Vite anonime di gente interessante: il sito di Vagnari, centro industriale della Puglia Imperiale

6 gennaio 2021.

Tenger è alla dacia di famiglia. Non c’è riscaldamento, sul tavolo il lavoro di ammucchia, fuori c’è mezzo metro di neve, negli Stati Uniti il Re dei Furries ha espugnato il Campidoglio.

Mi sento un po’ eroina russa, un po’ sentinella alla Fortezza Bastiani

Volevo cominciare questo anno con qualcosa di stimolante, ma visto come abbiamo ingranato ho optato per qualcosa di assolutamente rilassato e privo di implicazioni politiche. C’è tempo per la polemica e tempo per la distrazione, no?

Oggi andiamo in Puglia, nella Valle del Basentello, e parliamo di cose strane e interessanti!

Il posto

Il Basentello è un fiume che segna il confine tra Potenza e Bari. Nel 2000 Alastair Small, archeologo dell’università di Edinburgo, sta conducendo una survey nella zona e individua un sito di possibile interesse a Vagnari, comune di Gravina, provincia di Bari. Il posto si trova nei pressi del tracciato della via Appia.

Lo stesso anno un cantiere viene organizzato in collaborazione con le università di Bari, Edinburgo, McMaster, Foggia e Glasgow.

Presto viene individuata un’area di circa 3,5 ha, tagliata da est a ovest da un calanco. Sulla parte Nord si trovano tracce di un villaggio del I°-IV° secolo d. C., mentre sulla parte sud si stende il cimitero. Nei paraggi, nel sito di San Felice, salta fuori una magione di lusso, molto probabilmente la residenza del dirigente incaricato di gestire il vicus di Vagnari. D’acchito, l’intera faccenda promette bene: gli archeologi hanno scovato quello che ha tutta l’aria di essere un centro agricolo e industriale.

Tra le prime cose a essere individuate nella parte abitata, un mulino e quella che sembra essere una forgia. Nel cimitero invece, sotto uno strato di terra agricola, emergono numerose tombe “alla cappuccina”, tipiche per gli individui di estrazione modesta.

Vagnari è una trovaglia particolarmente interessante, perché le fonti scritte offrono davvero pochi dettagli sulla vita quotidiana della regione in questo periodo, e quei pochi dettagli tratteggiano una zona poco sviluppata e popolata. Ad esempio, Seneca cita la Puglia nell’epistola 87, parlandone come di una zona con poca gente e vasti latifondi.

Vagnari per contro è un villaggio popoloso, con una manifattura specializzata. Gli scavi sono l’inizio di una lunga ricerca che permetterà di avere uno sguardo più preciso sulla storia della regione, e che regalerà anche un paio di interessanti sorprese!

Il vicus

Come abbiamo accennato, il vicus di Vagnari era vicino alla via Appia. Nonostante questa sia stata una delle arterie principali nel periodo tardoantico, in epoca imperiale stava perdendo relativamente di importanza rispetto alla via Traiana. Secondo Small, questo fattore incoraggiò lo sviluppo di comunità cerealicole nella zona: nel primo e medio periodo imperiale, notiamo un moltiplicarsi dei siti, in particolare di piccole fattorie, che prima erano in declino. I vici del periodo non vivevano in autarchia, ma in una rete di scambi e contatti con gli altri centri della regione e del paese.

Nella parte nord del sito è emerso un insediamento databile al periodo tardo-repubblicano. Il villaggio declina bruscamente con la fine della Repubblica, ma rifiorisce alcune decadi dopo, con un picco di costruzioni intorno al I° secolo d. C.

Sul limite settentrionale è stato ritrovato un edificio imponente, in pietra. A sud di questo, una seconda costruzione per la lavorazione di metalli, attiva probabilmente durante il III° secolo. Altri indizi suggeriscono la lavorazione di cereali e la fabbricazione di tegole.

Insomma, si delinea come quello che doveva essere un centro industriale piuttosto importante in questa zona.

Secondo Carroll Maureen, in questo periodo l’Imperatore acquistò numerosi terreni nella regione. E’ possibile che Vagnari sia un’azienda di proprietà del sovrano.

Nel rapporto del 2015 Christopher Smith afferma che il posto pare lavorare diversi tipi di materiali, con una specializzazione nel lavoro del piombo. Sono stati estratti circa un centinaio di oggetti in piombo, tra cui pesetti a forma di conchiglia, placche rettangolari, frammenti.

L’industria del piombo è notoriamente tossica, e gli abitanti di Vagnari pativano senza dubbio dell’inquinamento che ne derivava.

Non bisogna però immaginarsi Vagnari come un posto miserabile, al contrario: frammenti di pannelli di marmo e altri segni di lusso indicano che gli edifici erano tutt’altro che tuguri di disperati. Nel corso del I° secolo il centro sembra crescere e le attività aumentare, al punto che viene perfino costruita una cella vinaria completa di dolia importati da Roma.

Dolium

Vagnari era anche un centro agricolo, dove si allevavano maiali, capre e pecore, e dove si coltivavano cereali: sono state trovate trace di grano duro, avena, avena selvatica, orzo e monococco. Questi cereali venivano stacciati, e la pula è stata ritrovata mischiata all’argilla che riveste le pareti interne dell’edificio settentrionale.

L’insediamento entra in crisi col finire del III° secolo. I segni di attività diminuiscono e gli edifici come la cava vinaria vengono abbandonati e gradualmente smantellati per recuperare i materiali.

La zona resterà comunque abitata anche dopo il collasso dell’Impero, ma il villaggio sarà trasferito sulla parte meridionale, dove i Vagnaresi continueranno a vivere e lavorare fino al VII° secolo.

La necropoli

Il cimitero è la parte più interessante della faccenda, perché a noi della Fortezza pacciono le cose morbose!

Cominciamo col dire che non saltano fuori epitaffi, quindi i morti di Vagnari restano anonimi. A fine 2012 lo scavo della necropoli copre un’area di 30m x 15m, ma la superficie totale è stimata a circa 2.100 metri quadrati.

Sono emerse un centinaio di tombe, suddivisibili in 4 tipi:

  • Inumazione semplice
  • Inumazione alla cappuccina
  • Tombe dotate di un canale per libazioni
  • Cremazioni

Non c’è bisogno di spiegare l’inumazione semplice: fai un buco, ci tiri il cadavere, copri il buco. Solo 8 sono inumazioni semplici.

La tomba “alla cappuccina” significa una fossa non troppo profonda dove il morto viene steso col proprio corredo funerario (se ne ha), coperto di tegole piatte (tegulae) a formare un V rovesciato, e sepolto. Esistono molte varianti sul tema: a volte il morto è steso direttamente in terra, a volte su uno strato di tegole; a volte ha delle tegole semi-cilindriche (imbrex) a mo’ di “colmo” sopra quelle piatte; a volte ha un imbrex sotto la nuca a mo’ di cuscino, ecc.

