La Paura, un romanzo coraggioso

La Prima Guerra Mondiale è stata senza dubbio una delle più colossali catastrofi che abbiano segnato la Storia europea. E’ un fenomeno di una vastità e di una complessità straordinarie, con ramificazioni sconfinate che continuano a riecheggiare tutt’oggi nel discorso politico, culturale e artistico. Ancora oggi leggo interventi di gente che cerca di rispulizzirla, di girarla in positivo, tipo “ha cimentato l’Italia come stato-nazione”. Che è un po’ come dire che il bombardamento di Tokyo ha risolto l’annoso problema del traffico, ma vabbé.

Oggi non intendo entrare troppo nella polemica della propaganda nazionalista e low key guerrafondaia, perché questo onore lo lascio tutto al protagonista della nostra storia: il soldato Jean Dartemont!

L’autore

Gabriel Chevallier (@gabrielchevall2) | Twitter

Chevallier is watching you

L’autore dietro le disavventure di Dartemont è Gabriel Chevallier. Chevallier nasce nel 1895 in una famiglia della borghesia Lionese. Ha 19 anni quando scoppia la guerra ed è chiamato alle armi. Appena finito l’addestramento, il nostro viene rimpinzato di schegge e finisce in ospedale. Ristabilito, viene rispedito al fronte, dove si fa il resto della guerra.

Chevallier torna tutto d’un pezzo e campa il resto della vita facendo una serie di lavori, dall’illustratore al giornalista al commesso viaggiatore… allo scrittore.

Chevallier comincia a scrivere nel 1925, basandosi sulla sua esperienza di veterano. Il suo primo romanzo, che ha come narratore il soldato Dartemont (l’autore sotto mentite spoglie), La Peur, è pubblicato nel 1930.

Il romanzo viene ricevuto malissimo.

Il genere

Nel suo saggio Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Rieuneau ha studiato l’immagine della Grande Guerra che emerge dai romanzi dell’epoca. Un migliaio di scrittori si sono trovati sotto le armi, e il loro contributo alla letteratura francese è ricco e variegato.

In particolare, a noi interessa quella che Rieuneau definisce “L’epoca dei testimoni”, ovvero testi scritti da reduci che parlano della loro esperienza diretta.

Il tipo di “romanzo-testimonianza” si diffonde a partire dal 1916. Un esempio emblematico è il famosissimo Le Feu di Henri Barbusse.

Nella ventina di romanzi rappresentativi di questa corrente, vediamo cicciar fuori spesso gli stessi posti, fatti, esperienze. Anche le motivazioni degli autori paiono simili: il bisogno di raccontare la propria storia, e il desiderio che questa storia sia ricordata.

Questo bisogno di parlare del proprio trauma, di vederlo riconosciuto dagli altri, è pressoché universale. E’ uno dei temi principali del documentario The Look of Silence, di Oppenheimer: l’impossibilità di parlare del proprio dolore, di vederlo riconosciuto dai nostri simili, è un ostacolo insormontabile nel processo di lutto che caratterizza, in modo più o meno intenso, il superamento di ogni trauma.

Il fatto che questi romanzi abbiano tutti temi e fatti in comune non significa però che siano libri simili. Come dice Sicard, possiamo distinguere quattro grandi categorie del genere:

  • La testimonianza pura, dritta dritta dalle pagine di diario del combattente
  • La letteratura della smobilitazione, dove non si parla più dell’esperienza diretta del combattimento ma della guerra in generale, come concetto, come fenomeno, la sua natura e ciò che fa agli uomini che ne sono coinvolti
  • Il culto dell’eroismo, ovvero storie che celebrano la guerra come una sorta di catalizzatore esplosivo che fa emergere le migliori virtù dell’uomo. Un caso celeberrimo in questo ambito è quel matto di Montherlant, con La Relève au Matin (1920) o Le Songe (1922)
  • La letteratura di protesta. Ovvero quelli che a Motherlant avrebbero cacciato volentieri uno stivale nel culo. Si tratta di opere diversissime tra loro (Sicard cita Les Drapeaux di Paul Reboux, Le Sel de la Terre di Raymond Escholier o Les Suppliciés di René Naegelen), ma accomunate da un rifiuto della guerra, un’attitudine disincantata o ostile alla prosopopea nazionalista, se non proprio uno slancio internazionalista

Rieuneau identifica questo tipo di romanzo come tipico del decennio 1919-1929. La Peur è un po’ più tardivo, essendo uscito nel 1930, ma si inserisce perfettamente in questo filone.

Nel romanzo, Chevallier rivisita le sue esperienze con lo pseudonimo Jean Dartemont. Attraverso le parole di Dartemont, il nostro racconta la follia della guerra, la paura onnipresente, l’assurdità della propaganda nazionalista, il senso di impotenza e ingiustizia del soldato semplice davanti alla colossale catastrofe del conflitto mondiale.

Il romanzo non è un resoconto pedissequo delle sue disavventure, ma è chiaramente una rielaborazione che mischia esperienze reali e riflessioni politico-filosofiche. Passaggi descrittivi crudi e sinceri si alternano a brani narrati con toni quasi caricaturali, a dialoghi che ricordano i dibattiti platonici, dove Dartemont dichiara le proprie convinzioni. La Peur non è semplicemente una testimonianza, La Peur è un romanzo dichiaratamente, violentemente politico. Ma di questo parleremo più in dettaglio.

Il libro

La Peur - Poche - Gabriel Chevallier - Achat Livre | fnac

Je vais vous dire la seule occupation qui compte à la guerre: J’AI EU PEUR

A 19 anni, Jean Dartemont parte soldato. Non è un convinto nazionalista, ma non è nemmeno un pacifista. E’ giovane e curioso, vuole vedere come una vera guerra è combattuta (perché si sa, a 19 anni siamo tutti immortali).

La curiosità di Dartemont sarà soddisfatta fin troppo alla svelta. Per quattro anni.

La storia, grosso modo, è questa. Non c’è una vicenda strutturata, un arco vero e proprio, se non una progressiva realizzazione dell’assurdità della guerra, la rabbia e la frustrazione all’idea che stai per morire a 19 anni senza nessuna buona ragione, e un’analisi penosa dell’effetto della paura estrema e cronica a cui il fante di linea viene sottoposto.

Chevallier non nega coraggio e l’eroismo, ma non celebra le grandi virtù guerriere, il romanticismo di morire per la Patria. Dartemont e i suoi compagni non sono esempi di eroismo classico. Quello che Chevallier pensa della narrativa romantica nazionalista e militarista è chiaro fin dalle prime pagine:

[NOTA: le citazioni sono prese dalla traduzione italiana, precisazioni in bibliografia]

Quando si è vista la guerra come l’ho vista io viene da chiedersi: «Perché mai si accetta una cosa simile? In nome di quale tracciato di confini, di quale onore nazionale la si può legittimare? Come si può travestire da ideale ciò che è pura delinquenza, e fare in modo che venga approvato?».

Ai tedeschi hanno detto: «Avanti con questa guerra nuova e lieta! Nach Paris e Dio è con noi, per una Germania più grande!». E quei bonaccioni dei tedeschi, che prendono tutto sul serio, si sono messi in marcia per la conquista trasformandosi in bestie feroci.

Ai francesi hanno detto: «Ci attaccano. È la guerra del Diritto e della Rivincita. Tutti a Berlino!». E i francesi pacifisti, i francesi che non prendono niente sul serio, hanno interrotto le loro fantasticherie di agiati borghesi per andare a combattere.

È successa la stessa cosa agli austriaci, ai belgi, agli inglesi, ai russi, ai turchi e poi agli italiani. Nel giro di una settimana venti milioni di uomini civilizzati, intenti a vivere, ad amare, a far soldi, a costruire il futuro, hanno ricevuto l’ordine di piantare tutto in asso per andare a uccidere altri uomini. E quei venti milioni di individui hanno obbedito perché li avevano convinti che quello era il loro dovere.

Venti milioni, tutti in buonafede, tutti d’accordo con Dio e con il loro sovrano… Venti milioni di idioti… Come me!

 

E ancora:

Dopo un anno di vita militare mi capita di pensare che sono un pessimo soldato e di rammaricarmene come una volta mi rammaricavo di essere un pessimo studente. È chiaro, non riesco a piegarmi ad alcuna regola. Devo biasimarmi? L’incapacità di accettare i princìpi che mi hanno insegnato è forse un vizio? In linea di massima credo che sia un bene, e che quei princìpi siano nefasti. Ma a volte, quando vedo tutti gli altri coalizzati contro di me e sicuri delle loro idee, inizio a dubitare: anch’io ho le mie debolezze, come chiunque, e mi arrendo all’opinione comune… Temo di non essere adatto a questa guerra che richiede solo passività e spirito di sopportazione. Non sarebbe meglio per la mia tranquillità se io fossi un combattente privo di incertezze, come ce ne sono tanti (ma io ne ho mai conosciuti?), che lotta con accanimento per la patria nella convinzione che la morte di ogni nemico ucciso gli valga un’indulgenza presso il suo dio? Ho la sfortuna di riuscire ad agire solo in virtù di un motivo approvato dalla mia ragione, e la mia ragione rifiuta certe costrizioni che le si vorrebbero imporre. Gli insegnanti, un tempo, mi rimproveravano di essere troppo indipendente; poi ho capito che temevano il mio giudizio, e che la mia logica di adolescente sollevava problemi che loro avevano deciso di accantonare. Ma oggi le costrizioni sono più forti, e chi le esercita forse mi farà ammazzare.

Le descrizioni offerte da Chevallier sono vivide, a tratti surreali. Quando il fronte si avvicina, l’impressione non è tanto quella di una lotta tra uomini, ma di un cataclisma. C’è un’ironia fatalista e orrida nell’idea di essere a un soffio dalla morte, e questo senza nessuna buona ragione, senza nessun modo di svincolarsi. E’ una situazione orrida, è una situazione assurda.

Una vampata che sembrava investire il mondo intero ci strappò al torpore. Avevamo appena superato una cresta, e il fronte, davanti a noi, ruggiva con tutte le sue bocche infuocate, fiammeggiando come una fucina infernale i cui mostruosi crogioli trasformavano in una lava di sangue la carne degli uomini. Ci veniva la pelle d’oca all’idea di essere solo una palata di carbone destinata ad alimentare quella fornace, al pensiero che dei soldati, laggiù, lottavano contro la tempesta di ferro, contro l’uragano di fuoco che faceva ardere il cielo e tremare le fondamenta della terra. Le esplosioni erano così ravvicinate da produrre l’impressione di un unico bagliore e di un boato ininterrotto. Sembrava che qualcuno avesse buttato un cerino sull’orizzonte zuppo di benzina, e che un genio malefico continuasse a versare del punch su quelle diaboliche fiammate e sghignazzasse lassù celebrando la nostra distruzione. E perché nulla mancasse a quella macabra festa, perché un contrasto ne accentuasse ulteriormente l’aspetto tragico, vedevamo razzi leggiadri innalzarsi verso la cima di quell’inferno e sbocciare come fiori di luce, per poi ricadere, moribondi, con uno strascico da cometa. Eravamo abbagliati da quello spettacolo, il cui angosciante significato era chiaro solo ai veterani. Fu la prima visione che ebbi della furia scatenata del fronte.

Come dice il titolo stesso del romanzo, un tema domina le pagine: la paura.

Chevallier racconta la paura con un candore spietato. La paura è una sorta di infezione, una febbre che aggredisce l’uomo fin dall’inizio e lo rode ogni giorno, senza dargli mai pace.

Quest’angoscia costante è mista a un complicato ventaglio di emozioni contraddittorie. Chevallier parla senza remore del risentimento, dell’incertezza, del disperato desiderio di vivere e del senso di colpa dell’essere ancora vivo. In quello che lui stesso descrive come uno dei ricordi peggiori che il fronte gli lascia, Chevallier racconta il suo primo incontro ravvicinato con dei cadaveri freschi:

A un tratto il soldato che mi precedeva si accovacciò e iniziò a trascinarsi sulle ginocchia per infilarsi sotto un ammasso di materiali che ostruivano il passaggio. Mi accovacciai anch’io e lo seguii. Quando si rialzò mi apparve davanti un uomo di cera, supino, che spalancava una bocca senza respiro e occhi senza espressione, un uomo freddo, irrigidito, che probabilmente si era rifugiato sotto quell’ingannevole riparo di assi e lì era morto. All’improvviso mi trovavo a tu per tu con il primo cadavere recente che avessi mai visto. Il mio volto passò a pochi centimetri dal suo, il mio sguardo incrociò il suo sguardo, spaventoso e vuoto, e la mia mano sfiorò la sua mano, ghiacciata e illividita dal sangue che gli si era gelato nelle vene. Durante il breve faccia a faccia che mi impose, ebbi la sensazione che il morto mi incolpasse della sua fine e minacciasse vendetta. È una delle impressioni più tremende che ho riportato dal fronte.

Ma quel morto era il custode di un regno di morti. Quel primo cadavere francese precedeva centinaia di altri cadaveri francesi: la trincea ne era piena.

[…]
Intravidi da lontano il profilo di un piccoletto barbuto e calvo, seduto sulla banchina di tiro, che sembrava ridere. Era il primo volto rilassato e rassicurante che incontravamo, e andai verso di lui spinto da un moto di gratitudine, chiedendomi: «Che avrà poi da ridere?». Rideva della propria morte! Aveva la testa tranciata perfettamente in due. Oltrepassandolo feci un balzo all’indietro nel rendermi conto che a quel viso allegro mancava l’altra metà.4 Il cranio era completamente vuoto. Il cervello, saltato via in blocco, si trovava proprio accanto al cadavere – come un pezzo di trippa sul banco di un venditore di frattaglie –, vicino alla mano, che lo indicava. Quel morto ci aveva giocato un macabro scherzo. Forse rideva per quello. Lo scherzo raggiunse il colmo dell’orrore quando uno dei nostri lanciò un grido strozzato e scappò via come un pazzo facendosi strada a spintoni.

«Che ti prende?».

«Credo che sia… mio fratello!».

«Guardalo da vicino, santo cielo!».

«Non ce la faccio…» bisbigliò il soldato mentre si allontanava.

Dartemont combatte e uccide per salvare la propria pelle. Dartemont prova simpatia per i prigionieri o i disertori tedeschi, perché si riconosce in loro più che non nei propri ufficiali.

A volte il nemico più terrificante è il cecchino, a volte è il tuo colonnello, a volte la cosa più pericolosa che puoi fare è andare a la latrina durante un bombardamento. Accucciato tra le rocce Dartemont deve valutare se vale la pena rischiare la pelle o cagarsi addosso. Sono episodi umilianti, che Chevallier racconta senza pudore.

Cadaveri di Verdun, scaraventati sulle chiome degli alberi da un’esplosione

In uno dei passaggi più celebri del romanzo, Dartemont è all’ospedale, pieno di schegge. A un’infermiera patriottica che gli chiede com’è il combattimento, Dartemont risponde:

Vi dirò la sola occupazione che conta in guerra: HO AVUTO PAURA.

La cosa che domina in prima linea non è il pensiero della Patria o l’onore o lo slancio guerriero, ma la paura. Miserabile, abbietta, oscena paura.

Entriamo in agonia.

L’attacco è sicuro. Ma siccome dobbiamo rinunciare agli assalti frontali, che non riescono a sfondare, avanzeremo lungo i camminamenti. Il mio battaglione deve attaccare gli sbarramenti tedeschi con le bombe a mano. Io, come granatiere, andrò tra i primi.

Non conosciamo ancora l’ora prevista per l’attacco. Verso mezzogiorno ci dicono: «Sarà stasera o stanotte».

Dalle latrine, che sono rialzate, si scorgono le linee nemiche. La pianura, leggermente in salita, è circondata in lontananza da quello che resta di un bosco martoriato, il Bois de la Folie, che, a quanto sembra, il comando si prefigge di occupare. Corre voce che abbiamo di fronte la guardia imperiale tedesca, pronta ad accoglierci con proiettili esplosivi.

Che fare fino a sera? Non conto granché sulle bombe a mano, che non so usare. Smonto il fucile, lo pulisco con cura, lo ingrasso e lo avvolgo in uno straccio. Controllo anche la baionetta. Non so come si combatte dentro un camminamento, avanzando in fila indiana. Ma dopotutto il fucile è un’arma, l’unica che conosco veramente, e devo pur prepararmi a lottare per la vita. Nemmeno sul coltello conto granché.

Soprattutto non devo pensare… E a cosa poi? A morire? Non posso pensarci. A uccidere? È un’incognita, e di uccidere non ho nessuna voglia. Alla gloria? La gloria non si conquista qui, ma standosene nelle retrovie. Ad avanzare di cento, duecento, trecento metri nelle linee tedesche? Ormai so fin troppo bene che questo non cambierebbe di una virgola l’andamento della guerra. Non sono mosso né dall’odio, né dall’ambizione, né da altri stimoli. Eppure devo andare all’attacco…

Ho un unico obiettivo: schivare i proiettili, le bombe a mano e le granate, salvare la pelle, che si vinca o si perda. D’altra parte: vinci se resti in vita. E questo è l’unico obiettivo di tutti, qui.

Il capitolo sulla permanenza in ospedale è una lunga sezione verso metà del libro, ed è una delle più “costruite”. Si perde completamente il sapore spontaneo e realistico degli aneddoti di trincea, per una specie di messa in scena dialettica tra Dartemont, giovane istruito e segnato dalla guerra, e le infermiere, incarnazioni della visione borghese e nazionalista, donnette con la testolina piena di propaganda che non sanno, non possono sapere ciò che succede al fronte.

Questa parte è insieme una delle più difficili e più interessanti da leggere. Dartemont non è sempre un narratore congeniale, e in queste pagine emerge tutto il suo classismo e il sessismo spicciolo che per il lettore attuale può risultare davvero stridente. Allo stesso tempo si tratta anche di un momento di quiete narrativa in cui Chevallier può elaborare il suo messaggio politico, il suo risentimento verso una società guerrafondaia e intellettualmente inetta.

Le infermiere si stupiscono nel constatare che al dovere così come lo intendono loro si possono opporre altri doveri, che esistono ideali sovversivi più elevati, di più ampio respiro e più proficui per l’umanità.

Comunque, la signorina Bergniol ha concluso:

«Non educherò i miei figli secondo le sue idee».

«Lo so, signorina. Voi, che potreste essere portatrici di fiaccole oltre che di creature, trasmetterete ai vostri figli solo la tremolante candela che avete ricevuto, da cui cola la cera che vi brucia le dita. Sono le candele che hanno incendiato il mondo invece di illuminarlo. Sono i ceri con cui domani, di nuovo, un’umanità cieca accenderà i bracieri sui quali si consumeranno i frutti delle vostre viscere. Il loro dolore a quel punto non sarà altro che cenere; e nel momento stesso in cui il sacrificio si compirà, lo sapranno e vi malediranno. Con i vostri princìpi, se se ne presenterà l’occasione, sarete a vostra volta delle madri disumane».

Come si può constatare, questi passaggi sanno più di comizio che di autobiografia. Come dicevo, La Peur è un romanzo politico, ma di nuovo, torneremo sull’argomento.

La parte in ospedale non è una mera parentesi educativa e polemica: anche in queste pagine l’esperienza diretta fa capolino. Qui possiamo vedere cosa succede agli “eroi”, l’impatto che ferite e trauma hanno sui combattenti. Un personaggio spicca tra gli altri: Charlet, un conoscente che Dartemont ritrova in ospedale, addetto a raccattare i pitali pieni di merda dei feriti.

Al soldato infermiere abbiamo affibbiato un soprannome impietoso: Popò. So che lui ne è amareggiato. Lo so perché ho conosciuto André Charlet prima della guerra, all’università, dove figurava tra gli studenti migliori, quelli pieni di curiosità e di idee. Pubblicava sulle riviste giovanili certi brillanti sonetti che rappresentavano la vita come un immenso campo di conquista, una foresta divina e stupefacente in cui si addentrano gli esploratori scelti per poi tornarne carichi di frutti meravigliosi dai sapori sconosciuti, di donne dalla bellezza esotica e di mille barbarici oggetti dal ricercato gusto primitivo. Durante la mobilitazione si era arruolato tra i primi ed era stato gravemente ferito nel corso dell’anno seguente.

L’ho ritrovato qui, abbattuto, senza energie e sporco. Pochi mesi di guerra lo hanno trasformato, gli hanno conferito questa aria irrequieta, questa magrezza e questa pelle giallastra. L’esperienza del fronte gli ha lasciato addosso un terrore folle, che gli si legge negli occhi. Pur di restare all’ospedale ha accettato un simile incarico, con le sue ripugnanti incombenze. Interpretando il ruolo di Popò, riesce a prolungare di tre mesi la sua permanenza qui, in virtù di non so quale ordinanza militare che autorizza gli ufficiali medici ad avvalersi temporaneamente di assistenti. D’altronde è molto probabile che in seguito venga assegnato alle truppe ausiliarie, se non addirittura riformato. Lui però preferisce evitare di sottoporsi a una commissione se non in ultima istanza, perché teme che il suo corpo non sia abbastanza malconcio da giustificare un’esenzione che gli eviti il ritorno al fronte. Ma è il solo ad avere questo timore; quanto a noi, lo riteniamo destinato alla morte per tubercolosi, più inesorabile delle granate.

[…]

Presto o tardi doveva succedere. Mi stupisco che le anomale trasformazioni avvenute in lui non me l’abbiano fatto intuire. Per quanto demoralizzato, un uomo giovane si riprende in fretta; Charlet invece si incupiva sempre più.

Prima, quando è entrato in corsia, le dita contratte, i tic che gli alteravano i lineamenti, l’andatura a scatti tradivano uno stato di forte tensione nervosa. Ha comunque iniziato il suo turno come al solito, ma senza nemmeno salutarmi.

Verso l’una mi è improvvisamente comparso davanti. Aveva una faccia spaventosa, terrea, con delle chiazze scure e gli occhi cerchiati di rosso. Mi ha messo il braccio sotto il naso:

«Annusa! Annusa, dài!».

«Be’, che c’è?».

Spingeva il braccio verso di me con violenza. Mi sono fatto indietro.

«Allora, lo senti? Lo senti l’odore?».

Mi fissava con occhi scintillanti, furibondi, da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Avvicinando il suo volto al mio fino a toccarlo, mi ha detto queste parole incredibili:

«Sono una merda».

«Via, Charlet, sei impazzito?».

«Insomma, annusa!».

Più ancora della sua rabbia, mi ha spaventato la bava che gli stava colando dalla bocca. Per fortuna lo hanno chiamato:

«Ehi, Popò!».

Si è lanciato in direzione di Peignard gesticolando in modo scomposto:

«Mi chiamo Merda, chiaro? E non sopporterò oltre i vostri volgari insulti!».

Ho capito che era andato fuori di testa e subito ho temuto per i feriti più malconci: Peignard con il suo piede, Diuré con i suoi tubi di drenaggio, il povero bretone. Ho chiamato gli altri, quelli più in forze, che lo hanno attorniato mentre qualcuno andava a cercare aiuto. Lui, in piena crisi, tentava di scappare e gridava:

«Vi tengo in pugno, farabutti! Tutti gli uomini sono miei sudditi! Io sono la verità, il padrone del mondo!».

Finalmente tre marcantoni sono saliti dagli scantinati e lo hanno trascinato via.

Ci riverremo, ma quando lessi questo passaggio pensai al periodo in cui il libro fu pubblicato: 1930.

Chi è un minimo familiare con la Storia del periodo conosce il colossale stigma sociale associato con il tracollo mentale dei combattenti. Lo stress post-traumatico, o shell shock com’era chiamato nel primo dopoguerra, era considerato più vergognoso della Sifilide. Basti pensare che a due riprese, nell’agosto del ’43, il Generale Patton prese a schiaffi due dei suoi soldati affetti da shell shock.

Nel 1930 Chevallier raccontava l’effetto della paura, lo rivendicava, lo esponeva.

Rieuneau definisce Chevallier come “l’anti-Montherlant”, qualcuno che non solo sfata i miti della propaganda, ma che odia con ogni fibra del suo corpo la glorificazione della guerra.

«Nègre, vorrei farti una domanda che continua a tormentarmi. Che ne pensi del coraggio?».

«Ancora! La questione è stata definitivamente archiviata. Gli specialisti se ne sono occupati nel silenzio dei loro laboratori. Te lo dico una volta per tutte: il francese è coraggioso per natura, ed è l’unico a esserlo. I tecnici hanno dimostrato che per mandare il tedesco in battaglia bisogna fargli inalare dell’etere. Questo coraggio artificiale non è coraggio. E tu che mi racconti?».

«Io? Detto tra noi: mi sono rotto i coglioni!».

Incastrato nelle trincee, Dartemont prova un incontenibile senso di ribellione. Uno slancio che però non ha nessuna speranza di sfogare: se non gli sparano i tedeschi, saranno i suoi a farlo. Costretto in un gioco truccato contro di lui, Dartemont può solo cercare di sopravvivere, per poter un giorno raccontare la sua esperienza.

Quella notte pensai al destino del soldato sconosciuto che avevamo appena importunato nella sua tomba, e che altri avrebbero nuovamente calpestato. Immaginavo un uomo simile a me, cioè giovane, pieno di progetti e di ambizioni, di amori ancora indefiniti, appena affrancatosi dall’infanzia e sul punto di sbocciare. La vita, per come la vedo io, assomiglia a una partita che inizia a vent’anni e la cui posta si chiama successo: i soldi per i più, la fama per qualcuno, la stima degli altri per pochissimi. Vivere, durare non è niente; realizzare è tutto. Chi muore giovane è paragonabile a un giocatore che abbia appena ricevuto le sue carte e a cui venga proibito di giocare. E per quel giocatore, forse, si trattava di una rivincita… Vent’anni di studi, di sottomissione, di desideri e di speranze, tutta la somma di sentimenti che un essere umano porta dentro di sé e che costituisce il suo valore avevano trovato in quell’angolo di trincea il loro punto di arrivo. Se dovessi morire adesso non direi: «è spaventoso» o «è terribile», ma: «è ingiusto e assurdo», poiché non ho ancora tentato niente, fatto niente se non aspettare la mia occasione e la mia ora, limitandomi a conservare le forze e a pazientare. La vita secondo la mia volontà e le mie inclinazioni è appena cominciata, o meglio deve ancora cominciare, visto che la guerra ne ha rinviato l’inizio. Se soccombo adesso, sarò stato solo dipendente e incolore. Quindi sconfitto.

