Good times, bad times: Storia e propaganda

Ogni qualche tempo scoppia da qualche parte una virulenta polemica a spunto più o meno storico.

Una nuova via, un murales, una citazione usata da un politico o un giro di frase apparso in un giornale.

E’ inevitabile, e oggi vorrei parlare del perché.

Per fare un esempio concreto, possiamo prendere la disgraziata diatriba sulla targa dedicata a Giuseppina Ghersi, bambina uccisa pochi giorni dopo la Liberazione.

Per chi vivesse in una lieta bolla e non avesse seguito: poco dopo la Liberazione, la famiglia Ghersi fu arrestata perché in odore di collaborazionismo. I genitori furono incarcerati, mentre la figlia Giuseppina, di 13 anni, fu ritrovata morta ammazzata nei pressi del cimitero.

Fin qui è una storia tragica nella propria banalità. Vendette e crimini di questo genere si sono verificati sempre e da sempre alla caduta di un regime, dopo una sconfitta o dopo una vittoria.

Come spessissimo accade in questi casi, il fatto è affogato nei sentito dire più fumosi.

L’hanno violentata i comunisti. Sono stati i partigiani (che notoriamente erano tutti comunisti). I genitori erano fascisti. La bambina era una spia. Insomma, tutta la gamma del caso, tutte cose perfettamente verosimili, nessuna delle quali è però stata verificata per davvero.

Questa è una storia tra i milioni di fattacci capitati in quegli anni.

Non c’è stata nessuna inchiesta recente sui fatti, nessuna scoperta particolare, quindi perché parlarne ora?

Perché a Giuseppina Ghersi sarà dedicato un monumento a Noli.

Il consigliere comunale, di aperte simpatie neofasciste, ha pensato bene di piazzarle un bel cippo in Piazza Rosselli (trolling much?).

Prima di entrare nel merito del dibattito (che come di consueto si è mantenuto sui livelli di “pallate di merda nel fango”), è importante capire perché c’è un dibattito per cominciate, e perché ci sarà sempre in queste occasioni.

Lo scopo dell’articolo non è tranciare su quanto sia una buona idea mettere il cippo, né su cosa davvero è accaduto in quei giorni di caos. Lo scopo di questo articolo è sviscerare una discussione idiota (ma avranno fatto bene o non avranno fatto bene a uccidere una bambina?) affinché sia possibile avere un punto di vista un minimo più articolato sul ruolo della Storia nella retorica contemporanea.

Al di là dell’ignoranza, l’ipocrisia e l’inettitudine retorica, la ragione principale per cui casi come questo scatenano discussioni da porcile intasato è l’incapacità della persona media di riconoscere l’importanza del contesto. Per la persona media, una faccenda simile è semplice: o è giusto mettere un cippo, o è sbagliato. O Giuseppina Ghersi merita un cippo, o non lo merita.

Purtroppo questo atteggiamento fa un pastone immondo, dacché confonde diversi fattori distinti.

Smontiamo quindi questo puzzle.

Immagine di propaganda menzognera: i gatti sanno sempre quel che stanno facendo, sono i vostri miseri cervellini umani che non riescono a capire

Tanto per cominciare abbiamo due piani paralleli: la realtà storica e la percezione attuale (perché ricordiamolo, le società non si rapportano mai alla realtà, ma al racconto della realtà, a un modello di realtà).

Nella realtà storica, l’elemento originale è un fenomeno (fatto, persona, ideologia, ecc.), nella percezione l’elemento originale è la narrativa dominante, il punto di vista, la presa di posizione. In altre parole, mentre un ricercatore è formato a distaccarsi e cercare elementi con cui costruire un quadro, la persona normale ha già un quadro e cerca nella Storia elementi che lo corroborino. Uno storico cerca di comprendere, la persona media cerca conferme.

Con questo non voglio intendere una superiorità intellettuale dello storico. Lo stesso problema lo ritroviamo in tutti i campi: il climatologo cerca di capire gli uragani, la persona media ha una sua idea sul Cambiamento Climatico e cerca articoli accessibili che le diano ragione. E così per molti altri campi: la ricerca richiede una certa sincerità d’intenti, la vita di tutti i giorni no.

La percezione può essere più o meno prossima alla realtà dei fatti, ma spesso la seconda è in larga parte accessoria.

Torniamo alla Storia.

Cominciamo dai fatti. Un bel giorno, da qualche parte, succede qualcosa. Nella fattispecie, una ragazzina viene trucidata. Tale fenomeno può (e dovrebbe) essere oggetto di studio storico il più preciso e oggettivo possibile, prima che ne sia tratta una qualsiasi conclusione (morale o meno).

Questo studio però avviene a sua volta in un momento storico, in cui individui sono alla costante ricerca di elementi che confermino la loro idea di mondo.

Capita spesso quindi che una ricerca che poteva essere oggettiva nel contesto accademico perda ogni oggettività nel contesto ideologico. E’ un problema, perché cambiando il contesto cambia completamente il fine del discorso.

Ad esempio, lo studio dei crimini partigiani può essere interessante per capire motivazioni, diamiche dei gruppi, meccanismi psicologici, ecc. Al di fuori di un contesto di ricerca, lo stesso studio è spesso usato nell’apologia del fascismo: siccome le carognate le facevano anche i partigiani, allora i fascisti non erano poi così cattivi (la falsa equivalenza è un grande evergreen di questo genere di manipolazioni).

Per certi versi è normale (oserei dire giustissimo) trarre dalla Storia i “mattoni” con cui costruire la propria visione di mondo. Il problema è che prima di poterlo fare con successo è necessario capire ciò che si maneggia, e la triste realtà è che di capire non frega un cazzo a nessuno.

Nella fattispecie, a Casa Pound non importa una virilissima mazza di cosa è successo a Giuseppina Ghersi o perché, il punto è che la sua morte conferma la narrativa de “i partigiani comunisti e cattivi che saccheggiavano l’Italia” con il corollario “la nostra ideologia è buona e giusta perché i veri cattivi erano loro”.

Casapound, parla Paolo il ragazzo pestato per un post ironico su ...

Parliamone!

La strumentalizzazione politica della Storia è costante e sfinente per chi cerca di fare un lavoro serio. Specie quando si tratta di Storia recente, la trappola retorica è sempre presente.

Ma torniamo ai monumenti et similia.

Perché, secondo voi, non esistono monumenti ai morti della Hitler-Jugend? Si tratta di ragazzini, e se andiamo a cercare al caso per caso possiamo trovare decine di esempi di disgraziati giovanissimi vittime della guerra tanto quanto Giuseppina Ghersi.

Eppure non facciamo loro monumenti.

Perché il messaggio retorico del monumento potrebbe facilmente essere usato per fare l’apologia del Nazismo.

Un monumento, una commemorazione, una targa, portano automaticamente con sé un messaggio propagandistico. “Propagandistico” non è inteso qui in accezione necessariamente negativa, bensì come discorso il cui scopo è modificare la percezione e quindi il comportamento del prossimo.

In parole povere, se il fenomeno storico ha un suo contesto, anche il discorso sulla Storia (e in particolare monumenti e commemorazioni) ce lo ha. Un monumento non è mai anodino, ha sempre una storia sua, una ragione e uno scopo, in gran parte indipendenti dall’evento o dalla persona a cui si ispira.

Questo perché un fenomeno è un fatto, mentre un monumento è un’azione, un fenomeno appartiene al mondo del reale mentre un monumento appartiene al mondo della retorica e delle idee.

Non è strettamente necessario che lo scopo di una commemorazione sia politico. In The Art of War i Sabaton celebrano le prodezze militari della Divisione Fantasma, così come l’eroismo polacco a Wizna, l’inutile spreco di vite a Gallipoli ecc. Nel contesto, è chiaro che lo scopo dell’album è parlare della Guerra in quanto tale, nel suo orrore e nel suo splendore, senza spingere un’agenda politica particolare. Ghost division è diventata una dei loro cavalli di battaglia e non è mai stata oggetto di grande controversia, nonostante parli di nazisti.

Qualcuno avrà seguito la diatriba sui monumenti confederati in America. Perché oggigiorno dovremmo preoccuparci di come Lee trattava i suoi schiavi (sempre che li avesse)? Alla fine sono statue di gente morta secoli fa.

Al di là di tutte le chiacchiere e le trombonate, la persona reale del Generale Lee conta fino a un certo punto, quella che pone problema è la storia delle statue stesse. Molte di queste non sono state costruite ai tempi della guerra o subito dopo, ma durante il periodo delle Jim Crow Laws e sorgere del KKK (1890-1920) e durante la lotta per i diritti civili (1960-70). In altre parole, questi monumenti non sono nati dal sincero e apolitico desiderio di ricordare un buon militare, ma dal dichiarato e politicissimo intento di intimidire una comunità e celebrare la superiorità dei Bianchi.

Nel comune di Vitry sur Seine (tradizionalmente bastione comunista) moltissimi toponimi celebrano l’URSS, tipo il Boulevard de Stalingrad (che poi muta in Boulevard Yuri Gagarin, LOL). Nonostante il successo che riscuote il fascismo di questi tempi in Francia, nessuno se n’è uscito con “Vitry deve cambiare i toponimi”, nonostante siano oggettivamente celebrativi di quella che è stata una delle dittature più longeve e opprimenti dell’ultimo secolo.