La stragrande maggioranza delle tombe sono “alla cappuccina”.

Le tombe con canale per libazioni sono simili a quelle “alla cappuccina”, ma in più hanno una sorta di canala che affiora dalla terra, talvolta realizzata con due imbrex. Questa “condotta” tra il morto e il mondo dei vivi permetteva di fare offerte e libazioni.

Le tombe con un morto cremato sono solo 2, risalenti al II° secolo, e in una le ceneri sono state poi coperte “alla cappuccina”. In effetti, col periodo imperiale si comincia a privilegiare l’inumazione, almeno in certe parti della penisola. Le tombe con morti cremati sono l’eccezione e hanno un corredo funebre più ricco della media, il che lascia supporre che gli individui inceneriti fossero di uno status sociale più alto degli altri.

Nell’insieme, le tombe di Vagnari sono modeste.

Solo 9 tombe non presentano nessun oggetto funerario.

Scordatevi però i sontuosi tesori dei giganteschi tumuli coreani: l’oggetto più comune ritrovato a Vagnari è l’umile e proletario vaso di terracotta, solitamente rotto prima dell’inumazione (la rottura del vaso prima della deposizione è ricorrente nella pratica funeraria romana). Nel 91% dei casi è l’unico tipo di bene funerario rinvenuto.

Tuttavia non abbiamo trovato solo quello: già dai primi scavi saltano fuori pezzi di ceramica sigillata, e più in particolare ARS (African Red Slip), prodotta per lo più nel nordafrica e molto apprezzata. Emergono anche lampade e frammenti di contenitori in vetro, monete, perfino alcuni contenitori in bronzo.

La concentrazione e la qualità degli oggetti è più alta rispetto ad altri cimiteri rurali dello stesso periodo, il che suggerisce da subito che la gente di Vagnari viveva un’esistenza modesta, fatta di duro lavoro, ma non miserabile.

In diverse tombe, peraltro, troviamo un chiodo, dritto o piegato, spesso associato a un vaso. Anche questa non è una novità nella pratica funeraria del periodo: il chiodo aveva senza dubbio una funzione magica, o come talismano o per tenere “inchiodate” sottoterra forze maligne. Il chiodo magico anti-fantasma è stato trovato in 43 delle 98 tombe studiate finora. In 35 di questi casi, era associato a un vaso.

Toynbee parla di questa pratica nel suo libro del 1971, Death and burial in the Roman World. Non l’ho consultato per questo articolo perché le biblioteche sono oltre i passi innevati e su Amazon costa un po’ caruccio, quindi sarà per il prossimo Natale.

In molti casi, il chiodo e il vaso sono accompagnati da una lampada: su 30 delle tombe indisturbate e contenenti un chiodo, 26 avevano anche lampade, il che lascia presupporre che la lampada, il chiodo e il vaso giocassero un ruolo magico sinergico nel separare il morto dai vivi e guidarlo nel suo percorso.

Scavo nella necropoli

Gli oggetti erano do solito deposti accanto ai piedi, le gambe o le mani del morto, raramente vicino alla testa. Questo è particolarmente vero per le lampade, solitamente posate accanto ai piedi, che erano probabilmente deposte accese e poi coperte con le tegole, allo scopo di rischiarare il percorso del defunto.

Monili modesti come collanine, anelli in bronzo, o perfino un paio di piccoli orecchini in oro, sono pure stati ritrovati. Dalla posizione, è probabile che il morto li indossasse al momento di essere seppellito. I defunti venivano quindi adornati prima di essere consegnati all’Oltretomba.

In alcuni casi il morto era accompagnato da utensili, senza dubbio i suoi strumenti di lavoro in vita.

In “Burial practices and patterns of distribution in the Vagnari cemetary”, Brent e Prowse notano che, generalizzando, gli infanti (0-6 anni) hanno meno doni funerari. I defunti di più di trent’anni hanno di media 5,6 oggetti, i giovani tra i 15 e i 30 ne hanno di media 6, mentre i pargoli di meno di 1 anno ne hanno di media 2,5.

E’ probabile che gli oggetti scelti per costituire il corredo fossero rappresentativi del ruolo, mestiere o posizione sociale della persona, tutte cose che un bambino non ha avuto il tempo di ottenere. Ad ogni modo anche i bimbi lattonzoli portano con loro collanine o spille, traccia dell’affetto, la cura e il dolore dei genitori di Vagnari.

Per quanto riguarda gli adulti, c’è una leggera differenza tra i sessi: le tombe maschili contengono una media di 6,1 oggetti, le tombe femminili una media di 5,4. Le donne sembrano quindi avere avuto un ruolo subalterno (SORPRESA!), ma non drammaticamente inferiore agli uomini.

Ovvio, non possiamo avere la certezza che lo status in morte sia davvero corrispondente allo status in vita.

Ci sono differenze secondo i sessi anche nella qualità degli oggetti trovati: alcuni oggetti, come monete o contenitori in vetro, si ritrovano in modo abbastanza uniforme nelle tombe, mentre 12 tombe maschili e solo 5 tombe femminili contenevano resti di scarpe. Di nuovo, constatiamo una probabile differenza nel rituale per uomini e donne.

Altri oggetti, come i braccialetti, si trovano solo nelle tombe di individui al di sopra di una certa età, il che mostra un cambiamento di status sociale legato all’età.

Sono saltati fuori anche dei contenitori in bronzo, ma solo in 6 tombe, all’occorrenza 6 delle tombe più ricche, con un bottino funebre di 15,3 oggetti di media! Di questi sei pezzi grossi, 4 erano maschi, 1 era femmina, e 1 un mucchietto di cenere.

Brent e Prowse notano che in altri cimiteri dello stesso periodo, come quello di Musarna vicino a Viterbo, uomini e donne hanno un corredo funebre abbastanza equivalente. Queste 6 tombe suggeriscono che a Vagnari, all’interno della comunità operaia e contadina, c’erano degli strati sociali distinti, e che questo status relativamente elevato rispetto agli altri abitanti era per lo più occupato da uomini.

Esempio di ceramica sigillata

Le ceramiche estratte dal cimitero hanno depositi notevoli di sali di calcio rispetto a quelli estratti fuori dal cimitero, il che lascia supporre a Small che la sepoltura includesse l’uso di calce viva, per accelerare la decomposizione.

Della serie “parti coi nostri regali, ma parti alla svelta!”.

Sometimes dead is better!

Prowse ha analizzato gli scheletri e determinato segni di usura interpretabili come danni inflitti dal lavoro pesante. Gli scheletri dei subadulti mostrano spesso lesioni al cranio di solito causate da mancanza di ferro, che può essere provocata da una malattia o da una dieta sbagliata. Infine, nonostante i denti siano mediamente in condizioni relativamente buone, Prowse rileva una ricorrente usura degli incisivi. Ciò può significare in alcuni casi che i denti erano usati come strumento per tagliare/spezzare qualcosa, o più in generale che il cibo consumato era particolarmente tosto.