Tutti i temi dei romanzi rivoluzionari e pacifisti si ritrovano mischiati e confusi nella storia caotica di Dartemont.

Chevaillier racconta gli orrori macabri del campo di battaglia, ma senza attardarcisi troppo. Dopotutto altri prima di lui avevano sviluppato quell’angolo: Barbusse, Dorgelès, Naegelen…

La parte che più parla di combattimenti è quella dedicata all’offensiva sul Chemin des Dames.

Per gli italiani, la faccenda è più nota come “Seconda battaglia dell’Aisne”, una massiccia offensiva avvenuta tra l’aprile e l’ottobre del 1917. Non entro nei dettagli perché si tratta di una roba degna di un intero saggio (se vi interessano i massacri sull’Aisne, ai tempi avevo raccontato dell’Affaire de Crouy). Qui basti sapere che le operazioni primaverili, dirette dal generale Nivelle, si conclusero in un sanguinosissimo disastro condito con ammutinamenti.

Chevallier partecipò all’offensiva.

Non conosco ripercussioni morali paragonabili a quelle provocate dal bombardamento su chi si è rintanato in un ricovero. La sicurezza si paga al prezzo di un crollo interiore, di un logorio dei nervi davvero tremendi. Non conosco niente di più angosciante di quel martellamento sordo che ti bracca sottoterra, tenendoti sepolto in una fetida galleria che può diventare la tua tomba. Per riemergere dall’abisso è necessario uno sforzo che, se non si è superato lo spavento fin dall’inizio, la volontà non è più in grado di compiere. Bisogna lottare contro la paura ai primi sintomi, altrimenti ti irretisce, e allora sei spacciato, trascinato in una catastrofe che l’immaginazione accelera con le sue spaventose invenzioni. Una volta scossi, i centri nervosi trasmettono comandi del tutto incongrui e, con le loro assurde decisioni, rischiano di contravvenire persino all’istinto di conservazione. Il colmo dell’orrore, che rende lo scoramento ancora più grave, è che la paura non toglie all’uomo la facoltà di giudicarsi. Egli vede se stesso sull’ultimo gradino dell’ignominia e non riesce a risollevarsi, a giustificarsi ai suoi stessi occhi.

Questo è lo stato in cui mi trovo…

Sono rotolato in fondo al baratro di me stesso, in fondo alle segrete dove si nasconde la parte più riposta dell’anima. Un’immonda cloaca, una tenebra vischiosa. Ecco cos’ero senza saperlo, ecco cosa sono: uno che ha paura, una paura incontrollabile, una paura da mettersi a piangere, che ti annienta… Per farmi uscire dovrebbero cacciarmi fuori a calci. Ma accetterei di morire qui, credo, pur di non essere costretto a salire quei gradini… Ho paura al punto da non tenere più alla vita. Del resto, per me provo solo disprezzo. Per resistere contavo sulla stima di me stesso, e ora l’ho persa. Come potrei ostentare ancora sicurezza adesso che so chi sono veramente? Come potrei mettermi in luce, brillare, dopo quello che ho scoperto? Forse riuscirò a ingannare gli altri, ma sarò sempre consapevole di mentire, e questa messinscena mi dà la nausea. Penso a Charlet, alla compassione che provavo per lui all’ospedale. Sono caduto in basso come lui.
[…]

Sotto i sacchi per la sabbia del mio giaciglio ho trovato una bottiglia vuota da un litro, con il tappo, e la mia vigliaccheria se n’è rallegrata. Ogni tanto mi giro su un fianco e piscio lì dentro, a piccoli getti, in modo che nessuno sorprenda questa inconfessabile manovra. Durante la giornata la mia principale preoccupazione è versare l’urina a terra un poco alla volta, in modo che sia assorbita dal suolo. Ah, sono proprio uno schifoso!

La morte sarebbe preferibile a questo supplizio avvilente… Sì, se deve durare ancora a lungo, preferisco morire.

Direi che è andata bene ^_^

Robert Nivelle — Wikipédia

Quando hai un vantaggio numerico di 2 a 1 e totalizzi un glorioso punteggio di 120.000 perdite e 0 vittorie

La verve rivoluzionaria del romanzo non si esaurisce in un ritratto spietato della vita del soldato semplice. Chevallier denuncia anche i propri ufficiali, gli attacchi inutili spinti per soddisfare i pruriti di gloria di questo o quello, le condanne a morte assolutamente ingiuste e crudeli. Nel romanzo si menziona, ad esempio, l’omicidio la condanna di Lucien Bersot.

Si tratta del famoso e infame incidente “del pantalone rosso”: Bersot era un soldato che fece richiesta per un nuovo paio di braghe. Gli furono date quelle di un morto, ancora lacere e sporche di sangue. Bersot si rifiutò di portarle e fu arrestato. Questo scatenò indignazione e rivolta tra i suoi compagni, al che fu deciso di fare di Bersot un esempio, e il soldato fu fucilato.

Crimini di questo genere purtroppo non sono stati rari. I lettori italiani sono probabilmente familiari con la storia di Alessandro Ruffini.

Sono episodi del genere che confermano per Chevallier il fatto che i suoi superiori non hanno nessun riguardo per la vita dei loro subordinati. Per i soldati semplici, questa gente è altrettanto pericolosa, altrettanto nemica del tedesco.

Shell_shock

Un reduce francese vittima di Shell shock si ritrae con terrore alla vista del berretto di un ufficiale

Ma Chevallier non ce l’ha solo con l’esercito. Dopotutto se quest’inutile massacro è stato possibile, ciò lo si deve anche al sostegno e alla partecipazione della società civile. E Chevaillier ne ha tante da dire sulla borghesia nazionalista. Già dalle prime pagine appare chiaro un ritratto di revanchisti che ancora non hanno ingollato la disfatta di Sédan, gente piena di mediocre risentimento che celebra una guerra che non saranno loro a combattere, gente pronta a sacrificar decine di migliaia di uomini per una catarsi emotiva.

In una scena del libro, un passante che non dà prova di un livello accettabile di fervore patriottico viene pestato sulla pubblica via. Quando Dartemont torna a casa in licenza, dopo essersi fatto l’ospedale, viene prima criticato da suo padre per non aver già scalato i ranghi, e poi portato in giro e mostrato ad amici e conoscenti. Avere un figlio che è per un pelo scampato a un combattimento è oggetto di vanto, una fonte d’orgoglio per ricchi borghesi che fanno la guerra seduti al bar con un bicchiere di kir.

La società borghese è conformista, ipocrita, benpensante, una società che si balocca con storie fasulle e caricaturali di una guerra eroica, romantica e giusta. E Chevallier non cela il proprio disprezzo per costoro.

Il tempo è sereno. Ogni notte, adesso, sentiamo dei ronzii. Le squadriglie tedesche che vanno a bombardare Parigi sorvolano le nostre linee. Non abbiamo i mezzi per sbarrargli la strada. Ma salutiamo il passaggio di quegli aerei invisibili dicendo:

«Mi sa che stavolta se la beccano i patrioti, la batosta!».

«Gli servirà di lezione. Ci vorrebbe proprio, per i civili, qualche ora di bombardamento sulla capoccia!».

«Così forse la smettono di gridare: “Avanti, fino alla morte!”».

«Peccato solo rovinare i monumenti».

«Ma sentitelo! E la nostra pelle, allora? Vale meno di un monumento? Mica gliene importa niente a nessuno se ci sbudellano!».

«Così quelli della capitale le assaggiano pure loro, le bombe!».

«Sai che risate se i crucchi mollano una bella scoreggia dritto dritto sul ministero della Guerra!».

«Sta’ zitto, disfattista!».

«Ma sentitelo, ’sto venduto, ’sto brocco, ’sto volontario di merda!».

«Tanto per cominciare,» dice Patard, il telefonista dell’artiglieria «in guerra bisogna distruggere. Così finisce prima».

Patard è uno dei numerosi personaggi irriverenti che costellano il romanzo. Canaglie costrette a marciare come tutti gli altri, ma che non si bevono la storia dell’etica eroica, della gloria francese. Questi personaggi non sono sviliti come disfattisti o traditori, sono celebrati. La loro insolenza è l’eroismo in questo contesto, le loro trasgressioni sono celebrate, piccole rivolte contro un sistema ingiusto. Sono eroi in quanto resilienti.

[Patard] È il più temibile ladruncolo che si sia mai visto, il terrore delle cucine, degli spacci e dei magazzini. La sua impresa più celebre è stata quando ha fregato i pantaloni e gli stivali al generale di divisione. Il fatto ha avuto luogo sullo Chemin des Dames. Patard, in fondo a un ricovero, confezionava bustine fuori ordinanza che pensava di vendere ai soldati del suo reggimento. Ma gli mancava il nastro per adornare quei berretti. Per procurarselo si è offerto di andare sotto le bombe fino al comando di divisione a sostituire un telefono guasto. Lì, curiosando in giro, ha trovato dei bei pantaloni di panno fine appesi a un chiodo, dei pantaloni rossi, proprio il colore che gli serviva. Visto che accanto c’erano degli stivali, ha preso anche quelli ed è ritornato in trincea. Il generale ha scatenato un pandemonio, ma non ha mai sospettato che i suoi pantaloni fossero finiti, ridotti in striscioline, sulle teste dei suoi uomini, né poteva immaginarsi di salutarli ogni volta che incrociava un artigliere.

Patard è un eroe perché riesce a sopravvivere senza impazzire nel costante terrore che perseguita il soldato.

E Dartemont?

Di certo non si racconta come un eroe. La guerra non è qualcosa che Dartemont fa, è qualcosa che Dartemont subisce. C’è un solo episodio in cui Dartemont appare sinceramente fiero del proprio valore: durante un bombardamento, Dartemont vede un altro portaordini arrivare di corsa sotto il tiro degli obici tedeschi.

Resta un unico portaordini, e non se ne manda mai uno da solo sotto le granate. Il maresciallo esita… In quel momento vediamo un soldato che attraversa il burrone di corsa e si arrampica su per il pendio. Poco dopo arriva, coperto di sudore, ansimante. È Aillod, dell’undicesima. Trae un sospiro che significa: «Sono salvo!». Ma il maresciallo sceglie proprio lui:

«Adesso vai alla nona con Julien».

«Però, sempre gli stessi!» risponde Aillod sommessamente, davanti a me.

Noto l’espressione del suo viso, in cui il terrore prende il posto della gioia, e incrocio il suo sguardo, che è quello di un cane che aspetta di essere preso a bastonate, di un uomo che è appena stato condannato a morte. Quello sguardo mi fa vergognare. È davvero un’ingiustizia. Allora grido senza riflettere:

«Ci vado io!».

Vedo gli occhi di Aillod ravvivarsi, pieni di riconoscenza. E vedo pure lo stupore del maresciallo:

«D’accordo, vai!».

Durante questa missione, per cui Dartemont si è portato volontario in uno slancio di solidarietà non proprio ragionato, il nostro riesce per la prima volta a conquistare la paura.

Più tardi, di nuovo al riparo, Dartemont ha la possibilità di pensare a ciò che gli è successo.

È ancora presto quando vado a stendermi sulla mia branda, al buio. Rifletto sui fatti di questa sera. Insomma, per essere coraggioso ho a disposizione un mezzo semplice ed efficace: accettare la morte. Ricordo che già una volta, nell’Artois, quando dovevamo affrontare in campo aperto le mitragliatrici, mi ero abituato a questa idea per qualche ora. Poi gli ordini erano cambiati.

Quelli che cercano di farsi coraggio dicendosi: «Non mi succederà niente» sono del tutto irrazionali (eppure sono la maggioranza). Una simile convinzione non può essermi di aiuto, perché so fin troppo bene che i cimiteri sono pieni di gente che aveva sperato di tornare a casa sana e salva, persuasa che le pallottole e le granate scegliessero i loro bersagli. Tutti i morti si erano affidati alla protezione di una provvidenza personale, intenta a vegliare su di loro e del tutto indifferente agli altri. In quanti, sennò, sarebbero venuti a farsi ammazzare?

Mi sento del tutto incapace di mostrare coraggio se non sono deciso a dare la vita. In alternativa a questa scelta c’è solo la fuga. Ma una decisione del genere la si può mantenere per un breve momento, non per settimane o mesi. Lo sforzo morale è troppo grande. Ecco perché il vero coraggio è così raro. Di solito accettiamo una specie di compromesso zoppicante fra il destino e la volontà, che non soddisfa la ragione.

Per ora ho fatto due volte l’esperienza del coraggio assoluto. Sarà stata questa, alla fin fine, la mia azione di guerra più gloriosa.

Poi penso alle parole di Baboin: «È meglio non fare tanto i gradassi…». Oggi ho fatto il gradasso, e se voglio «portare a casa la ghirba» mi converrà resistere a simili impulsi…

Rieuneau nota che nel romanzo Chevallier non se la prende coi “vigliacchi”. Non è da vigliacchi provare paura, è naturale. Il terrore abbietto e umiliante non è mancanza di carattere, non è frutto di un difetto, non è una colpa, è la normale reazione di un uomo a cui viene inflitta la guerra.

In questo Chevaillier rivendica la vulnerabilità degli uomini in faccia a una narrativa disumanizzante che li vuole gagliardi combattenti pronti al sacrificio.

 

La pubblicazione

Tutti gli articoli sulla WWI devono avere un riferimento a Black Adder Goes Forth, sorry

Come potrete immaginare, in un’Europa in pieno sussulto nazionalfascista come quella del 1930, un romanzo come La Peur non fu ricevuto proprio benissimo. Non è da escludere che il clima nazionalista e guerrafondaio e la salita al potere di movimenti fascisti siano stati tra i fattori che spinsero Chevallier à scrivere il suo libro, una visione della guerra che sputa in faccia alla prosopopea fascistoide.

I toni che usa sono tali che Olivier Cariguel commenta:

Se avesse confessato le sue riflessioni in piena guerra, Dartemont si sarebbe beccato senza dubbio un plotone d’esecuzione per aver attentato al morale dell’esercito e per antipatriottismo.

Dartemont è un antieroe che non ha vergogna a mettere a nudo il suo lato umano, quel lato che la narrativa cazzodurista disprezza.

Dartemont ha fame, ha freddo, ha paura.

Dartemont non è un eroe di guerra.

Dartemont definisce la Patria:

Né più né meno che una riunione di azionari, né più né meno che un aspetto della proprietà, dello spirito borghese e della vanità.

Non è una sorpresa se, nel 1930, solo giornali di sinistra come Le Canard Enchainé celebrarono La Peur come l’opera fondamentale e la testimonianza imperdibile che è.

Per citare Chevaillier stesso, nella prefazione all’edizione del 1951:

Il libro fu accolto da movimenti diversi, e l’autore non sempre fu trattato molto bene. Ma due cose sono da notare. Degli uomini che lo avevano ingiuriato sarebbero girati male in futuro, il loro valore s’era infatti sbagliato di campo. Quanto ai combattenti di fanteria, scrissero: “Vero! Ecco ciò che sentivamo e non potevamo esprimere”. La loro opinione contava molto.

Il pacifismo di Chevallier non è un puccioso mondo di “volemossebbene”. Nonostante la sua condanna della Grande Guerra sia inappellabile, Chevallier non esclude la guerra a priori. Nel 1939, ad esempio, si accordò col proprio editore per togliere il proprio romanzo dagli scaffali.

Per riprendere l’introduzione del 1951:

Quando la guerra ormai c’è, non è più il momento di avvertire la gente che si tratta di un’avventura sinistra dalle conseguenze imprevedibili. Bisognava capirlo prima e agire di conseguenza.

In altre parole, la guerra è una calamità che umilia, distrugge, degrada l’essere umano. Ma se la si vuole evitare occorre adottare politiche e attitudini appropriate: non ha senso voler fare i pacifisti quando la Divisione Fantasma trancia allegramente attraverso le Ardenne.

Nella stessa prefazione, Chevallier aggiunge:

Nella mia gioventù si insegnava – quando eravamo al fronte – che la guerra era moralizzatrice, purificatrice e redentrice. Abbiamo potuto constatare le implicazioni di questi slogan ripetuti in continuazione: smerciatori, trafficanti, mercato nero, delazioni, tradimenti, fucilazioni, torture, tubercolosi, tifo, terrore, sadismo e fame. E dell’eroismo, d’accordo. Ma la piccola, l’eccezionale proporzione di eroismo non riscatta l’immensità del male. D’altro canto pochi sono tagliati per l’eroismo. S’abbia la lealtà di convenirne, noi che ne siamo tornati.

La grande novità di questo libro, il cui titolo era una sfida, è ciò che dicevamo [al fronte]: ho paura.

Nei “libri di guerra” che avevo letto la paura era a volte menzionata, ma si trattava di quella degli altri. L’autore era un personaggio flemmatico, così occupato nel prendere appunti che se la rideva degli obici.

L’autore di questo libro considera che sarebbe improbo parlare della paura dei propri compagni senza parlare della propria. Ragion per cui ha deciso di prendersi la responsabilità della paura, prima tra tutte la propria. Quanto a parlare della Grande Guerra senza parlare della paura, senza metterla in primo piano, sarebbe stata fumisteria. Non si vive nei luoghi dove si può essere squartati in ogni istante senza provare una certa apprensione.

Bataille du Chemin des Dames | Site d'histoire | historyweb.fr

Capo, credo di star provando una certa apprensione

Al di là del messaggio politico di Chevallier, Dartemont è un personaggio notevole nell’orizzonte della narrativa maschile: lo era nel 1930 e lo è tutt’ora.

Come sa chi ha letto il mio commento a quella porcheria esilarante di Educazione Siberiana, spesso nei film di “Uominiveri per Uominiveri” il protagonista è uno tostissimo che fa cose tostissime per un’ore e mezza, e i romanzi non se la cavano granché meglio. Questo comporta due problemi: tanto per cominciare non può esserci vero coraggio se non c’è paura (sicché la storia raccontata è semplicemente inutile), e in secondo luogo questo tipo di storie, quando troppo pervasive, rinforzano un mito dannoso di forza e virilità, con conseguenze indirette negative sui lettori.

Dartemont è un personaggio che rivendica la propria vulnerabilità e la propria paura. E’ un personaggio che espone la propria fragilità umana senza pudore, con onestà e insolenza. E’ un personaggio che lotta per sopravvivere, ma che si mette a rischio quando riconosce la disperazione rassegnata negli occhi di un compagno.

Dartemont offre un modello dove la vera forza non è la violenza guerriera (che pure fa parte della vita in trincea), ma l’onestà di ammettere: ho freddo, ho fame, ho paura. Ed è accettando la propria paura e la legittimità del suo desiderio di restare in vita che Dartemont mantiene la propria sanità mentale e la propria vita.

Quella di Chevallier non è l’unica esperienza della Grande Guerra. Come accennato, altri reduci l’hanno vissuta in modo diverso. Ma allora come oggi La Peur resta un romanzo narrativamente e politicamente importante, che in troppo pochi hanno letto.

MUSICA!
P.S. nel 2015 i francesi hanno realizzato un film sul romanzo, ma non l’ho ancora visto quindi non so se consigliarvelo. Qui il trailer.


Bibliografia

CARIGUEL Olivier, Revue des Deux Mondes, 2008, p.182

CHEVALLIER Gabriel, La Peur, ed. Le Dilettante, Parigi, 2008

CHEVALLIER Gabriel, trad. CARRA Leopoldo, La Paura, Adelphi, 2011

RIEUNEAU Maurice, Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939, Klincksieck, Parigi, 1974

SICARD Claude, Revue d’Histoire Litttéraire de la France, vol. 76, n.3, 1976, p.500-507

Pagina Wiki su Chevallier (FR)

Pagina Wiki del romanzo (FR)

 

 

1917, un film quasi perfetto

Questo film è bellissimo e se avete la possibilità di andare a vederlo quando il mondo non sta bruciando, fatelo.

Fine della recensione.

1917

No, vabbé, parliamone.

Piccola parentesi. Come accennavo nell’articolo di riapertura, sono stata male peso per mesi e mesi, ho trovato delle medicine che mi funzionavano, sono stata meglio, e 3 settimane dopo il mondo è esploso.

Sono uscita a vedere questo film con un’amica, ed è stata forse l’unica cosa « normale » che sono riuscita a fare da settembre. Tre giorni dopo eravamo tutti barricati in casa.

Sono davvero contenta di avercela fatta, perché, al di là del fatto che è spettacolare, sono riuscita a sentirmi « normale » per un po’ prima che tutto questo casino ci cascasse tra capo e collo e cancellasse la parola « normale » dal dizionario.

Sicché non vi nego che ho un debole per questo film. Ma cercherò comunque di essere il più oggettiva e fastidiosa possibile.

La Trama

1917 – Movie Loon

“Tommen, Rob Stark è tuo fratello e sta per essere ucciso dal Doctor Strange!”

La trama di 1917 è davvero semplicissima.

I tedeschi si sono ritirati sulla Linea Hindenburg, e gli inglesi di preparano a incalzarli per assicurare una vittoria significativa.

O, come direbbe Lieutenant George : Up and over to glory, last one in Berlin is a rotten egg !

The Black Adder — Lieutenant George + asking permission

In questa recensione ci saranno molte citazioni da Blackadder goes Forth

Si tratta però di una trappola: gli inglesi stanno caricando a testa bassa, e i crucchi stanno aspettando con l’artiglieria pronta, leccandosi i prussiani baffoni.

La linea telefonica è tagliata, e tocca quindi a un paio di Lance Corporals farsi a piedi (possibilmente di corsa) tutta la no-man’s-land per fermare l’attacco suicida.

La scelta dei due cade su Lance corporal Thomas Blake, il cui fratello è destinato ad attaccare al mattino, dritto nella trappola, e William Schofield, veterano della Battaglia della Somme.

Subito all’inizio, appena mettono il naso fuori dalla trincea, Schofield si buca una mano sul filo spinato. Poi casca in una buca e la ficca nelle budella marce di un cadavere. E poi niente, va sempre peggio a partire da qui.

La tecnica

Behind the scenes of 1917 : Moviesinthemaking

“Ora guida dritto nel mucchio di comparse, mi raccomando non sbandare, e, se puoi, cerca di non investire nerruno”

Non si può parlare di questo film senza parlare del fatto che è stato realizzato simulando una ripresa continua.

Ovviamente si tratta di un trucco : i personaggi soffrono molto intensamente per due giorni, e il film dura solo due ore.

E’ chiaro che il tempo è in qualche modo “compresso”, ma onestamente sono riuscita a vedere solo due tagli. E stavo facendo attenzione. Niente, mi hanno fregata!

Sia chiaro: questo non è il primo film a giocare con l’idea di un’unica, continua scena. Rope, realizzato da Hitchcock nel 1948, è forse il primo esempio di questa tecnica. Ovviamente non era possibile per il paffuto Alfred filmare di continuo, visto che i limiti della pellicola erano molto stringenti. Ovviò quindi con lunghissime riprese (fino a 10 minuti!) e tagli mascherati, che dessero l’impressione di un take continuo.

Un altro celeberrimo esempio di long take è lo spezzone iconico di Children of men, che però non applica la tecnica all’intero film.

In effetti, era un po’ che non vedevo questo tipo di ripresa sul grande schermo, di certo non per l’itera durata della storia. E non sono stata l’unica a trovare la cosa curiosa: questo famoso “single shot” è stato oggetto di chiacchiere e discussioni per mesi!

Di solito sono molto scettica quando i film saltano fuori con qualche gimmick innovativo che fa tanto clamore. Non che questo genere di cose non mi interessi : mi interessa ! E chiunque sia stato su questo blog più di una volta sa a che punto sono capace di sfrangiare la minchia sulla narrativa. Il modo in cui le storie sono raccontate è un argomento che mi appassiona tantissimo, con gran dolore delle coinquiline che sono chiuse con me in questa quarantena e che devono sentirmi rantare sull’elemento extradiegetico di The Conqueror (perché ovviamente l’elemento extradiegetico è il problema più grande di quel film !).

Tornando a noi, il fatto è che spesso il gimmick è usato come sostituto alla sostanza.

Un esempio tristemente famoso è quella puttanata di Unfriended, un horror realizzato in tempo reale e filmato solo dalla prospettiva del desktop della protagonista (non vi linko il trailer perché il fim fa schifo). L’idea è interessante, ma, a parte la tecnica nuova, i personaggi sono il solito mazzo trito e ritrito di gente insopportabile, la trama non ha molto senso, e si conclude con un glorioso non sequitur.

In altre parole, spesso ci si aspetta che il modo di raccontare una storia sia sufficiente a se stesso, e spesso non lo è: una storia ha bisogno di sostanza (tema e personaggi per cominciare). Il modo di raccontare serve a mettere in valore la sostanza di una storia, non a sostituirla.

1917 è un ottimo esempio di come una tecnica innovativa può dare un risalto inedito a una buona storia. La vicenda di 1917, come detto, è semplice. Ma non è superficiale. 1917 è la storia più primitiva che si possa avere: l’uomo confrontato con un disastro più grande di lui (la guerra in questo caso). Non può vincere, non può scappare, può solo cercare di sopravvivere.

Il fatto che la trama sia estremamente semplice non vuol dire che sia raffazzonata. Non lo è : è scritta con estrema cura, i personaggi sono verosimili e ben delineati nonostante ci sia molto poco dialogo.

“Come ben sai, Tom, io e te siamo buoni amici”

Il regista è Sam Mendes, già conosciuto per American Beauty, Skyfall e Spectre. Oibò, Mendes ha fatto strada dal tempo dei sacchetti di plastica trascinati dal vento!

La tecnica che ha scelto per realizzare il film funziona perfettamente e cala lo spettatore nei panni del soldato inglese.

Realizzarla è stata un’impresa logistica non indifferente: siccome si tratta di lunghe, ininterrotte riprese (anche 7 minuti continui), doveva esserci una corrispondenza precisa tra la durata di una scena e l’estensione del set attraverso cui la scena si svolgeva, dato che il movimento è rivolto sempre verso l’avanti e non è possibile tagliare o passare al grandangolo.