Il Boulevard di Stalingrad in tutto il suo splendore! Ammirate l’opera industriosa della mano emancipata del lavoratore Vitriota! 

Qual’è la differenza con le statue confederate?

Ci sono tante differenze, ma quella che a parer mio è discriminante è che, mentre in America esiste una vocale apologia del Suprematismo Bianco, in Francia nessuno sta facendo l’apologia dell’URSS! Nessun giornalista sta difendendo i lati positivi della politica di Andropov e nessun politico si sognerebbe mai di dire che Stalin non era poi tanto male. Pertanto ora e in questo contesto, toponimi simili si sono svuotati di significato per diventare folklore. Quando inizi a vedere le frecce per il Cremlino (giuro!) vuol dire che sei a Vitry. Se mai un giorno dovesse esserci un recupero dello Stalinismo e un movimento apologista, toponimi simili si ritroverebbero automaticamente al centro della polemica.

Un monumento continua infatti ad avere una vita, e può evolvere in significato negli anni e nei secoli. La Colonna Traiana è nata come simbolo del potere di Roma di schiacciare e sottomettere i propri nemici, una cosa non molto diversa dal soldatone sovietico che torreggia sopra la città di Plovdiv in Bulgaria. Oggigiorno la colonna rappresenta un reperto storico senza particolari slanci colonialisti. Quelli che guardano il bassorilievo e sghignazzano “aha, maledetti Daci!” sono certamente pochissimi. Svuotato del suo intento politico originale, la Colonna può essere apprezzata per il suo valore artistico, per l’apporto storico, ecc.

Nulla toglie che un domani qualcuno si appropri di questo monumento per farne il simbolo di qualcos’altro, come quando i fascisti si appropriarono del Fascio Littorio. Dopotutto è la ragione per cui in ricostituzione vichinga la gente spesso evita di usare svastiche (motivo molto diffuso in Scandinavia).

Ad esempio, Marte è ormai un chiaro simbolo fascista

Torniamo a Giuseppina Ghersi. Stabilito che un monumento ha sempre uno scopo retorico e propagandistico, che ne è di questo benedetto cippo?

Come detto prima, il contesto è tutto. Perché dedicare un cippo a lei e ora?

Perché il monumento di Giuseppina Ghersi è una provocazione. E’ stato ideato da gente con chiare simpatie fasciste in un momento in cui il reato di apologia del fascismo viene inasprito.

Lo scopo è raccontare la storia di una povera piccola martire del Partito, torturata e uccisa da briganti assetati di sangue. Puntando il dito ai crimini impuniti della Resistenza (che esistono) si offre sponda alla falsa equivalenza (anche i partigiani commettevano crimini come i repubblichini -> i partigiani non erano meglio dei repubblichini -> i repubblichini non erano poi tanto male).

Ovvio, storicamente ha poco senso recriminare in questi termini. Abbiamo esempi di partigiani impuniti e abbiamo esempi di gerarchi impuniti (*coff* Rodolfo Graziani *coff*). Si potrebbe avere un’educata discussione in proposito, ma di nuovo, non è lo scopo.

Questo gioco permette peraltro di indurre la sinistra a opporsi nel modo più idiota possibile (cosa che alla sinistra riesce spesso bene). Nulla da dire, ha funzionato, visto che la risposta è stata “niente cippo perché lei era fascista”.

Sul serio? Il problema è davvero che Giuseppina Ghersi era una bambina cattiva? Non ci sono prove verificate di ciò, come non ce ne sono della sua completa innocenza. Il punto resta: aveva tredici anni, era una bambina.

In realtà il problema non è lei, ma lo scopo del monumento succitato. Il problema non è ricordare una vittima, è offrire elementi a un discorso apologista che sta prendendo sempre più vela in Italia e in Europa.

Also, cats are like nazis, but that’s another story…

L’esempio del cippo a Giuseppina Ghersi mostra bene il conflitto che nasce dall’appropriazione della Storia, e l’incapacità intellettuale delle varie parti di avere una discussione intelligente a questo proposito.

La strumentalizzazione politica impedisce un dialogo sereno su certi temi, e la Storia sarà sempre usata in questo modo. La diatriba su monumenti, commemorazioni et similia non si cheterà mai. Non può chetarsi e per certi versi ciò è inevitabile. La Storia è una miniera troppo ghiotta di argomenti e analogie.

La democrazia implica una costante lotta di influenza sulla visione del mondo della maggioranza dei cittadini. La propaganda è principio e fine di ogni cosa, il gioco funziona in questa maniera e c’è poco da fare. Ha i suoi pregi e i suoi difetti o, per usare le parole di Churchill: Democracy is the worst form of government, except for all the others “.

Quanto a ‘sto benedetto cippo, sarà costruito e sta ora attirando consensi anche dalla sinistra. Potrebbe essere una strategia: appropriarsi del simbolo altrui per vuotarlo della sua carica retorica. Il punto resta che nessuno dei tizi coinvolti ha preso posizione perché sinceramente sconvolto dal brutale omicidio di una ragazzina, dacché di nuovo, Giuseppina è puramente accessoria in questa diatriba.

Quindi qual’è la morale alla fine di questo discorso?

Se quello che si vuole è una visione del mondo il più possibile ancorata alla realtà, partigianismo e opinioni facili su Giusto e Sbagliato sono da tirare nel bidone. Imparare a capire l’importanza del contesto è indispensabile, ed è l’unica cosa che può combattere la strumentalizzazione politica della Storia.

Far finta che qualcosa esista al di là del proprio contesto è ignorante e ipocrita. Se si vuole discutere serenamente di temi e fatti, è necessario imparare a tener conto di ciò ed elaborare opinioni un minimo più articolate di “sei Cattivo/sei Buono”.

Certo, se dipendesse da me il problema non sussisterebbe perché io non sono mai stata democratica.

VIVA IL RITORNO AL FEUDALESIMO REALE, VIVA L’IMPERATORE E IL CULTO DEI GATTINI!

MUSICA!

Illustri Sconosciuti: Taira no Masakado (interludio)

Nella scorsa puntata avevamo lasciato Taira Masakado e i suoi in un Est relativamente pacifico. La faida familiare che aveva messo la regione a ferro e fuoco pare conclusa per esaurimento di parenti e Masakado ha perfino giocato un ruolo indispensabile nel mantenimento della pace nella provincia di Musashi.

Purtroppo le grane volano sempre a squadriglie, e ci tocca mollare le colline selvagge del Bandō per dare un occhio alle infamie meditate nella Capitale.

Come accennato spesso in articoli precedenti, la Corte di Heian è il centro pulsante della burocrazia imperiale, gremita di funzionari di ogni risma e sede di una classe nobiliare tanto prolifica quanto onerosa. Il peso sul bilancio degli alti aristocratici non ha niente da invidiare a Luigi XIV, e il protocollo severo della Corte, insieme ad un sacco di fisime rituali su purezza e complicazioni creative, costituiscono un fardello non indifferente.

Heian è una metropoli che riunisce in sé il fiore dell’eleganza nobiliare, la fervente produttività artigianale, la miseria più nera e il crimine più disinvolto. All’angolo di un grande viale, la residenza di un ministro è cinta da un muro, ha guardie alle porte. Al suo interno sono organizzati concorsi di poesia e concerti su stagni artificiali. Poco più in là, la bottega di un fabbro macina carbone senza tregua, martellando spade e armature per gente come Masakado, acciaio laccato pronto per essere deformato a colpi di sciabola. A sud, nella grande Porta di Rashō, disgraziati trascinano e abbandonano cadaveri emaciati, bambini non voluti, malati moribondi. Mendicanti e sciacalli frugano nella massa putrescente, contendono con i ratti, staccano capelli ai morti per farne parrucche di lusso o amuleti.

Senza le mura, ladri e assassini scorrazzano per le larghe strade, insieme a mercanti, frati, carovane, e pattuglie di kebiishi, i castigatori Imperiali. Cani randagi rosicchiano carcasse di bestie da soma abbandonate, mentre due strade più in là i frati della montagna portano in giro palanchini sacri decorati, sotto lo sguardo di dame nascoste in carri sontuosi, drappeggiati di broccato di seta.

Heian è la città dei contrasti, del surrealismo e della bizzarria. Una metropoli di strade perpendicolari e caos, che in qualche modo sopravvive a sé stessa sfidando la comprensione di contemporanei e storiografi.

Una veduta aerea di Heian (la foto potrebbe non essere d’epoca)

Heian è una colossale sanguisuga sulla groppa dell’Impero. Ha bisogno dei cavalli e dei guerrieri dell’Est. Ha bisogno dei tributi, del carbone per il suo acciaio sempre più rinomato. Ha bisogno dei marinai del Mare Interno, che la collegano con Kyūshū, e da lì con il Continente.

Heian mischia insieme un caos semi-costante a una fragilità delicata. Tutto potrebbe ucciderla, eppure niente sembra riuscirci.

Ma se il livello di entropia è costante, le cose non sono mai statiche: in questo periodo qualcosa di radicale sta cambiando nella Capitale, qualcosa che avrà ripercussioni su tutto l’Impero.

Celato dietro un pilastro, il ministro Tadahira medita nequizie

All’inizio dell’VIII° secolo, la Corte aveva ultimato i Codici, una riforma ciclopica votata a trasformare una massa di capi tribali e signori regionali in uno Stato moderno, ispirato ai governi di Corea e Cina. Niente più ordalie per scegliere i capi, niente più “buttiamo tutti nella vasca dei barracuda e incoroniamo chi riesce a uscirne vivo”, basta con la barbarie! Nasce un Governo strutturato, con ministeri, uffici, commissioni, documenti ufficiali, un sistema dettagliatissimo di ranghi e funzioni, timbri e carta da bollo.