Insomma, a Vagnari si mangiava il pane da battaglia dei nani!

Antica specialità pugliese, Pane da Battaglia nanico

Più precisamente però: che tipo di gente abitava a Vagnari?

E’ qui che il sito ci riserva una sorpresa, ma una cosa alla volta!

Prowse nota che l’area di Vagnari era densamente popolate nel IV° secolo a. C., ma che la densità di popolazione declina tra il III° e il II° secolo a. C. In questo periodo troviamo solo un piccolo insediamento nella porzione nord del sito.

Come abbiamo visto, questo cambia in periodo imperiale, ma chi abitava e lavorava in questo centro agricolo e industriale?

L’unico documento scritto ritrovato è costituito da una tegola databile tra il 50 a. C. e il 50 d. C., su cui è stampigliato “ GRA[ti]…/CAES[aris]”, ovvero “Gratus, schiavo di Cesare”, il che supporta l’ipotesi che Vagnari fosse una tenuta di proprietà dell’Imperatore.

Bisogna però sottolineare che questa tegola è stata trovata vicino a un forno e non nella necropoli. Quindi non sappiamo se il buon Grato viveva e lavorava a Vagnari o se risiedeva altrove: dopotuto Vagnari produceva tegole, magari forniva tegole funerarie ai centri vicini. In effetti nella necropoli non sono saltate fuori tegole stampigliate.

L’ipotesi di una tenuta imperiale resta però valida: è possibile che il vicus fosse quindi popolato da schiavi, liberti e operai liberi che abitavano, lavoravano e morivano in situ.

Il punto è: ci nascevano pure?

Per rispondere a questa domanda Prowse ha usato due metodi:

L’analisi degli isotopi stabili: varianti di elementi (come carbonio, azoto o ossigeno) che vengono incorporati nei tessuti durante la vita e che non decadono dopo la morte. A seconda dell’elemento, quest’analisi può fornire indicazioni sulla dieta dell’individuo, o sulla sua provenienza geografica (in particolare determinando l’acqua che ha bevuto durante l’infanzia). Questi dati possono essere estratti dalle ossa o dai denti.

Un altro dato utile è il DNA mitocondriale (mtDNA), che sopravvive alla decomposizione ed è trasmesso per linea matrilineare.

Esistono delle variabili individuali di mtDNA, e quando determinate variabili sono presenti in determinate combinazioni, è possibile individuare degli aplogruppi. In pratica, questo permette di tracciare, attraverso il mtDNA, l’origine geografica del lignaggio materno della persona.

Stando a Prowse, la maggioranza degli individui di Vagnari appartengono agli aplogruppi H, J K e T, ovvero l’Eurasia occidentale. In altre parole, la maggioranza della gente era di varie origini, ma tutte definibili come “europee”. Alcuni dei gli abitanti condividono lo stesso aplogruppo, ergo il loro lignaggio è originario della stessa regione, ma non condividono lo stesso aplotipo, ovvero non sono imparentati per parte di madre!

Quella di Vagnari appare quindi come una comunità composta da gente di origini diverse. Quando analizziamo il mtDNa di scheletri sepolti vicini (clusters), notiamo che non solo non sono parenti per parte di madre, ma che talvolta non appartengono nemmeno allo stesso aplogruppo. Le origini materne non sembrano quindi giocare un ruolo determinante nella costruzione dell’identità dell’individuo in morte.

Per quanto riguarda l’analisi degli isotopi, indicano che la maggioranza degli abitanti, pur avendo ascendenze etniche variabili per parte di madre, è nata è cresciuta a Vagnari o nelle colline circostanti. Se vogliamo paragonare a un altra necropoli dello stesso periodo, Isola Sacra, 1/3 dei “residenti” era forestiera (non si sa bene da dove provenisse), ed è arrivata nella zona di Isola Sacra nell’infanzia.

Anche a Vagnari possiamo determinare che alcuni degli abitanti sono arrivati da bambini. Le fonti spesso parlano di migrazioni e spostamenti di uomini adulti, ma è chiaro che donne e bambini si spostavano (o erano spostati).

Ad ogni modo, circa 25% dei residenti non erano né di Vagnari né dei dintorni, ma venivano da altre regioni dell’Impero.

3 individui, 2 uomini e una donna, venivano da zone più distanti, probabilmente altre regioni affacciate sul Mediterraneo.

Infine, tra i vari aplogruppi esumati, troviamo 2 individui particolari.

Un uomo apparteneva all’aplogruppo L, ovvero la sua linea materna risaliva alla regione subsahariana. E’ stato peraltro possibile determinare che il signore non è nato e cresciuto a Vagnari né nei dintorni, ma che proveniva probabilmente da un’altra zona del Mediterraneo, forse il Nord Africa. Quest’uomo è stato seppellito accanto a un uomo e una ragazza di aplogruppo europeo e di origine locale, indicando che provenienza ed etnia non erano fattori rilevanti in questo contesto.

Ciò non è molto strano, visto che ci sono stati per secoli frequenti traffici tra Roma e varie regioni Africane (checché ne dicano quegli scoppiati degli identitari). E’ però indicativo della varietà di backround che accomunava gli abitanti di questo villaggio dell’entroterra pugliese.

Infine un’altra sepoltura presenta caratteristiche ben più bizzarre.

Si tratta della sepoltura F37. La donna appartiene all’aplogruppo D.

Ovvero l’aplogruppo dell’Asia Orientale.

F37, una donna adulta, è l’unico esempio conosciuto a oggi di individuo appartenente all’aplogruppo D e ritrovato sul territorio italiano per questo periodo.

Purtroppo non è stato possibile eseguire l’analisi degli isotopi, e non possiamo quindi sapere se F37 è arrivata dalla lontanissima Asia Orientale, o se la migrante era sua madre, sua nonna, sua bisnonna, ecc. Considerato il suo aplotipo,è stato possibile verificare cinque match compatibili, tutti e cinque in Giappone.

Questo ovviamente non significa che F37 fosse Giapponese: come accennato in questo articolo l’etnogenesi dei giapponesi è molto più complicata e variegata di quanto possa parere. Dopotutto l’aplogruppo ingloba tutta la regione. Ma è possibile che le origini di F37 siano da ricercare nelle popolazioni coreane o Malgal.

Sappiamo che aveva probabilmente 45-49 anni, che il suo scheletro mostra leggeri danni alle articolazioni degli arti inferiori e che aveva la scoliosi (come yours truly, yeeeee!). E’ vissuta tra il II° e il III° secolo. Il suo scheletro è relativamente ben conservato. E’ sepolta in una tomba “alla cappuccina” rinforzata da pietre e con un colmo di imbrex a coronare le tegulae. Il corpo non è deposto direttamente a terra, ma su tre tegulae piatte, una delle quali è stata piazzata ad un angolo deliberato. Le tre tegulae su cui è stesa F37 sono decorate: le due alle estremità con archi impressi con le dita, una con una linea ondulata.