Non solo: le necessità di movimento delle telecamere hanno spinto Mendes e i suoi ad adottare una serie di soluzioni tecniche degne del periodo d’oro di Hollywood, come una finestra che si smonta e si apre al passaggio della macchina per permettere la continuità della ripresa oltre il davanzale.

Un altro ostacolo è stato il clima: con poche eccezioni, la luce del film è soprattutto naturale, dato che l’uso dei riflettori non era pratico. Il che vuol dire che le riprese dovevano avvenire, di preferenza, in giornate nuvolose, per evitare ombre nette che rendessero evidenti le discrepanze temporali.

E’ stata infine necessaria una sincronia perfetta tra attore e camera crew. In una scena particolarmente drammatica, Schofield si arrampica fuori da una trincea e poi corre lungo il tracciato. Per poterlo riprendere, la telecamera è stata prima attaccata a una gru, che lo ha seguito mentre camminava dentro la trincea, poi mentre si arrampicava fuori dalla trincea. A questo punto i grips dovevano acchiappare la telecamera, staccarla dalla gru e attaccarla a una seconda gru, fissata su un furgone che, per non rompere il movimento della ripresa, era già in movimento prima ancora che la telecamera fosse agganciata. Nel film, Schofield esita un istante sull’orlo sulla trincea. Il personaggio esita per l’estremo pericolo in cui si trova, l’attore esita per dare ai grips il tempo di sganciare e riagganciare la telecamera.

Ah, e i due grips che maneggiano la telecamera ? Sono in costume, perché sarebbero finiti necessariamente nell’inquadratura e dovevano quindi unirsi immediatamente al resto delle comparse.

Per realizzare queste complicate operazioni, Mendes ha arruolato Roger Deakins, già conosciuto per Sicario, Hail, Caesar ! e Blade Runner 2049, per cui vinse il BAFTA.

Coautrice della sceneggiatura è Krysty Wilson-Cairns, relativamente nuova nell’ambiente: 1917 è il suo primo progetto famoso, e holy smokes, se questo non è irrompere sulla scena con un gran botto !

1917 Featurette - Behind the Scenes (2019)

“Seguite in perfetta coordinazione i due attori senza perdere di vista il filmato e senza inciampare su questo terreno accidentato storicamente corretto”

La qualità della sceneggiatura è evidente già dalle prime scene.

Consideriamo che si tratta di un film storico basato su un periodo con cui molti spettatori non sono familiari. E’ quindi necessario fornire loro tutta una serie di informazioni.

Per avere un’idea di quanto questo possa essere complicato, voglio infliggervi un aneddoto personale, perché fanculo, ho ripreso il blog dopo mesi, e qualcuno deve pagare per questo.

Una volta ho provato a guardare Blackadder goes Forth con una coinquilina, che chiameremo Prosdocima per ragioni di privacy (una ragazza dotata di tutte le facoltà intellettuali e di un diploma universitario, quindi suppongo che abbia finito con successo il liceo).

La storia comincia in una trincea inglese.

Prosdocima: « Ma questi chi sono ? »

Tenger : « Inglesi. »

Prosdocima : « E dove si trovano ? »

Tenger : « Hum… non so di preciso onestamente, da qualche parte in Francia. »

Prosdocima : « Oh, ci sono state battaglie in Francia ? »

Mi sono raccattata la mascella. Anche perché ciò accadeva durante le celebrazioni del centenario di Verdun e Parigi era praticamente incartata con manifesti a tema.

Prosdocima : « E contro chi combattevano ? »

Tenger : « INDOVINA. »

Prosdocima : « Ma aspetta, il personaggio è appena andato dal generale… come ha fatto ? »

Tenger : « Non so, magari a cavallo, o è saltato su un camion o qualcosa del genere… »

Prosdocima : « No, intendo, era nella trincea, com’è uscito ? »

Tenger : « Coi piedi…? »

Insomma, non abbiamo finito di guardare l’episodio. E va bene, Prosdocima era particolarmente capra sull’argomento « Grande Guerra » (e « piedi »), ma è abbastanza rappresentativa dello spettatore medio.

Come fare allora a fornire allo spettatore tutte le informazioni necessarie ad apprezzare la gravità e urgenza della situazione senza fargli esplodere le palle nei primi 5 minuti?

Ebbene, i nostri due protagonisti sono convocati. Viene detto loro che il Generale Erinmone vuole vederli. Blake si volta verso l’amico Schofield e mormora : « Se il generale è qui, allora è una faccenda seria ».

E’ solo ua frase, è qualcosa di verosimile da dire per il personaggio, e serve perfettamente a informare lo spettatore che il conflitto è iniziato, che la situazione è già grave, e che le informazioni che stanno per essere discusse sono vitali per la storia.

Erinmore spiega a grandi linee la situazione a Blake, e lo informa che suo fratello finirà nel tritacarne teutonico se lui non riesce a portare il messaggio in tempo.

Ha senso che il generale riassuma la situazione per Blake, perché è importante che il nostro realizzi l’importanza della propria missione. E ha senso che Erinmore scelga Blake, dato che la vita del fratello è una motivazione supplementare per spronare Blake. E questa scelta del generale paga subito nella storia: appena usciti dal rifugio Schofield cerca di convincere Blake che è più prudente aspettare la notte, ma Blake non ne vuole nemmeno sapere.

Non abbiamo bisogno di preamboli riassuntivi, o di retrolampi, o di spiegoni. Anche qualcuno che non si è guardato 2-3 volte tutti i video di quel gran figo di Indy Neidell può seguire la vicenda (anche se la visione dei video di Indy Neidell è comunque consigliata).

Indy_Neidell

“Io divulgo forte, una volta la settimana.”

Per l’intero film, dialoghi e personaggi principali sono trattati con lo stesso grado di cura e umanità. E’ facile calarsi nei panni di questi due, e non abbiamo bisogno di conoscere tutta la loro storia per sentirci partecipi.

Quando una giornata comincia male e continua peggio

Il personaggio di Schofield è recitato da George McKay, vincitore di numerosi premi già dal 2013, tra cui un BAFTA per il suo ruolo in For Those in Peril e il Trophée Chopard nel 2017, nonché Virtuoso Award e Best Breakthrough Performance per 1917 nel 2020.

Blake è interpretato da Dean-Charles Chapman, ovvero Tommen Baratheon, per cui ricevette ai tempi la nomina per Screen Actor Guild Award for Outstanding Performance. Chapman è ancora giovanissimo e la sua performance in 1917 è eccellente !

“Cosa fai nella vita?”
“Interpreto gente a cui capita roba orribile.”

Altri attori celeberrimi compaiono nel film, tra cui Colin Firth e Benedict Cumberbatch, ma sono MacKay e Chapman a reggere la storia.

Tutti questi grandi pregi (la cura, i personaggi ben delineati, l’ottimo dialogo) fanno purtroppo spiccare un modo particolare quello che a parer mio è l’unico difetto: per quanto gli inglesi siano ben scritti e umani, i tedeschi sono caricature degne del peggior film di propaganda.

Tutti i tedeschi che incrociamo sono belve assetate di sangue, macchine per uccidere senza un’anima che cercheranno di accoltellarti anche dopo che gli hai dato fuoco.

#Edmund Blackadder from Blackadder screenshots

Questo contrasto probabilmente è dovuto al fatto che la storia vuole essere strettamente dal punto di vista degli inglesi. Per il soldato inglese, il soldato tedesco è un mostro disumano che continuerà a darti addosso fino alla fine.

Il guaio è che telecamera non è abbastanza « nella testa » di un personaggio particolare per giustificare questa distorsione della realtà. La storia è raccontata in modo molto realistico, e la realtà è che i soldati tedeschi, generalizzando, non erano poi così diversi dagli inglesi o dai francesi.

E se leggiamo le testimonianze dei reduci, ci rendiamo conto che spesso i soldati ne erano coscienti. Nel suo libro, La Peur, Gabriel Chevaillie racconta diversi episodi di solidarietà col nemico. In un passaggio in particolare, il nostro e i suoi si trovano in una trincea gelata a poche decine di metri da una trincea tedesca. I soldati decidono tacitamente di evitare sparatorie a meno che la presenza di un ufficiale non renda una dimostrazione di Valoroso Spirito Patriottico assolutamente necessaria. In entrambi i casi, se un ufficiale è nei paraggi, i soldati urlano Officier ! o Offizier !, come avvertimento a quelli dell’altra trincea.

Ovvio, questo non significa che soldati inglesi e tedeschi fossero affratellati da un comune senso di umanità. Ma i tedeschi erano esserim umani, inglesi e francesi ne erano spesso coscienti, e disumanizzare del tutto i crucchi è molto stridente in un film che si vuole il più realistico possibile.

Flo di The Great War – The Online Video Series (se non li seguite già, fatelo, sono bravi bravi esagerati!) nota peraltro che un film con questo budget sulla Prima Guerra mondiale è per forza un film realizzato dagli americani. Non ci sarà mai un film altrettanto opulento che rappresenta il punto di vista tedesco. Pertanto, è particolarmente deludente quando un aspetto fondamentale della guerra è trattato in modo così caricaturale.

Germans

Un film simile per certi versi è Dunkirk (di cui parlai qui, anche questo molto raccomandato !). I due film sono realizzati con tecniche diametralmente opposte (Nolan usa panoramiche, tagli, ecc., mentre Mendes segue fedelmente due personaggi), ma in entrambi i casi abbiamo film strettamente ancorati al punto dei vista dei personaggi principali, e in entrambi i film si mette in scena quello che Jeremy Mathai di Slashfilm chiama “un eroismo sottile, anonimo e sminuito”.

In entrambi i film, i personaggi principali si trovano di fronte alla titanica catastrofe della guera, che rischia di privarli della vita e di ogni bandello di umana decenza. Nell’inferno dello scontro, non devono semplicemente salvare la pelle, ma la loro umanità. L’eroismo celebrato in queste due storie non è quello del guerriero che si copre di gloria sul campo, è quello del soldato comune che riesce a sopravvivere e a restare umano.

Cito Dunkirk perché la tecnica non è la sola differenza notevole: un’altra à il modo in cui il nemico è rappresentato. In Dunkirk, i tedeschi sono invisibili. Vediamo i loro aerei, le loro bombe, le fucilate che fischiano vicino ai protagonisti, ma gli uomini sono quasi del tutto assenti. In Dunkirk i tedeschi non sono umani, nel senso che sono una sorta di catastrofe naturale che si abbatte sui personaggi, un cataclisma senza faccia, che è probabilmente come erano in effetti percepiti la maggioranza delle volte.

Il problema di 1917 è che i tedeschi qui la faccia ce l’hanno. Non sono « il nemico », sono oggettivamente mostri che cercheranno ti mangiarti vivo anche se stai tentando di aiutarli a uscire da un rottame in fiamme. Questo dà al film un bizzarro sapore di propaganda: gli inglesi sono umani, bravi, compassionevoli o per lo meno relatable, mentre i tedeschi sono sbavanti orchi capaci solo di uccidere e distruggere alberi in fiore (lol).

Non che i tedeschi non abbiano commesso atrocità durante la guerra (basti pensare allo Stupro del Belgio), ma mostrare solo questo aspetto mi pare un po’ caricaturale. I tedeschi del 1917 non sono i Nazisti del 1941, c’è davvero bisogno di farceli odiare così tanto? Mah.

L’attinenza storica

Bello esagerato, vi dico!

A parte la totale disumanizzazione dei tedeschi, l’aspetto storico di 1917 è curatissimo.

La Prima Guerra Mondiale non è la mia specialità, quindi ci sta che questa mia impressione sia data dalla mia superficiale conoscenza del periodo. Tuttavia non ho notato nessuna imprecisione. I costumi sono fatti benissimo, la ricostruzione delle trincee è fedele, con tanto di una smaccata differenza tra quelle inglesi e quelle tedesche. Il tracciato a zig-zag non solo è rispettato, ma sfruttato : quando i due protagonisti entrano nella trincea tedesca, ogni angolo potrebbe nascondere un crucco incazzato, e la tensione è palpabile. La cittadina francese sventrata dai bombardamenti è spettacolare, la campagna, che a tratti pare intatta e a tratti mostra i chiari segni del conflitto, sono tutti set realizzati con grande cura.

I personaggi sono realistici per il contesto in cui si trovano, dal generale ossessionato dalla « battaglia decisiva », al capitano che sta avendo una crisi nervosa al momento di guidare i suoi in battaglia, al veterano svuotato ed esausto.

Il film mostra anche notevole equilibrio negli aspetti più macabri. Potevano tranquillamente sbizzarrirsi con scene di macello, sarebbero state giustificate (sempre Chevallie descrive cose che i film splatter di quarta categoria se le sognano!), ma non indulge sul macabro. I cadaveri e l’orrore esistono, ma non sono calcati. I personaggi ci sono abituati ormai, a stento li notano, e la loro familiarità con cose che non dovrebbero essere familiari contribuisce alla brutalità dell’ambientazione. Il punto non è tanto l’esplosione della violenza, ma l’effetto usurante e traumatizante della violenza costantemente incombente.

Ho anche molto apprezzato il fatto che, a differenza di Dunkirk, questo film abbia mostrato gente delle colonie. In molti film, l’impressione è che gli eserciti Alleati fossero composti solo da bianchi europei. Non era il caso. Un sacco di gente delle colonie si è trovata a combattere in Europa, ed è giusto che siano rappresentati.

Può sembrare una cazzata, ma vi assicuro che ho incontrato un sacco di gente straconvinta che l’esercito francese fosse composto solo da bianchi e altre assurdità simili.

War Hero - Personology and Relational Science

“Sono lieto di essere qui a morire ammazzato per gente che vuole tassarci il sale!”

Parentesi politica a parte, nel panorama dei film storici, 1917 brilla per correttezza ed equilibrio.

Schofield corre felice dopo aver saputo della scoperta del vaccino contro la poliomelite

Conclusione

Ma siete ancora qui a leggere ? Con un solo elemento che secondo me poteva essere gestito meglio, 1917 entra diritto tra i miei film preferiti. E’ fatto benissimo, è bellissimo, e la prima volta che l’ho visto volevo restare seduta e riguardarmelo subito una seconda volta.

Attinenza storica e costumi Good_Grumpy
Tecnica di regia Good_Grumpy
Cast Good_Grumpy
Sceneggiatura Good_Grumpy
Effetti Good_Grumpy
Scenografie Good_Grumpy
I crucchi Bad_grumpy

Andatelo a vedere, o meglio, visto i tempi, procuratevelo e guardatevelo a casa. State al sicuro e non esponetevi a rischi inutili.

MUSICA


APPROFONDIMENTI

Il canale di The Great War

Articolo del New York Times su 1917

Articolo di Slashfilm

Pagina Imdb del film

 

Chi sono i samurai?

Chi frequenta la Fortezza avrà intuito che la sottoscritta ha una fastidiosa tendenza alla pignoleria. Negli Studi Umanistici ci fanno una testa così sul lessico e la scelta dei termini, e hanno ragione: a seconda il contesto la stessa parola può voler dire cose molto diverse. Se lo scopo del linguaggio è comunicare informazioni e concetti, è indispensabile chiarire fin da subito cosa si intende con cosa e in che contesto.

Potete immaginare quanto soffro ogni volta che apro un articolo di giornale e vengo assalita da valanghe di buzzwords tirate dentro ad glandus segugi.

Il punto è che usare le parole a cazzo è una pestilenza che, a mio modesto parere, sta facendo danni reali al nostro cervello. Invece di scambiare argomenti articolati, le discussioni si limitano a un palleggio di termini impropri che arrivano accompagnati dal loro bel pacchetto di concetti associati d’ufficio. Per usare un linguaggio meno tecnico, non è un confronto di punti di vista, quanto una sassaiola fatta a pallate di fango.

Oggi, nel mio piccolo, ho deciso di prendermela con una parola che mi provoca regolare ulcera: samurai ().

Priorità nella vita!
Arte dello straordinario artista contemporaneo Noguchi Tetsuya

Cosa vuol dire “samurai”?

Cominciamo col fare un distinguo importante: esistono termini usati dai contemporanei ed esistono termini usati dagli storiografi per descrivere a posteriori un fenomeno passato.

In diversi periodi della Storia giapponese samurai è stato usato per descrivere cose diverse.

Oggigiorno viene spesso impiegato in modo più o meno appropriato per descrivere il “guerriero giapponese”.

Tre problemi qui:

-Il termine originariamente non ha nessuna connotazione militare;

-per secoli non c’è stata nessuna definizione legale di “guerriero” come categoria sociale;

-cos’è un “guerriero”?

Cominciamo dall’ultima. Che cos’è un guerriero?

Tecnicamente, qualcuno che fa la guerra. L’immagine che la parola evoca è spesso quella del cavaliere pesante o del vichingo feroce, del combattente professionista formato dalla gioventù al mestiere delle armi. Ma “fare la guerra” comprende molto più del caricare lancia in resta o partecipare di persona a un combattimento. Peraltro gran parte dei “guerrieri” antichi praticavano altre attività economiche a parte il farsi ammazzare.

Non solo, ma che dire di tutti quelli che non sono combattenti d’élite? Se guerriero è “chi fa la guerra”, questo include fanti, esploratori, ingegneri, facchini…

Non voglio dilungarmi in questo articolo sul concetto di guerriero: il punto è che spesso la gente butta in giro la parola “guerriero” senza davvero porsi il problema del suo significato.

Passiamo al secondo punto: le definizioni contemporanee e quelle a posteriori.

C’è stato un periodo della Storia giapponese in cui i guerrieri erano in effetti una categoria sociale chiaramente e legalmente definita. Tuttavia la guerra e il mestiere delle armi (anche come professione esclusiva e vocazione) sono molto più antichi.

Il “guerriero” inteso come militare di professione la cui vocazione principale è la via delle armi esiste da prima della parola samurai.

Di recente abbiamo concluso una lunga serie di articoli su Taira Masakado e le ribellioni che squassarono l’Impero giapponese verso la metà del X° secolo. Taira Masakado era senza dubbio un guerriero e qualcuno che considerava la “via dell’arco e della freccia” come parte essenziale della propria identità. Non si sarebbe mai definito un samurai, tanto che l’appellazione gli viene appioppata da Friday come provocazione (vedi Taira no Masakado: the first samurai, di Karl Friday).

Usare samurai prima della nascita del Bakufu è problematico, ed è per questo che molti storiografi preferiscono il termine meno controverso di bushi (武士).

Ma cos’è un bushi?

Secondo il Progressive waeichū jiten, il dizionario giapponese-inglese di default sul mio Ex-word, il bushi è un guerriero. Questo ci lascia col problema accennato più in alto: tutti i bushi sono guerrieri, ma non tutti i guerrieri sono bushi. Cos’è davvero un bushi?

Secondo il dizionari giapponese-giapponese Kōjiten, il bushi è un guerriero professionista che si campa la vita col mestiere delle armi. Definisce questi individui come appartenenti a una specifica classe sociale che sarebbe esistita dall’epoca di Heian (794-1185) a quella di Edo (1603-1867).

Minamoto Tametomo separa due lupi, dal pennello di Utagawa Kuniyoshi (1798-1861)

Per non zavorrarci troppo, diciamo che con “guerriero” si intende in questo contesto l’arciere pesante a cavallo, antenato diretto dei samurai.

Questo tipo di combattente è necessariamente un professionista e predata l’epoca di Heian: nel 701 la Corte pubblicò un vastissimo corpus di leggi penali e civili (i famosi Codici, Ritsuryō), in cui si parla di unità di cavalleria e arcieri pesanti a cavallo.

Possiamo quindi dire che il bushi esisteva di certo già dal 701?

Hum…. dipende.

Se anche prendiamo Heian come riferimento, i militari dell’VIII° secolo non usavano la parola bushi per parlare di loro stessi. Il termine corrente all’epoca era mononofu o tsuwamono (), il cui kanji è lo stesso usato nei Codici per indicare i soldati di leva (quindi gente che non pratica le armi come professione, ma coscritti contadini) o musha (武者) (che indica più specificatamente “persona di guerra”).

Nello stesso periodo troviamo spesso il termine samurai come sostantivo del verbo saburau, ovvero “servire”. Come accennato, non ha nessunissima connotazione militare e indica semplicemente il servitore al servizio di un nobile.

Ricordiamo che prima del 1185 l’Impero giapponese è governato da un’aristocrazia strettamente civile che esercita la propria autorità tramite istituzioni burocratiche o legami personali di clientelismo. La carriera militare era considerata come molto inferiore rispetto a quella civile e riservata a gente che non poteva diventare letterato.

Secondo Okuda il significato di samurai sarebbe cambiato dopo la salita al potere dei militari alla fine della Guerra di Genpei (1180-1185): i bushi impiegavano guerrieri di basso rango come servitori, ergo il samurai passa da “servitore di un nobile” a “servitore di un nobile guerriero” a “servitore guerriero” e “guerriero/vassallo”.

Il samurai nel senso di guerriero non esiste prima del XIII° secolo. Ora lo sapete. Se volete riferirvi a chiunque prima di questa data, usate bushi o vi vengo a tirare le orecchie.

Fuoco e legnate durante i disordini di Heiji, propdromi della grande guerra civile tra Taira e Minamoto

Quindi per parlare di gente come Masakado basta usare bushi e son tutti contenti, no?

Sì, ma con cautela.

In storiografia contemporanea bushi è spesso usato per descrivere il guerriero feudale, ovvero qualcuno che andava in giro a scapitozzare dopo il XII° secolo, durante e dopo la Guerra di Genpei.

La Guerra di Genpei è un avvenimento cardinale della Storia giapponese: lo è a posteriori per gli storiografi e lo è stato per i contemporanei. La Guerra di Genpei ha cancellato il mondo di prima e ne ha creato uno nuovo.

Abbiamo una testimonianza interessantissima di questo evento grazie a Jien (1155-1225), un monaco poeta e storiografo che poté godersi lo sgretolamento del potere aristocratico, il collasso della dittatura Taira, la guerra civile e la nascita dello shōgunato sotto Minamoto Yoritomo e sua moglie Hōjō Masako. Il nostro ha parlato delle sue impressioni nel Gukanshō, dove descrive gli avvenimenti in questi esatti termini: il vecchio mondo è morto si entra ormai nel “mondo dei guerrieri” (musha no yo).

E’ molto comodo avere un evento storico così chiaro e distinto per orientarsi e con cui definire un “prima” e un “dopo”.

In realtà i bushi che hanno rivoluzionato il Giappone nel 1185 non sono apparsi nel 1180 ma sono il frutto di un’evoluzione graduale. E questo ci porta al secondo contenzioso del termine bushi!

Il bushi è il guerriero feudale, e costituisce la nuova classe dirigente dal 1185. Ok, ma da quando possiamo trovarli?

E soprattutto: cosa si intende con “guerriero feudale”?

Come accennato prima, il termine “feudale” è stato coniato a posteriori dagli storiografi. Si tratta di una parola usata per descrivere la Storia europea che è stata poi estesa alla Storia giapponese.

Verso la fine del Periodo Meiji (1868-1912), gli storiografi giapponesi avevano assorbito le nuove idee politiche e metodologiche dei ricercatori occidentali. Il Giappone stava furiosamente riacchiappando il ritardo tecnologico e occidentalizzando il Paese, e questo influenzò anche il modo di raccontare la Storia: si cerca di trovare similitudini e parallelismi con la vicenda europea e il punto comune tra le due realtà sembra essere il periodo feudale. Il sottinteso politico era che il Giappone era essenzialmente diverso dal resto dell’Asia, aveva una società più civilizzata e più vicina a quella occidentale, e per questo era riuscito a sfuggire alla brutale colonizzazione.

Il bushi doveva diventare l’equivalente del cavaliere medievale, nella storiografia e nell’immaginario nazionale.

Uno dei nomi più significativi agli inizi del XIX° secolo è quello di Asakawa Kan’ichi, uno strenuo difensore del parallelismo bushi-cavaliere. Secondo lui i bushi avevano origine nello sviluppo di una classe di proprietari terrieri nell’VIII°-IX° secolo. Col X° secolo questi notabili avrebbero cominciato ad armarsi e offrire i propri servigi a i più prominenti tra loro in cambio di protezione, per sopperire al vuoto delle istituzioni di Corte. Costoro sarebbero presto maturati in una vera e propria classe sociale, sottomessa a una Corte di aristocratici civili che si vuotava poco a poco del proprio potere reale.

Secondo Asakawa (ripreso anche da Samson), la classe guerriera si sarebbe evoluta per sopperire ai buchi di un sistema militare inefficace che non riusciva a proteggere i notabili locali e l loro famiglie (interpretazione molto vicina a quella offerta per lo sviluppo del Feudalesimo in Europa, nato dal crollo dell’Impero Romano).

I due fattori chiave dietro questo fenomeno sarebbero quindi da una parte un sistema militare scassato e il proliferare degli shōen, latifondi privati esenti da tasse e spesso immuni dalla legislazione ordinaria, che avrebbero minato in modo irreparabile l’autorità pubblica nelle provincie.

Okuda condivide questo punto di vista: i guerrieri del Bandō avrebbero creato una rete di legami personali parallela a quelli istituzionali per difendersi dall’inettitudine dell’autorità pubblica e dalla rapacità degli interessi privati.

Per chi ha seguito la rocambolesca vicenda di Masakado, è innegabile che i guerrieri orientali erano spesso piccoli proprietari terrieri e allevatori, e spesso si mettevano sotto la protezione di un notabile locale più importante: Taira Masakado interviene ad esempio per difendere gli interessi del suo gregario Fujiwara Haruaki, che sta avendo problemi con i funzionari provinciali inviati dalla Corte.

E’ anche innegabile che nelle provincie, specie quelle orientali, la legge ufficiale era applicata fino a un certo punto.

Allo stesso tempo è anche chiaro che i Codici hanno giocato un ruolo importante nella vicenda di Masakado: come sottolinea Hall, i Codici restarono in vigore e furono applicati (con più o meno zelo) fino almeno al X° secolo (quando furono affiancati ai Regolamenti dell’era Engi, i celeberrimi Engishiki).

Ishimoda Shō è quello che meglio ha elaborato la teoria secondo cui i bushi sarebbero stati un’evoluzione necessaria all’indebolimento delle istituzioni e avrebbero sviluppato la propria influenza fino a sbocciare, verso la fine di Heian, in una situazione in cui questa classe militare provinciale esercitava il proprio controllo su una vasta massa contadina ridotta, de facto, in servitù.