Il nuovo sistema creato dai Codici però non cancella il passato tribale dell’Arcipelago: lo assorbe. I legami personali, il potere privato, il privilegio di nascita, tutto questo rimane, un controcanto discreto sotto la struttura rigorosa di ranghi e concorsi. E verso la metà del X° secolo, il modo di esercitare il potere cambia di nuovo.

Come tutti i processi, non è possibile individuare esattamente una data di inizio. Sta di fatto che verso questo periodo cominciamo a vedere alti funzionari riposarsi sempre più sul loro réseau privato che non sulla loro funzione.

Il problema della burocrazia è sempre lo stesso: è lenta, è ingombrante, è poco efficace. Sicché invece di impiegare i canali istituzionali, gli alti papaveri prendono l’abitudine di gestire gli affari di Stato come affari privati. Si sviluppa un’era di clientelismo in cui i legami personali (di sangue o artificiali) fano progressivamente aggio sulla regola ufficiale.

Questo è un cambio di tendenza importante, dacché sposta il centro gravitazionale del potere dall’Istituzione (un concetto astratto) alla persona (un essere umano in carne ed ossa). Società che obbediscono a concetti astratti e società che obbediscono a persone sono fondamentalmente diverse.

Sia chiaro, non tutti gli strati della società sono uniformi, e il secondo modello, come accennato, aveva radici antichissime e non era mai stato davvero superato. Tuttavia ora questa tendenza si diffonde sempre più nelle sfere più alte dell’amministrazione, svuotando di potere e significato le istituzioni dei Codici.

Un esempio di questo momento di cambiamento è incarnato d Fujiwara Tadahira, uno degli attori della nostra tragedia.

Sire Teishin (nome postumo di Tadahira) è visitato dal Fantasma delle Grane Future.
Tsukioka Yoshitoshi, 1865

Tadahira appartiene al ramo nord dei Fujiwara, il clan aristocratico più potente del Giappone. E’ il quarto figlio di un ex-Reggente Imperiale, ed erede adottivo di un altro Reggente Imperiale. Sul finire del IX°, il nostro giovane squalo entra nelle buone grazie dell’Imperatore Uda, che lo prende come uomo di fiducia. I due sono così vicini che, nel 901, Tadahira sposa Minamoto Nobuko, sorellastra di Uda (come detto in precedenza, i pargoli imperiali in eccesso venivano radiati dal clan e veniva loro assegnato il nome Taira o Minamoto).

Negli anni che seguono, Tadahira naviga con abilità il pericoloso mare di Palazzo, riuscendo a schivare scandali e vendette politiche in un periodo di grave tensione tra membri della famiglia imperiale. Galleggiante come un tappo di sughero, riesce a legarsi anche all’Imperatore Daigo, nonostante il pessimo sangue che correva tra questi e il padre Uda.

Nel 925 Tadahira diventa Ministro della Sinistra, la seconda carica più prestigiosa prevista dai Codici, e presto si trova a dover usare della sua nuova autorità.

Con gli anni ’30 del X° difatti comincia un periodo infame. Raccolti scrausi s’incugnano uno dietro quell’altro, provocando fame generale, con relativo picco di criminalità, ritardi nell’arrivo dei tributi e fermento sociale. I pirati imperversano nel Mare Interno e lungo il fiume Yodo, gente fugge dagli esattori, nuove sette religiose nippomillenariste si diffondono, prime tra tutte quella del monaco Kūya. Perché quando la vita è una merda, la cosa più costruttiva da fare è correre in giro sbatacchiando un gong e urlando “FINIREMO TUTTI ALL’INFERNO, DANNATI ZOZZONI!”.

Gente di Heian cerca riparo da una battente pioggia di madonne (Ban dainagon ekotoba, XII° secolo)

Il 939 è un’annataccia tra le annatacce, e casca particolarmente male per Tadahira, che ormai è Ministro degli Affari Supremi (AKA, l’uomo più importante dell’Impero dopo l’Imperatore… o anche prima).

I raccolti sono scarsi e di pessima qualità, il che fa esplodere i prezzi del cibo e aggrava la carestia generale che imperversa già da cinque anni.

Nel frattempo la pirateria nel Mare Interno conosce un nuovo picco. Si parla di una regione nevralgica per gli scambi tra i tre circuiti del San’yōdō, Nankaidō e Saikaidō. Come potete leggere in dettaglio in questo articolo, il casino in queste acque furoreggiava almeno dal 931, ma sotto la guida dell’ex-funzionario Fujiwara Sumitomo, il Mare Interno è diventato un brodo di grane senza redenzione.

Tadahira si trova quindi preso nel mezzo: scazzi tra guerrieri all’Est, filibustieri ad Ovest.

Il Mare Interno è più vicino alla Capitale, quindi prende priorità. Tanto più che Tadahira è stato patrono di Masakado, e conta probabilmente di avere ancora presa sul nostro eroe. Mentre si discute se cercare di comprare Sumitomo oppure no, leggiamo sul diario di Tadahira: “Convocare Masakado e chiedergli cosa diavolo sta combinando di preciso”.

Si tratta di una convocazione privata. Tadahira vuole regolare la faccenda da uomo a uomo!

Poche settimane dopo la notazione, due figuri arrivano alla Capitale.

Uno è Sadamori, coperto di botte e pelo di cinghiale. Ancora scosso dal viaggio, il nostro comincia a postulare presso funzionari e patroni per difendere il suo caso contro Masakado.

Allo stesso tempo, alla Capitale ricompare Minamoto Tsunemoto.

Tsunemoto non è stato incluso nell’incontro diplomatico di Musashi, in cui Masakado è riuscito a mettere d’accordo il vicegovernatore temporaneo (il principe Okiyo) e il magistrato di distretto (Takeshiba). Purtroppo, a seguito di un disguido, Tsunemoto ha avuto un increscioso incidente con gli uomini di Takeshiba e se l’è data a gambe di gran carriera. Tornato a Corte, afferma che nell’Est si trama una rivolta in grande stile contro la Corte, orchestrata da Masakado, Okiyo, Takeshiba e il topolino che al mercato mio padre comprò.

Siamo praticamente sicuri che queste accuse sono state fatte e che erano, a questo stadio, false come una banconota da tre euro. Tuttavia la storia suona vera.

Ergo il nostro Tadahira si trova a dover considerare la possibilità che il suo cliente stia meditando infamie di portata Storica. Perché ricordiamocelo: se scapitozzi tuo cugino per questioni private va bene, ma se lo scapitozzi in quanto funzionario per sfidare l’autorità della Corte, allora NON VA PIU’ BENE.

Tadahira si affretta quindi a mandare una convocazione a Masakado. Non si tratta di un documento ufficiale, bensì di una lettera privata, portata da un suo uomo di fiducia. Il fatto che Tadahira ricorra a un picciotto per invitare Masakado “e discuterne da galantuomini” è per alcuni storici la prova che siamo ormai nella fase clientelista del governo aristocratico.

Tell me Masakado, let me understand this cause, ya know maybe it’s me, I’m a little fucked up maybe, but I’m funny how, I mean funny like I’m a clown, I amuse you? I make you laugh, I’m here to fuckin’ amuse you? [Estratto dalla lettera mandata da Tadahira a Masakado, 939]

E’ anche opportuno notare che di sicuro stiamo entrando nella fase “ma anche no!” dei disordini orientali: a questo giro Masakado non si schioida dal Bandō! Manda una risposta, beninteso, supportata da lettere e testimonianze (più o meno spontanee) di funzionari provinciali. Ma il punto è: Masakado non si fida più della Corte (che già si è dimostrata volubile) e non si fida più di Tadahira e della protezione politica che è disposto a concedergli. Il nostro non ha intenzione di ribellarsi (continua a rispettare i funzionari), ma non riconosce più appieno l’autorità di Heian, sia essa istituzionale o personale.

Intanto a Corte le accuse di Tsunemoto vengono discusse. Dopo quei 3-4 mesi standard di inferno burocratico, si decide di mandare degli investigatori, perché il tempismo è tutto in caso di rivolta armata. Parte quindi la caccia al candidato volontario che si recherà (baionette alle reni) nella fossa del leone, mentre Tsunemoto viene ficcato in gattabuia.

Questo non deve sembrare una presa di posizione a favore di Masakado: procedura standard era incarcerare accusato e accusatore per la durata dell’inchiesta. Se i due erano glebani, si procedeva a pestare loro e tutti i testimoni possibili finché tra una randellata e l’altra non usciva una versione dei fatti più o meno coerente e convincente. Se i due erano gente importante o (come nel caso di Masakado) gente fumina, si doveva purtroppo usare i guantini, interrogare gente, scartabellare verbali e tutta quella roba noiosa lì.

Il primo scoglio è ovvio: Masakado non è venuto a Heian.

Tadahira convoca Sadamori.

-Ho buone notizie!- Lo accoglie con un sorriso. –Ho deciso di non accettare le scuse di Masakado e di imporgli, hai capito bene, imporgli di venire qui a spiegarsi davanti alla Corte!