Gli oggetti funerari sono stati deposti vicino ai suoi piedi: una ceramica africana a bordo annerito, rotta, e il fatidico chiodo magico.

La tomba di F37 non è delle più ricche, né delle più povere. E’ una sepoltura curata ma modesta, per una donna che svolse un lavoro pesante e che, chissà, magari nemmeno sapeva delle proprie remote origini. E’ sepolta con gli altri e come gli altri: la sua etnia era esotica, il suo status sociale a Vagnari sembra essere stato lo stesso delle altre donne.

Il mistero delle origini di F37 è complicato dal fatto che Roma non aveva rapporti diretti con la Cina, men che meno con Corea e Giappone.

Troviamo menzione della Cina (nota come Seres) negli scritti di Pausania.

Pausania visse tra il 120 e il 180 d. C., quindi allo stesso tempo di F37. Parla della Cina come di un paese estremamente remoto e lo nomina nel contesto della produzione della seta: secondo Pausania il nome di Seres viene dal baco da seta, in greco ser. Si tratta secondo lui di un coleottero che i nativi allevano per 4 anni prima di farlo crepare di indigestione. Il bacarozzo si ingozza tanto che letteralmente scoppia, rivelando una pancia piena di filo di seta.

Dopo questa perla di entomologia, Pausania indica che Seres è un’isola del Mar Rosso, o di un fiume chiamato pure Ser, e che gli abitanti sono tutti Etiopi, o di una razza imbastardita frutto di un miscuglio di Sciti e Indiani.

Insomma, ci siamo capiti: i romani non avevano la più pallida idea di come si allevava il baco da seta, di dove si trovasse la Cina, o di che faccia avessero i cinesi. Sapevano però dell’esistenza di un grosso stato a oriente.

Conoscevano la seta da secoli: già dal V° secolo a. C. Cos produceva un tipo di seta a base di bozzoli sfarfallati. Cruelty free!

A partire dal I° secolo a. C. però, Roma favorì la seta cinese, importata attraverso l’India e l’Asia Centrale. La Cina, origine del prodotto, restava un posto misterioso e irraggiungibile.

I cinesi per contro hanno una mezza idea dell’esistenza di Roma. Dopotutto nel II° secolo d. C. sono riusciti a sconfiggere i ferocissimi Xiongnu e si sono allungati a ovest includendo nel loro sistema tributario il bacino del Tarim. Per intendersi, le propaggini occidentali di questa zona toccano i confini orientali di quelli che sono oggi Kirgyzistan e Tajikistan. La loro influenza diplomatica si allungò fino al Golfo Persico.

Insomma, gli Han incocciano nei Parti. E lì si fermano.

Vaghe informazioni circolarono tra i due imperi, portate dai mercanti, ma non sembra che ci sia mai stato un contatto diplomatico diretto.

Dico “sembra” perché alcuni indizi suggeriscono il contrario: Floro (70/75-145 d. C.) afferma che la Cina avrebbe mandato degli ambasciatori al tempo di Augusto (Epitoma Libro II, Capitolo 34). La cosa però non compare nelle fonti cinesi e sembra molto poco probabile. Dopotutto circa due secoli dopo Pausania non sembra avere la minima idea di dove sia la Cina o che faccia abbia un cinese. E’ possibile che la gente “mezza Scita e mezza Indiana” indichi piuttosto i mercanti Yuezhi che facevano da tramite attraverso il Tibet.

C’è però una nota interessante nello Hou Han Shu: nel 166 d.C. L’Imperatore Huan riceve la visita di un gruppo di uomini che si presentano come ambasciatori del re Andun di Da Qin.

Da Qin è il nome che i cinesi davano a Roma.

Non somiglia manco per il cazzo a “Roma”?

Beh, i romani chiamavano la Cina “Seres”, quindi non si possono lamentare.

Tornando a noi, “Andun” è chiaramente una trascrizione fonetica. Noi in Italia conosciamo Andun come Marco Aurelio Antonio (121-180).

La cosa interessante è che questa visita avviene subito dopo una compagna di Lucio Vero contro i Parti. Che Marco Aurelio sia stato il primo ad allacciare un tenue contatto diretto con la leggendaria Seres?

I sedicenti ambasciatori sono arrivati a piedi dopo essere sbarcati a Rinan, commanderia Han piazzata sulla costa centrale del Vietnam. Portano con loro zanne di elefante, corno di rinoceronte e gusci di tartaruga, a loro dire doni da parte di Andun.

Huan degli Han riceve cortesemente il paniere di benvenuto, ma non è molto convinto.

-‘Sta roba non è esotica nè preziosa.- confida al Ministro. -Possibile che il re dall’altra parte del mondo mi mandi ‘ste quattro cazzate che trovo al mercato sotto casa? Secondo me sono mercanti, levameli di giro.

La nota di Pausania su Seres è del 174. E’ possibile che l’abbia scritta basandosi sulle storie riportate dal sedicente ambasciatore del 166. Ed è molto probabile che quel volpone di Huan ci avesse visto giusto: detto ambasciatore non era probabilmente altro che un mercante con la bocca piena di favole.

Quindi no, nessun contatto diretto ufficiale, solo contatti indiretti attraverso i mercanti.

Quindi è impossibile che F37 sia arrivata dalla remota Asia Orientale, si trattava senza dubbio di una straniera di seconda o terza generazione.

O FORSE NO!

Il fatto che non esistessero relazioni diplomatiche ufficiali non significa che contatti diretti tra cittadini romani e cittadini cinesi non siano avvenuti! Semplicemente, se non hanno coinvolto le autorità, non sono stati trascritti nelle fonti ufficiali.

“Ah, ma Tenger!- sento già obiettare qualcuno -Questa è pura speculazione! Non hai nessuna prova né indizio di un contatto diretto tra un cinese della Cina e un Romano de Roma!”

No, è vero.

Ho di meglio!

Le avventure di due Cinesi a Londra

Scheletro esumato a Lant Street

Londra, Lant Street, gli archeologi di Durham esaminano gli scheletri di un cimitero romano utilizzato tra il II° e il IV° secolo. E ben due di costoro sono originari della Cina Han.

A oggi, si conoscono 3 o 4 esempi del genere nell’Impero Romano. Tutti scoperti di recente. E’ possibile che scavi futuri cambino ancora la visione che abbiamo dei rapporti tra la lontana Seres e la fiera Da Qin.

E sì, se due cinesi sono riusciti a venire a morire a Londra, è possibile che F37 abbia seguito lo stesso percorso, e sia morta di mal di schiena, dopo una vita faticosa ma onesta, nella valle del Basentello, in Puglia.