L’interpretazione di Ishimoda sottintende che questo processo di feudalizzazione sarebbe particolare al Giappone e distinguerebbe il popolo giapponese dal resto dei popoli orientali, facendone uno tradizionalmente capace di evolvere e superare vecchie istituzioni in nome della praticità.

Prima di progredire con questo appassionante discorso, i più svegli si saranno detti:

Spetta un secondo, ma hai sfrangiato le gonadi finora con la definizione di “guerriero”, e mo’ butti in giro il termine “feudale” così, a crudo?”

Right-oh!

Secondo il ponderoso tomo di storiografia comparata Les féodalités, Bournazel e Poly ripropongono la definizione di Sirinelli:

[FR]

Il s’agit de l’ensemble des institutions et des relations – juridiques ou autres – permettant la dévolution et l’exercice de ce que l’on appelle le pouvoir ou l’autorité, mais replacées de surcroit au sein des sociétés, des valeurs et des cultures qui les sous-tendent. Les systèmes politiques ainsi entendus incluent donc l’analyse des grandes constructions institutionnelles, mais également l’étude de leur soubassement social et culturel : le socle économique ou les rapports sociaux, assurément, mais aussi […] les idéologies, les cultures politiques, les représentations et les valeurs.

[IT]

Si tratta di un insieme di istituzioni e relazioni – giuridiche o meno – che permettono la devoluzione e l’esercizio di ciò che chiamiamo il potere o l’autorità, e collocate inoltre in seno alle società, ai valori e alle culture che le sottintendono. Il sistema politico così inteso include quindi l’analisi delle grandi costruzioni istituzionali, ma anche lo studio della loro base sociale e culturale : le fondamenta economiche o i rapporti sociali, di certo, ma anche […] le ideologie, le culture politiche, le rappresentazioni e i valori.

In altre parole il “feudalesimo” è caratterizzato da un certo tipo di istituzioni e relazioni, ma anche da cultura, rappresentazioni, strutture economiche ecc.

Ora, qualche sventurato a cui sia capitato di assistere a una “dotta discussione” di certi “appassionati” sulla storiografia avrà sentito buttare in giro termini come “marxismo” o “marxismo culturale”. Si tratta di un certo modo di studiare e interpretare la Storia che pone particolare accento sulla struttura economica di una società (per dirla in termini molto banali, tutto il resto è “sovrastruttura” e dipende direttamente dal sistema economico). L’”ossatura” della società è determinata essenzialmente dai rapporti di produzione.

Questo modo di vedere la Storia, che gli “appassionati” di cui sopra tirano fuori come se fosse una qualche recente moda appena sfornata dalle femministe della terza ondata, data in realtà degli anni ’50 e ’60 specie per ciò che riguarda la storiografia giapponese (e, a chiosa, l’ondata corrente del femminismo è la quarta e non la terza, ma quando si parla a vanvera capita di sbagliarsi).

Già negli anni ’60 lo storico francese Georges Duby aveva fortemente criticato questo approccio. Uno dei problemi era che la corrente marxista tentava di porsi in una maniera realista e pragmatica, ma gli uomini, gli esseri umani che costituiscono le società, non sono né realisti né pragmatici. I sentimenti (e i conseguenti comportamenti) degli individui e dei gruppi sociali rispetto al loro ruolo nella società non sono dettati dalla realtà economica, ma dall’idea che detti individui e gruppi sociali hanno della realtà economica!

Gli esseri umani non vivono nella realtà, vivono in un’idea, un racconto di realtà.

Che certamente ha a che fare con la realtà oggettiva, ma è comunque filtrata, interpretata e influenzata. La struttura economica è certamente fondamentale nell’evoluzione di una società nelle sue mille declinazioni (cultura, politica, guerra, arte, ecc.), ma è solo uno dei vari fattori in gioco.

In altre parole, una società è feudale non solo se la sua struttura economica è feudale, ma se le sue idee, se la sua visione è feudale.

Cosa si intende con “feudalesimo” in questo contesto?

A differenza degli europei, i giapponesi non hanno un termine indigeno che descriva la struttura feudale. “Feudalesimo”, hōken, è un termine tradotto e preso alla storiografia occidentale. E’ la traduzione dei concetti di feudalism o Lehnwessen. Come in Europa questi concetti sono associati al cavaliere, in Giappone sono stati legati al bushi.

Maki Kenji propone una lettura più “orientale” di hōken, proponendolo come traduzione di fengjiang, “fondare un feudo”, impiegato in Cina quando l’Imperatore concedeva delle terre a dei potenti, delegando loro l’autorità imperiale su quei territori. Per Kenji, il tratto determinante dell’hōken non è molto la sua relazione con una classe guerriera, ma la decentralizzazione del potere: hōken è da concepire in opposizione alla società centralizzata prevista dei Codici, gunken.

Se però torniamo un attimo a Jien, possiamo notare che ciò che più ha sconvolto i contemporanei durante il cambio di regime nel 1185 non è stata la decentralizzazione, quanto il carattere essenzialmente militare di questa nuova aristocrazia (soldati al potere? Pofferbacco, che cosa eterodossa!).

Ad ogni modo e quale che sia la declinazione che si dà al termine, è chiaro che il bushi è parte essenziale della faccenda. In altre parole, il feudalesimo giapponese non è necessariamente definito dal ruolo che il bushi gioca in esso, ma il bushi è una creatura feudale.

Chiedo scusa, ma DOVEVO USARE ‘STA STRONZATA o il pensiero mi avrebbe perseguitata fin nella tomba!

Negli anni ’50 gli storiografi cominciarono a rimettere in dubbio la centralità del guerriero nella società feudale. Questa nuova corrente toglieva il focus dai guerrieri per metterlo sul potere distante esercitato dai signori assenteisti sui loro latifundia nella provincia. Secondo Shimizu Mitsuo, i guerrieri locali non sarebbero la forza innovatrice descritta da Ishimoda Shō, ma un elemento classico, strumenti del potere che mantenevano il controllo dell’aristocrazia sui mezzi di produzione.

Tornando alla rivolta di Masakado come esempio, è innegabile che i vari capi e capetti armati esercitavano la loro autorità in nome e per conto della Corte.

Insomma, mentre in Europa il feudalesimo è accompagnato da un indebolimento dell’autorità centrale, in Giappone la Corte rimase saldamente in sella fino al disastro della Guerra di Genpei. In altre parole, il cavaliere feudale europeo sarebbe figlio dell’anarchia (o della debolezza istituzionale), mentre il bushi giapponese sarebbe l’evoluzione continua di un governo a modo suo forte e stabile.

E’ fuor di dubbio che la Corte mantenne il monopolio sulla legittimità del potere ben dopo la creazione del Bakufu di Minamoto Yoritomo.

L’interpretazione corrente della storiografia giapponese è una sorta di compromesso tra la visione frammentata di una provincia ingovernabile e quella di un Governo forte e continuo che esercitava la sua autorità attraverso i guerrieri. Secondo la versione più accreditata oggigiorno, ci sarebbe stata sì una spaccatura netta tra Capitale e provincia, ma la Corte avrebbe mantenuto il monopolio sulla legittimità e i guerrieri avrebbero esercitato il controllo sui provinciali ma senza porsi in opposizione diretta al potere aristocratico. Insomma, per un paio di secoli guerrieri locali e aristocratici civili avrebbero governato insieme in una struttura di potere comparabile a un leviatano sociale a due teste.

D’altro canto si è presentato un altro problema alla storiografia giapponese: quella delle particolarità regionali.

Per lunghissimo tempo intere popolazioni sono state del tutto scordate dagli storici (gli Ainu, gli Hayato, la gente delle Ryūkyū, ecc.). Ma se anche uno decidesse di sbattersene allegramente, i Wa stessi avevano strutture sociali, tratti culturali e caratteristiche linguistiche marcatamente differenti anche all’interno della sola isola di Honshū.

La creazione del Bakufu, di cui parleremo con calma in articoli appositi, potrebbe essere interpretata, ad esempio, come l’esportazione verso le regioni occidentali di forme di controllo e amministrazioni tipiche della società guerriera orientale.

Insomma, possiamo stabilire che in Giappone si sono verificate contingenze in cui la società ha tratti “feudali”, ma il termine “feudale” stesso è talmente problematico che oggigiorno viene spesso evitato. Gli si preferiscono altre formulazioni, come “società guerriera” o “rapporti di dipendenza”.

Tornando a noi, chi sono i bushi?

Il bushi è un individuo che può combattere come arciere montato a cavallo e che esiste in una rete sociale fatta di rapporti di dipendenza definibili come “feudali”.

In altre parole: l’arciere pesante a cavallo esiste almeno dal VII° secolo, il bushi si sviluppa a partire dal IX°-X° secolo. E ancora nemmeno l’ombra di un samurai!

Sia chiaro, a questo stadio non esiste ancora nessuna “classe guerriera”.

Nella sua accezione più banale, una classe sociale è un insieme relativamente omogeneo di individui che condividono la stessa situazione socioeconomica.

Da un punto di vista generale dell’Impero, per buona parte dell’epoca di Heian i bushi non hanno omogeneità culturale e non condividono la stessa posizione socioeconomica. I Codici delineano una società in cui non esiste una classe guerriera: i militari professionisti (gli arcieri pesanti a cavallo, soprattutto) sono individui della classe dei magistrati di distretto, della classe piccola aristocrazia o cadetti della classe nobiliare senza reali prospettive nella carriera civile.

Possiamo semmai parlare di “proto-classe” per quello che riguarda alcune regioni (vedi le particolarità regionali succitate). Ma in generale il Giappone non ha, nel X° secolo, una classe guerriera.

Questa si evolve nei secoli come sottocultura parallela alla cultura civile della burocrazia di Corte. Alcuni dei primi esempi di legami di dipendenza tipici della “società guerriera” possono essere trovati nel X° secolo, ma non abbastanza da poter parlare di classe.

In parole povere: dati questi presupposti, fino alla Guerra di Genpei, non si può davvero parlare di samurai.

A posteriori, possiamo vedere nei disordini del X° secolo le remote origini di quello che sarà un giorno il samurai. Come accennato nella conclusione della Rivolta di Masakado, il X° segna l’inizio, il primissimo embrione della società guerriera. Si parla in questo caso dell’evoluzione dei bushi.

La distinzione è importante perché gli uomini che si ribellarono nel Bandō, quelli che servirono nelle guerre di Hōgen e di Heiji e quelli che si ammazzarono nella guerra di Ōnin non sono gli stessi ed è bene esserne coscienti se si è interessati a capire le loro storie e i loro percorsi.

E dopo questa appassionante lungagnata ci do un taglio, che prevedo una lunga diatriba ricca di suspence su cosa significa il termine “feudale” e non voglio rovinarvi l’hype!

MUSICA!

(Non è metal, ma nell’attesa che i Sabaton si svitino i pollici dal culo vi cuccate questa, perché Gatsu daze! piace per forza, try try try!)


Approfondimenti

La banda di guerra

L’evoluzione del sistema militare dai Codici al X° secolo

La rivolta di Masakado (puntata 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10)

La guerra di Hōgen

La guerra di Heiji

La guerra di Genpei (puntata 1, 2, 3, 4, 5, 6, ongoing)

 

Bibliografia

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BOUTRUCHE Robert, Seigneurie et féodalité, Paris, Aubier, 1968

LOT Ferdinand, La fin du Monde Antique et le début du Moyen Age, Paris, Albin Michel, 1989

 

 

Le avventure di un Alpino astemio: “Bepo” Novello e la satira analcolica

Il cervello umano è un complesso organo sviluppato per risolvere problemi. E’ quello che fa in continuazione: risolve problemi.

Che capita però se nasci in un’agiata famiglia borghese e, tragedie permettendo, non hai problemi pressanti di cui occuparti?

Beh, il cervello se li crea.

Non c’è una ragione reale sul perché le norme sociali debbano essere così complicate, le ricorrenze così faticose, o le cene di famiglia così angosciose: è così e basta. L’inutilità gratuita del disagio che ne consegue è tragicomica.

Non sto tirando la pietra a nessuno, sia chiaro. Io stessa sono nata in una famiglia borghese (microscopica borghesia ora, grazie alla crisi economica), sono familiare con l’ambiente e so che è difficile sfuggirci.

Oggi vorrei parlare di un disegnatore che ha elevato il disagio borghese di tutti i giorni ad ARTE: Giuseppe Novello.

Novello nasce nel 1897 a Codogno. Suo zio è il pittore milanese Giorgio Belloni, un paesaggista affermato. Da ragazzo Novello visita spesso l’atelier dello zio e si appassiona di pittura. Il nostro decide: vuole fare il pittore come zio Giorgio!

E perché no dopotutto? Lo zio ha una buona carriera, il padre è un direttore di banca e la famiglia non ha certo urgenza di fondi.

Ma nessuno sfugge all’inutile disagio di cui sopra, e finito il Liceo Giuseppe è costretto baionette alle reni a cercarsi una carriera rispettabile.

Come tutti sappiamo, le femminucce devono sposarsi e sgravare tanti bambini. I maschietti invece hanno la vasta scelta tra 4 mestieri, gli unici esistenti sulla faccia della Terra: Avvocato, Dottore, Ingegnere e Architetto.

Il Novello finisce in facoltà di Legge. Ducunt volentes fata nolentes trahunt eccetera.

Ma il Novello non si rassegna: si laurea con una tesi sui diritti d’autore nelle Arti Figurative.

Frattanto che il Novello si dibatte tra le futili fisime della borghesia bene milanese, un Vero Problema si presenta: la Prima Guerra Mondiale.

Nel 1917 Novello viene arruolato e entra nel battaglio Tirano del 5° reggimento Alpini. Ha 20 anni precisi e sarà forse l’unico alpino astemio mai esistito.

No, sul serio.

Il tizio è un esperto in acque minerali. GIURO CHE NON STO SCHERZANDO!

Tornando a noi, non tutti quelli arruolati se la sono passata proprio malissimo durante la Guerra. La maggioranza sì, ma uno può sempre avere fortuna. Alla fine le guerre sono un po’ come catastrofi naturali: aleatorie. Chi se la passa bene, chi male, chi così così…

Giuseppe Novello si cucca prima la battaglia di Ortigara e poi la disfatta di Caporetto.

Ma esce dalla guerra con la pelle salva e tutti i pezzi del corpo più o meno intatti, quindi alla fine il nostro ha avuto molta più fortuna di decine di migliaia di giovanotti della sua età.

Tornato a casa il nostro abbandona ogni velleità di diventare avvocato e si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove aveva studiato anche lo zio pittore.

Riguardo alle sue scelte di carriera Novello commentò: “Sento tuttora questi miei clienti mancati che mi ringraziano per aver rinunciato alla toga per i pennelli: altrimenti sarebbero tutti in galera “.

Ad ogni modo, il nostro si diploma nel 1924 e inizia subito una promettente carriera di pittore.

Giuseppe non è solo un paesaggista: si diletta di caricature e satira, i suoi disegni compaiono dal 1925 nel quindicinale L’Alpino.

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Nel 1929 viene avvicinato da un altro ex-alpino, anche lui reduce di Caporetto: Paolo Monelli. Qualcuno degli habitués del blog avrà già sentito questo nome: il Monelli è l’autore de Le scarpe al sole (1921), sulla vita degli alpini sull’Altopiano di Asiago e la Valsugana. A differenza di Novello, Monelli era un interventista, e resterà una testolina per il resto della vita.

Restando in tema, Monelli propone al Novello di partecipare come umorista a una raccolta satirica pubblicata dall’editore Treves, e Novello accetta: nasce così La guerra è bella ma scomoda.

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Fun times

Sempre il Monelli introduce il Novello al circolo della Bagutta, una trattoria toscana dove facevano buca artisti e critici per parlare di libri ed arte davanti a un bicchiere di Chianti e un bel piatto di lampre (la più alta espressione artistica che Homo sapiens abbia mai raggiunto). Tra i baguttiani di spicco val la pena citare Adolfo Franci, nome che qualcuno ricorderà da Sciucià o Ladri di biciclette.

Qui il Monelli e compari avevano deciso (dopo non si sa bene quanti fiaschi di rosso di Greve) di creare un premio letterario di cui loro sarebbero stati giudici (ma ti pare?).

A chiosa, lo statuto del Premio Bagutta è riassumibile con “abbiamo bevuto come scimmie e abbiamo deciso che dall’anno prossimo daremo un premio all’opera presentataci che più ci garba!”

I Baguttiani reclamarono sempre indipendenza, tanto che il premio fu sospeso tra il ’37 e il ’46 per non subire pressioni dai fascisti. Onestamente non so quanto questa protestata indipendenza sia stata reale, visto che non si trattava proprio di antifascisti, anzi! Monelli era uno di quelli che s’ingollarono la panzana fascista con tutto il bicchiere, e uno dei laureati del premio Bagutta è quel pasticcio umano noto come Montanelli (che non so come mai insistiamo a prendere sul serio, ma bon). Ciò detto, tra i laureati compaiono anche Calvino, Primo Levi e altri, abbastanza da controbilanciare quella verruca pomposa che risponde al nome di Indro Montanelli.

[NOTA: se vi garba il Montanelli, cool, io adoro Ungaretti che certo non manca di scheletri nell’armadio. Ciò detto, il primo che dice “ma la storia di Roma era scritta bene” lo sculaccio con un battipanni storicamente accurato]

Tornando alla Bagutta, quale che fossero le tendenze politiche dei compari di bevute, resta un vivace e prominente circolo intellettuale del periodo, la cui produzione non dovrebbe essere giudicata solo dal clima politico. E parlando di clima politico, dal ’29 il Novello inizia a pubblicare su Il Guerin Meschino e La gazzetta del Popolo, due giornali storici finiti sotto il concone fascista.

Le vignette di Novello sono uno tra i rarissimi esempi di satira che sopravvisse durante tutto il Regime (perché se c’è una cosa per cui sono noti i fasci è il loro senso dell’umorismo). La ragione è semplice: sono vignette astemie. Sono satira di costume che prende in giro la sottocultura dell’alta borghesia del nord-Italia. Niente di politico, niente di davvero sensibile.

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Troviamo però una vena molto cinica in diversi disegni, non proprio in linea con la prosopopea nazionalista e pomposamente conformista del fascismo. Novello non è un coraggioso resistente come Bloch (martire a Parigi), non è un dichiarato antifascista o un idealista come Mucha (assassinato dalla Gestapo), ma non è nemmeno un leccaculo servo del potere come Pirandello.

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Politica a parte, durante il trentennio il Novello entra a far parte del mondo intellettuale, e con l’ex-commilitone Monelli si lanciano in una serie di progetti di ricerca importantissimi per la cultura italiana. Stiamo parlando di roba tipo la guida ai monumenti più brutti d’Italia o un viaggio gastronomico edito nel ’35 col titolo Il ghiottone errante. Nel frattempo, Novello pubblica vignette che deridono la borghesia bene, con la raccolta Il signore di buona famiglia.

Per alcuni, questo periodo rende Novello particolarmente poco potabile. E la cosa è più che comprensibile.

L’Italia è comandata da un bandito e un truffatorucolo improvvisatosi dittatore, la libertà d’espressione è annientata, i militari italiani compiono stragi atroci in Etiopia, il regime prepara il terreno alle leggi razziali, e Novello fa il dandy nei salotti intellettuali e va in tour gastronomico con quel pazzoide del Monelli. Se è vero che non tutti possono essere un Piero Gobetti o una Sophie Scholl, è anche vero che in certi contesti chi avalla è complice. E Novello, pur non mostrandosi un fascistone sbavante che va a pestare dissidenti, è senza dubbio complice della situazione.

Capisco come per alcuni questo renda Novello del tutto indigeribile.

In questo caso, io credo che l’autore presenti sufficiente interesse per essere degno di attenzione nonostante tutto (pur senza scordare il contesto).

In ogni caso Novello si trova presto a patire in prima persona dell’inettitudine criminale del regime, quando il Duce decide che entrare in guerra è proprio ciò che ci vuole.

Novello viene quindi richiamato al suo reggimento.

Si è cuccato Caporetto nella Prima Guerra Mondiale, quindi cosa gli riserva il Karma a questo giro?

La campagna di Russia.

Making History Russian Cat Timofei

Il valoroso gatto Timofei con un prigioniero tedesco da lui catturato durante la Grande Guerra Patriottica, di Alexander Zavaliy

Ora capitano, Novello si guadagna una medaglia d’argento alla battaglia di Nikolajevka.

Nella sfiga il nostro ha comunque fortuna: è uno dei pochi che riescono a tornare con tutte le appendici apposto.

Novello sarà stato lieto di tornare a casa, ma non aveva contato sul proprio governo: l’8 settembre del ’43 arriva, il battaglione di Novello è in Alto Adige quando l’esercito cessa di esistere. Nel giro di 24 ore, il nostro e alcuni compagni, sbandati e confusi, abbandonati dal loro re, vengono catturati da una banda di tedeschi incazzati come iene.

Novello viene deportato in Polonia, poi nel campo di concentramento di Wietzendorf, in Germania.

Siccome è un personaggio, qualche manina influente ci mette una buona parola, e gli viene proposto di tornare in Italia come membro della Repubblica Sociale.

Novello rifiuta.

Tra i compagni di prigionia, un tal Guareschi, maledetto reazionario baciapile che ci ha donato l’impareggiabile Don Camillo (le serie tv sono meglio delle novelle, fight me!).

Nel 1945 la sorella di Novello viene a sapere della sua morte.

Tra i vari omaggi, spicca quello del giornalista Silvio Negro: “la morte, quando è ingiusta, colpisce di regola i migliori

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PIU’ FORTE DELLA GIOIA: L’autore dell’ammiratissimo articolo “In morte di un amico lontano” riceve la smentita della triste notizia

Solo che, usando le parole di Novello stesso, “evidentemente e per fortuna non sono tra quella eletta schiera “.

Come fece notare Buzzati, “il redivivo che si gode i propri elogi funebri è abbastanza novelliano

Contro ogni aspettativa, il Novello sopravvive alla prigionia e, dopo la guerra, torna in Italia, dove diventa vignettista per a Stampa.

L’Italia del Piano Marshall è l’Italia della “conciliazione”, l’Italia vittima, l’Italia che dà pochi mesi di galera ad assassini di massa come Graziani. E’ l’Italia che vuole con ogni atomo passare ad altro e far finta che non sia successo niente.

E Novello con questa vigliaccheria piccolo-borghese (di cui lui stesso è colpevole) ci va a nozze. Nel 1950 esce la sua nuova raccolta Dunque dicevamo, che canzona proprio quest’attitudine ignava.

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La stanza fiorita

Seguono Steppa e Gabbia, sulla sua esperienza in Russia e in prigionia, e Sempre più difficile, entrambi del ’57. Dieci anni dopo esce Resti fra noi.

Ad ogni modo dal ’65 in poi il nostro si dedica soprattutto alla pittura.

Novello si campa il resto della vita come artista apprezzato, ricevendo anche la medaglia d’oro di benemerenza dal Comune di Milano nel 1985.

Muore tre anni dopo a Codogno, dov’è nato, alla veneranda età di 91 anni.

Non male per uno che ha subito il disastro di Caporetto, la campagna di Russia, i campi di concentramento in Germania e la compagnia del Monelli.

Novello è stato importante per la satira del costume. Le sue vignette sono una lente di ingrandimento su ciò che c’è di piccolo, meschino e petulante nell’italiano, e in particolare nel borghese italiano.

Tipo la famiglia ricca a teatro che finge di non vedere il parentado povero che saluta dal loggione. O la famiglia che si rallegra del fatto che il recente bombardamento ha distrutto il caseggiato dirimpetto, liberando la vista sul mare.

Ma non c’è superiorità arrogante nelle vignette di Novello. Novello stesso è un borghese, e quando parla della meschinità dell’uomo, parla della meschinità che si annida in tutti, lui per primo:

“All’umorista che se ne sta sulla torre d’avorio ad osservare, non ho mai creduto. Prima di mettermi di fronte agli altri mi sono sempre guardato allo specchio e ho cominciato a ridere di me stesso

Non tutte le vignette sono incisive e crudeli, ovviamente. Molte sono bonarie, un’ironia inoffensiva sulla famiglia in ambascia poiché Luigino rifiuta di fare “ciao ciao” con la manina al signor Commendatore.

A conti fatti, si tratta di satira, o è semplice ironia di un borghese sui borghesi?

In un’intervista al Tempo del 1957, Novello si esprime sul perché i suoi disegni sono così popolari.

Forse la tua popolarità” mi ha detto un caro amico “è dovuta al fatto che i tuoi disegni piacciono anche ai cretini”. Dove quell’anche salva egregiamente i miei estimatori e il mio amor proprio.

Novello aveva amici preziosi.

Ciò detto, l’auto-deprecazione è un chiaro strumento di difesa. Novello non è il Bill Mauldin italiano, e lo sa.

Quindi che valore ha, a oggi?

Quando la moglie è in vacanza, perché Novello è Novello anche quando dipinge

Le vignette di Novello sono uno specchio della sua carriera: Novello non prende rischi, a meno che non sia costretto a farlo. Quando vince il premio per il ritratto nel 1940, abbandona il genere. Non parte volontario in guerra ma va quando chiamato. Negli anni ’60, davanti a una modernità che lo perplime, molla la satira e si dedica alla pittura. E la sua pittura è come le sue vignette: ironica, ma inoffensiva.

Sappiamo che Novello poteva, quando voleva, essere un commentatore crudele e cinico. Allo stesso tempo, anche le più crude delle sue vignette, non condannano mai davvero la borghesia.

E’ uno sguardo cinico, ma bonario.

E’ all’altezza delle lodi sperticate che gli riservano alcuni?

Forse no, ma alcune sue vignette sono eccellenti, ed è un fatto.

Merita di essere dimenticato come lo snob borghese che sfotte senza esporsi?

Nemmeno, anche se certa roba che ha disegnato è davvero la camomilla della satira.

Le vignette di Novello sono l’acqua minerale della satira. Allo stesso tempo, se non ci fosse l’elefante nella stanza delle sue simpatie per il regime, nessuno metterebbe in dubbio la sua bravura e la deliziosa costruzione dello scherzo.