Sadamori è un pessimo guerriero ma un ottimo politico. Stringe i denti e le chiappe.

-Oh. Molto bello.

-Ho già preparato la letteraccia di convocazione ufficiale e perentoria.- Tadahira agita l’indice. –La tolleranza è finita. E’ ora di fare le cose secondo le regole!

-Mi fa piacere.

Il sorriso di Tadahira si allarga. –Non mi hai chiesto chi sarà il gagliardo funzionario incaricato di portare la lettera.

-No.

-Non lo vuoi sapere?

Sadamori deglutisce a vuoto.

Tadahira sogghigna. -Spero che tu faccia buon viaggio, sai. In questo periodo ci sono un sacco di matti lungo la strada.

-Masakado è un guerriero migliore di me! Mi stacca la testa e ci fa un’insalatiera!

Tadahira si stringe nelle spalle. –Forse o forse no. Che tu riesca o che tu muoia, un problema almeno sarà risolto.

Gli investigatori ufficiali intanto si sono asserragliati nel cesso. Fuori, i kebiishi picchiano sulla porta.

-Venite fuori!

-No!

-Dovete partire, è un ordine!

-Vogliamo un esercito di scorta!

-Se arrivate con un esercito, Masakado pensa di essere stato condannato e tira giù tutte le madonne. E’ un rischio che non possiamo correre. Avrete una scorta prevista dal regolamento.

-Ogni volta che lo dici ci ricaghiamo addosso.

-Non potete restare chiusi al cesso per sempre!

-Lo dici tu!

-Se non uscite subito sarete privati di funzione, rango, abito e baffi!

-Ottimo. Tanto avevamo la ferma intenzione di trasferirci in Nepal per vivere come capre (cit.).

Dopo mesi di stintignamenti, i due vengono condannati per renitenza al martirio e privati di funzione, rango e stipendio (saranno perdonati 2 anni dopo).

Mentre questa costruttiva pantomima va avanti, la Corte sceglie nuovi funzionari per le provincie orientali, di preferenza gente con contatti sul posto e buoni rudimenti di tattica e combattimento.

Sembra che tutto stia ingranando, quando i pirati di Sumitomo rilanciano attacchi su grande scala. Uno dei suoi riesce ad agguantare il governatore di Bizen e gli mozza il naso e le orecchie prima di farlo linciare dai propri uomini. Se Masakado mostra riguardo e rispetto per i funzionari, i pirati del Mare Interno nutrono il più sfacciato disprezzo per gli Imperiali.

Sugli inizi del terzo anno dell’era Tengyō, Sumitomo arriva fino ad appiccare incendi alla Capitale stessa.

Leggenda narra che Masakado e Sumitomo si fossero accordati per attanagliare la Corte in contemporanea. In realtà non esiste nessuna prova di ciò, nemmeno circostanziale. Quello che è probabile, è che quel malandrino di Sumitomo abbia sentito parlare del casino nell’Est e ne abbia approfittato, contando sul fatto che, presa tra due fuochi, la Corte non avrebbe avuto la forza e lo spirito di reagire con troppa veemenza.

Nel qual caso: BINGO.

La Corte decide che è il momento di calare le braghe.

Ma con chi?

Masakado è fuori mano, popolare, capace e astuto, arroccato nel centro di quello che è il cuore militare del Paese. Dai potere a un uomo del genere, e non sai se e quando glielo potrai togliere. Plus, Masakado è un guerriero dell’Est, e gli aristocratici non capiscono i guerrieri dell’Est. Non capiscono chi sono, cosa vogliono, cosa temono…

Sumitomo è diverso. Sumitomo è un ex-funzionario, è familiare, è semplice. Vuole soldi, vuole potere, vuole prestigio. Lineare, elementare. Gli offrono rango e posizione perché l’abbozzi, e sul momento funziona: Sumitomo richiama i suoi cani. La Corte può tirare il fiato e preoccuparsi dell’Est.

Come spiegato nell’articolo su Sumitomo, la pace comprata in questo frangente non dura. Ma da qui in avanti ci concentreremo sull’Est. Nubi di tempesta si ammassano all’orizzonte. La Corte non può più permettersi di temporeggiare e Masakado comincia ad averne le palle piene dei tentennamenti degli aristocratici.

Per usare un’espressione yankee: la merda sta per colpire il ventilatore.

MUSICA!


Prima puntata

Seconda puntata

Terza puntata

Quarta puntata

Quinta puntata

Sesta puntata

Settima puntata


Bibliografia

YANASE Kiyoshi, YASHIRO Kazuo, MATSUBAYASHI Yasuaki, SHIDA Itaru, INUI Yoshihira,Shōmonki, Mutsu waki, Hōgen monogatari, Heiji monogatari, Shōgakukan, Tōkyō, 2002, p.7-130

FUJIWARA Tadahira, Teishin kōki (Notes journalières de l’ère Teishin), Iwanami shōten, Tōkyō, 1956

KAWAJIRI Akio, Shōmonki wo yomu (Lire le Shōmonki), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2009

KAWAJIRI Akio, Taira Masakado no ran (La révolte de Taira Masakado), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2007

KAWAJIRI Akio, Yuregoku kizoku shakai (Une société aristocratique tremblante), Shōgakukan, Tōkyō, 2008; L’ère des zuryō

KITAYAMA Shigeo, Ōchi seiji shiron (Essai historique sur la politique de la Cour), Iwanami shōten, Tōkyō, 1970

In lingua occidentale

HERAIL Francine, La Cour et l’administration du Japon à l’époque de Heian, Genève, DROZ, 2006

HERAIL Francine, La Cour du Japon à l’époque de Heian, Hacette, Paris, 1995

HERAIL Francine, Gouverneurs de provinces et guerriers dans Les Histoire qui sont maintenant du passé, Institut des Hautes Etudes Japonaises, Paris, 2004

HERAIL, Francine, Aide-mémoire pour servir à l’étude de l’Histoire du Japon des origines à 1854, lieu de publication inconnu, date de publication inconnue

HALL John Whitney , Government and Local Power in Japan, 500 to 1700, Center for Japanese Studies Univesity of Michigan, 1999,

RABINOVITCH Judith N., Shōmonki, The story of Masakado’s Rebellion, Tōkyō, Monumenta Nipponica, Sophia University, 1986

PIGGOT Joan R., YOSHIDA Sanae, Teishin kōki, what did a Heian Regent do?, East Asia Program, Cornell University, Itacha, New York, 2008

FRIDAY Karl, Hired swords, Stanford University press, Stanford, 1992

FRIDAY Karl, The first samurai, John Wiley & Sons, Hoboken, 2008

FRIDAY Karl, Samurai, warfare and the state, Routledge, New York, 2004

FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Harvard University Press, Cambridge

BRYANT Anthony et MCBRIDE Angus, Early samurai, AD200-1500, n.35, Osprey publishing, Oxford, 1991

PIGEOT Jacqueline, Femmes galantes et femmes artistes dans le Japon ancien, Gallimard, 2003, Paris

Farmacopea creativa: il muschio alla Corte di Heian

Sulle montagne dell’Himalaya vive un caprioletto. E’ piccolo, poco più di mezzo metro al garrese, non ha corna ma ha due zanne da vampiro che scendono giù oltre il muso. Non è un cervo, ma un Moschidae. Vive felice nella boscaglia, si nutre soprattutto di foglie, sta da solo sul suo territorio e gira soprattutto di notte.
Quando è stagione e il Mosco maschio ha voglia di scopare, la ghiandola sotto la sua pancia secerne pallette dall’odore pungente e caratteristico. Se gli va bene, una femmina le trova e s’arrapa.
E’ la fine del X° secolo, e il mosco non sa che gruppi di sicari professionisti stanno scalando le montagne alla sua ricerca. Chi vorrà mai attentare alla vita di un animale che per definizione si fa sempre e solo i cazzi suoi?
La risposta è: Fujiwara Michinaga, l’uomo più potente del Giappone.

Un mosco himalayano. Notare i dentini.

Nato nel 966, Michinaga è il cadetto di un potentissimo clan aristocratico. Dopo la morte intempestiva di suo fratello maggiore, Michinaga diventa capo del clan e si adopera affinché la sua famiglia resti alla guida dell’Impero per le generazioni a venire. Per cominciare, fa in modo che le sue figlie diventino spose imperiali e che i futuri imperatori siano scelti tra i pargoli delle madri Fujiwara. In questo modo il capo del clan sarà sempre nonno o zio materno del Figlio del Cielo.
In una società in cui la famiglia materna è dominante nei primi anni dell’infante, questo significa che il capo del clan sarà sempre l’uomo più potente del Paese. Di fatto, Michinaga amministra l’Impero come se fosse suo, tanto da usare le strutture burocratiche della propria famiglia invece che le istituzioni governative stabilite dai Codici.
C’è tantissimo da dire su Michinaga e il suo tempo, ma oggi parleremo di un aspetto molto preciso: i cosmetici.
Se c’è una cosa su cui i nobili di Heian erano assolutamente fissati, era il protocollo. Dovevi avere un certo tipo di carro, un certo abito, abilità in un certo tipo di musica, danza, poesia, ecc. E’ importante sottolineare che questa roba per l’alto aristocratico di Heian non era “contorno alla politica”, era LA politica!
In un contesto del genere, cosmetici, medicine e profumi erano importantissimi, oggetto di prestigio, scambio politico e dono diplomatico tra la Corte giapponese e quella cinese.
Tra questi prodotti ricercatissimi e uber-lussuosi, c’era anche il muschio.
Cos’è il muschio e a che serve?