THE END

Vi ricordate quando ho detto che in questi giorni di terribili tensioni volevo dedicarmi a qualcosa di totalmente apolitico?

Ho mentito.

Prima che a qualcuno vadano a fuoco le mutande: certo, due ritrovamenti archeologici non sono politici. Gli scambi tra la Cina e Roma non sono politici. Sono fatti.

Il problema è che troppo spesso le civiltà del passato sono raccontate come omogenee, unite e coerenti. Isole che coesistono, ogni tanto combattono, ma che in generale possono essere descritte come fenotipi alla D&D.

La ridicola diatriba scoppiata quando la BBC osò disegnare un legionario nero, o le minacce subite dalla ricercatrice Sarah Bond quando ebbe l’ardire di notare che i Romani non erano tutti bianchi né possedevano il concetto di “razza bianca” dimostrano a che punto la società consuma un’idea distorta della realtà Storica.

In particolare Roma e la Scandinavia sono due miti fondatori dell’odierno suprematismo bianco, che da un punto di vista storico fa un sacco ridere, ma poi ‘sta gente tenta un colpo di stato e di botto è molto meno divertente.

La ragione principale per cui ho voluto parlare di Vagnari è perché lo trovo un sito interessante, e una buona maniera di familiarizzarmi con tecniche archeologiche contemporanee.

La seconda ragione è perché trovo assolutamente affascinante e uberganzissimo rilevare un collegamento seppur tangenziale tra un’operaia della campagna pugliese e la Cina degli Han, forse perfino il Giappone.

Per ultimo, senza fretta né affanno, per ricordare che la gente si è sempre spostata, le società non sono mai state omogenee, né conformi, né impermeabili. Il nostro concetto di identità etnica è contingente al nostro periodo storico e non è necessariamente applicabile al modo di vedere e di sentire del passato.

E’ importante conoscere il proprio passato, ma è ancora più importante non farsene un ritratto stereotipato, superficiale e falso. E’ importante usare la Storia per capire, non per dimostrare a posteriori. E questo a prescindere dal credo politico che ognuno di noi detiene: la realtà sarà sempre più complicata degli slogan.

MUSICA!


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Publio Annio Floro, Epitoma, Libro II, Cap. 34

Tombe scoperchiate: un breve assaggio di preistoria coreana e il Cimitero di Daho-ri

Oggi tanto per cambiare vorrei parlare della Corea.

Quando iniziai a studiare Storia Giapponese, la Corea era quel posto nei dintorni che i Giapponesi invadevano ogni qualche secolo.

In realtà la Storia coreana, in particolare per quel che riguarda il periodo preistorico e protostorico, è assolutamente indispensabile per capire le rocambolesche vicende dell’Arcipelago.

Il piccolo problema è che la Storia coreana non gode manco da lontano della stessa mole divulgativa dedicata alla Storia cinese o giapponese, per lo meno non in lingua occidentale. In lingua giapponese già si trova di più, ma, dati i rapporti un tantinello disfunzionali che corrono tra i due paesi, farsi un’idea della Storia coreana basandosi su ricercatori giapponesi è un pochettino… hum… problematico.

Non so di preciso perché, ma la Corea sembra un po’ la sorella zitella dell’Estremo Oriente.

Fortunatamente per noi esiste gente come Gina Barnes e Mark Byington!

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Mappa delle moderne provincie sudcoreane

La preistoria coreana è un soggetto vastissimo (DUH!). Oggi voglio limitarmi a offrire un’infarinatura generale di riferimento e, per rendere il tutto un pochino più gustoso, concludere con un saporito bocconcino archeologico. Giusto per avere quel dettaglio concreto che piace tanto a noi storici dei materiali (Storia dei Materiali, una branca che suona avvincente come il cemento che asciuga ma che in realtà è molto peggio del cemento che asciuga).

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Cominciamo con l’identificare un periodo: il Periodo Samhan, ovvero «dei tre Han». o «Proto-Tre Regni». Gli «Han» in questione non sono da confondersi con gli Han cinesi (漢): «Han» riferito alla Penisola coreana (韓) è un termine piuttosto vago usato per identificare tre polities, tre proto-stati che pendono forma da qualche parte tra il 300 a. C. e lo 0. Si tratta di grumi di polis legate tra loro da relazioni più o meno solide e gravitanti attorno ad alcuni centri più grandi e importanti.

I limiti del Periodo Samhan non fanno l’unanimità. Per Gina Barnes, questa fase si situa tra lo 0 e il III° secolo d. C., e corrisponde alla Tarda Età del Ferro. Per alcuni ricercatori coreani, il periodo comincia già dal 100 a. C., o dal 300 a. C., durante l’ultima fase dell’Età del Bronzo.

I sostenitori della tesi del 300 a. C. hanno dalla loroparte le fonti cinesi che, seppur posteriori, fanno riferimento alla situazione coreana del 300 a. C. parlando di «tre Han». Come vedremo, le foti cinesi sono state messe insieme secoli dopo questo periodo, quindi da sole provano poco. Tuttavia sono generalmente molto affidabili, e sembrano confermate da alcuni dati archeologici: a partire dal 300 a. C. si diffonde nella Penisola quella conosciuta come la Slender bronze dagger culture, un nuovo complesso culturale distinto dalla cultura dei dolmen precedente.

Questa innovazione sarebbe un inizio dell’incipiente processo di state formation che, secondo questa corrente storiografica, avrebbe portato alla nascita di Federazioni Han già nel II° a. C.

Secondo Lee Jaehyun, la Cultura del Bronzo coreana è divisibile in due categorie: una che segue lo stile della Slender bronze dagger culture tipica del Liaoning, e una in stile tipicamente coreano, entrambe esemplificate da forme distinte di daga.

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Daga in bronzo in stile Liaoning, l’oggetto-emblema della Slender bronze dagger culture. Questo reperto è stato trovato nella contea di Buyeo, nella provincia di Chungcheon, è conservato nel National Museum of Korea in Seul.

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Daga in bronzo in stile coreano, ritrovate nella contea di Hwasun nella provincia del Jeolla meridionale. Reperti conservati nel National Museum of Korea in Seul.

La daga in stile Liaoning ha un’inconfondibile forma a liuto ed è diffusa dal nordest della Cina alla penisola, ma ne troviamo pochi esempi in Corea, quasi sicuramente beni importati.

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In blu i ritrovamenti di daga in bronzo in stile Liaoning, in rosso i ritrovamenti di daghe in bronzo in stile coreano

La Korean-style slender bronze dagger culture presenta numerosi aspetti originali, il che spinge Lee Jaehyun a supporre che si tratti in realtà di una cultura indipendente. E’ caratterizzata da oggetti rituali in bronzo, tra cui spiccano specchi e armi, ma anche sonagli e strumenti. Nella sua fase formativa, notiamo diverse caratteristiche in comune con la cultura del bronzo in stile Liaoning. La fase successiva, detta «di espansione», è caratterizzata da uno sviluppo di oggetti più originali, tra cui ferri di lancia e alabarde.