Citavo Ungaretti dianzi, ma non è l’unico esempio. Ci sono artisti le cui opere sono così straordinarie e innovative che è facile separare il loro operato dal resto della loro persona. Ungaretti, Picasso, Charlie Chaplin, Woody Allen… Sì, è vero, Chaplin aveva un debole per le bambine quattordicenni. Era un predatore con spiccate tendenze pedofile. Il fatto che fosse un attore e artista assolutamente straordinario non lo assolve da nessuno dei suoi crimini, ed è importante sia separare l’arte dall’artista che ricordare che, se fu grande in un certo campo, fu terribile nel resto.

Esiste anche il caso contrario: certuni sono così sopravvalutati che è molto difficile riconoscere l’interesse del loro lavoro al di là di una personalità davvero infetta: ho già nominato Indro Montanelli, ma un altro fenomeno che non so perché ce lo prendiamo ancora tanto sul serio è Rousseau, per esempio. In realtà sono uomini che hanno un valore, ma la loro persona era così odiosa e la loro opera celebrata in modo così esagerato e ingiustificato, che la reazione a pelle è di buttare l’intero autore nel tritarifiuti.

Novello a parer mio si situa tra i due. Non è stato all’altezza dei suoi tempi, ma non è stato né un criminale né un traditore di Salò. La sua satira annovera alcuni esempi straordinari, ma anche molta fuffa di colore locale. Offre un interessante spaccato d’epoca e uno sguardo spietato nella società borghese del nord.

Capisco chi non ne voglia nemmeno sentire parlare. Personalmente però trovo che, al di là di tutto, era un umorista di talento, e le colpe che gli si possono assegnare non sono tali da offuscare la sua arte.

Ne consiglio quindi la lettura, pur con tutti i caveat del caso.

MUSICA!


Bibliografia

Un eccellente articolo de Il Tascabile

La pagina wiki del Novello

MONELLI Paolo e NOVELLO Giuseppe, Il ghiottone errante, Slow food editore, 2016

MONELLI Paolo e NOVELLO Giuseppe, La guerra è bella ma scomoda, Treves, 1929

NOVELLO Giuseppe, Il signore di buona famiglia, Mondadori, 1934

La storia del gatto Timofei

Di scheletri e gente morta male: History cold case

In ricorrenza della simpatica Festa dei Morti, ho deciso consigliare qualcosa che combini gente mortamale, ricerca storica e pedanteria accademica. E quando si parla di pedanteria, si può sempre contare sull’Inghilterra!

History cold case

History cold case è una serie in due stagioni che passata in tv tra il 2010 e il 2011.

Il concetto è semplice: applicare i mezzi della medicina forense attuale ai resti di gente morta illo tempore.

Un’analisi dettagliata e completa del cadavere richiede un notevole investimento in risorse, e spesso la descrizione degli scheletri è relativamente sommaria. Basti pensare che fino a un paio di decenni fa molti scheletri erano identificati come maschi o femmine in base al corredo funebre, metodo raffazzonato che ci ha fatto prendere non poche cantonate.

Lo studio completo della salma è di solito riservato a defunti importanti: ad esempio, qualche anno fa un team diretto dal Professor Fornaciari dell’Università di Pisa ha analizzato la mummia di Cangrande della Scala, determinando che il prode ghibellino è stato spacciato da un infuso risolutivo corretto alla digitale.

Benvenuto a Treviso, che ne dice di una tipica tisana locale?

La serie History cold case segue un protocollo simile, occupandosi però di morti senza nome, pescati da varie epoche, dall’Età del Bronzo all’Epoca Vittoriana.

Il team

Sue Black

Sue Black dirige la squadra di ricerca. La nostra è antropologa e professoressa di Anatomia ed Archeologia forense all’università di Dundee. L’identificazione a partire dallo scheletro fu la sua tesi di dottorato nel 1986.

Per più di 10 anni Black ha lavorato in qualità di antropologa nell’identificazione dei morti, sia all’ospedale St. Thomas di Londra che in zone di conflitto come il Kosovo o l’Iraq. La nostra ha partecipato anche allo sforzo internazionale di identificazione delle vittime in Thailandia, dopo lo tsunami del 2004.

Black ha diretto per un periodo il Center of Anatomy and Human Identification (CAHID) dell’Università di Dundee, ma si occupa anche di gente viva: nel 2014 la nostra contribuisce all’identificazione delle mani di un uomo riprese in un video pedopornografico.

Insomma, cosa non c’è da apprezzare in Sue Black?

Xanthé Mallett

Segue Xanthé Mallet.

Anche lei antropologa forense e specializzata in biometrica del cranio e identificazione delle mani, senior lecturer all’Università di Newcastle in Australia.

La nostra comincia la sua carriera accademica con una laurea in Archeologia a Bradford, per poi orientarsi sull’Antropologia con un Master a Cambridge e un dottorato a Sheffield.

Per 5 anni ha lavorato al CAHID di Dundee, università presso cui è stata anche professore in Antropologia.

Caroline Wilkinson

caroline

Caroline Wilkinson

Terza e ultima antropologa del gruppo è Caroline Wilkinson, dottorata all’Università di Manchester, collaboratrice del CAHID ed esperta in ricostruzioni facciali.

La nostra ha ricreato la faccia di noti defunti come Riccardo III d’Inghilterra o Roberto I di Scozia.

Nel 2012 ha ricevuto una medaglia dalla Royal Photographic Society per il suo contributo al miglioramento della fotografia medica.

 

Wolfram Meier-Augustein

Wolfram Meier-Augustein

L’ultimo membro fisso del gruppo è anche quello col nome più metal, Wolfram Meier-Augustein. Il nostro ha un dottorato in Scienze naturali della Ruprecht-Karl University di Heidelberg, è un esperto forense per la National Crime Agency e professore alla Robert Gordon University di Aberdeen. Dal 2010 al 2014 è stato direttore del Forensic Isotope Ratio Mass Spectrometry Network ed è stato membro della British Association for Human Identification.

E’ stato consulente in diversi casi di cronaca nera, dove ha contribuito ad identificare parti umane. Ha partecipato anche nelle indagini del famigerato caso delle sorelle Mulhall, due irlandesi che uccisero a coltellate e martellate il fidanzato della madre, per poi farlo a pezzi.

I casi

History cold case non è una lunga serie: ci sono solo due stagioni, ognuna delle quali ha 4 episodi di circa un’ora.

Ogni volta, il gruppo prende in esame un caso del passato (con una o più vittime) che presenti un qualche tipo di peculiarità.

I resti sono quindi studiati come se si trattasse di vittime contemporanee.

Mentre parte del team studia il cadavere (o i cadaveri), altri membri si occupano di completare il contesto storico con l’aiuto occasionale di altri ricercatori, reenactors e storiografi.

Mentre l’indagine va avanti, la Wilkinson si adopera a ricostruire il viso della vittima, di modo da restituire un’apparenza umana all’individuo.

Alla fine dell’episodio, il gruppo presenta il resoconto di ciò che sono riusciti a trovare (che può essere un sacco di roba o molto poco), le possibili circostanze della morte, e il ritratto del defunto.

Oltre alla ricerca dell’identità del morto, l’indagine offre anche uno spunto per parlare del periodo storico o di particolari fenomeni legati al morto, come i ladri di corpi dell’Inghilterra ottocentesca, le persecuzioni antisemite o i sacrifici umani dell’Età del Bronzo.

Uno dei casi porta sullo scheletro di una donna seppellito in una posizione bizzrra con non uno, non due, ma TRE infanti disseminati addosso

Spesso in questo genere di documentari si cerca di aggiungere una spolverata di suspence e dramma, qualcosa che tenga agganciato lo spettatore distratto.

Nella fattispecie questo aspetto è molto discreto, e non si sconfina mai in roba ridicola tipo reenactment del fattaccio o altre boiate atroci del genere (molto comuni nella “documentaristica forense” da pizza e divano).

Il contesto storico è di solito sommario, ma l’inusuale dipartita del soggetto di studio permette spesso di avere un ragguaglio su aspetti poco noti.

Nella seconda puntata della seconda serie, ad esempio, il gruppo della Black si occupa di una fossa comune trovata subito fuori dalle mura di York e contente 113 corpi, probabilmente legati all’assedio del 1644.

I nostri studiano in particolare 2 scheletri che presentano una rara malattia genetica che calcifica e deforma le ossa. Al di là del contesto storico, l’episodio mostra che portatori di handicap (anche gravi) erano presenti negli eserciti del periodo.

Immaginate domani una serie tv che racconta la storia di un portatore di handicap all’assedio di York.

Posso già sentire i lamenti e le lagne dell’Uomo del Bar: “ecco questi social justice warriors che impestano la Storia con le loro cazzate con gli handicappati in guerra!”

La prima puntata della prima serie parla dell’Uomo di Ipswich, lo scheletro di un maschio adulto di origine africana risalente al XIII° secolo.

Di nuovo, le sentite le lagne dell’Uomo del Bar sulle femministe che vogliono inquinare il passato bianco dell’Inghilterra?

O gli strilli dello Storiografo di Facebook che afferma con totale sicurezza che l’Europa del 1200 era isolata e stagnante?

Il punto è che la Storia è molto più complessa di quanto siamo portati a pensare dopo uno studio superficiale. Serie come questa sono un piccolo contributo nel demolire i luoghi comuni.

Parlando di luoghi comuni, un esempio è l’episodio 2 della prima serie, in cui la Black analizza la mummia di un bambino. La nostra lancia una serie di ipotesi sul background del fanciullo, ipotesi ragionevoli ma che si rivelano del tutto errate dopo uno studio approfondito. Questo mostra come un bais iniziale, se non verificato in modo rigoroso, può portare a conclusioni del tutto false.

Per un lungo periodo gli archeologi hanno catalogato il sesso del morto in base al corredo: armi->uomo / gioiellii->donna. A quanto pare è stato un errore in diversi casi, perché la costruzione dell’identità di genere nella morte è una roba particolare che non segue lo stereotipo di conserva insito nella gran parte di noi.
Di questo libro parlerò con calma in altra sede, ma intanto lo consiglio.

Insomma, History cold case è un prodotto per la televisione che deve catturare l’attenzione non solo dell’appassionato, ma anche dello spettatore medio. Pertanto lo stile e il modo in cui la serie è realizzata a volte urtano un pochettino la mia acuta sensiibilità di “maestrina laureata al classico” (cit.), ma questo non porta serio danno all’investigazione stessa, che resta ben fatta per il medium scelto (un episodio da 57 minuti).

Nell’insieme è una buona serie, divertente e interessante senza aver la pretesa di creare qualcosa di davvero rivoluzionario. E’ un peccato che si siano fermati dopo 8 episodi: è il genere di roba che presenta infiniti spunti, e mi farebbe piacere vedere altri documentari del genere, magari non limitati alla sola Inghilterra.

Idea di base
Team di ricerca
Soggetti
Format

In conclusione, History cold case è un buon prodotto, basato su una buona premessa e che offre molti spunti di studio. Plus, l’ultima volta che ho guardato lo si trovava tutto in modo diversamente legale su YouTube. La Fortezza gli concede quindi un bel seal of approval.

MUSICA!


IMDb della serie

Pagina wiki di Sue Black

Pagina wiki di Xanthé Mallett

Pagina wiki di Caroline Wilkinson

Pagina wiki di Wolfram Meier-Augustein

150° anniversario dell’inizio dell’era Meiji: una breve e superficiale introduzione

Quando parliamo di Giappone, una delle prime cose a cui la gente pensa sono i robot, seguiti dal porno tentacolare.

La terza cosa a cui pensa, però, è un vago coacervo di “antiche tradizioni”.

Il Sumo, il Judo, l’Ikebana, lo spirito di sacrificio e tutta quell’altra roba che offre tante citazioni fighe per la firma sui forum.

Va da sé, la realtà è sempre più complicata di quanto ci si aspetti di primo acchito.

Il Giappone non fa eccezione.

8° vista di Edo, Utagawa Hiroshige, 1797-1858

Il fatto è che molte delle cose che oggi riteniamo “un sacco tradizionali” sono il frutto di un lavoro immane, zelante, ma soprattutto recente. Ad esempio lo Shintoismo come religione di Stato. Lo Shintoismo di certo è la religione più antica in Giappone, no?

Sì. Ma si è presto mischiata al Buddismo. Lo Shintoismo in quanto fede separata, come viene percepito oggigiorno, nasce nel XIX° secolo.

In altre parole, ha la stessa età di Garibaldi.

E non è l’unico esempio. Pratiche particolari di una regione o specifiche a una certa classe sono state riprese, rielaborate, riplasmate ad arte in un brillante e gigantesco sforzo propagandistico di creazione nazionale.

In breve, a un certo punto il Giappone è stato costretto, baionette alle reni, a entrare nella modernità. Due opzioni si offrivano al “Regno dove il Sole nasce” (cit. Imperatrice Suiko): fare la fine della Cina, o diventare una Nazione.

Il 23 ottobre di 150 anni fa, il principe Mutsuhito inaugurò il proprio regno assumendo il nome di Meiji.

Il coraggio, il cinismo e l’intelligenza dimostrati dagli artigiani del nuovo regime sono straordinari, e personalmente non conosco esempi comparabili alla magnitudine di questa impresa. Questo periodo è tra i più interessanti nella Storia dell’Arcipelago, nel bene e nel male.

In occasione del centocinquantenario, ho voluto dedicare un breve capitolo introduttivo alla faccenda.

Si tratta di un’infarinata minima, quindi non aspettatevi una lista di 15 libri in bibliografia. Questo articolo non vuole essere un’analisi approfondita di questo incredibile momento storico, ma vuole dare gli strumenti minimi per apprezzare la ricorrenza.

E gli strumenti minimi per capire perché L’ultimo samurai fa schifo, ma questa è un’altra faccenda.

Tra gli splendori di Edo c’era anche l’allegra usanza del crocifiggere la gente.

Foto di Felice Beato

Il lento collasso del Bakufu

Con “Bakufu” (Governo della Tenda) si intende il regime militare che governa il Giappone (tra alti e bassi) a partire dal XII° secolo. Nella fattispecie, il Bakufu dei Tokugawa è una dittatura militare di stampo feudale che ha controllato il Giappone dagli inizi del XVII° secolo alla metà del XIX°. 260 anni e passa di governo dei samurai.

Per buona parte di questo periodo, i Tokugawa avevano optato per un rigido (ma non totale) isolazionismo. Avevano chiuso i porti e vietato ai propri sudditi di andarsene in giro, lasciando come unici partners stranieri Olanda, Cina e Corea.

Ci sono stati anche contatti saltuari con Russi, Inglesi, Americani e Francesi, tutta roba insignificante.

La faccenda funziona per un po’, ma tutte le cose belle hanno una fine: verso la metà del XIX° secolo la pressione dei Barbari del Sud (nanban, il simpatico nomignolo che i giapponesi avevano per gli occidentali) si fa più petulante e difficile da ignorare.

Notate che già ai tempi era impossibile per uno staterello isolano tenersi fuori dai giochi internazionali. Eppure certa gente pensa che ciò sia fattibile oggigiorno. Bah.

Ad ogni modo, gli Americani sono la testa d’ariete in questa faccenda. Aprendo i porti giapponesi sperano di potersi guadagnare un comodo scalo verso la Cina e un punto di rifornimento per i pescherecci che saccheggiano il Pacifico.

Questo nuovo interesse internazionale per i porti giapponesi casca in un brutto momento per il Regime. Lo shōgun è malato e senza eredi diretti. Questo pasticcio crea tensione tra il Consiglio degli Anziani (scelto tra i capi dei vassalli ereditari dei Tokugawa) e le varie famiglie con eredi putativi da spingere.

Non solo: una crisi economica latente rosicchia le casse di diversi feudi, un sovrannumero di guerrieri senza prospettive mina la stabilità della quiete pubblica e la scuola di Mito (feudo di uno dei pretendenti, Tokugawa Nariaki) sta ridiscutendo l’intero concetto di legittimità e origine del potere.

Insomma, ci manca soltanto che degli stranieri vengano a ficcanasa-E OH GUARDA, UNA NAVE DI UN BEL NERO ALLEGRIA.

La Nave Nera di Perry

E’ il 1853, e Perry porta una lettera da parte del Presidente, legata in punta a un cannone Paixhans. L’evento è una secchiata di benzina sul focolare della crisi politica.

Per dare un’idea del what the fuck are we even doing che si respirava nella capitale Edo in quei giorni, Francine Hérail cita l’estratto del diario di un funzionario del Bakufu.

La situazione interna del Bakufu è solo vuoto e contraddizione. Vogliamo abolire le regole del Bakufu. Non vogliamo rovinare il prestigio del Bakufu. Tra gli anziani non c’è nessuno che possa trattare con gli stranieri. I preparativi militari sono insufficienti. Nessuno ha il minimo ardore di battersi contro gli stranieri. Non vogliamo rovinare le istituzioni. Il Consiglio non riesce a prendere una decisione.

E mica è finita qui: 3 mesi dopo la simpatica visita di quel bell’uomo di Perry, i nostri si affacciano alla finestra e BAM, navi russe. Anche loro vogliono usare i porti.

Il Capo del Consiglio degli Anziani è Abe Masahiro, e non sa che pesci pigliare. A sua discolpa, è un momentaccio brutto.

Il nostro manda una lettera circolare ai daimyō, i feudatari: vuole suggerimenti su come trattare con gli stranieri, visto che, vi direte, nessuno è davvero così idiota da voler combattere cannoni a proiettili esplosivi con pallettoni di moschetto seicentesco.

Consideriamo però che i grandi vassalli sono a questo punto gente abituata fin dall’infanzia a dare ordini e a vederli eseguiti. Non che essere daimyō fosse particolarmente divertente, ma si tratta comunque di uomini abituati a vedere il resto delle persone scattare come lucertole a ogni comando. Non proprio la miglior base di partenza per chi vuole trattare con potenze più forti ed avanzate.

La risposta dei daimyō è quindi “aprire il Paese ai barbari è assolutamente IMPENSABILE”.

Da notare che Abe aveva fatto qualcosa di rivoluzionario, chiedendo l’opinione non solo dei vassalli diretti dei Tokugawa, ma anche dei daimyō esterni. Questa cosa mandò a fuoco le mutande di non poche vecchie mummie tradizionaliste.

Ci pensate? Per certuni questa misura era scandalo senza precedenti! Va da sé, ‘sta gente non aveva ancora visto niente.

L’arrivo di Perry, Kinuko Y. Craft (1940-)

Abe riceve due tipi di consiglio:

-Tokugawa Nariaki, del feudo di Mito e padre di uno degli eredi putativi, propone: “non possiamo accettare le loro condizioni, ma non possiamo vincere se ci attaccano, ergo la cosa più logica è combattere fino alla morte di ogni singolo sparuto samurai e far esplodere quello ce resta dell’Impero”.

-Ii Naosuke, del feudo di Hikone, propone la rivoluzionaria idea: “cerchiamo di guadagnare tempo, trattiamo, diamogli dei contentini finché non riusciamo a imparare come si fanno le navi quei cosi che sparano robe esplosive, e poi gli si fa un mazzo così!”

Questo presupponeva che gli occidentali fossero abbastanza stupidi da permettere al Giappone di imparare ed acquisire la nuova tecnologia.

Casca bene perché gli occidentali sono effettivamente così stupidi, e lo hanno provato a diverse riprese. Ma che ci vuoi fare, l’arroganza e il razzismo fanno sì che uno possa essere allo stesso tempo un genio tecnico e avere il cervello fermamente avvitato nel culo.

Ma sto divagando.

Nel 1854 il Bakufu firma la Convenzione di Kanagawa, in cui si stabiliscono tre punti principali:

  • Le navi straniere potranno ricevere combustibile (steampower bitches!)

  • I porti di Shimoda in Izu e Hakodate in Ezo (Hokkaido) saranno aperti

  • Le navi in difficoltà che capitano nei paraggi saranno soccorse.

Il tutto col (comprensibile) piano di “impariamo le navi e le cose che fanno BUM, e ributtiamo a mare tutta questa marmaglia palliduccia”.

Tutto bene ciò che finisce bene, vero?

Falso. Il lieto fine è solo il coitus interruptus del casino e viceversa, in un infinito circolo di sollievo e zappate sui piedi.

Mentre il Bakufu lavora per superare la crisi politica, gli occidentali spingono per concessioni più generose. In particolare, il console americano cerca di mettere a punto un trattato col Giappone che tagli fuori l’Inghilterra. Riesce anche a trovare delle orecchie simpatetiche nel Bakufu, specie dopo l’incidente di Arrow, in cui gli Inglesi avevano cannoneggiato Canton.

Tutto procede benone quindi, i Demoni Bianchi mettono insieme un bel trattatello, decidono di presentarlo al…

Già, a chi?

I nostri hanno dimenticato un piccolissimo dettaglio: chi comanda, l’Imperatore o lo shōgun?

Whoopsie daisy!

Gli stolti non sapevano che i veri signori erano (e sono tutt’ora) i gattini.
Utagawa Kuniyoshi (1796-1861)

Da bravi occidentali, ai nostri non era passato manco per l’anticamera del cervello che i giapponesi potessero avere un sistema radicalmente differente dal loro.

La cosa viene sfruttata subito dal Bakfu che, ricordiamocelo, vuole prender tempo per poter poi picchiare gli stranieri con le loro stesse armi.

Di conseguenza, quando il progetto di trattato viene messo a punto, il Bakufu dice “sì, molto carino, ora però lo deve firmare il Figlio del Cielo”.

Il nuovo capo del Consiglio degli Anziani, Hotta Masayoshi, si risolve ad andare a Kyoto nel 1858, ma se il Bakufu ha guadagnato tempo, lo stesso tempo è stato guadagnato anche dai daimyō esterni, fino ad ora tagliati fuori dalla grande politica.

Per costoro, gli stranieri sono un ottimo pretesto per schierarsi contro Hotta, il Consiglio e il Bakufu in generale. Un pretesto da solo non basta però, ci vuole una qualche forma di legittimazione.

E guarda te le coincidenze, a Kyoto c’è un’intera Corte di aristocratici civili infognati lì e tagliati fuori dall’esercizio del potere. Aristocratici che teoricamente detengono l’autorità, ma che di fatto non contano quasi nulla e che da generazioni sognano i bei tempi andati di quando erano loro a comandare.

Quando Hotta arriva a Kyoto, molti di costoro hanno adottato la causa xenofoba e anti-Bakufu dei daimyō esterni, e le trattative sono un fiasco. Hotta si dimette in disgrazia e smolla il posto a Ii Naosuke, che riesce a firmare un accordo di amicizia e commercio con gli yankees.

La faccenda prevede:

  • Scambio di rappresentanti diplomatici tra il Giappone e gli Stati uniti

  • Apertura progressiva dei porti di Nagasaki (in Kyushu), Yokohama e Niigata

  • Libertà di commercio

  • Numerose e mortalmente noiose clausole su diritti di dogana ed extraterritorialità.

Accordi simili furono firmati lo stesso anno con Inglesi, Francesi, Russi e Olandesi.

Tutto è bene ciò che finisce bene, no?

No.

Si sa come funzionano le cose: agli occidentali gli dai un dito e ti strappano il braccio alla spalla per spolparselo a piene ganasce.

Appena 4 anni dopo, l’Inghilterra, secondo la sua antica e rispettabile tradizione di bullismo e prevaricazione, costringe il Bakufu a rivedere i trattati rinunciando al diritto di fissare le regole doganali. Sono i famigerati “trattati ineguali”.

Sul momento, questi trattati divennero il perfetto casus belli per la politica interna.

Dovete immaginare una massa di guerrieri di basso rango incazzati come calabroni all’idea di essere bulleggiati dalle scimmie bianche per il solo fatto che le scimmie bianche hanno cannoni più grossi. Non è giusto, ecco!

Manco a farlo apposta, questa storia catalizza malcontenti e frustrazioni soggiacenti.

Sia chiaro, a ‘sto punto i daimyō hanno tutti più o meno ingollato l’idea che, per il momento almeno, i barbari bisognava cuccarseli. Questo però non impedisce loro di usare i trattati ineguali per delegittimare il Bakufu.

E anche a ragione! Per due secoli e mezzo hai tenuto il Paese con pugno di ferro perché “noi siamo il Governo della Tenda, noi siamo la dittatura militare, bada come siamo tosti”, e appena arrivano quattro scimmioni con le barche nere cali le braghe?

E’ dura da accettare.

E in tutto ciò, ricordiamocelo, ancora non è stato scelto un successore per lo shōgun!

Prodromi di guerra civile

Ora, secondo Hérail si possono individuare grosso modo due partiti dietro ai due eredi putativi.

  • Il partito di Mito, che sosteneva la candidatura del figlio di Nariaki, Yoshinobu. Il partito era costituito in particolare da daimyō esterni che volevano spingere l’evoluzione del governo verso una federazione di feudi sotto un consiglio interno dei vassalli ereditari.
  • Il partito conservatore, che sosteneva Iemochi dei Tokugawa di Kii ed era costituito dai vassalli ereditari.

Il Boia, Felice Beato

Il partito conservatore vince, e Ii Naosuke lancia il Ripulisti dell’Era Ansei, una campagna di epurazione politica volta ad impedire ai daimyō di allearsi tra loro e immischiarsi con le faccende di Corte. Gente arrestata, gente esiliata, gente decapitata o costretta a sbudellarsi, insomma ci siamo capiti.

Tra i condannati a morte figura tale Yoshida Shōin, guerriero del feudo di Chōshū, alleato della Corte Imperiale e considerato nemico del Bakufu. Prima di stirare le zampe, Shōin aveva ispirato e influenzato un congruo numero di rampolli dell’aristocrazia guerriera del feudo. E sai qual’è una buona idea quando hai un carismatico maestro che ti attizza giovani facinorosi? Renderlo un martire.

Manco a dirlo, la repressione dell’era Ansei provocò un certo qual malcontento verso il Bakufu, ormai visto come corrotto regime a letto con gli stranieri.

Sono i prodromi della guerra civile, l’alba del grido di battaglia sonno jōi, “onorare l’Imperatore, espellere i barbari”!