Intanto chiariamo: con “muschio” qui non si intende la borraccina del Presepe. Si tratta di pallette pelose, contenenti una sostanza simile al grasso e molto odorosa, rilasciate dal nostro piccolo caprioletto himalayano via una sacca che si trova tra il pene e l’ombelico.
Si tratta di roba molto rara: per ottenere 1Kg di muschio sono necessari 30 o 40 moschi. Piuttosto che andare a caccia di minuscoli pallini per le valli del K2, i cacciatori di solito ammazzano il nostro caprioletto vampiro per strappargli la sacca del muschi da sotto la pancia. Estratto fresco, il muschio ha un odore insopportabile e deve essere ulteriormente trattato per poter essere veduto.
Come si può intendere, questo complicato processo fa del muschio una sostanza pregiatissima. Per avere un’idea di quanto prezioso fosse, basta un esempio dal diario di Michinaga, in cui racconta di alcuni doni ricevuti dal Figlio del Cielo in persona il terzo giorno della seconda luna del secondo anno dell’era Chōwa, ovvero nel 1015:

[Sua Maestà] mi consegna 8 pezze di broccato, 23 pezze di saia, 100 once di chiodo di garofano, 5 ghiandole di muschio, 100 once di pigmento blu e 3 libbre di Nardostachys.

Pallette di muschio in tutto il loro splendore!

Come si evince, una sola palletta di ‘sta roba era cosa da principoni. Ma cosa ci facevano i nobili con queste frattaglie essiccate?
Le sostanze appaiono spesso nelle fonti, ma senza troppi dettagli riguardo al loro uso. Ad esempio, negli Engishiki (i regolamenti dell’era Engi) si stabilisce che, tra le vettovaglie previste per il pellegrinaggio della principessa consacrata di Ise, dovessero esserci delle dosi di shimi (四味). Non è spiegato di cosa si tratta, letteralmente significa “quattro sapori/essenze”, ma pare chiaro che il muschio fosse un ingrediente fondamentale.
Il muschio compare anche nello Honzō wamyō, un’opera enciclopedica sulle “cose viventi” compilata nel 918. Anche in questo caso, non sappiamo di preciso come questa sostanza era utilizzata.
Una luce ci arriva però dallo Ishinpō, il più antico trattato medico giapponese. E’ stato scritto da Tanba Yasuyori nel 984 basandosi su trattati medici della Cina dei Sui e dei Tang.
Il primo riferimento al muschio appare nel sesto capitolo del primo rotolo (sono trenta in tutto) e si capisce che il gustosissimo palloccolo di sugna era previsto per delle pillole. Il capitolo non parla della funzione del farmaco, ma si concentra sulle precauzioni tecniche per manipolare il materiale: è fondamentale che il farmacista non abbia attorno signore, bimbetti o donne incinte, che si sa mandano radiazioni gender e sciupano la carica yang degli elementi.
Nel terzo capitolo del ventiseiesimo rotolo abbiamo finalmente un uso pratico: le pillole di ghiandole sono usate per profumare la persona!
E siccome vi voglio bene, qui l’utilissima ricetta!
Tre once (circa 42 grammi) di:

  • Chiodo di garofano
  • Menta coreana (Agastache rugosa)
  • Psychotria reevesii (un tipo di rubicaceae)
  • Nerdostachys
  • Basilico (tanto per gradire)

Un’oncia (circa 14 grammi) di:

  • Angelica anomala
  • Angelica polymorpha
  • Cannella
  • Noce di Betel

E infine mezza oncia (circa 7 grammi) di muschio!

Il muschio conta per poco meno del 3% del prodotto completo (circa 275 grammi di mappazzone). Dovete macinare tutto, filtrarlo attraverso un panno di seta fine, mischiarlo a del miele e dargli 1000 martellate. No, non scherzo. Occhio a non perdere il conto, che poi è la fine.

Michinaga si compiace mentre l’olezzo muschiato gonfia il suo abito di Corte

Dopo questo processo, potete plasmare delle pillole della taglia di un nocciolo di giuggiola e farle sciogliere sulla lingua, una a botta durante il giorno e tre a botta durante la notte (perché di notte è più facile strozzarsi) per un totale di 12 pillole al giorno.
Questo portentoso preparato, oltre a favorire la carie dei denti, dovrebbe profumarvi l’alito e, sul lungo periodo, il corpo. L’effetto è crescente: dopo 5 giorni le vostre ascelle dovrebbero olezzare di cannella e bestia morta, e dopo 30 dovreste profumare così tanto da appiccicare l’odore addosso al prossimo con un semplice abbraccio. Che mi pare una splendida idea.
A chiosa, ciò dovrebbe far bene a “tutte le malattie” (tranne che al tartaro, immagino), basta astenersi dal mangiare roba agra come cipolle e aglio. Siam messi male, io senza aglio non vivo.
Un altro rimedio di sicura efficacia è spiegato nel quindicesimo capitolo: mettete in un sacchetto zenzero, muschio e zolfo, e sarete protetti dai serpenti e dai morsi in generale! Ma fate attenzione: dovete tenerlo sulla destra se siete uomini e sulla sinistra se siete donne (non vi confondete che sennò non funziona).

Un serpente

Infine, sappiamo che il muschio era un componente fondamentale di un rimedio cinese molto apprezzato in Giappone: la “neve di porpora”. Questo prodotto era usato un po’ in tutti i casi di febbre, sia essa puerperale, da infreddatura, da dissenteria, ecc.
To be fair, in questo caso il muschio probabilmente aveva effetti benefici, in quanto il suo odore pungente, mischiato ad altri aromi, può avere un effetto rinfrescante e alleviare la sofferenza del malato.
In Giappone il muschio aveva un uso soprattutto nei profumi. Secondo Von Verschuer in Le commerce extérieur du Japon, la maggior parte della medicina isolana si affidava più a piante locali che non a complicate importazioni cinesi. Siamo onesti, spesso o prendevi un malanno leggero o morivi, tanto valeva andare al creatore senza spendere una fortuna.
Michinaga si era assicurato il controllo quasi esclusivo degli scambi col Continente. Il muschio, come altri prodotti di stralusso-che-levati, era molto importante per il protocollo di Corte, ma anche come moneta di scambio. Poteva essere usato per acquisire roba davvero utile. Gente come Michinaga doveva nutrire e vestire un numero esorbitante di gente tra servi, intendenti, figli, nipoti, nipotini, amanti, guardie, falconieri, cuochi, paggi, mezzadri, ecc. Tre pallette di muschio potevano diventare una notevole quantità di riso o miglio, per fare un esempio.
Potevano anche essere usati come doni politici, per sugellare e rinforzare alleanze.
Infine, il muschio essendo un materiale di straordinaria rarità, era un elemento di bling. E’ importante essere ricchi sfondati, ma è ancora più importante apparire come ricchi sfondati, oggi come al tempo di Michinaga.
E per soddisfare questi bisogni, la domanda spingeva i suoi tentacoli oltre l’Oceano, fin nelle remote valli himalayane. Non so voi, ma per me è buffo pensare che un povero bestio sia freddato sull’Himalaya perché in Giappone un vecchio maneggione doveva darsi il deodorante. E questo, secoli prima della Globalizzazione che fa tanto arrabbiare Diego Fuffaro.
A chiosa, sapete quanto ci vuole a ricercare una cazzata del genere? GIORNI. Se qualcuno a voi caro decide di buttarsi nella ricerca umanistica, fategli leggere questo articolo finché non rinsavisce.

MUSICA!


Bigliografia

ELLERMAN J. R., MORRISON-SCOTT T. C. S., Checklist of Paleartic and Indian mammals, 1758 to 1946, British Museum, Londres, 1965, p. 353-354
FUJIWARA no Michinaga, Midō Kanpakuki, Chōwa 1/5/20 – Chōwa 2/2/3
HERAIL Francine, Histoire du Japon, POF, Paris, 1986, p.136-143
KURUTA Katsumi, HAYASHI Yuzuru, Engi-shiki, Yoshikawa kōbunkan, Tōkyō, 1938, p.124-125
MAKINO Tomitarō, HONDA Masaji, Genshoku makino shokubutsu daizukan, Hokuryūkan, Tōkyō, 1982
NAGASHIMA Washitarō, Honzō wamyō, Nihon koten senshuukan, Tōkyō, 1926
SAKAI Cécile, STRUVE Daniel, TERADA Sumie, VEILLARD-BARON Michel, Les rameaux noués, VON VERSCHUER Charlotte, « Le coffret de toilette (tebako) de la fille de Fujiwara no Chikataka », Institut des Hautes Etudes Japonaises, Collège de France, 2013, pp. 153-176 ; p 163, 164, 167
SCHROCKIO Luca, Historia Moschi, ad Normam Academiae Naturae Curiosorum, Augsburg, 1682, p.1-17
TANBA Yasuyori, trad. HSIA Emil C. H., VEITH Ilza, GEERTSMA Robert H., The essentials of medicine in ancient China and Japan, vol I et II, Leiden-E.J.Brill, Pays-Bas, 1986, p.313/241
TANBA Yasuyori, Ishinpō, Renmin weisheng chubanshe, Pékin, 1993, p.15-19 ; p.599-610
UCHIDA Seinosuke, Genshoku dōbutsu daizukan, Hokuryūkan, Tōkyō, 1981, n° 293 p. 135
VON VERSCHUER Charlotte, Le commerce extérieur du Japon, des origines au XV° siècle, Maisonneuve & Larose, Paris, 1988, p.52-63
WISEMAN Nigel, FENG Ye, A practical dictionary of Chinese Medicine, Paradigm Pubns, 1998, p.945

Siti internet

http://www.hi.u-tokyo.ac.jp/english/db/db_use-e.html

http://www.arkive.org/himalayan-musk-deer/moschus-leucogaster/

http://www.treccani.it/enciclopedia/muschio/

Breve storia del cavallo domestico

Un altro titolo potrebbe essere: Cavalleria catafratta – il prequel.

