ha così tanto successo che lascia del margine. La realtà storica pare diversa: l’allevamento è quel ripiego che gli uomini adottano quando caccia, raccolta e agricoltura non bastano più a mantenere il gruppo. Allo stesso tempo, perché una popolazione animale sia addomesticabile, bisogna che quest’ultima sia nella necessità di vivere nelle vicinanze degli umani.

L’allevamento è quindi quella collaborazione che si crea in zone periferiche e dalle risorse limitate, ammesso che le due popolazioni siano etologicamente compatibili. Tutte queste caratteristiche si sono verificate nella zona subito a nord del Mar Nero.

I primi a mostrare una vicinanza notevole coi cavalli sono stati gli uomini della civiltà detta Sredni Stog, che vivevano sul sito di Dereivka in Ucraina intorno al quinto millennio a. C..

Verso la fine del quinto millennio, la dieta di questi simpatici signori presenta un cambiamento notevole: se prima le discariche abusive di ‘sti zozzoni presentavano soprattutto ossa di cinghiale e altra selvaggina da foresta, di botto gli scheletri di cavalli diventano dominanti (costituiscono fino al 50% della carne consumata!).

Ora, il cavallo è una bestia di steppa, ergo ‘sti disgraziati devono farsi un bel pezzo di strada per andarseli a cercare.

Cos’è successo, perché questo cambio di menù?

Secondo una vecchia interpretazione, questa nouvelle cuisine ucraina sarebbe da interpretare come l’inizio dell’addomesticamento. Secondo questa teoria, infatti, il cavallo sarebbe stato prima di tutto una bestia da macello e poi, molto più tardi, un mezzo di trasporto e animale di fatica.

Ecco, questo è ciò che succede quando i ricercatori non mettono mai naso fuori da una biblioteca.

Tanto per cominciare si può cacciare il cavallo selvatico senza saper cavalcare (li si può spingere giù da precipizi, o in trappole, fargli agguati ecc.), ma qualcuno mi deve spiegare come diavolo tieni delle mandrie se quelle corrono con quattro gambe e te solo con due.

In secondo luogo il cavallo, come bestia puramente mangitiva, è una ciofeca assoluta. In proporzione alla quantità di cibo che ingolla e alle cure che necessita se non può vivere nel suo ambiente ideale, il cavallo è un pessimo investimento di carne e latte. Aggiungeteci la lunga gestazione e il fatto che fa pochi cuccioli, e avete una situazione da bancarotta assicurata.

Inoltre, la teoria non è supportata dai dati archeologici.

Marsha Levine ha fatto uno studio sistematico degli scheletri di Dereivka, comparandoli con i vari modelli di sfruttamento dell’animale. Difatti, a seconda del modello, l’età di morte delle bestie è diversa.

Nel caso dei cavalli selvatici, i due picchi di mortalità sono l’infanzia e la vecchiaia: i cuccioli e i vecchi, più lenti e meno vigili, sono le prede preferite dai carnivori.

In allevamento la faccenda è un pelino più complessa. Di base, gli animali che passano in bistecche sono prima di tutto i cuccioli in sovrannumero e le bestie che hanno passato l’età fertile. Questo crea un marcato discrimine sessuale: siccome mi basta un maschio per ingravidare più femmine, i cuccioli selezionati per la mannaia saranno soprattutto maschi, mentre gli adulti selezionati per la mannaia saranno soprattutto femmine.

Nel caso dei cavalli, in un allevamento avremo un alto abbattimento di maschi tra i 2-3 anni, e un alto abbattimento di femmine tra i 14 e i 20.

Nel caso delle discariche di Dereivka, abbiamo qualcosa di ancora diverso, che non rispecchia né il modello selvatico né quello domestico. Abbiamo pochi esemplari sotto i 4 anni e pochi al di sopra degli 8. Contando che un cavallo raggiunge la maturità fisica verso i 5, troviamo una maggioranza di bestie nel fiore degli anni!

Questo tipo di situazione calca un tipo di caccia definito stalking, in cui il cacciatore investe energia e tempo per selezionare e uccidere prede di qualità: i giovani pasciuti.

Ne segue che i Sredni Stog erano, tendenzialmente, cacciatori (e non allevatori) di cavalli. Dico tendenzialmente perché non è escluso che alcuni individui fossero catturati o addomesticati. Come fa notare Levine, non bisogna semplificare e appiattire i rapporti tra popolazioni: come sempre quando si tratta di uomini, la realtà era di certo più complessa del modello.

Ma torniamo alla genesi dell’allevamento! Secondo Budiansky, esistono tre stadi:

  • Dato un contesto ambientale, economico ed etologico, due società compatibili si avvicinano;
  • Una volta che le due società sono a contatto, alcuni degli individui più curiosi o sottomessi (o entrambi) cercheranno un contatto più continuo con i membri dell’altro gruppo. In questa fase, alcuni individui possono essere assorbiti dal gruppo umano (si tratta quindi di animali nati selvatici e poi addomesticati).
  • Durante questa seconda fase, la società umana può acquisire le informazioni necessarie a far nascere i primi individui in cattività, ad allevarli.

La seconda fase e la terza sono ben distinte: dal momento che nascono delle bestie puramente domestiche, la selezione artificiale comincia a giocare un ruolo fondamentale e l’evoluzione dell’animale diverge da quella del suo congenere selvatico.

Ovviamente queste fasi non sono da intendersi come cronologiche o esclusive: possiamo avere società che praticano tutti e tre questi modelli!

Ma torniamo ai primi pastori di cavalli. Secondo le fonti storiche, le prime menzioni di allevatori di cavalli fanno riferimento a quelle che erano probabilmente popolazioni di lingua indoeuropea e che abitavano nei pressi del Mar Nero. Erano i Sredni Stog?