Facinorosi all’opera.
Foto di Felice Beato

Sia chiaro: non si tratta di mere reazioni isteriche da parte di xenofobi con una scopa in culo. C’erano innumerevoli problemi con l’apertura dei rapporti, dal cambio dell’oro al lievitare del prezzi alla fuga di mercanti, tutta roba di cui magari parleremo in altra sede.

Ora come ora voglio concentrarmi sul travaglio politico.

E a proposito di travaglio politico, Ii Naosuke viene assassinato nel 1860.

Gli succede Andō Nobumasa, che cerca di accalappiarsi la Corte proponendo un matrimonio tra una principessa imperiale e il giovane shōgun, il quattordicenne Iemochi.

L’Imperatore dell’epoca non ce l’ha particolarmente col Bakufu, ma il suo entourage è zeppo di aristocratici che non vedono l’ora di scardinare la dittatura militare e restaurare il potere della Corte come nel magico periodo di Heian. Per costoro, l’occasione è perfetta per minare la credibilità del Bakufu.

Accettano quindi il matrimonio, a patto che il Bakufu butti fuori i barbari e si rimangi i trattati. E così Andō si ritrova preso tra gli aristocratici da una parte e gli occidentali da quell’altra.

Vedi, se avessero ghigliottinato tutti i nobili quando ne avevano la possibilità, non si sarebbe posto il problema. O forse sì.

Ma sto divagando!

Andō è in una brutta situazione, ma non per molto, visto che nel 1862 si ritira a seguito di un increscioso incontro ravvicinato con una coltellata (cortesia di sei scalmanati di Mito). Sono i rischi della politica quando la politica è fatta bene.

Il giovane Iemochi. Sapete di cosa ha bisogno una dittatura in grave crisi? Di generalissimi quattordicenni!

Non è possibile trattare coi barbari se il partito pro-aristocrazia continua a minare la credibilità shogunale. Dopo l’attentato contro Andō, Shimazu Hisamitsu del feudo di Satsuma marcia su Kyoto, perché mobbastaveramenteperò.

Butta fuori a pedate tutti i partigiani più scalmanati della restaurazione (torneranno poco dopo) e si fa nominare dalla Corte consigliere ufficiale presso il Bakufu per portare avanti una sobria ma seria modifica del regime. Questa corrente riformista è chiamata “Alleanza tra Corte e Guerrieri”, kōbu gattai, altresì detta volemosebbene.

Come prima cosa viene creato un tutore per quel moccioso dello shōgun.

Siccome ci vuole una scelta politicamente savvy m anche deliziosamente ironica, il ruolo viene dato a Yoshinobu. Che era l’altro erede putativo. Evviva!

A questo punto abbiamo quindi, in grosso, 3 partiti:

  • I lealisti del Bakufu a Edo

  • I lealisti dell’Imperatore a Kyōto

  • I grandi daimyō che cercano di mediare ed evitare una guerra civile

E in tutto ciò i rapporti con i barbari sono usati senza alcuno scrupolo nella politica interna.

Una complessa , delicata e sfaccettata problematica riguardante degli stranieri che viene appiattita e sfacciatamente usata per propaganda interna, dov’è che l’ho già sentita? Hummm….

Guarda te i casi della vita, la xenofobia è un sentimento tanto più totalizzante in quella cospicua massa di guerrieri senza feudo, rendita o lavoro. Gente educata fin dalla nascita ad essere facinorosa e tosta, a sentirsi migliore e orgogliosa del proprio status, e che ora si trova senza prospettive, senza speranza e senza scopo.

Costoro sgrondano a Kyōto, alla ricerca di un qualche vago sentimento di identità e ragion d’essere, e se la prendono coi demoni bianchi, e se la prendono col Bakufu che amoreggia coi demoni bianchi, scordandosi che il Bakufu ha davvero poca scelta e che i demoni bianchi sono sì figli di puttana ma non sono la causa principale della crisi economica, dell’alienamento o della sclerosi del regime.

Sono sentimenti del genere che portano ad incidenti celebri come quello di Namamugi, dove degli inglesi vengono attaccati dalla scorta di un daimyō.

Nel 1863, Yoshinobu e il baby-shōgun accettano in principio di scacciare i barbari. Più una dichiarazione di intenti che altro, dacché, ricordiamocelo, militarmente i giapponesi contro gli occidentali hanno le stesse probabilità di un bambino di cinque anni contro il Predator.

Ma questo sfugge alla gente del feudo di Chōshū. Ve li ricordate? Sono quelli a cui il Bakufu ha martirizzato il maestro.

Costoro vengono a sapere della decisione di Kyōto, e con l’ottuso zelo di un doganiere svizzero cannoneggiano le barche che passano nello stretto di Shimonoseki.

Mappa dei luogi nominati. Hakodate non si vede perché è in Hokkaido (ovvero in culo agli orsi)

Sulle navi occidentali la gente si sorprende.

-Qualcuno ha scorreggiato?

-No, mi sa che era un petardo o qualcosa così.

-No, è un pilloro partito da quel fortino lì.

-Fortino? Non è il museo della Marina?

-No, guarda, ci hanno sparato di nuovo.

Manco a dirlo, gli occidentali spianano le batterie costiere di Chōshū. Poco dopo gli Inglesi mettono i puntini sulle i bombardando Kagoshima. Nel caso qualcuno si fosse scordato di Namamugi.

A parte i disgraziati di Kagoshima e la signora Kyoko che coltivava zagare sulle coste di Chōshū, il vero sconfitto della Battaglia di Shimonoseki è il Bakufu, che ha perso totalmente la faccia: non è più capace di controllare la situazione, non è più un interlocutore degno di quel minimo rispetto che gli occidentali erano disposti a riservare a dei non-bianchi.

E come al solito, quando cominci a puzzare di debolezza, i cani si avventano. Gli Inglesi si buttano a coltivare relazioni con la Corte e i feudi del sud a scapito del Bakufu, mentre i Francesi si accalapiano il regime di Edo.

Ma intanto che fa il partito conservatore, quello del “cerchiamo di fare fronte unito, cazzo di maniaci, che questi sennò ce se magnano”?

Per prima cosa, cerca di montare una spedizione punitiva contro Chōshū e di impadronirsi della guardia imperiale.

I capi di Chōshū decidono che, spetta, questo merdone sta per scoppiarci in faccia, cerchiamo di metterci una pezza e sottomettiamoci.

Oh beh, troppo tardi: gli intransigenti fanno un colpo di stato. Sotto la nuova élite, Chōshū si allea con Satsuma, dove pure c’è stato un ricambio di classe dirigente, ora costituita da guerrieri di medio rango.

Long story short, nel 1866 Chōshū respinge le truppe shogunali.

Nel frattempo Yoshinobu era riuscito a diventare shōgun. Gioia di breve durata. C’è ormai una guerra civile in sordina, il Bakufu si sta sgretolando, i barbari sono al confine che si leccano i baffi.

Occorre cambiare qualcosa, qualcosa di grosso, e subito.

Viene ritirata fuori dal cilindro l’idea di un gran consiglio di daimyō, a cui Yoshinobu parteciperebbe non come shōgun, ma come grande feudatario. In cambio, Yoshinobu deve semplicemente rinunciare al titolo di Generalissimo e mettere fine a un regime vecchio di 200 anni.

Ma le grane volano sempre a squadriglie, e a fine gennaio del 1868 l’Imperatore muore. E’ un terremoto politico. I guerrieri di Chōshū e Satsuma s’impossessano del palazzo e catapultano il giovanissimo Principe Mutsuhito al centro della scena politica. E’ l’inizio della sanguinosa Guerra di Boshin.

Il 23 ottobre Mutsuhito assume ufficialmente il nome di Meiji. Il Bakufu viene dichiarato illegittimo e i feudi di Yoshinobu sono requisiti. In novembre, Yoshinobu abdica al Castello di Edo.

Al Castello lo shogunato Tokugawa era nato, ed al Castello muore.

Yoshinobu rinuncia al titolo

260 anni e passa di dittatura ininterrotta, quindici generazioni di generalissimi, stroncati da un principe di sedici anni appena. Perché siamo in Giappone, e la Rivoluzione qui la fa l’Imperatore.

Le dimissioni di Yoshinobu non mettono fine alla guerra. Dopo due secoli di pax Tokugawa, il Paese doveva sanguinare.

Tutte le guerre sono crudeli, ma c’è un posto speciale nel Panteon dell’Orrore per le guerre civili. E questa qui non fa eccezione.

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I’m here to chew bubblegum and save the Empire. E se per farlo devo scimmiottare i Barbari del Sud, così sia.

Per quanto romanzesca sia l’immagine del principe adolescente che riconquista il proprio posto alla testa del Paese, non fu Meiji in persona a salvare il Giappone. La grandezza di Meiji fu di sapersi circondare di gente capace, saper ascoltare e saper rinunciare al proprio orgoglio per il bene del regno.

La Restaurazione Meiji è un periodo di storia brutale, fatto di rinunce, violenza, persecuzione politica e religiosa. E’ in questo periodo che vengono piantati i semi di ciò che sarà un giorno il fascismo giapponese, ovvero la balorda ideologia che portò l’Impero alla sconfitta e all’umiliazione.

Ma quanta scelta avevano i ministri e i loro collaboratori nel 1868?

Quasi un secolo dopo, Golda Meir dichiarò che era pronta a comprare armi agli odiati francesi, “anche se il loro leader fosse il demonio in persona”, pur di armare i propri soldati. Meiji e i suoi ministri erano altrettanto pronti a vendere l’anima se questo significava salvare l’Impero dalle mire fameliche delle potenza occidentali.

In 40 anni scarsi il Giappone passò da un mucchio di feudi che si trastullavano con archi e moschetti a una potenza marittima e militare capace dei sconfiggere i Russi. Con tutto il male e il dolore che la Restaurazione portò con sé, è difficile non ammirare la determinazione e l’ingegno degli architetti del nuovo regime.

Importarono il nazionalismo per salvarsi, e decenni dopo il nazionalismo fu una delle cause della rovina del Paese. Come detto su, la Storia è un ciclo infinito di sollievo e zappate sui piedi, e le soluzioni dei problemi di oggi sono spesso la causa dei problemi di domani.

MUSICA!


Bibliografia

Hérail francine, Histoire du Japon, POF, 1986

Nishiyama Matsunosuke, Edo Culture : daily life and diversions in Urban Japan, University of Hawai’i Press, 1997

Souyri Pierre-François, Nouvelle Histoire du Japon, Parrin, 2010

Welcome to the Great War, quando la divulgazione è fatta bene

Lo scopo di questo blog è sempre stato duplice: la lagna e la divulgazione.

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Da un lato serve a esternare tutto ciò che mi fa salire il nervoso (articoli scritti col culo, film di merda, la lista è lunga!), da un lato serve a raccontare in modo fruibile e (si spera) on troppo sfrangiamaroni fatti storici.

Il problema della Storia è che, pur essendo importantissima da mille punti di vista, può essere un pochettino difficile di accesso. Anche per qualcuno come me che sta buttando gli anni migliori della propria vita lavorando ad una carriera nel campo è impossibile conoscerne ogni aspetto. Ci sono migliaia di studi e saggi e dibattiti esaustivi là fuori, ognuno dei quali aiuta ad approfondire la nostra conoscenza dell’Uomo e delle società, ognuno dei quali ci rende meno vulnerabili alla manipolazione della propaganda (che AMA pescare ad glandus segugi dalla Storia!). Ma non possiamo star dietro a tutto e, nonostante la specializzazione sia fortemente sconsigliata nel mio campo, uno deve bene o male fare una scala delle priorità.

Stesso vale per la gente normale là fuori, che non ha necessariamente il tempo o la forza di sbattersi a leggere tonnellate di pagine sulla nascita del mercato monetario, sull’emancipazione femminile o sulla diffusione del bronzo nel continente eurasiatico.

Pertanto è sempre bello quando qualcuno indovina un metodo fruibile, interessante e corretto di divulgazione, che permetta alla persona lamba di dotarsi di una spolverata di conoscenza senza per forza passare le domeniche in biblioteca.

Pagine come War History Online o The Vintage News svolgono ad esempio un ruolo del genere, presentando articoli molto brevi su argomenti assortiti. Spesso la loro roba può essere poco esaustiva o un pizzico superficiale, ma lo scopo non è trattare a fondo un argomento, è darne una sommaria panoramica e magari incoraggiare il lettore a proseguire le ricerche.

Un altro medium molto importante di diffusione è Youtube. E’ un medium che io amo particolarmente perché lascia la libertà al fruitore di fare altre cose nel frattempo. Quando preparo la cena o quando ho episodi maniacali e mi metto a catalogare matite secondo la lunghezza e la marca, non c’è niente di meglio che una buona lezioncina di Storia in sottofondo!

Molti conosceranno l’ottimo canale di Metatron, i video di Schola gladiatoria, o la roba di Lindybeige (che di solito mi piace molto e poi ogni tanto mi tira fuori delle stronzate da schiaffi in viso, ma bon).

Oggi vorrei parlare dello splendido lavoro fatto da Indiana Neidell, Toni Steller e Florian Wittig.

The Great War, ovvero Indy Neidell e la Storia a piccole dosi

Chi è Indiana Neidell, il principale autore di questa gemma?

Una delle mie cotte platoniche, ma non divaghiamo.

L’omonimo del Professor Jones (altra mia cotta non tanto platonica) è un Hustoniano che ha studiato Storia alla Wasleyan University in Connecticut.

Nella primavera del 2014, con il centenario della Prima Guerra Mondiale che incombeva, Neidell ha incrociato la strada di Spartacus Olsson, un simpatico svedese poliglotta cofondatore e attuale presidente di Mediakraft Network.

Cos’è Mediakraft Network?

Un network (duh!) di canali Youtube (principalmente in lingua tedesca) con base a Monaco. Mediakraft è relativamente giovane, essendo stata fondata nel 2011, ma già dal 2014 può vantare 130 impiegati fissi e un capitale d’investimento di 16 milionazzi.

Neidell e Olsson sono venuti fuori con un’idea figa abbelva da proporre a questi rampanti markettari: un documentario “in real time”!

In altre parole, un documentario a puntate che, invece di riassumere il fenomeno in un unico episodio, ne segue passo passo il divenire.

E così nasce The Great War, una serie di video (in inglese, ma con sottotitoli per i diversamente anglofoni) che coprono, settimana per settimana, gli avvenimenti e l’evoluzione della Grande Guerra.

Spesso mi sentite soppesare i lati positivi e negativi, o cercare il difetto, o lagnarmi delle imperfezioni.

Non qui.

The Great War è una serie bella da strapparsi le mutande dall’entusiasmo e basta.

Un giovane ufficiale dell’Impero Intergalattico appostato in un POA a bordo della HMAS Encounter sorveglia gli Oomani

Ma andiamo con ordine.

In principio il documentario doveva coprire per intero la Guerra ed essere pubblicato online in diverse lingue, tra cui Polacco e Turco. Purtroppo non ebbe un seguito sufficiente per Mediakraft, che lo mollò nell’agosto del 2015.

Ma Indy e Spartacus non si dettero per vinti e, con determinazione da canadesi alla seconda battaglia di Ypres, portarono avanti il canale inglese via crowfunding, merchandising e vendite sponsorizzate su Amazon.

Sono qui per masticare gomme e fare divulgazione. E ho finito le gomme.

Nel 2016, con l’uscita del gioco Battlefield 1 (a cui Neidell ha pure collaborato), la Grande Guerra ritornò alla ribalta e il canale vide un aumento sensibile di iscritti.

Ora come ora, a pochi mesi dalla fine della serie (spoiler, novembre 2018), il canale Youtube conta quasi 900.000 iscritti e pochi giorni fa Neidell e soci hanno potuto filmare in situ al Museo dei Tank di Bournemouth.

Neidell è il principale autore della serie e il narratore. Il nostro offre episodi densi di informazioni, chiari e di facile fruizione, il tutto con rigorosi riferimenti bibliografici per i feticisti come la sottoscritta. Il suo entusiasmo e la sua passione per l’argomento sono palpabibili, e Neidell riesce a giostrare un ottimo ritmo narrativo con una mole enorme di dati e notizie.

Ogni puntata ci tiene al corrente dello sviluppo generale della Guerra, delle battaglie principali, ma prende anche il tempo di guardare il dettaglio, l’esperienza del singolo, con aneddoti , articoli di giornale del periodo, lettere o diari. Con Neidell, lo spettatore impara cos’è successo senza perdere la dimensione umana. In ogni puntata vediamo la Grande Guerra di Nazioni contro Imperi, e la piccola ma gigantesca guerra del soldato contro la mitragliatrice, contro il gas, o contro il freddo e la fame.

Per non sforare il format di puntate brevi (una decina di minuti), il nostro e il suo team hanno anche messo insieme una serie di approfondimenti su tecnologia, tattiche, personalità, arte dalle trincee, propaganda, ecc. Lo spettatore può limitarsi a seguire lo sviluppo della Guerra, approfondire l’aviazione, ascoltare uno speciale sulla poesia nelle trincee, o anche solo seguire il gruppo di allegri divulgatori nelle loro gite in situ. Gli spettatori possono anche inviare domande e dubbi, oltre che partecipare alla crescente comunità online.

Che altro chiedere?

Raccontare Gallipoli: lo stai facendo bene

I video sono arricchiti da mappe, animazioni e filmati d’epoca. Questi ultimi sono in buona parte ripresi dal colossale archivio British Pathé, un database contenente circa 85.000 documenti audiovisivi d’epoca, registrati da Pathé News tra il 1910 e il 1970.

Insomma, i video di Indy sono interessanti da ascoltare e da vedere e offrono un resoconto dettagliato, ragionato e approfondito di una delle guerre più assurde e più devastanti della Storia occidentale

I heard that it started because a bloke called Archie Duke shot an ostrich ‘cause he was hungry (cit.)

Ma non finisce qui!

Neidell e Olsson hanno messo su un altro canale: TimeGhost, dove contano continuare il concetto di “in real time documentary”.

Già sono disponibili i video della serie Between two wars in preparazione del prossimo grande progetto: un documentario in real time sulla Seconda Guerra Mondiale!

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Gente come Indy Neidell e i suoi collaboratori sono i miei personali eroi. Fanno cose utilissime in modo ottimo e fruibile. Darei un braccio per essere in grado di gestire un progetto di quelle dimensioni con altrettanta competenza, energia e dedizione.

The Great War è una serie bellissima e ho piena fiducia nei sequels che ne verranno.

Quindi andatevela a vedere, supportate il progetto, condividete i loro contenuti!

Viviamo in un periodo dove “giornalisti” scrivono puttanate senza fondamento infilandosi una penna nel culo e scorreggiando, in cui politici di rilievo sblaterano propaganda senza il minimo appiglio nel reale, in cui bufalate indegne sono condivise decine di migliaia di volte.

Iniziative come quelle di Neidell e Olsson sono un piccolo antidoto a questo merdaio di post-verità vomitata sui social.

Coltiviamo ciò che di buono ci porta l’internet!

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MUSICA!


 

La pagina Facebook di The Great War

La pagina wiki di The Great War (la serie)

Il negozio di The Great War

La pagina Patreon di The Great War

Il canale Youtube TimeGhost

La pagina Wiki di Indy Neidell

La pagina Imdb di Olsson

Good times, bad times: Storia e propaganda

Ogni qualche tempo scoppia da qualche parte una virulenta polemica a spunto più o meno storico.

Una nuova via, un murales, una citazione usata da un politico o un giro di frase apparso in un giornale.

E’ inevitabile, e oggi vorrei parlare del perché.

Per fare un esempio concreto, possiamo prendere la disgraziata diatriba sulla targa dedicata a Giuseppina Ghersi, bambina uccisa pochi giorni dopo la Liberazione.

Per chi vivesse in una lieta bolla e non avesse seguito: poco dopo la Liberazione, la famiglia Ghersi fu arrestata perché in odore di collaborazionismo. I genitori furono incarcerati, mentre la figlia Giuseppina, di 13 anni, fu ritrovata morta ammazzata nei pressi del cimitero.

Fin qui è una storia tragica nella propria banalità. Vendette e crimini di questo genere si sono verificati sempre e da sempre alla caduta di un regime, dopo una sconfitta o dopo una vittoria.

Come spessissimo accade in questi casi, il fatto è affogato nei sentito dire più fumosi.

L’hanno violentata i comunisti. Sono stati i partigiani (che notoriamente erano tutti comunisti). I genitori erano fascisti. La bambina era una spia. Insomma, tutta la gamma del caso, tutte cose perfettamente verosimili, nessuna delle quali è però stata verificata per davvero.

Questa è una storia tra i milioni di fattacci capitati in quegli anni.

Non c’è stata nessuna inchiesta recente sui fatti, nessuna scoperta particolare, quindi perché parlarne ora?

Perché a Giuseppina Ghersi sarà dedicato un monumento a Noli.

Il consigliere comunale, di aperte simpatie neofasciste, ha pensato bene di piazzarle un bel cippo in Piazza Rosselli (trolling much?).

Prima di entrare nel merito del dibattito (che come di consueto si è mantenuto sui livelli di “pallate di merda nel fango”), è importante capire perché c’è un dibattito per cominciate, e perché ci sarà sempre in queste occasioni.

Lo scopo dell’articolo non è tranciare su quanto sia una buona idea mettere il cippo, né su cosa davvero è accaduto in quei giorni di caos. Lo scopo di questo articolo è sviscerare una discussione idiota (ma avranno fatto bene o non avranno fatto bene a uccidere una bambina?) affinché sia possibile avere un punto di vista un minimo più articolato sul ruolo della Storia nella retorica contemporanea.

Al di là dell’ignoranza, l’ipocrisia e l’inettitudine retorica, la ragione principale per cui casi come questo scatenano discussioni da porcile intasato è l’incapacità della persona media di riconoscere l’importanza del contesto. Per la persona media, una faccenda simile è semplice: o è giusto mettere un cippo, o è sbagliato. O Giuseppina Ghersi merita un cippo, o non lo merita.

Purtroppo questo atteggiamento fa un pastone immondo, dacché confonde diversi fattori distinti.

Smontiamo quindi questo puzzle.

Immagine di propaganda menzognera: i gatti sanno sempre quel che stanno facendo, sono i vostri miseri cervellini umani che non riescono a capire

Tanto per cominciare abbiamo due piani paralleli: la realtà storica e la percezione attuale (perché ricordiamolo, le società non si rapportano mai alla realtà, ma al racconto della realtà, a un modello di realtà).

Nella realtà storica, l’elemento originale è un fenomeno (fatto, persona, ideologia, ecc.), nella percezione l’elemento originale è la narrativa dominante, il punto di vista, la presa di posizione. In altre parole, mentre un ricercatore è formato a distaccarsi e cercare elementi con cui costruire un quadro, la persona normale ha già un quadro e cerca nella Storia elementi che lo corroborino. Uno storico cerca di comprendere, la persona media cerca conferme.

Con questo non voglio intendere una superiorità intellettuale dello storico. Lo stesso problema lo ritroviamo in tutti i campi: il climatologo cerca di capire gli uragani, la persona media ha una sua idea sul Cambiamento Climatico e cerca articoli accessibili che le diano ragione. E così per molti altri campi: la ricerca richiede una certa sincerità d’intenti, la vita di tutti i giorni no.

La percezione può essere più o meno prossima alla realtà dei fatti, ma spesso la seconda è in larga parte accessoria.

Torniamo alla Storia.

Cominciamo dai fatti. Un bel giorno, da qualche parte, succede qualcosa. Nella fattispecie, una ragazzina viene trucidata. Tale fenomeno può (e dovrebbe) essere oggetto di studio storico il più preciso e oggettivo possibile, prima che ne sia tratta una qualsiasi conclusione (morale o meno).

Questo studio però avviene a sua volta in un momento storico, in cui individui sono alla costante ricerca di elementi che confermino la loro idea di mondo.

Capita spesso quindi che una ricerca che poteva essere oggettiva nel contesto accademico perda ogni oggettività nel contesto ideologico. E’ un problema, perché cambiando il contesto cambia completamente il fine del discorso.

Ad esempio, lo studio dei crimini partigiani può essere interessante per capire motivazioni, diamiche dei gruppi, meccanismi psicologici, ecc. Al di fuori di un contesto di ricerca, lo stesso studio è spesso usato nell’apologia del fascismo: siccome le carognate le facevano anche i partigiani, allora i fascisti non erano poi così cattivi (la falsa equivalenza è un grande evergreen di questo genere di manipolazioni).

Per certi versi è normale (oserei dire giustissimo) trarre dalla Storia i “mattoni” con cui costruire la propria visione di mondo. Il problema è che prima di poterlo fare con successo è necessario capire ciò che si maneggia, e la triste realtà è che di capire non frega un cazzo a nessuno.

Nella fattispecie, a Casa Pound non importa una virilissima mazza di cosa è successo a Giuseppina Ghersi o perché, il punto è che la sua morte conferma la narrativa de “i partigiani comunisti e cattivi che saccheggiavano l’Italia” con il corollario “la nostra ideologia è buona e giusta perché i veri cattivi erano loro”.

Casapound, parla Paolo il ragazzo pestato per un post ironico su ...

Parliamone!

La strumentalizzazione politica della Storia è costante e sfinente per chi cerca di fare un lavoro serio. Specie quando si tratta di Storia recente, la trappola retorica è sempre presente.

Ma torniamo ai monumenti et similia.

Perché, secondo voi, non esistono monumenti ai morti della Hitler-Jugend? Si tratta di ragazzini, e se andiamo a cercare al caso per caso possiamo trovare decine di esempi di disgraziati giovanissimi vittime della guerra tanto quanto Giuseppina Ghersi.

Eppure non facciamo loro monumenti.

Perché il messaggio retorico del monumento potrebbe facilmente essere usato per fare l’apologia del Nazismo.

Un monumento, una commemorazione, una targa, portano automaticamente con sé un messaggio propagandistico. “Propagandistico” non è inteso qui in accezione necessariamente negativa, bensì come discorso il cui scopo è modificare la percezione e quindi il comportamento del prossimo.

In parole povere, se il fenomeno storico ha un suo contesto, anche il discorso sulla Storia (e in particolare monumenti e commemorazioni) ce lo ha. Un monumento non è mai anodino, ha sempre una storia sua, una ragione e uno scopo, in gran parte indipendenti dall’evento o dalla persona a cui si ispira.