Oggi parleremo di un argomento diverso dal solito: il cavallo.

Non temete, sarà un articolo storico, tecnico e barboso come piace a noi!

Il cavallo è uno di quegli elementi della Storia militare che un sacco di gente dà per scontati. E’ un essere vivente che viene spesso trattato con la superficialità che si usa per gli oggetti: infili tot chili di acqua e carburante da una parte, va a tot Km all’ora, ha un’autonomia di tot, ecc.

E’ quell’elemento che nei film in costume fa ufficio da motocicletta: l’Eroe salta in groppa, ingrana e parte al galoppo senza un istante di esitazione.

Non si vede mai una scena in cui l’Eroe viene catapultato all’istante contro un palo e calpestato perché è saltato su un cavallo personale che accetta cavalieri che conosce. Non si vede mai l’Eroe che salta in groppa a un cavallo a caso e poi non va da nessuna parte perché, guarda te lo sculo, quello è un cavallo da tiro e non ha la minima idea di cosa fare quando qualcuno gli si siede sulla groppa. E via di questo passo.

Il punto è: il cavallo non è una macchina e l’esistenza stessa dei cavalli domestici è cosa tutt’altro che scontata.

Ergo oggi parleremo delle origini dell’allevamento e di questa mirabolante joint venture interspecifica!

Di cosa si parla

Cominciamo col dire che il cavallo moderno (Equus ferus caballus) è un mammifero erbivoro perissodattilo, ovvero un animale che cammina sulla punta delle dita (e non sulla pianta dei piedi, come noi). Per la precisione, su un numero dispari di dita, e per la precisione su un solo dito: il cavallo sgambetta allegramente sulla punta dell’equivalente equino del dito medio, di cui lo zoccolo è l’unghia. Da un punto di vista anatomico, quella che pare la caviglia è la nocca, quello che pare il ginocchio è il polso e il gomito è rattatignato vicino all’attaccatura della spalla.

Ciò detto, da quanto esistono i cavalli?

Non è facile da determinare. Secondo recenti studi sul DNA mitocondriale, 20 milioni di anni fa potevamo trovare fino a 13 genera equini. Di questi, alcuni si distaccano da una dieta fatta di foglie e arbusti per orientarsi verso un menù principalmente erbaceo, scelta vincente visto che il cambiamento climatico stava favorendo la diffusione di praterie là dove prima cresceva la boscaglia.

In due piccoli milioni di anni (come vola il tempo!), i fossili di equidi da arbusto declinano, mentre quelli da prateria si diffondono. Non immaginatevi però i nostri destrieri: secondo Budiansky, questi proto-cavalli annoveravano una grandissima varietà somatica.

I diretti antenati dei nostri cavalli sarebbero, pare, 2 (certi dicono 4, ma si va nel magico mondo della speculazione): il Tarpan, un cavalluccio che viveva nella zona eurasiatica, e il Przewalski, in Asia. Il Przewalski è l’unico cavallo selvatico ancora esistente, ed è mia personale opinione che a salvarlo sia stato il fatto che nessuno davvero sa come cazzo pronunciare il suo nome.

-Dove vai, Gurkuk?
-A caccia di Perzewe… Perez… Purzuru… A CACCIA DI CINGHIALI!

Questi due antenati potrebbero aver apportato caratteristiche differenti al cavallo moderno. Ad esempio, mentre la criniera del Przecoso è ispida e ritta sul collo, quella del cavallo contemporaneo è solitamente fluente, una caratteristica che avrebbe ereditato dal Tarpan.

Ad ogni modo, la lieta vita dei ronzini prende una brutta piega verso la fine del Mesolitico, quando i fossili diminuiscono bruscamente. Parafrasando la logica che ho sentito usare una volta a un fruttariano (yep, esistono!), questo potrebbe suggerire che i cavalli abbiano semplicemente smesso di morire dacché divenuti incredibilmente longevi (giuro).

Il Rasoio di Occam e il buonsenso suggeriscono invece che l’animale si sia avviato a decise falcate verso l’estinzione. Il cavallo sparisce dal Nord-America, dall’Europa occidentale, dalla Cina… inseguito dal lento ma inesorabile cambiamento climatico, il povero bestio si ritrova confinato all’Ucraina e una parte dell’Asia Centrale.

Questo fino al terzo millennio a. C., quando le sue ossa risaltano fuori, più numerose che mai! Cos’è successo?

Le origini dell’allevamento

Cominciamo col dire che l’addomesticamento del cavallo, come ogni fenomeno, si è verificato solo grazie al contesto: i fattori ambientali e i fattori etologici delle due popolazioni (quella equina e quella umana) rendevano possibile la collaborazione.

Tanto per cominciare, umani e cavalli si somigliano. Come l’umano, il cavallo è un animale sociale e gerarchico. In altre parole, sia gli umani che i cavalli capiscono istintivamente segnali di dominazione e sottomissione. L’atteggiamento sottomesso da parte di un animale può placare l’atteggiamento aggressivo da parte di un umano, in quanto l’umano capisce il messaggio: in quel contesto, le due specie parlano la stessa lingua.

Inoltre, se la vicinanza di un gruppo umano presenta per il cavallo indubbi rischi (dopotutto gli umani sono famosi per mangiare tutto ciò che si muove e anche ciò che sta fermo), presenta anche dei vantaggi: i grandi predatori stanno alla larga (per la ragione di cui sopra) e gli umani allevano cibo ad alto valore nutritivo.

Eh già, perché le prime creature addomesticate dagli esseri umani in modo sistematico non sono state i cavalli, ma le piante.

Poi i gatti arrivarono e iniziarono a demolire le basi stesse della nostra sopravvivenza…

C’è un’idea che circola secondo cui l’allevamento è quella cosa che gli uomini inventano quando l’agricoltura ha così tanto successo che lascia del margine. La realtà storica pare diversa: l’allevamento è quel ripiego che gli uomini adottano quando caccia, raccolta e agricoltura non bastano più a mantenere il gruppo. Allo stesso tempo, perché una popolazione animale sia addomesticabile, bisogna che quest’ultima sia nella necessità di vivere nelle vicinanze degli umani.

L’allevamento è quindi quella collaborazione che si crea in zone periferiche e dalle risorse limitate, ammesso che le due popolazioni siano etologicamente compatibili. Tutte queste caratteristiche si sono verificate nella zona subito a nord del Mar Nero.

I primi a mostrare una vicinanza notevole coi cavalli sono stati gli uomini della civiltà detta Sredni Stog, che vivevano sul sito di Dereivka in Ucraina intorno al quinto millennio a. C..

Verso la fine del quinto millennio, la dieta di questi simpatici signori presenta un cambiamento notevole: se prima le discariche abusive di ‘sti zozzoni presentavano soprattutto ossa di cinghiale e altra selvaggina da foresta, di botto gli scheletri di cavalli diventano dominanti (costituiscono fino al 50% della carne consumata!).

Ora, il cavallo è una bestia di steppa, ergo ‘sti disgraziati devono farsi un bel pezzo di strada per andarseli a cercare.

Cos’è successo, perché questo cambio di menù?

Secondo una vecchia interpretazione, questa nouvelle cuisine ucraina sarebbe da interpretare come l’inizio dell’addomesticamento. Secondo questa teoria, infatti, il cavallo sarebbe stato prima di tutto una bestia da macello e poi, molto più tardi, un mezzo di trasporto e animale di fatica.

Ecco, questo è ciò che succede quando i ricercatori non mettono mai naso fuori da una biblioteca.

Tanto per cominciare si può cacciare il cavallo selvatico senza saper cavalcare (li si può spingere giù da precipizi, o in trappole, fargli agguati ecc.), ma qualcuno mi deve spiegare come diavolo tieni delle mandrie se quelle corrono con quattro gambe e te solo con due.

In secondo luogo il cavallo, come bestia puramente mangitiva, è una ciofeca assoluta. In proporzione alla quantità di cibo che ingolla e alle cure che necessita se non può vivere nel suo ambiente ideale, il cavallo è un pessimo investimento di carne e latte. Aggiungeteci la lunga gestazione e il fatto che fa pochi cuccioli, e avete una situazione da bancarotta assicurata.

Inoltre, la teoria non è supportata dai dati archeologici.

Marsha Levine ha fatto uno studio sistematico degli scheletri di Dereivka, comparandoli con i vari modelli di sfruttamento dell’animale. Difatti, a seconda del modello, l’età di morte delle bestie è diversa.

Nel caso dei cavalli selvatici, i due picchi di mortalità sono l’infanzia e la vecchiaia: i cuccioli e i vecchi, più lenti e meno vigili, sono le prede preferite dai carnivori.