Questions!

Negli anni ’60 una scoperta archeologica nel sito di Dereivka ha portato un nuovo elemento sul tavolo: è saltato fuori un nuovo scheletro, diverso da tutti gli altri, lo scheletro di uno stallone.

Cos’ha di diverso il celeberrimo (sì, nel settore lo conoscono tutti) Stallone di Dereivka rispetto a tutti gli altri cavalli della zona?

Lo stallone in questione non era insieme agli altri nelle discariche: era in una tomba prestigiosa, il che indica che l’animale in questione aveva una posizione sociale in seno al gruppo umano radicalmente diversa da quella degli altri cavalli.

Inoltre il nostro misura 142cm al garrese, una taglia notevole per l’epoca e che lo renderebbe simile agli odierni Fjord o New Forest.

Un New Forest mentre, con paziente determinazine, erode il territorio

Ma dulcis in fundo, i suoi denti! I suoi denti presentano una tacca di usura tipica e caratteristica dei cavalli che portano il morso!

BOOM, cavallo cavalcato, possiamo datare l’addomesticazione del cavallo!

Right?

Eh, circa… Purtroppo, com’è spesso il caso, non è così semplice.

C’è prima di tutto un problema di datazione: in principio si era situata la tomba (e quindi lo stallone) al 4000 a. C. Una recente datazione al C-14 però piazza tutto ciò molto dopo, tra il 700 e il 200 a. C. (l’altroieri, insomma!)

Inoltre i segni sui denti possono essere stati causati, in teoria, da altro che non da un morso. Il morso non è peraltro indispensabile per cavalcare, e anche concedendo che si tratta di un cavallo cavalcato e dotato di morso, niente ci assicura che sia nato in cattività (ovvero, niente ci assicura che sia un cavallo domestico).

Vicino allo scheletro sono stati ritrovati oggetti in corno che potrebbero essere resti di rondelle per morso. Un tentativo di ricostituzione basato sui reperti ha offerto un morso funzionante.

E quindi?

Secondo Budiansky, il cavallo era molto probabilmente una bestia montata, ma non domestica. Si tratterebbe dell’alba del cavalcare. Catturare e domare un cavallo era senza dubbio un’azione di grande audacia e maestria, il che spiegherebbe il fasto dedicato a cavallo e cavaliere nella morte.

La differenza tra un cavallo domato e uno domestico non è anodina.

Un animale domato implica spesso il concetto di proprietà privata e sempre un rapporto personale stretto tra domatore e animale. Tale rapporto termina quando uno dei due muore. L’allevamento presuppone una situazione radicalmente diversa: in caso di allevamento, l’attività coinvolge (o tocca in qualche modo) l’intero gruppo sociale, non solo il cavaliere.

Insomma, non possiamo sapere davvero se i Sredni Stog cavalcavano nel quinto millennio a. C., ma possiamo affermare con sicurezza che l’allevamento e l’arte di cavalcare nascono proprio in quest’area. Considerato quanto detto prima sulla diminuzione drammatica di resti equini nel resto dl mondo, possiamo affermare che, con ogni probabilità, l’allevamento salvò il cavallo dall’estinzione.

Studi recenti suggeriscono addirittura che tutti i cavalli moderni sarebbero i discendenti di un’unica mandria ancestrale, l’ultima grande mandria che pascolava nei paraggi di Dereivka.

Animo e coraggio, abbiamo quasi finito!

Di qui al catafratto corrono ancora millenni. L’impiego militare è stato l’ultima tappa del cavallo domestico.

La prima traccia di cavallo da guerra farebbe riferimento ai carri da guerra del re amorreo Samsi-Adad (1800 a. C.). In questo periodo il pedigree dei cavalli era già registrato e documentato, il che significa che la selezione artificiale era già relativamente raffinata.

E’ questa selezione a provocare la vastissima varietà di tratti somatici, fisiologici e regionali tra le numerose razze di cavalli moderni.

L’addomesticazione del cavallo è stata una svolta radicale nella Storia umana. Si poteva viaggiare di più, più lontano, più velocemente. Gli orizzonti si sono spalancati. Zone fino a quel punto troppo distanti erano a portata: nuovi territori di caccia, nuove occasioni di scambio, di saccheggio… e infine, nuovi modi di combattere.

Il cavallo è una bestia che tende ad evitare i conflitti, trovare il modo di usarlo in guerra non deve essere stato semplice. Secondo Creel, il carro da guerra avrebbe avuto origine nell’odierna Siria, mentre il guerriero montato sarebbe nato sulle montagne dell’Iran.

Me questa è ciccia per un altro articolo.

MUSICA!


Bibliografia

BUDIANSKY Stephen, The Nature of Horses, Phoenix Illustrated, Londra, 1998

CREEL H. G. “The Role of the Horse in Chinese History.” The American Historical Review, vol. 70, no. 3, 1965

DREWS Robert, Early riders, the beginnings of mounted warfare in Asia and Europe, New York, Routledge, 2004

JAGER Ulf, “Some remarks on horses on the ancient Silk Roads depicted on monuments of Art between Gandhara and the Tarim Basin”, Pferde in Asien: Geschichte, Handel und Kultur/ Horses in Asia: History, Trade and Culture, Osterreiche Akademie der Wissenschaften, Vienna, 2009

LEVINE Marsha A., “Botai and the Origins of Horse Domestication”, Journal of Anthropological Archaeology 18, Academic press, Cambridge, 1999

Mallory sui Sredni Stog

SAWAZAKI Hiroshi, Uma ha kataru, Iwanami Shoten, Tōkyō, 1987

SIDNELL Philip, Warhorse, Hambledon Continuum, New York, 200

TRENCH Charles Chenevix, A history of horsemanship, Longman, Londra, 1970