Questo perché un fenomeno è un fatto, mentre un monumento è un’azione, un fenomeno appartiene al mondo del reale mentre un monumento appartiene al mondo della retorica e delle idee.

Non è strettamente necessario che lo scopo di una commemorazione sia politico. In The Art of War i Sabaton celebrano le prodezze militari della Divisione Fantasma, così come l’eroismo polacco a Wizna, l’inutile spreco di vite a Gallipoli ecc. Nel contesto, è chiaro che lo scopo dell’album è parlare della Guerra in quanto tale, nel suo orrore e nel suo splendore, senza spingere un’agenda politica particolare. Ghost division è diventata una dei loro cavalli di battaglia e non è mai stata oggetto di grande controversia, nonostante parli di nazisti.

Qualcuno avrà seguito la diatriba sui monumenti confederati in America. Perché oggigiorno dovremmo preoccuparci di come Lee trattava i suoi schiavi (sempre che li avesse)? Alla fine sono statue di gente morta secoli fa.

Al di là di tutte le chiacchiere e le trombonate, la persona reale del Generale Lee conta fino a un certo punto, quella che pone problema è la storia delle statue stesse. Molte di queste non sono state costruite ai tempi della guerra o subito dopo, ma durante il periodo delle Jim Crow Laws e sorgere del KKK (1890-1920) e durante la lotta per i diritti civili (1960-70). In altre parole, questi monumenti non sono nati dal sincero e apolitico desiderio di ricordare un buon militare, ma dal dichiarato e politicissimo intento di intimidire una comunità e celebrare la superiorità dei Bianchi.

Nel comune di Vitry sur Seine (tradizionalmente bastione comunista) moltissimi toponimi celebrano l’URSS, tipo il Boulevard de Stalingrad (che poi muta in Boulevard Yuri Gagarin, LOL). Nonostante il successo che riscuote il fascismo di questi tempi in Francia, nessuno se n’è uscito con “Vitry deve cambiare i toponimi”, nonostante siano oggettivamente celebrativi di quella che è stata una delle dittature più longeve e opprimenti dell’ultimo secolo.

Il Boulevard di Stalingrad in tutto il suo splendore! Ammirate l’opera industriosa della mano emancipata del lavoratore Vitriota! 

Qual’è la differenza con le statue confederate?

Ci sono tante differenze, ma quella che a parer mio è discriminante è che, mentre in America esiste una vocale apologia del Suprematismo Bianco, in Francia nessuno sta facendo l’apologia dell’URSS! Nessun giornalista sta difendendo i lati positivi della politica di Andropov e nessun politico si sognerebbe mai di dire che Stalin non era poi tanto male. Pertanto ora e in questo contesto, toponimi simili si sono svuotati di significato per diventare folklore. Quando inizi a vedere le frecce per il Cremlino (giuro!) vuol dire che sei a Vitry. Se mai un giorno dovesse esserci un recupero dello Stalinismo e un movimento apologista, toponimi simili si ritroverebbero automaticamente al centro della polemica.

Un monumento continua infatti ad avere una vita, e può evolvere in significato negli anni e nei secoli. La Colonna Traiana è nata come simbolo del potere di Roma di schiacciare e sottomettere i propri nemici, una cosa non molto diversa dal soldatone sovietico che torreggia sopra la città di Plovdiv in Bulgaria. Oggigiorno la colonna rappresenta un reperto storico senza particolari slanci colonialisti. Quelli che guardano il bassorilievo e sghignazzano “aha, maledetti Daci!” sono certamente pochissimi. Svuotato del suo intento politico originale, la Colonna può essere apprezzata per il suo valore artistico, per l’apporto storico, ecc.

Nulla toglie che un domani qualcuno si appropri di questo monumento per farne il simbolo di qualcos’altro, come quando i fascisti si appropriarono del Fascio Littorio. Dopotutto è la ragione per cui in ricostituzione vichinga la gente spesso evita di usare svastiche (motivo molto diffuso in Scandinavia).

Ad esempio, Marte è ormai un chiaro simbolo fascista

Torniamo a Giuseppina Ghersi. Stabilito che un monumento ha sempre uno scopo retorico e propagandistico, che ne è di questo benedetto cippo?

Come detto prima, il contesto è tutto. Perché dedicare un cippo a lei e ora?

Perché il monumento di Giuseppina Ghersi è una provocazione. E’ stato ideato da gente con chiare simpatie fasciste in un momento in cui il reato di apologia del fascismo viene inasprito.

Lo scopo è raccontare la storia di una povera piccola martire del Partito, torturata e uccisa da briganti assetati di sangue. Puntando il dito ai crimini impuniti della Resistenza (che esistono) si offre sponda alla falsa equivalenza (anche i partigiani commettevano crimini come i repubblichini -> i partigiani non erano meglio dei repubblichini -> i repubblichini non erano poi tanto male).

Ovvio, storicamente ha poco senso recriminare in questi termini. Abbiamo esempi di partigiani impuniti e abbiamo esempi di gerarchi impuniti (*coff* Rodolfo Graziani *coff*). Si potrebbe avere un’educata discussione in proposito, ma di nuovo, non è lo scopo.

Questo gioco permette peraltro di indurre la sinistra a opporsi nel modo più idiota possibile (cosa che alla sinistra riesce spesso bene). Nulla da dire, ha funzionato, visto che la risposta è stata “niente cippo perché lei era fascista”.

Sul serio? Il problema è davvero che Giuseppina Ghersi era una bambina cattiva? Non ci sono prove verificate di ciò, come non ce ne sono della sua completa innocenza. Il punto resta: aveva tredici anni, era una bambina.

In realtà il problema non è lei, ma lo scopo del monumento succitato. Il problema non è ricordare una vittima, è offrire elementi a un discorso apologista che sta prendendo sempre più vela in Italia e in Europa.

Also, cats are like nazis, but that’s another story…

L’esempio del cippo a Giuseppina Ghersi mostra bene il conflitto che nasce dall’appropriazione della Storia, e l’incapacità intellettuale delle varie parti di avere una discussione intelligente a questo proposito.

La strumentalizzazione politica impedisce un dialogo sereno su certi temi, e la Storia sarà sempre usata in questo modo. La diatriba su monumenti, commemorazioni et similia non si cheterà mai. Non può chetarsi e per certi versi ciò è inevitabile. La Storia è una miniera troppo ghiotta di argomenti e analogie.

La democrazia implica una costante lotta di influenza sulla visione del mondo della maggioranza dei cittadini. La propaganda è principio e fine di ogni cosa, il gioco funziona in questa maniera e c’è poco da fare. Ha i suoi pregi e i suoi difetti o, per usare le parole di Churchill: Democracy is the worst form of government, except for all the others “.

Quanto a ‘sto benedetto cippo, sarà costruito e sta ora attirando consensi anche dalla sinistra. Potrebbe essere una strategia: appropriarsi del simbolo altrui per vuotarlo della sua carica retorica. Il punto resta che nessuno dei tizi coinvolti ha preso posizione perché sinceramente sconvolto dal brutale omicidio di una ragazzina, dacché di nuovo, Giuseppina è puramente accessoria in questa diatriba.

Quindi qual’è la morale alla fine di questo discorso?

Se quello che si vuole è una visione del mondo il più possibile ancorata alla realtà, partigianismo e opinioni facili su Giusto e Sbagliato sono da tirare nel bidone. Imparare a capire l’importanza del contesto è indispensabile, ed è l’unica cosa che può combattere la strumentalizzazione politica della Storia.

Far finta che qualcosa esista al di là del proprio contesto è ignorante e ipocrita. Se si vuole discutere serenamente di temi e fatti, è necessario imparare a tener conto di ciò ed elaborare opinioni un minimo più articolate di “sei Cattivo/sei Buono”.

Certo, se dipendesse da me il problema non sussisterebbe perché io non sono mai stata democratica.

VIVA IL RITORNO AL FEUDALESIMO REALE, VIVA L’IMPERATORE E IL CULTO DEI GATTINI!

MUSICA!

Paleografia casalinga: dall’800 con furore

Di recente ho dovuto abbandonare la Ville Lumière per dar manforte al resto del clan. La casa di famiglia deve essere ristrutturata e questo significa riordinare e far posto.

Ora, io non ho idea di come funzionino le cose nelle famiglie normali. Nel nostro caso abbiamo per le mani uno scatapeus gigante che non è stato pulito da almeno trent’anni, e in cui detriti di generazioni e generazioni si sono stratificati e pressati in un nuovo tipo di sedimento, la Scartoffite.

Non esagero quando dico che per lavorare nelle cave di scartoffite sono necessari guanti, tutta, mascherina e protezione per i capelli.

In capo a una settimana avevamo trovato animali morti, merda, larve rinsecchite, avanzi di cibo lasciati lì dall’VIII Armata Alleata, il vaso da camera di Garibaldi e un numero imprecisato di manuali di buona condotta per signorine ‘800.

In mezzo a tutto il letamaio però sono saltate fuori anche cose divertenti. Oggi parleremo quindi di paleografia casalinga!

I due esemplari che conto mostrarvi sono stati ritrovati in un mucchio di ricette scritte a mano da generazioni di madri di famiglia. Perché erano lì? Non ne ho la più pallida idea.

So però da dove arrivano: si tratta di carte appartenenti alla famiglia Frangialli, smollate ai Sacerdotti in tempo immemore perché “nostro figlio verrà forse a cercarle, vi dispiace mica tenerle per noi per qualche mese?”

Un secolo dopo, il signor Frangialli ancora non si è fatto vivo, e a questo punto spero davvero che non lo faccia (non mi piace quando gente di più di 115 anni viene a farmi visita!).

 

Il primo esemplare che vi propongo oggi è un’avvincente storia illustrata.

Trascriszione:

I

Master Tidi proves do be indisposed – Miss Bianca making particular observation upon the phenomena

 

I

Mastro Tidi è indisposto – La signora Bianca esegue pedisseque osservazioni del fenomeno

II

Malady proving to be of the most alarming sort,

Miss Bianca tries strong medicaments and efficient means.

 

II

Dacché la malattia si avvera essere quanto mai allarmante, la signora Bianca tenta forti medicine e metodi efficaci.

III

Which prove to have a very good effect.

 

III

La cosa ha effetti molto positivi.

IV and last

So now Miss Bianca is to be seen again on the Pincio bringing (?) Mr Tidi.

 

IV e ultimo

Sicché ora la signora Bianca può esser vista di nuovo sul Pincio portare a passeggio Mr. Tidi

 

Come si nota, il documento non è datato, ma l’abito della signora Bianca nell’ultimo riquadro presenta il taglio tipico della moda del primo decennio del ‘900. Non ci sono indizi che spingano a supporre, da parte dell’autore, la scelta deliberata di abbigliare la signora Bianca con abiti anacronistici. Quindi possiamo ipotizzare con relativa sicurezza che il documento è da collocarsi, indicativamente, tra il 1900 e il 1910.

Un altro indizio ci è dato dal nome dell’eroina in questa frizzante storia di iniziativa e inventiva: Bianca.

Il pezzo in analisi è stato infatti trovato insieme ad altre carte, una delle quali (analizzata poco più in basso) è una lettera datata 1879 e firmata Blanche Capelli, ovvero Bianca Capelli, sposa di Ugo Frangialli e conoscente della famiglia Sacerdotti.

E’ evidente che il luogo di ritrovamento non può essere considerato del tutto affidabile per l’identificazione e datazione del documento. Tuttavia, ci pare sufficiente per ipotizzare l’alta probabilità che la giovane autrice della lettera e la matura signora protagonista del racconto siano, invero, la stessa persona.

Ok, direte, è un buffo fumetto su una tizia che svermina il cane. Strana cosa da ficcare in mezzo a ricette o libri di cucina, ma poco più che una bizzarra curiosità.

E’ vero.

Ma colgo questa occasione per introdurvi ad un esercizio accademico di grande importanza, un esercizio che chiunque voglia buttarsi nelle Scienze Sociali deve saper eseguire: la supercazzola universitaria (livello: Dottorato).

Cominciamo!

Venendo al contenuto della storia e all’interpretazione del testo in quanto tale, vediamo la signora Bianca riconoscere nel deretano del proprio cagnolino chiari sintomi di infestazione da parassiti. Con sicurezza e spirito pratico, la signora somministra un robusto clistere alla bestiola, che, nel riquadro III, caga un pitone di 8 metri.

Da un punto di vista figurativo, il valore artistico dell’opera ci pare indiscutibile. Notate con quale sicurezza e maestria l’artista ha ritratto la sofferenza della bestia, nelle fauci aperte e nelle zanne digrignate, o nel collo arcuato durante l’espulsione dell’anaconda nel terzo riquadro.

Il cappellino a punta è chiaramente ispirato al copricapo dei dottori della Peste del 1629-1630. In questo contesto è un palese simbolo di malattia e sofferenza, ma anche di ridicolo e oscurantismo reazionario. Mostra quanto sia paradossale e sciocco cercare la soluzione al male in una millantata tradizione radicata in un fumoso passato falsamente glorificato.

La signora Bianca, d’altro canto, viene ritratta con attributi scientifici (la lente, il clistere), all’epoca sicuramente associati con la professione maschile del ricercatore e del medico. Spoglia di ornamenti e ninnoli femminili, la signora impugna gli attrezzi e agisce con piglio e prontezza, incurante di convenzioni e stigma sociale. Nell’ultimo riquadro la vediamo torreggiare al centro della scena, trionfante e sicura.

Questa breve novella è chiaramente una rappresentazione simbolica dell’emancipazione femminile, allora sul nascere (la prima Giornata Internazionale della Donna fu tenuta in alcuni paesi europei nel 1911, due anni dopo il lancio del Women’s day negli USA). Non è un caso che il cane si chiami MASTER Tidi. Tidi rappresenta la società dominata dagli uomini!

La Donna, la signora Bianca, constata con acutezza come la società patriarcale sia sofferente e tormentata dai parassiti, rappresentazione lapalissiana degli stereotipi e della violenza che la cultura maschilista infligge alle donne e, di conseguenza, a sé stessa.

Spogliandosi dei propri ammennicoli e vezzi, la Donna interviene e infligge una cura traumatica ma necessaria alla Società. La signora Bianca non ha timore di essere giudicata o di ricevere una spruzzata di diarrea nel viso. Sa cosa c’è da fare e non esita. Il suo coraggio purifica la Società dall’infame serpente velenoso dell’autorità patriarcale, che striscia via, sconfitto.

Nell’ultima scena il cane ha perso il ridicolo cappellino e ora cammina felice. La signora Bianca può rivestirsi degli abiti vezzosi, non è più costretta a rinnegare la propria femminilità per difendere la propria indipendenza, bensì è libera di affermarsi ed essere riconosciuta.

Trionfante sugli infidi parassiti del Pregiudizio e dell’Oppressione Borghese, la Donna marcia verso un futuro radioso di eguaglianza, giustizia e libertà!

Il cane appare piccolo in questa illustrazione, e ciò simboleggia l’insicurezza maschile di vedersi sminuire dall’emancipazione femminile. Mostra il timore di certi uomini di essere offuscati, discriminati, in pratica di subire ciò che le donne hanno subito per secoli.

Ma l’artista sfata questa sciocca paura: come qualsiasi osservatore attento può notare, il cane non cammina sullo stesso piano della signora Bianca. Mr Tidi non è rimpicciolito, ma appare più piccolo dacché è più lontano! Legati insieme, la signora Bianca e il suo amato cagnolino, avanzano su percorsi paralleli e compagni, senza che nessuno dei due adombri l’altro.

Questo è un chiaro grido di denuncia e solidarietà tra i sessi, un’affermazione di progresso ed emancipazione!

Sembra che stia coccolando il gatto, in realtà sta ricevendo istruzioni dai Missi Dominici dell’Imperatore Interplanetario Kittoh de Destroyah (sì, l’Universo è dominato dai gattini, SVEGLIA!)

Il secondo documento che voglio proporvi non ha la carica sovversiva e moderna del primo, ma può aiutare alcuni dei miei lettori a rimettere certi dispiaceri nella giusta prospettiva.

Sono sicura che a molti di voi sarà capitato di ritrovarsi nella tanto temuta friendzone. E’ di certo una situazione dolorosa.

Tuttavia c’è di peggio, come la vispa penna della signorina Blanche sta per mostrarci.

Trascrizione

San Pellegrino, 1er Septembre 1879

Monsieur!

Un évènement imprévu vient changer le cours des affaires que nous étions en train de traiter avec vous! Aussi ne vous étonnez pas si au lieu d’être maman qui est intermédiaire entre vous et moi c’est moi qui le devient entre elle et vous.

Oui, monsieur, il faut que je vous l’avoue ; les efforts que vous avez faits pour blesser [?] mon cœur, ont eu un résultat inattendu ! Mon cœur froid et insensible ne s’est pas laissé toucher ; –

celui si tendre de ma mère a malheureusement subi l’influence à laquelle le mien a su résister et ce [adjective ?] cœur s’est éperdument épris de vous !

Le mot est lâché, et je n’ai maintenant autre chose à faire, que de vous prier de [verbe?] auprès de celle qui désormais ne vit plus que pour vous.

Oui, Monsieur! – Ses yeux ne voient qu’une image – c’est la vôtre – Ses lèvres n’ont qu’un soupir, c’est votre nom –

Son cœur n’a qu’un désir – c’est vous-même !

Hâtez-vous donc de venir consoler par votre présence ce cœur si profondément blessé d’amour pour vous ! –

Yeux bruns vous attendent, voulez-vous y jeter !

Croyez-moi avec la plus haute estime votre bien dévouée

Blanche Capelli

à Mr. E. C. M.

 

Italiano

San Pellegrino, 1 Settembre 1879

Signore!

Un evento imprevisto ha cambiato il corso degli affari che stavamo intrattenendo con voi! Peraltro, non stupitevi se invece di essere la mamma a far da intermediaria tra voi e me, sono io a diventar l’intermediaria tra lei e voi.

Sì, signore, devo confessarvelo: gli sforzi che avete fatto per ferire [? il verbo non quadra nel contesto, si tratta senza dubbio di un altro verbo avente come senso di “conquistare” o qualcosa del genere] il mio cuore hanno avuto un risultato inatteso! Il mio cuore freddo e insensibile non si è lasciato sfiorare… quello sì tenero di mia madre ha sfortunatamente subito l’influenza alla quale il mio ha saputo resistere. [Leggevo questo a tavola con la famiglia, a ‘sto punto è esploso lo stadio NdTenger] e questo [aggettivo?] cuore si è perdutamente innamorato di voi!

La parola è lanciata, non mi resta che una cosa da fare, ed è pregarvi di [Boh?! Andare?] presso colei che ormai non vive che per voi.

Sì, signore!  I suoi occhi non vedono che un’immagine – la vostra. Le sue labbra non hanno che un sospiro, è il vostro nome.

Il suo cuore non ha che un desiderio – siete voi stesso!

Sbrigatevi allora e venite a consolare questo cuore che soffre profondamente d’amore per voi!

Occhi bruni vi attendono, vogliate immergervici!

Vogliate credere nella mia più alta stima, vostra devotissima

Blanche Capelli,

al Sg. E. C. M.

Se avesse aggiunto dimenticato “posso chiamarti ‘papà?'” sarebbe stato un pelino troppo esagerato. Invece no, questa lettera è perfetta!

Si tratta chiaramente di una brutta copia (notare le correzioni e le parti aggiunte) di una lettera. Il testo suggerisce che lo sfortunato signor E. C. M. stesse spasimando per i begli occhi della signorina Capelli (e che la mamma di costei fosse vedova).

Non so come sia finita questa romantica storia d’amore. E’ molto probabile che il signor E. C. M. (abilmente ritratto a piè di pagina) si sia dato latitante, ma a noi piace credere che la storia d’amore abbia avuto un lieto fine per la signora Capelli Madre!

Certo è che la strategia della vispa signorina è originale e creativa. Perché ricorrere a un ti vedo più come un amico quando puoi optare per un io non sono innamorata, ma mia madre è cotta stracotta di te!

Potreste pensare “ah, ma lo posso fare solo se mamma è vedova o divorziata”. Beh, no. Siamo nel 2017, svegliatevi! Potreste alludere al fatto che i vostri sono una coppia aperta super-moderna! Un minimo di fantasia, approfittate delle conquiste!

Mia personalissima idea (non basata su niente in particolare): la mamma della signorina Capelli aveva pescato il signor E. C. M. come Genero Ideale e stava facendo pressione sulla figlia… che non voleva saperne. La signorina Bianca ha dunque deciso “se ti garba tanto, sposatelo te!”. La lettera potrebbe essere interpretata come “non mi garbi, sei ancora sul radar solo perché piaci tanto alla mamma”.

In ogni caso: OUCH!

Credi che la friendzone sia un problema? Benvenuto nella MOTHERZONE!

Un’ultima nota: noterete che il disegno presenta alcune similitudini stilistiche col rivoluzionario racconto illustrato analizzato più in alto. E’ possibile che il primo documento non sia la mano di un amico della signora Bianca, quanto un’opera realizzata da lei stessa. In questo caso la storia assumerebbe un carattere ancora più potente e autobiografico!

E’ possibile. Dopotutto la signora era in buoni termini con i Sacerdotti (durante il Fascismo Maria Sacerdotti fu feroce emancipazionista e presiedette la sezione fiorentina della Federazione Italiana Laureate e Diplomate degli Istituti Superiori) e con le suffragette Ada e Beatrice Sacchi (di famiglia mazziniana e fieramente progressista).

Tutto torna quindi, il valore simbolico del primo documento è confermato!

La morale della favola è: prima di buttare via blocchi di Scartoffite, dateci un occhio. Potreste trovarci piccole perle di surrealismo fossile!

E ora una canzone a tema!

MUSICA!


Per chi volesse saperne di più sulle signor Sacchi e Sacerdotti.

Legnate a Ligny, 16 giugno 1815

E’ passato parecchio tempo dall’ultima volta che ho postato qualcosa. Un sacco di cose sono capitate. Tra le tante, mi sono laureata  e ora sto navigando in un mare di guai peggio di prima. Perché? Perché le grane arrivano sempre in grappoli.

Ciò detto, c’era un post che ci tenevo tantissimo a scrivere e che metto insieme ora. In ritardo. Pazienza.

Non so se ve ne siete accorti, ma è il 2015!

Il che vuol dire, il BICENTENARIO DI WATERLOO!

E nonostante tesi, esami e psicodrammi, sono riuscita a fare un salto in Belgio, perché il giorno che mi lascio sfuggire un evento simile è il giorno in cui ho perso la voglia di vivere e qualcuno dovrà avere la cortesia di spararmi in testa.

Tutta la faccenda ha grondato epicità da MESI prima. Quando i belgi hanno deciso di coniare un 2 euro commemorativo e i francesi si sono messi nel mezzo per nazionalismo stantio (uno pensa che dopo 2 secoli abbiano metabolizzato il lutto, ma no, never forget never forgive!). Quando i belgi hanno deciso per ripicca di fare una moneta da 2,5 euro lo stesso e l’hanno venduta come il pane. Il fatto che 200.000 persone sono andate a vedere la grande rievocazione il fatto che 6.000 uomini erano sul campo.

I discendenti di (da sinistra) Wellington, Napoleone e Blücher si stringono la mano sul campo di Waterloo

Insomma, una commemorazione col botto con tanto di rievocazione generale della battaglia. Che non ho potuto apprezzare in pieno perché avevo il biglietto VPP (Very Poor Person) e ci avevano schiaffati dietro una collina. I bivacchi però erano bellissimi, e quel poco che ho visto delle manovre era eseguito alla perfezione. Il che non è una sorpresa. Le truppe napoleoniche sono tra la gente più competente, entusiasta e preparata che abbia mai incontrato.

I due accampamenti, quello alleato e quello francese, erano impeccabili. Durante tutto il giorno prima dello spettacolo, a turno, i vari gruppi hanno manovrato e preparato la battaglia. Ho ancora nelle orecchie i berci di un sergente inglese, “What are you doing, you filthy maggots?! You’re the disgrace of the Empire!”

In questi posti si incontra un sacco di gente magnifica (anche dei pratesi, ma hey, nessuno è perfetto). Dal cerusico che spiega simpatiche tecniche di amputazione, al sosia del Principe Charles che spara con un’arma d’epoca.

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Pezzo d’epoca. Mille grazie al signor Browning, padrone dell’arma.

La battaglia di Waterloo è stata la battaglia più importante del secolo e di certo una delle più importanti della Storia occidentale. E’ stata lunga, ed è stata feroce. Tutti la conoscono e sulla rete si trovano un sacco di ottimi articoli a riguardo. Scrivere qualcosa su Waterloo era divertente, ma non molto utile, data la mole di informazione già presente, anche in italiano. E poi sarebbe mainstream.

Oggi parleremo di Ligny, la prima grande battaglia dei Cento Giorni.

Il contesto è noto. Il 26 febbraio 1815, scappato dall’Elba, Napoleone aveva fatto un ritorno trionfale in Francia, dove l’esercito lo aveva acclamato e rimesso a capo del Paese mollando senza remore il novello Luigi XVIII. Avendo i militari dalla sua parte e molti simpatizzanti in Belgio, Napoleone sperava di galvanizzare i suoi sostenitori con una vittoria eclatante. Non solo: una vittoria rapida e significativa avrebbe anche minato l’unità dei nemici. La Settima Coalizione, l’alleanza di praticamente tutti gli stati europei salvo Napoli, era giovane e poco coordinata. Il progetto di Napoleone non era impossibile, anche se uno si chiede quale futuro potesse avere sul lungo periodo (si incoraggiano romanzi ucronici sul soggetto).

Verso la fine di maggio 1815, la squadra napoleonica contava ufficialmente 284.000 uomini supportati da un esercito ausiliario di 222.000. In realtà, secondo Füller, molti di costoro erano poco più che firme su un registro. Tolte altre armate secondarie (Reno, Loira, Alpi e Pirenei), l’Armata del Nord, sotto il controllo diretto di Napoleone, contava circa 124.000 soldati.

La squadra napoleonica:

Cinque corpi di fanteria (quasi 90.000 uomini):

  • Primo Corpo d’Armata, sotto d’Erlon;
  • Secondo Corpo d’Armata, sotto Reille;
  • Terzo Corpo d’Armata, sotto Vandamme;
  • Quarto Corpo d’Armata, sotto Gérard;
  • Sesto Corpo d’Armata, sotto Lobau.