In allevamento la faccenda è un pelino più complessa. Di base, gli animali che passano in bistecche sono prima di tutto i cuccioli in sovrannumero e le bestie che hanno passato l’età fertile. Questo crea un marcato discrimine sessuale: siccome mi basta un maschio per ingravidare più femmine, i cuccioli selezionati per la mannaia saranno soprattutto maschi, mentre gli adulti selezionati per la mannaia saranno soprattutto femmine.

Nel caso dei cavalli, in un allevamento avremo un alto abbattimento di maschi tra i 2-3 anni, e un alto abbattimento di femmine tra i 14 e i 20.

Nel caso delle discariche di Dereivka, abbiamo qualcosa di ancora diverso, che non rispecchia né il modello selvatico né quello domestico. Abbiamo pochi esemplari sotto i 4 anni e pochi al di sopra degli 8. Contando che un cavallo raggiunge la maturità fisica verso i 5, troviamo una maggioranza di bestie nel fiore degli anni!

Questo tipo di situazione calca un tipo di caccia definito stalking, in cui il cacciatore investe energia e tempo per selezionare e uccidere prede di qualità: i giovani pasciuti.

Ne segue che i Sredni Stog erano, tendenzialmente, cacciatori (e non allevatori) di cavalli. Dico tendenzialmente perché non è escluso che alcuni individui fossero catturati o addomesticati. Come fa notare Levine, non bisogna semplificare e appiattire i rapporti tra popolazioni: come sempre quando si tratta di uomini, la realtà era di certo più complessa del modello.

Ma torniamo alla genesi dell’allevamento! Secondo Budiansky, esistono tre stadi:

  • Dato un contesto ambientale, economico ed etologico, due società compatibili si avvicinano;
  • Una volta che le due società sono a contatto, alcuni degli individui più curiosi o sottomessi (o entrambi) cercheranno un contatto più continuo con i membri dell’altro gruppo. In questa fase, alcuni individui possono essere assorbiti dal gruppo umano (si tratta quindi di animali nati selvatici e poi addomesticati).
  • Durante questa seconda fase, la società umana può acquisire le informazioni necessarie a far nascere i primi individui in cattività, ad allevarli.

La seconda fase e la terza sono ben distinte: dal momento che nascono delle bestie puramente domestiche, la selezione artificiale comincia a giocare un ruolo fondamentale e l’evoluzione dell’animale diverge da quella del suo congenere selvatico.

Ovviamente queste fasi non sono da intendersi come cronologiche o esclusive: possiamo avere società che praticano tutti e tre questi modelli!

Ma torniamo ai primi pastori di cavalli. Secondo le fonti storiche, le prime menzioni di allevatori di cavalli fanno riferimento a quelle che erano probabilmente popolazioni di lingua indoeuropea e che abitavano nei pressi del Mar Nero. Erano i Sredni Stog?

Questions!

Negli anni ’60 una scoperta archeologica nel sito di Dereivka ha portato un nuovo elemento sul tavolo: è saltato fuori un nuovo scheletro, diverso da tutti gli altri, lo scheletro di uno stallone.

Cos’ha di diverso il celeberrimo (sì, nel settore lo conoscono tutti) Stallone di Dereivka rispetto a tutti gli altri cavalli della zona?

Lo stallone in questione non era insieme agli altri nelle discariche: era in una tomba prestigiosa, il che indica che l’animale in questione aveva una posizione sociale in seno al gruppo umano radicalmente diversa da quella degli altri cavalli.

Inoltre il nostro misura 142cm al garrese, una taglia notevole per l’epoca e che lo renderebbe simile agli odierni Fjord o New Forest.

Un New Forest mentre, con paziente determinazine, erode il territorio

Ma dulcis in fundo, i suoi denti! I suoi denti presentano una tacca di usura tipica e caratteristica dei cavalli che portano il morso!

BOOM, cavallo cavalcato, possiamo datare l’addomesticazione del cavallo!

Right?

Eh, circa… Purtroppo, com’è spesso il caso, non è così semplice.

C’è prima di tutto un problema di datazione: in principio si era situata la tomba (e quindi lo stallone) al 4000 a. C. Una recente datazione al C-14 però piazza tutto ciò molto dopo, tra il 700 e il 200 a. C. (l’altroieri, insomma!)

Inoltre i segni sui denti possono essere stati causati, in teoria, da altro che non da un morso. Il morso non è peraltro indispensabile per cavalcare, e anche concedendo che si tratta di un cavallo cavalcato e dotato di morso, niente ci assicura che sia nato in cattività (ovvero, niente ci assicura che sia un cavallo domestico).

Vicino allo scheletro sono stati ritrovati oggetti in corno che potrebbero essere resti di rondelle per morso. Un tentativo di ricostituzione basato sui reperti ha offerto un morso funzionante.

E quindi?

Secondo Budiansky, il cavallo era molto probabilmente una bestia montata, ma non domestica. Si tratterebbe dell’alba del cavalcare. Catturare e domare un cavallo era senza dubbio un’azione di grande audacia e maestria, il che spiegherebbe il fasto dedicato a cavallo e cavaliere nella morte.

La differenza tra un cavallo domato e uno domestico non è anodina.

Un animale domato implica spesso il concetto di proprietà privata e sempre un rapporto personale stretto tra domatore e animale. Tale rapporto termina quando uno dei due muore. L’allevamento presuppone una situazione radicalmente diversa: in caso di allevamento, l’attività coinvolge (o tocca in qualche modo) l’intero gruppo sociale, non solo il cavaliere.

Insomma, non possiamo sapere davvero se i Sredni Stog cavalcavano nel quinto millennio a. C., ma possiamo affermare con sicurezza che l’allevamento e l’arte di cavalcare nascono proprio in quest’area. Considerato quanto detto prima sulla diminuzione drammatica di resti equini nel resto dl mondo, possiamo affermare che, con ogni probabilità, l’allevamento salvò il cavallo dall’estinzione.

Studi recenti suggeriscono addirittura che tutti i cavalli moderni sarebbero i discendenti di un’unica mandria ancestrale, l’ultima grande mandria che pascolava nei paraggi di Dereivka.

Animo e coraggio, abbiamo quasi finito!

Di qui al catafratto corrono ancora millenni. L’impiego militare è stato l’ultima tappa del cavallo domestico.

La prima traccia di cavallo da guerra farebbe riferimento ai carri da guerra del re amorreo Samsi-Adad (1800 a. C.). In questo periodo il pedigree dei cavalli era già registrato e documentato, il che significa che la selezione artificiale era già relativamente raffinata.

E’ questa selezione a provocare la vastissima varietà di tratti somatici, fisiologici e regionali tra le numerose razze di cavalli moderni.

L’addomesticazione del cavallo è stata una svolta radicale nella Storia umana. Si poteva viaggiare di più, più lontano, più velocemente. Gli orizzonti si sono spalancati. Zone fino a quel punto troppo distanti erano a portata: nuovi territori di caccia, nuove occasioni di scambio, di saccheggio… e infine, nuovi modi di combattere.

Il cavallo è una bestia che tende ad evitare i conflitti, trovare il modo di usarlo in guerra non deve essere stato semplice. Secondo Creel, il carro da guerra avrebbe avuto origine nell’odierna Siria, mentre il guerriero montato sarebbe nato sulle montagne dell’Iran.

Me questa è ciccia per un altro articolo.

MUSICA!


Bibliografia

BUDIANSKY Stephen, The Nature of Horses, Phoenix Illustrated, Londra, 1998

CREEL H. G. “The Role of the Horse in Chinese History.” The American Historical Review, vol. 70, no. 3, 1965

DREWS Robert, Early riders, the beginnings of mounted warfare in Asia and Europe, New York, Routledge, 2004

JAGER Ulf, “Some remarks on horses on the ancient Silk Roads depicted on monuments of Art between Gandhara and the Tarim Basin”, Pferde in Asien: Geschichte, Handel und Kultur/ Horses in Asia: History, Trade and Culture, Osterreiche Akademie der Wissenschaften, Vienna, 2009

LEVINE Marsha A., “Botai and the Origins of Horse Domestication”, Journal of Anthropological Archaeology 18, Academic press, Cambridge, 1999

Mallory sui Sredni Stog

SAWAZAKI Hiroshi, Uma ha kataru, Iwanami Shoten, Tōkyō, 1987

SIDNELL Philip, Warhorse, Hambledon Continuum, New York, 200

TRENCH Charles Chenevix, A history of horsemanship, Longman, Londra, 1970

Illustri sconosciuti: Taira no Masakado (2.4)

Abbiamo recentemente parlato del Nuovo Ordine Mondiale, quindi mi pare solo coerente tornare a cose serie: il Vecchio Disordine Locale. Oggi continueremo la nostra serie su Taira Masakado, uno dei ribelli più fighi della Storia!

Nella puntata precedente avevamo lasciato Masakado vittorioso di un’epica battaglia combattuta nella grigia alba invernale.

Dopo aver sconfitto il suo principale avversario, lo zio/suocero Yoshikane, Masakado è felice come francese che ha appena inventato un paio di calzoni auto-rimuoventi. La stesso non si può dire di Sadamori, cugino e rivale. Il nostro è un funzionario più che non un guerriero. Non ha nessun gusto per la violenza fine a se stessa, non voleva immischiarsi nella faida familiare per cominciare! Ha cercato di restarne diplomaticamente fuori, finché Yoshikane non l’ha trascinato nel merdaio tirandolo per un orecchio.