Tra la fine del II° secolo a. C. e il II° secolo d. C., questa cultura declina, mentre in parallelo si sviluppa la Cultura del Ferro. Gli specchi decorati in linee sottili e i sonagli diventano progressivamente più rari, mentre si favoriscono oggetti rituali in bronzo sotto forma di armi, come punte di lancia decorative.

La prima fase della Cultura del Ferro nel sud della Corea si sviluppa tra il IV° e il II° secolo a. C. e presenta molte similitudini con quella tipica del regno di Yan, da cui è stata probabilmente importata. In questa fase però la Cultura del Ferro resta molto limitata nelle regioni di Jeolla e Chungcheong.

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Prego ammirare la mia padronanza di Paint

E’ con la seconda fase, alla fine del II° secolo a. C., che la produzione di ferro si diffonde nella penisola. Questa nuova ondata presenta caratteristiche smaccatamente Han (Han nel senso degli Han della Cina). E’ in questa fase che si situa la Tomba n.1 del cimitero di Daho-ri, che andremo a studiare!

La diffusione del ferro come materiale di prestigio/mezzo di scambio e lo sviluppo delle miniere nella regione dello Yeongnam favorirono una vasta rete commerciale che legava le polities sudcoreane con le Comanderie cinesi di Lelang e Daifang, con Mahan, con le regioni degli Ye orientali e le isole giapponesi. Quest’industria è la base della crescita economica che favorirà il maturare delle polities di Saro e Guya negli staterelli di Gyeongju e Gimhae, con cui il regno di Wa avrà strettissimi legami diplomatici e commerciali nel suo periodo di formazione.

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I Tre Han e le due comanderie

Tornando ai Tre Han, si tratta di Mahan (futuro regno di Baekje), Byeonhan (futura Confederazione di Gaya) e Jinhan (futuro regno di Silla, ovvero gente cattivissima se diamo spago alle fonti giapponesi dell’VIII° secolo).

A noi interessa in particolare Byeonhan e la futura Gaya, una delle entità politiche più importanti nello sviluppo del regno di Yamato in Giappone, e una delle meno conosciute.

Il problema è che mentre abbiamo una qualche forma di documentazione indigena per entità come Baekje, Silla o Goguryeo, gli annali di Gaya non sono sopravvissuti in nessuna forma, e quindi le uniche fonti storiche riguardo questa sfuggente Confederazione e la sua Storia sono tutte fonti straniere compilate dai paesi vicini.

Purtroppo anche l’aspetto archeologico è problematico, e vale la pena parlarne prima di tuffarci nel bellissimo sport della violazione di tombe: i primi studi archeologici legati a Gaya o alle polities che la precedettero risalgono agli anni ’20 e furono portati avanti dai giapponesi.

Da buona potenza coloniale e nazionalista, il Giappone non era proprio mosso da un sincero desiderio di conoscenza (anche perché il sincero desiderio di conoscenza raramente si presta a confermare l’ideologia nazionalista, ideologia storicamente molto recente). Insomma, i giapponesi hanno scoperchiato un botto di tombe, fatto manbassa della roba più bella che c’era e se la sono portata via senza documentare i siti. E considerato il volume di bombe che si son buscati vent’anni dopo, de facto una quantità ragguardevole di patrimonio di Gaya è finito in fumo.

(C’è anche un lunghissimo dibattito se Gaya fosse o non fosse una colonia Wa, ma questa lattina di vermi l’apriremo un’altra volta).

I primi scavi condotti nel bacino del Nakdong dai Sudcoreani risalgono gli anni ’70, ma il grosso dei siti di Gaya, come Daho-ri e la Tomba n.1, sono documentati a partire dagli anni ’90. Purtroppo, con l’eccezione della regione di Gimhae, i dati archeologici per Periodo Samhan di Gaya sono relativamente pochi.

Ovviamente anche il dato archeologico va trattato con cautela: la maggioranza dei siti a nostra disposizione sono siti funerari. E l’arte funeraria è importantissima, sia chiaro, dato che spesso le pratiche mortuarie consistono in una sorta di ricostruzione essenziale dell’identità del morto (la sua appartenenza a una certa classe, clan, professione, ecc), ma la morte è solo uno degli aspetti della vita degli esseri umani. Alla fine, l’arte mortuaria è una storia che i vivi raccontano su loro stessi e sul defunto, e non abbiamo molti elementi da comparare a detta storia.

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Concluso questo preambolo interessantissimo che, son certa, vi avrà tenuto col fiato sospeso, tuffiamoci nella parte divertente: violare tombe!

Tomba n.1 del cimitero di Daho-ri

Il sito archeologico di Daho-ri (茶戸里) si trova nella zona di Changwon, capoluogo della regione sudcoreana del Gyeongsang meridionale, ovvero la parte sudorientale della penisola coreana.

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Vista aerea del sito di Daho-ri

Il sito è stato scavato tra il 1988 e il 1998 e oggi gode dello status ufficiale di Sito Nazionale Storico n.327. Non solo ha fornito un considerevole numero di artefatti, ma si tratta di un sito usato per un lasso di tempo considerevole: durante i 10 anni di scavi abbiamo trovato 69 tombe con sarcofago in legno, 4 con sarcofago a giara, e perfino una tomba con camera in pietra del Periodo di Gaya, il che significa un lasso di tempo che va dal II° secolo a. C. al VI° secolo d. C..

Daho-ri è a una decina di chilometri dal fiume Nakdong, un’importantissima arteria di scambi che scorre fino a Gimhae e Busan, il che lascia supporre che questa zona avesse contatti frequenti col resto della regione via il fiume.

Daho-ri stesso è nelle vicinanze di altri siti, tra cui insediamenti fortificati e cimiteri.

Purtroppo una delle prime cose rilevate all’inizio dello scavo nel 1988 è che il sito era stato saccheggiato. Ma è stato comunque possibile estrarre informazioni preziose.

Oggi voglio parlare in particolare di quella che è chiamata Tomba n.1.

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La Tomba n.1 scoperchiata

Come buona parte del sito, la Tomba n.1 è stata trovata saccheggiata e stravolta, ma il sarcofago di legno era ancora in buono stato. Trattandosi di un mostro monossilo, probabilmente era troppo pesante e solido per i ladri. Sotto di esso abbiamo potuto recuperare un certo numero di oggetti funerari, a conferma che nascondere la roba sotto il letto è una grande idea.

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Esistono due tipi di sarcofago in legno, in Corea: il sarcofago monossilo realizzato da un singolo tronco scavato, e il sarcofago di assi, una sorta di «bara», simile in stile ai sarcofaghi Han.