La Guardia Imperiali:

  • La Vecchia Guardia (o grenadiers), sotto Friant;
  • La Media Guardia (chasseurs), sotto Morand;
  • La Giovane Guardia (voltigeurs), sotto Duhesme.

Insieme alla Cavalleria della Guardia di Guyot e Lefebvre-Desnouettes, i tizi montati contavano 20.884 effettivi tra ufficiali e cavalieri.

C’era una Cavalleria di Riserva, sotto Grouchy, che contava 14.784 effettivi ripartiti in 4 divisioni sotto il comando di Pajol, Exelmans, Kellermann e Milhaud.

Aggiungete 11.578 artiglieri con 344 pezzi.

La squadra della Settima Coalizione contava 5 eserciti:

  • L’esercito Anglo-olandese sotto Wellington (93.000 uomini), in Belgio;
  • L’esercito Prussiano sotto Blücher, o Bliuscér, come dicono i mangiarane (117.000 uomini) pure in Belgio;
  • L’esercito Austriaco sotto Schwarzenberg (210.000 uomini), sul Reno superiore;
  • L’esercito Russo sotto Barclay de Tolly (150.000 uomini), nel Reno medio;
  • L’esercito Austro-italiano sotto Frimont (75.000 uomini), nel nord-Italia.

Wellington, Blücher e Schwarzenberg dovevano convergere su Parigi e schiacciare Napoleone col numero, mentre Barclay sarebbe accorso nel caso uno dei tre dovesse prendere una musata. Firmont doveva invece marciare su Lione. La frontiera francese doveva essere attraversata dei 5 eserciti tra il 27 di Giugno e il primo di Luglio.

La squadra prussiana:

  • Primo Corpo d’Armata sotto von Zieten, stazionato a Charleroi;
  • Secondo Corpo d’Armata sotto von Pirch, stazionato a Namur;
  • Terzo Corpo d’Armata sotto von Thielemann, stazionali a Huy;
  • Quarto Corpo d’Armata sotto von Bülow, stazionati a Liège.

003

La zona delle operazioni

Il Korp prussiano era strutturato con 4 brigate di fanteria, appoggiate dalla cavalleria e l’artiglierai di riserva, il che ne faceva corpi dotati di una notevole indipendenza.

Gebhard Leberecht von Blücher

In tutto, secondo Füller, Blücher disponeva di 99.715 fanti, 11.879 cavalieri, 9.360 artiglieri e 312 pezzi d’artiglieria.

Il grosso delle truppe prussiane erano composte da Landwehr, miliziani mal equipaggiati, spesso arruolati da provincie di recente acquisizione, parte delle quali erano state provincie francesi, il che creava notevoli tensioni.

Peraltro, Bliuscér e i suoi avevano un sacco di problemi di logistica (rifornimenti di cibo, munizioni, etc.) che Wellington non aveva. Il Duca di Ferro aveva oro con cui procurarsi il necessario, i prussiani dipendevano principalmente da requisizioni locali. Una delle regioni per cui Blücher aveva un pepe nel deretano sull’inizio delle ostilità era esattamente questa: avrebbero preso al nemico quello che non potevano prendere alle Low Countries.
Napoleone era cosciente di tutto ciò. Il primo di giugno decise di prendere l’iniziativa e incastrarsi tra Wellington e Blücher. Se fosse riuscito a ottenere una vittoria significativa, avrebbe potuto assorbire i belgi pro-Francia e poi, raggiunta l’Armata del Reno in Alsazia, avrebbe potuto saltare addosso agli Austriaci e ai Russi.

Arthur Wellesley duca di Wellington… OR IS HE?

Nell’immediato, l’obbiettivo di Napoleone era Bruxelles, con Quatre-Bras e Sombreffe come punti chiave dell’avanzata. Il 14 di giugno, insieme a Ney, si accampò in Beaumont. Salvo il Quarto Corpo d’Armata, la concentrazione francese era pressoché perfetta.

Per quanto decine di migliaia di uomini in movimento possano essere qualcosa di vistoso, gli alleati non si accorsero di nulla fino all’ultimo. Difatti fu solo alla sera del 14 che la gente di Blücher a Sambre notò tutti i bivacchi e dette l’allarme. Verso mezzanotte i prussiani si misero in movimento.
A Bruxelles, Wellington era convinto per contro che Napoleone avrebbe attaccato Mons, e pianificava di concentrare i suoi a Nivelles per potersi tenere in contatto coi prussiani via la strada di Quatre-Bras per Namur. Blücher per contro aveva ispezionato la zona di Fleurus, Ligny e St. Amand e trovato che il posto si prestava a un eventuale incornata coi francesi. Aveva quindi deciso di spostare la sua base a Sombreffe.

Napoleone Bonaparte

Frattanto, in piena notte, Zieten si rese conto che un attacco su Charleroi era imminente. Alle 4h30 di mattina mandò una lettera a Blücher per informarlo che si sarebbe ritirato via Fleurus, e una a Wellington per avvertirlo della situazione.

La mattina del 15 i francesi occuparono Charleroi. Napoleone diede a Ney il comando del Primo e Secondo Corpo, più la cavalleria di Lefebvre-Desnouettes: gli ordinò di ricacciare il nemico dalla strada tra Bruxelles e Cherleroi e occupare Quatre-Bras. Il Terzo e Quarto Corpo, come anche la divisione di cavalleria di Pajol ed Exelman, furono affidati a Grouchy, che fu spedito contro Sombreffe. Per Napoleone era vitale impedire a Wellington di correre in soccorso di Blücher.

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L’inizio delle danze

Intanto, Zieten occupò un crinale presso Ligny, piazzò l’ala destra a Wangelée, il centro a St. Amand e l’ala sinistra a Ligny. I due villaggi vicini di St. Amand le Hameau e St. Amand la Haie furono occupati. Nel pomeriggio Zieten, fu raggiunto dal Secondo Corpo d’Armata sotto Pirch, che si piazzò subito dietro gli uomini di Zieten, poi dal Terzo, sotto Thielemann, che si piazzò sulla sinistra, tra tra Sombreffe e Mazy. Avrebbero dovuto essere raggiunti anche dal Quarto du Bülow, che però era in ritardo.

Napoleone dal canto suo era sicuro che, dopo le prime schermaglie, gli alleati si sarebbero ritirati per consolidare le loro fila, e dette per scontato che Wellington fosse a Bruxelles. Decise di avanzare contro di lui e affrontarlo o ributtarlo verso Anversa (ovvero lontano da Blücher che, secondo le sue informazioni, era basato a Liège). Prima però doveva scalzare Zieten per poter bloccare la via Namur-Wavre-Bruxelles.

Alle 6 di mattina del 16, Napoleone dettò 2 lettere.

Caro Grouchy, se trovi dei Prussiani a Sombreffe e Gembloux, attaccali. Dopo l’ovvia vittoria, occupa Gembloux, passa le tue riserve a Ney e preparati a fare i conti con Wellington.”

Grouchy doveva prendere con sé il III e IV Corpo di fanteria, più la Cavalleria di riserva sotto gli ordini di Milhaud, Pajol e Exelmans. Napoleone lo avrebbe seguito con la Guardia e avrebbe stabilito la sua nuova base a Fleurus.

Caro Ney, non appena Grouchy ti passerà le riserve, ce ne andremo tutti Bruxelles. Nel frattempo piazza una divisione a nord di Quatre-Bras, sei in Quatre-Bras, e mandane una a Marbais per agganciarti all’ala sinistra di Grouchy. La cavalleria di Lefebvre-Desounettes sarà rimpiazzata da quella di Kellermann.
P.S. Siccome so che sei zuccone, te lo sottolineo: voglio dividere il mio esercito in due ali e una riserva. La riserva sarà costituita dalla Guardia, sotto il mio comando, per appoggiare le ali in caso di bisogno.”

Ney aveva con sé il I e II Corpo, più due divisioni di cavalleria. Quanto alla cavalleria leggera della Guardia, che aveva operato nell’ala sinistra sotto Ney, doveva tornare con Napoleone nella Riserva.

Gli ordini erano impartiti, Napoleone era pronto ad attaccare!

Pour l’Empire!

Da sottolineare che Napoleone stimava i prussiani a circa 40.000 uomini, ovvero in disarmante svantaggio numerico rispetto ai francesi. Ora, erano molti più di quanto i mangiarane si aspettassero.

Blücher aveva intanto avuto notizia che gli inglesi e soci si sarebbero riuniti a Nivelles e avrebbero inviato truppe a tenere Quatre-Bras. Pirch e il suo II Korps erano arrivati in buon ordine tra Mazy e Onoz. Il III Corpo di Thielemann raggiunse Namur con discreto ritardo. Blücher ordinò a Pirch di marciare su Sombreffe e a Thielemann di spostarsi a Point du jour, un incrocio a nord del villaggio di Tongrinne.

Wellington e i suoi arrivarono a Quatre-Bras verso le 10 di mattina. Verso le 13 Blücher li incontrò sulle colline di Brye, dove tutto lo staff si lanciò in un’animata discussione strategica in francese. Discussione a cui Blücher non partecipò perché disprezzava il francese (no, davvero). Nonostante il Blücher disapprovante appollaiato in un angolo, Gneisnau, il capo dello staff prussiano, propose che gli Alleati marciassero sulla strada di Namur per affrontare l’ala sinistra francese. Wellington accettò l’idea, sempre che le condizioni fossero favorevoli (anche se sappiamo che il miglior modo di vincere una guerra è shout, shout and shout again! cit.)

Intanto Napoleone era arrivato a Fleurus verso mezzogiorno. Era il momento di preparare un attacco su Sombreffe. Vandamme e Gérard dovevano operare nell’ala destra di Grouchy. La Guardia Imperiale doveva muoversi a Fleurus, salvo la cavalleria leggera, che era ancora con Ney a Frasnes. Quanto a Lobau, a capo del VI Corpo, gli fu ordinato di piazzarsi a metà strada tra Fleurus e Cherleroi per mantenere il controllo di quest’ultima. Era una faccenda importante: a Charleroi c’erano gli ospedali. E Napoleone prevedeva di far tanta carne di salsiccia, quel pomeriggio.

Alle 11 di mattina, Vandamme faceva faccia a St. Amand, ovvero il versante occidentale della cresta presa da Zieten, e Gérard era… da qualche parte indietro, in ritardo per via dei pasticci dello staff. 

Dopo aver incastrato Thielemann con la cavalleria di Pajol e Exelmans, Napoleone contava di far fuori il centro e la sinistra, ovvero Zieten e Pirch. Per far questo, intendeva attaccare per costringere Blücher a usare le riserve, mentre da Quatre-Bras Ney poteva arrivare contro l’ala destra e con la Guardia tagliare attraverso il centro. Questo avrebbe costretto i prussiani a ritirarsi su Liège: lontani da Wellington.

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Il campo di battaglia verso le 14h30

Alle 14h30 la cavalleria di Grouchy attaccò Thielemann, Vandammese la prese con St. Amand, mentre Gérard attaccava Ligny. I tre si ritrovarono davanti a una resistenza ferocissima.

I francesi cominciarono il loro attacco anche su Quatre-Bras. Schiacciati dal numero, gli alleati furono spianati. Il Principe d’Orange, in controllo a Quatre-Bras, fu quasi catturato, e la situazione fu salvata in extremis dall’arrivo di Wellington, verso le 15h.

A St. Amand l’assalto fu brutale come poteva esserlo un assalto dell’epoca. Prime file decimate dall’artiglieria nemica, mentre quelli dietro avanzano spalla a spalla scavalcando i caduti, sordi dai botti e ciechi dal fumo. Un moschetto non è un’arma facile. Carica un po’ troppo lo scodellino e hai regalato al tuo vicino di fila una bella depilazione facciale con possibile tatuaggio da polvere nera. E dopo l’avanzata, la carica alla baionetta, secondo l’antico concetto del tritacarne: prima o poi seppellirai il nemico sotto i tuoi cadaveri (tattica che mantenne un certo favore per lunghi, lunghi anni a venire).

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  Le tre fasi di sparo: Ready, aim, YOUR WIFE IS A BIG HIPPO! (A chi coglie la citazione, un casto bacio accademico)

St. Amand era un nido di prussiani, sparavano da tutte le parti. Porte, finestre, strade. Entrare nel villaggio dev’essere stato come cacciare la faccia in un nido di calabroni. Spinti dal numero, i francesi riuscirono a procedere tra le case, solo per finire sotto una pioggia di cannonate dalle batterie piazzate sui crinali. Palle di cannone piovevano come coriandoli a carnevale, le case presero fuoco. Finalmente i francesi, pesti ma non sconfitti, arrivarono al ruscello che scorreva a nord del villaggio, dov’erano schermati in qualche modo dal doppio filare di salici.

Allo stesso tempo il barone Girard avanzava coi suoi su St. Amand le Hameau e St. Amand la Haie. In buon ordine, i francesi marciarono attraverso i campi di segale e si fecero puntualmente crivellare dall’artiglieria prussiana. Davanti al macello, Girard decise di modificare la tattica, invece di “avanza lentamente sul nemico”, optò per “avanza velocemente sul nemico”. Funzionò, sempre secondo la logica del tritacarne: schiacciati sotto il macinato francese, i prussiani dovettero ritirarsi.

St. Amand le Hameau non era occupato e i francesi lo attraversarono in un attimo, solo per rompersi le corna su St. Amand la Haie che, quello, era tenuto dai prussiani. Questi misero su una resistenza agguerrita, ma dovettero ripiegare schiacciati dal numero.

Gérard e il IV Corpo se la stavano prendendo con Ligny. I francesi arrivarono presto nel raggio delle batterie prussiane, installate a sud-ovest del villaggio. Sotto la grandine di piombo, i francesi avanzavano senza rompere la formazione. Una vera macina da eroi. Nonostante le perdite, arrivarono fino al fiume che divide in due Ligny. Spinti sull’altra sponda, i prussiani ripresero piede, e farcirono le truppe francesi di tante pallottole che perfino i napoleonici dovettero convenire “sacrebleu, ce ne stanno ammazzando troppi” e prendere riparo dietro gli edifici per poi essere ributtati fuori dal villaggio.

I francesi si riorganizzarono.

E’ andata malissimo.”

Vero, ma ci dev’essere un modo di stanare i mangiacrauti!”

Ho un’idea! Rifacciamo esattamente come    prima!”

Geniale, dai, vive l’Empereur!”

Incredibile ma vero, anche il secondo attacco si concluse con uno smacco colossale. Ma faceva tutto parte della strategia: per diminuire la quantità di munizioni del tuo nemico, fai in modo che questi ne incastri il più possibile nel corpo dei tuoi soldati.

Col fuoco prussiano diminuito, 100 volontari francesi, coperti dalla loro artiglieria, s’infilarono di nuovo nell’inferno di Ligny e riuscirono a sbucare nella piazza della chiesa, il nocciolo duro della resistenza prussiana. Ne seguì una mischia infernale con baionettate nelle costole, fucilate a bruciapelo, moschetti mulinati come mazzapicchi, calci, pugni e morsi. Nel fumo e nell’afa, i due schieramenti si finirono a coltellate in faccia finché i prussiani non si ritirarono. La piazza della chiesa era presa.

So già che quest’articolo sarà uno dei più visualizzati!

Mancava il castellotto nella parte sud-ovest del villaggio. Quello era una faccenda antipatica. Era una fortezza, con tanto di fossato e ponte. I francesi provarono a entrare dalla porta, un’idea così stupida che nessuno sarà sorpreso dal sapere che si rivelò efficace come bloccare il trinciatutto ficcando un braccio tra le lame. Davanti a quest’incredibile smacco, i francesi si risolsero a bombardare tutto (che è molto meno cavalleresco, parbleu!). Il castello divenne di botto un posto molto sgradevole dove stare.

Intanto Napoleone aveva assistito alla macelleria di St. Amand e dintorni e si era reso conto che, oibò, forse i prussiani sono un po’ più numerosi e più tosti di quanto avessi pensato.

15h15, Napoleone ordinò a Ney di avanzare su Brye e St. Amand aggirare la destra di Zieten e prendere l’ala destra prussiana da dietro. Alle 15h45, impaziente di eseguire la manovra, mandò un messaggio a d’Erlon, che doveva raggiungere Ney a Frasnes e Quatre-Bras con il I Corpo. L’ordine era di precipitarsi invece sulle alture di St. Amand con 4 divisioni di fanteria, la cavalleria e l’artiglieria.

Intanto, in Ligny i francesi erano riusciti a prendere e tenere la parte del villaggio che stava sulla riva destra del fiume. I prussiani però tenevano i ponti grazie ai rinforzi inviati da Zieten. Non solo: riuscirono a scacciare i francesi d’intorno al castello, ormai in fiamme. A questo giro però i ruoli erano rovesciati, e i prussiani dovettero avanzare per le stradine difese dalle truppe napoleoniche. Gli uomini di Zieten riuscirono a riprendersi la piazza della chiesa, ma a un prezzo umano notevole.

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Preparativi

I francesi si riorganizzarono e contrattaccarono. Altra montagna di morti. Riuscirono a riprendere la piazza e misero quasi le mani sugli emblemi prussiani. Quasi. I prussiani si ritirarono di nuovo. Questo andirivieni continuò per ore, mentre gli incendi si diffondevano attraverso il villaggio.

Intanto a St.Amand i prussiani erano riusciti a riprendere il borgo, solo per farsi ributtare indietro da Vandamme e i suoi. I prussiani mandarono un rapido messaggio a Zieten, “bada che con questo giochino ci siamo finiti anche l’ultima riserva, manda qualcuno o siamo del gatto”.

Intanto i cannoni di Vandamme avevano finalmente trovato la giusta angolazione e stavano rendendo la pariglia ai prussiani arroccati sulle alture di Brye. La situazione si faceva pericolosa: perdere St. Amand voleva dire mettere in pericolo le vie di comunicazione con Wellington, e non era un’opzione. Blücher spedì in fretta e furia una brigata del I Corpo in sostegno.

Con questo nuovo aiuto, i prussiani si ripresero St. Amand la Haie, ma non avevano fatto i conti coi francesi, che si erano asserragliati in una fattoria cinta da muri e piazzata in una posizione tale che non lasciava ai nemici le spazio per schierarsi a dovere. Da dietro le mura, i mangiarane si diedero al tiro al prussiano. Al secondo assalto i nemici riuscirono a scompigliare le difese francesi. Girard arrivò a spron battuto per riorganizzare i suoi uomini e dar loro animo, ma fu crivellato di colpi con tutto il cavallo.

Vista la situazione, i prussiani decisero di fare il giro. Tagliarono attraverso il bosco che si trovava tra St. Amand la Haie e St. Amand, dispersero i francesi che tenevano la posizione e arrivarono dritti alle spalle dei francesi che tenevano St.Amand la Haie. Sentendo puzza di trappola per topi, i mangiarane si ritirarono alla svelta su St. Amand le Hameau.

Napoleone, avendo osservato questo tira e molla del massacro, decise di mandare a chiamare Lobau e dirgli di spostarsi a Fleurus. Lobau era l’ultima riserva: chiamarlo a Fleurus significava rinunciare a un eventuale soccorso di Ney a Quatre-Bras. E ricordiamo che Ney aveva già dovuto rinunciare al I Corpo, diretto a Brye e St. Amand. Il I Corpo era sotto d’Erlon, ed era in drammatico ritardo.

bivacco

 

Bivacco di Ligny (Foto di Michel Langrenez) 

A la Haie, i prussiani erano stufi tanto quanto i francesi. 9 battaglioni più artiglieria avanzarono attraverso Wagnelée per poter attaccare il fianco sinistro francese. Purtroppo per loro il terreno non permise un’avanzata uniforme e un attacco coordinato, il che dette tempo ai francesi di reagire. La carica francese gettò i prussiani nel panico e fu tanto se riuscirono a tenersi Wagnelée. Blücher spedì rinforzi là e a Ligny pescando dal II Corpo.

Verso le 18h, truppe del II Corpo prussiano tenevano Wagnelée. Altre, del III Corpo, erano piazzate tra Wangelée e i due villaggi di St. Amand la Haie e St. Amand le Hameau. La Haie era tenuto dal I Corpo prussiano, mentre i francesi tenevano le Hameau e St. Amand. Quanto a Ligny, i francesi tenevano la parte sulla sponda destra, i prussiani quella sulla sponda sinistra, e si stavano finendo gli uni con gli altri.

Contando che verso le 18h avrebbero sentito i moschetti di d’Erlon sbusacchiare la retroguardia prussiana, Napoleone si preparò a marciare su Ligny con la Guardia. Stavano per muoversi, quando Vandamme arrivò con le sottane in mano: 20.000 o 30.000 nemici erano apparsi due miglia e mezza dietro di loro e stavano avvicinando Fleurus!

Non è che sono Ney o d’Erlon, vero? Con questo fumo e questo casino…”

No no! Abbiamo mandato un ufficiale a vedere! Sono nemici!”

Tempo dopo venne fuori che la “ricognizione” effettuata da Vandamme era stata: mandare avanti un ufficiale, che aveva occhieggiato la gente da lontano ed era tornato con un “ouaip, nemici, dov’è il cognac?”

Napoleone lasciò perdere Ligny e si preparò ad affrontare il nemico, dopo aver spedito la Giovane Guardia in supporto agli uomini di Vandamme. Questi, piazzati a le Hameau, erano nel panico più totale. Per frenare la valanga di diserzioni si smise di cannoneggiare i prussiani per sparare sui fuggiaschi.

I nemici ne approfittarono per attaccare di nuovo St.Amand, che resistette solo grazie allo slancio entusiasta della Giovane Guardia, che ridette un minimo di animo agli uomini di Vandamme.

18h30, un aide-de-camp arrivò da Napoleone. “Sire, la vuole sapere una bellissima? Ha presente i 30.000 assatanati che venivano a farci la pelle? E’ d’Erlon che porta rinforzi!”

Frattanto, supportati dalla Giovane Guardia, i francesi rilanciarono su le Hameau, ributtarono fuori i prussiani e li pressarono su Wagnelée. A la Haie, i mangiacrauti tenevano botta. Blücher pescò dalle ultime riserve per rinforzarli, ma in questo modo indebolì il centro dell’esercito.

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Botti e fumo a Ligny (foto di Michel Langrenez)

19h00. In St. Amand i prussiani erano esausti e a corto di munizioni, ma dimostrarono eroica determinazione davanti alla carica francese. A Ligny erano riusciti con grande sforzo a riprendere alcuni edifici sulla riva destra del fiume, ma i francesi, profittando della posizione riparata sul sagrato della chiesa, erano riusciti a montare le loro artiglierie, e ogni tentativo di sloggiarli fu annientato.

Ligny era un forno di fumo denso e piombo. E in tutto ciò, le batteria della Guardia stavano cominciando a infliggere ferite serie agli schieramenti prussiani sulla riva sinistra. I prussiani decisero di ritirarsi a Bois du Loup subito fuori Ligny per ricaricare.

Nuvole nere si addensavano, precipitando il campo di battaglia in un crepuscolo livido. Napoleone si disse che era meglio schiacciare i prussiani prima della pioggia, e mandò la Guardia su Ligny, a dare al nemico il coup de grâce. Prendendo Ligny, Napoleone sperava di tagliare l’ala destra prussiana dal resto dell’esercito.

L’attacco cominciò verso le 20h00. Nonostante la strenua resistenza e il fuoco d’artiglieria, le truppe francesi, composte in buona parte da veterani, avanzarono come un’onda di marea, attraversarono il fiume e sbucarono sui campi oltre il villaggio. Mentre le truppe de IV Corpo occupavano Ligny, le altre marciavano in ordine verso Brye e Sombreffe.

Blücher, che ormai aveva la settantina, arrivò a spron battuto sul campo, si mise alla testa della cavalleria e caricò la Guardia. Nel casino crepuscolare che ne seguì, si prese una fucilata e cadde, incastrandosi sotto il cavallo.

Ops GIFs | Tenor

Wups…

Il suo aiutante Nostitz, che non era lontano, saltò giù di sella e corse a raccattarlo mentre i francesi caricavano. La Guardia arrivò addosso ai due. E passò oltre senza riconoscere il generale nemico. Il contrattacco prussiano fu appena sufficiente a ripescare Blücher e Nostitz.

Pensateci un momento.

Se non fosse stato per questo Nostitz, Blücher sarebbe finito morto o prigioniero, e non avrebbe mai potuto aiutare Wellington a Waterloo. Se non fosse stato per Nostitz e per un pugno di Ulani, è molto probabile che quel mangiarane tascabile di Napoleone avrebbe vinto.

Blücher: How Care in the Community Saved Europe | Noon Observation

Blücher. NEIGH!

Il centro di Blücher era ormai annientato, le due ali separate. Nella notte il Primo e Secondo Corpo si ritirarono in disordine tra Sombreffe e la Via Romana, convergendo verso Tilly. Se ci fossero state un paio d’ore di luce in più, o se d’Erlon avesse avuto il tempo di prenderli alle spalle, sarebbero stati macinati.

Verso le 23h i combattimenti erano cessati. I prussiani decisero di concentrarsi a Wavre. Nella notte, gli ufficiali cercarono con tutti i mezzi di riunire e riordinare il loro esercito.

Ligny fu una bella vittoria. I Prussiani persero 16.000 uomini, più 8 o 10.000 che fuggirono su LIège. I francesi persero tra gli 11 e i 12.000 uomini.

Magari quella notte, mentre bivaccavano a Ligny, i francesi si sono detti che quella era la prima di una nuova serie di vittorie. E magari se Nostitz avesse avuto meno presenza di spirito, sarebbe andata davvero così.

A volte chi ben comincia NON è a metà dell’opera ^_^

MUSICA!

No, sto scherzando.

MUSICA!

(BTW, esiste anche una canzone su Ligny. Non mi garba, ma ve la propongo perché è un soggetto molto poco sfruttato a mia conoscenza, here)

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Bibliografia

J. F. C. Füller, Decisive battles of the Western World, vol.II. Cassel&co., Londra, 2001

J. Franklin, Capmaign 277: Waterloo 1815 (2), Osprey Publishing, Oxford, 2015

Riguardo al bicentenario di Waterloo:

Articolo con video

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Altri video (tedesco)

E altre foto!