La maggioranza dei sarcofaghi in legno coreani sono a «bara». E’ possibile che i sarcofaghi monossili siano una forma più arcaica e che l’uso della «bara» sia invalso più tardi, a seguito dell’influenza delle Comanderie.

La Comanderia di Lelang, probabilmente la più importante nel traffico tra Byeonhan e gli Han cinesi, venne fondata nel 108 a. C., dopo che l’Imperatore Wu rase al suolo la polity di Gojoseon (Vecchia Joseon), polity situata nel nordovest della Penisola. Questa guerra avrebbe portato un afflusso notevole di esuli al sud, provocando un’evoluzione nella cultura e nei costumi funerari.

Le tombe con sarcofago in legno, dette mokkwanmyo (木館墓), cominciano a manifestarsi nel sito di Daho-ri nel I° secolo. Secondo Kim Daesik, dell’Università di Hongik, questa evoluzione nei costumi segna l’apparire di una classe dirigente (tombe di questo genere ovviamente necessitano un investimento non indifferente di risorse, tempo e lavoro) diversa da quella indigena precedente.

Poesse che il misterioso defunto della Tomba n.1 fosse un immigrato Gojoseon?

In realtà per le fonti cinesi la stretta relazione tra Gojoseo e gli staterelli coreani predata il I° secolo: il primo riferimento in tal senso viene da quello che è anche il primo testo a riferirsi alle polities della Penisola col termine «Han», il Sanguozhi (Storia dei Tre Regni). Il Sanguozhi, iniziato da Chen Shou del regno di Jin (233-297) e completato e annotato da Pei Songzhi del regno dei Song (372-451), è un testo importantissimo, nonostante sia stato completato secoli dopo i fatti narrati.

Nel libro, re Jun di Gojoseon avrebbe perso una guerra contro il generale Wei Man del regno di Yan (che gli succede sul trono di Gojoseon) e sarebbe quindi fuggito a sud, diventando «Re di Han».

Alcuni hanno situato questi fatti tra il 194 e il 180 a. C. Potrebbe darsi che il II° secolo sia il periodo in cui il termine Han riferito alla Corea entra in uso.

Altri hanno criticato questo approccio fiducioso alle fonti cinesi, notando che potrebbe benissimo trattarsi di un termine usato anacronisticamente.

Per altri ancora, si può iniziare a parlare di «Han» con l’apparizione archeologica di un nuovo indicatore culturale, la ceramica con bordo aggiunto (粘土帯土器), che ha origine nella penisola del Liaodong e si diffonde nel resto della Corea verso il 300 a. C.

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Esempio di vaso degli inizi dell’Età del Ferro, ritrovato in Seo-gu, distretto di Incheon, conservato nel National Museum of Korea

Avvincenti discussioni filologiche a parte, già dal III° secolo a. C. il sud della Corea è caratterizzato da polities che intrattengono scambi regolari col Nord della Cina e Gojoseon. Byeonhan, la polity che interessa a noi, si sviluppa a partire dal II°-I° secolo a. C.

Quando parliamo di polities per Byeonhan, parliamo davvero di entità politiche di taglia ridotta: secondo Yi Hyunhae gli staterelli più grandi di Byeonhan contavano 2-3.000 famiglie, e quelli minori appena 6-700. Si trattava con ogni probabilità di costellazioni di città semi-indipendenti che agivano di concerto in materia di diplomazia e politica estera.

Dalla fine del II° sec a. C., spuntano cimiteri di gruppo attraverso tutta la provincia del Gyeongsang. Questo è accompagnato da una diffusione senza precedenti del sarcofago in legno e da un aumento sensibile degli artefatti nel corredo funebre. Compaiono tombe come la Tomba n.1, palesemente erette per capi. La varietà nella struttura e nel corredo suggerisce peraltro una certa diversità culturale in seno alla classe dirigente, il che presuppone una società più complessa e stratificata. Yi Hyunhae si accorda col dire che questo è dovuto a un massiccio influsso di migranti, i buona parte provenienti da Gojoseon.

Questo sembra confermato dal fatto che in Daho-ri continuiamo a trovare oggetti in continuità con il passato, come le ceramiche «non decorate» (Mumun) nere e marroni. Ma notiamo anche un influsso crescente di oggetti in metallo o in lacca simili in stile e in qualità a quelli fabbricati dagli artigiani di Gojoseon.

Secondo Kim Daesik, possiamo interpretare questi dati come segue:

  • gente portatrice di conoscenze e tecniche nuove arriva e viene assimilata in una nuova classe dirigente (come direbbe uno degli spauracchi della “Destra Razionale”, Foucault, potere e sapere sono spesso strettamente correlati).
  • Questo apporto tecnologico però non provoca stravolgimenti traumatici nella struttura sociale locale, che mantiene molta continuità col passato
  • Ne deriva che le società agricole indigene erano stabili e sviluppate.

L’arrivo di gente nuova sembra riecheggiare nel mito fondatore di Gaya raccontato nel Samguk Yusa: Un uomo di nome Suro discende dal cielo sul picco del monte Kuji, e vi stabilisce il suo regno. I nove capi (kan, 干) della regione di Gimhae lo scelgono quindi come capo.

Per Kim, il mito suggerisce la fusione tra culture locali e una cultura straniera, aliena.

Spessissimo la classe dirigente è descritta come aliena o celeste in origine, questa interpretazione ha valore in quanto supportata da elementi archeologici.

Per quel che riguarda Daho-ri in particolare, troviamo 3 tipi di tomba con sarcofago, classificati in base alla taglia e alla profondità della fossa: le tombe grandi (con sarcofagi di 240-278 cm per 100-136 cm e una profondità di 120-205 cm), che spesso hanno una buca di taglia ridotta al centro del pavimento, poi sigillata dal sarcofago; le tombe piccole (160-200 cm per 55-64 cm e una profondità di 20-40 cm); e le tombe così così (200-270 cm per 80-125 cm e una profondità di 90-168 cm, sono di poco più piccole delle tombe di tipo 1 ma, come le tombe di tipo 3, sono sprovviste di buca supplementare).

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Il sarcofago monossilo della Tomba n.1

La Tomba n.1 data del I° secolo a. C. La sua posizione in seno al cimitero non presenta particolarità degne di nota, ma dalla quantità e qualità del corredo funebre possiamo dedurre che si tratta della tomba di qualcuno relativamente importante.

La fossa ha una pianta rettangolare con gli angoli arrotondati e misura circa 278cm in lunghezza, 136 cm in larghezza e 205 cm in profondità, orientata lungo un asse sudest-nordovest. Presenta una buca realizzata al centro del pavimento, poi coperta dal sarcofago.

Il sarcofago stesso è imponente: ricavato scavando e aprendo in due un tronco di quercia di 350 anni, per un risultato che misura 240 cm per 85 cm, riempiendo di fatto quasi la totalità della fossa con la sua massa.

Il sarcofago è ancora più impressionante se si considera che le seghe da legno non erano ancora state inventate e che l’intera faccenda è stata realizzata con accette e fuoco.

La tecnica ricorda quella per realizzare le canoe monossili. Yi Young Hoon nota che la tradizione della canoa-sarcofago si ritrova anche nella tradizione funeraria del Sichuan del periodo dei Regni Combattenti (V°-III° secolo a. C.) e nella cultura Dong Son vietnmita (1.000 a. C. – 100 d. C.).

Parte del coperchio è stata rovinata dai ladri, ma all’interno abbiamo comunque trovato una daga laccata, una collana di perle di vetro, una coppa di legno e una lama di scure a testa piatta. Si tratta probabilmente degli effetti personali del morto, di cui purtroppo non ci resta niente.

Sotto il sarcofago, c’è la buca di cui sopra, che misura 65cm per 55 cm per una profondità di appena 12 cm. Qui abbiamo trovato asce con manico in legno ancora intatto (usate probabilmente per scavare la fossa, oggetti laccati tra cui una coppa a piede, fasci di spago, castagne e foglie. Abbiamo anche recuperato pezzi di una spessa corda, usata senza dubbio per calare il sarcofago nella fossa.

Nella buca secoondaria si trovava una cesta di bambù piena di oggetti: due daghe in bronzo laccate (che hanno permesso di ricostruire finalmente la daga bronzea coreana del periodo), una daga in ferro laccata, una daga in ferro con impugnatura in legno, due frammenti di daga in ferro, un coltello in ferro laccato con una guardia ad anello, una punta di lancia in bronzo e quattro punte di lancia in ferro.

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Daga in bronzo con fodero, conservata al National Museum of Korea

La cesta conteneva anche strumenti, come cinque ferri di ascia in ferro colato e due falcetti con manico in legno, o ornamenti e oggetti di prestigio, come uno specchio decorato, una fibbia da cintura in bronzo, cinque anelli in bronzo di cui uno decorato con un motivo seghettato.

Abbiamo anche trovato delle monete wuzhu (che ritroviamo anche in altri siti contemporanei, siano essi sepolture o siti fortificati), una campanella di bronzo per cavalli e cinque pennelli di foggia particolare (dotati di setole a entrambe le estremità). La presenza dei pennelli è uno dei più antichi esempi di cultura della scrittura nella regione. I pennelli sono peraltro accompagnati da un coltello apposito la cui funzione era grattar via i caratteri errati dalle tavolette di legno (uno dei supporti di scrittura più comuni anche in Giappone, dove vengono chiamate mokkan).

La campana per cavalli e la fibbia in bronzo sono in chiaro stile Han, arrivati in Daho-ri senza dubbio a seguito di scambi con Lelang.

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Specchio in bronzo decorato con motivi di stelle e nuvole stilizzate, conservato nel National Museum of Korea

Yi Young Hoon ipotizza che la cerimonia funeraria si svolgesse nelle tappe seguenti :

  • Il cadavere e parte del corredo erano deposti nel sarcofago, che era quindi chiuso. Il sarcofago era trascinato per i «piedi» al luogo di inumazione, dove venivano realizzate la fossa e la buca della cesta.
  • La cesta era deposta nella buca e il pavimento era ricoperto da contenitori quadrati e circolari contenenti offerte di cibo e bevande, insieme ad altri doni funerari come asce e mazze. Castagne erano quindi gettate nella fossa.
  • Il sarcofago era calato nella buca e le corde erano tagliate.
  • Uno strato di terra era zeppato tra il sarcofago e le pareti, e su di esso venivano poste altre offerte funerarie, probabilmente oggetti preziosi in ferro e in lacca.
  • Altra terra era zeppata nella fossa, fino ad arrivare a livello del coperchio del sarcofago. A questo punto altri oggetti in lacca erano posti sul coperchio, il resto della fossa veniva riempito e la terra veniva accumulata fino a formare un basso tumulo.

Yi Young Hoon cita come esempio simile la Tomba n.11 sempre in Daho-ri, dove possiamo individuare almeno tra strati cerimoniali con offerte di punte di freccia, contenitori in lacca e un arco laccato trovati in differenti livelli.

E’ anche importante notare che gli oggetti laccati estratti dalla Tomba n.1 presentino una tecnica raffinata e nettamente diversa dal metodo di laccatura usato in Lelang. Il che mostra come l’industria della lacca fosse a questo punto non solo sviluppata, ma originale in questa regione.

I ferri d’ascia presenti nel canestro non erano adatti a essere montati su un manico e usati: si tratta in realtà più di una forma di lingotto, un’unità base di ferro. La Corea del Sud e in particolare questa zona, era un grosso produttore che esportava un volume considerevole di questi lingotti verso le Comanderie Han e le Isole Wa. I Wa in particolare erano dipendenti dalla produzione coreana, ma di questo riparleremo magari quando racconteremo della fine di Gaya.

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Asce-lingotto estratte dalla Tomba n.1, conservate nel National Museum of Korea

E’ da notare che nei siti funerari di Chinhan e Byeonhan troviamo oggetti indigeni o oggetti cinesi, con poca roba importata da altri posti. Per fare un confronto, nella polity di Mahan gli oggetti di importazione Han sono molto più rari. Questo a dimostrazione che nel Periodo Samhan le Comanderie avevano legami diversi con le varie polities presenti nella penisola.

La sovrabbondanza di ferro lascia supporre che il morto della Tomba n.1 fosse coinvolto nel commercio del ferro con Lelang.

I cimiteri sono associati con centri di potere. Il numero di sepolture e la taglia di tombe, come anche la ricchezza dei corredi, lasciano presupporre che verso il I° secolo a. C. nei pressi di Daho-ri si trovasse un centro amministrativo ed economico di prima importanza.

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Toh, qualcuno è arrivato a fine articolo!

E’ un fatto indiscutibile che la Corea sia servita da ponte tra il Continente e le Isole giapponesi, portando con il suo flusso di mercanti e immigrati tecniche, idee, materiali. Per ricercatori come Takesue Jun’ichi, i toraijin, gli immigrati coreani, furono fondamentali nella rivoluzione tecnica e culturale che segna la fine del periodo Jōmon e l’inizio del Periodo Yayoi. L’apparizione in siti archeologici giapponesi di daghe in bronzo coreane preannuncia l’incipiente processo di state-formation che portò all’emergere del Regno di Yamato e, eventualmente, alla nascita dell’Impero Giapponese.

E’ impossibile studiare la preistoria e la protostoria giapponese senza tener conto di ciò che succedeva sul Continente, e in particolar modo in Corea.

Sicché oggi ho voluto offrire un assaggio del complicato e affascinante mondo della preistoria sudcoreana.

MUSICA!


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