Ora, a giochi fatti, Sadamori è infognato. I suoi potenti amici della Capitale non possono aiutarlo, non ha più alleati sul posto, non ha una banda di guerra, non ha reputazione, non ha nulla. Sadamori è cibo per corvi e lo sa.

Una sola cosa lo protegge: l’inverno. La stagione non si presta a caccia e guerra. Sotto la spessa neve dell’inverno orientale, il nostro aspetta in trepidazione, mentre suo cugino Masakado arrota la mannaia.

Due mesi dopo il disastro di Iwai, appena le strade diventano praticabili, Sadamori fa fagotto e parte per la Capitale a rotta di collo. E’ il secondo mese dell’ottavo anno di Jōhei (938).

Solo che… chi ha due pollici e i migliori scout della zona?

Masakado.

Masakado viene avvisato della fuga del cugino in poche ore. In meno ore ancora, raccatta una banda di caccia da decine di cavalieri e parte in tromba a caccia di parenti.

Meno di una settimana di corsa e BINGO! Nord di Shinano, riva del fiume Chikuma, nei pressi del tempio provinciale. Sadamori e i suoi compagni (una dozzina) sono avvistati.

Pausa un istante. Guardate la cartina. In blu sono le provincie aventi ricevuto ordine di collaborare con Masakado per la cattura di Sadamori. In rosso Shimōsa, la provincia di Masakado. In Giallo, Shinano. Masakado si è fatto circa 200Km in una settimana, attraverso pantani, sorgive primaverili, rovesci e, soprattutto, confini provinciali. Il tutto accompagnato da un congruo numero di cavalieri armati fino ai denti e infoiati come facoceri. Nel caso ve lo stesse chiedendo, sì, ciò è illegale perfino per gli standard del 938. Anche perché, come si vede dalla carta, Masakado non ha nessuna autorizzazione di passare. In altre parole, l’atto di Masakado potrebbe essere interpretato come Rivolta Contro lo Stato (muhon), il peggiore dei crimini.

Fino ad ora Masakado ha sempre giocato nei limiti della legalità (legalità molto elastica, c’è da ammettere). E’ la prima volta che sputa apertamente in faccia all’ordine stabilito.

Perché lo fa?

In primis, perché può. Ha vinto contro Mamoru, Kunika, Yoshimasa, Yoshikane. E’ il guerriero più temuto della regione, nessun sergente provinciale sano di mente si sognerebbe di dire o fare qualcosa.

In secundis, perché deve. Sadamori ha tanti amici alla Capitale e la Corte è volubile. Arrivato sano e salvo tra i nobili, Sadamori potrebbe benissimo chiacchierare nelle orecchie giuste e rovesciare la situazione. E’ un rischio che Masakado non è disposto a correre.

Dal canto suo, Sadamori ha una dozzina di compagni e le valige. Non può sperare di scappare dalla banda di Masakado. L’unico vantaggio che ha, a questo punto, è la scelta del terreno.

Spoiler…

-Ok gente.- Sadamori fa sistemare i suoi sul terreno nei pressi del tempio. -Loro sono dieci volte più di noi, ma battaglie sono state vinte in momenti peggiori, no?

-Sì, da tuo cugino Masakado.

-Ovvia, gli è capitato anche di perdere! E poi ricordiamoci: noi siamo più riposati, loro sono più stanchi, e noi siamo più convinti, perché-

La battaglia finisce in un battibaleno. Uno degli omini personali di Masakado si sbuccica un ginocchio, la banda di Sadamori viene sparpagliata tipo stormo di anatre, Sadamori riesce a stento a battersela smollando compagni, bagagli, trousse da doccia, tutto. Il brillante funzionario delle Scuderie di Palazzo si ritrova solo nella gelida primavera orientale, costretto a campare di radici e ragni, a viaggiare tra valli e pantani. Secondo lo Shōmonki, Sadamori è conciato tanto male in questo frangente che considera seriamente l’opzione suicidio. Probabilmente lascia perdere perché il pugnale era nella trousse da doccia, e ammazzarsi a sassate in fronte non è dignitoso.

Quanto a Masakado, per qualche giorno setaccia boschi e cespugli, senza riuscire ad acciuffare suo cugino. Dopo l’ennesimo incontro con una moffetta incazzata, il nostro deve rassegnarsi e lasciar perdere.

Si conclude così la seconda fase del conflitto: i disordini di Jōhei.

Perché “disordini” e non “ribellione”?

Perché, tecnicamente, nessuno si è ancora ribellato. Tolto il colore e le curiosità etnografiche, tutto il casino accaduto dal 935 al 938 è riconducibile a uno scazzo familiare che si è incarognito. Tutti i partecipanti hanno infranto la legge, ma nessuno di loro se l’è presa direttamente con il Governo. Al contrario, da loro punto di vista tutti gli uomini coinvolti in questa festa dello smembramento hanno fatto molta attenzione a non far saltare il grillo alla Corte. Le carovane di tasse non sono state disturbate, gli edifici pubblici non sono stati rasi al suolo. Masakado e i suoi nemici hanno preso molta cura di restare nella buona grazia della Corte.

Questo ha ragioni pratiche e culturali.

Come dicevamo negli articoli precedenti, la Corte è la fonte legittima di potere. Ogni società umana sopravvive grazie al fatto che i suoi membri condividono un a visione di mondo e una percezione di realtà. Noi siamo condizionati a rispettare una divisa, loro erano condizionati a rispettare, entro certi limiti, l’Autorità Centrale. E’ una pulsione radicata nel più profondo del nostro cervello, dacché la scimmia che sonnecchia in noi, sotto tutti gli strati di personalità, cultura e abitudini, sa: senza il branco sei ciccia per le iene.

Fintanto che la fonte di potere costituita continuerà ad essere legittima agli occhi della fetta più grande della popolazione, la ribellione sarà sempre qualcosa che l’individuo considererà con estrema cautela.

E qui si passa alla questione pratica. Fintanto che una certa percentuale del gruppo accetta la legittimità costituita, ribellarsi significa trovarsi solo contro tutti. Il gruppo deve tutelare se stesso, ergo deve eliminare chi minaccia la visione comune su cui tutto il resto è basato.

E’ per questo che, di solito, la rivolta è un’impresa in cui la gente si imbarca quando non vede nessun’altra alternativa. Oppure, quando la fonte di legittimità ha perso di credibilità. Quando l’incantesimo si spezza.

E’ chiaro che Masakado è ancora lontano da entrambi questi casi.

Ma le cose stanno per cambiare,.

Alto aristocratico in abito da tutti i giorni (kariginu)

Mentre Masakado e i suoi sono per calanchi e grottoni a dar la caccia a Sadamori, altro casino si preparava nella provincia di Musashi.

All’origine del chiasso abbiamo il governatore provvisorio, il Principe Okiyo, che una volta tanto ha portato il culo dalla Capitale in provincia per fare il suo cazzo di lavoro. Insieme a lui troviamo il vicegovernatore Minamoto no Tsunemoto. Se a qualcuno costui suona familiare è perché ne ho già parlato. Ma niente spoilers!

Torniamo a noi! Costoro sono due funzionari della Capitale e, come da tradizione, si trovano ai ferri corti con un magistrato di distretto, tale Musashi no Takeshiba.

L’oggetto del contendere? Banale: TASSE.

Takeshiba è un piccolo funzionario su cui ricadono i doveri più pragmatici: organizzare i lavori stagionali, raccattare le leve necessarie per le corvées di stato, assicurarsi che tutti paghino le tasse, ecc. Secondo lo Shōmonki, Takeshiba è un uomo di specchiata reputazione, capace e apprezzato dai compaesani.

Un bravo magistrato è un tesoro raro e prezioso. Allora perché Okiyo e Tsunemoto decidono di piantargli grane?

E’ probabile che il distretto fosse in ritardo con in tributi, non per cattiva volontà ma per un accordo non scritto coi funzionari precedenti (ricordiamo che il Paese – e l’Est in particolare – sta attraversando un periodo di gravi carestie).

Problema: Okiyo è un governatore provvisorio. Non deve essere amico dei funzionari locali, non gliene sbatte niente di farsi amare, tanto di lì a poco sarà di ritorno alla Capitale. E’ peraltro possibile che lui e Tsunemoto non fossero al corrente dell’accordo (o che non gliene fregasse nulla).

Inoltre, i nostri si trovavano in una posizione delicata: per certi versi sono funzionari provvisori e la loro autorità è considerata quasi illegittima. D’altro canto il funzionario vero e proprio arriverà a breve, e il protocollo obbliga Okiyo e Tsunemoto ad organizzare banchetti e riti per l’occasione. C’è quindi bisogno di fondi!

In ogni caso i nostri decidono di insegnare a questi fastidiosi distrettuali chi è il capo: raccattano le truppe di provincia e attaccano la residenza si Takeshiba. Il disgraziato non può affrontare da solo l’esercito provinciale ed è costretto ad abbandonare la base al saccheggio.

La faccenda non piace né alla plebaglia né ai piccoli funzionari di provincia. L’atmosfera è tesa, il malcontento serpeggia.

Quando Masakado torna a casa in Shimōsa, la brutta storia è sulla bocca di tutti.

-Credi che scoppierà un altro casino?- Lancia uno dei suoi fratelli. -Non vorrei che la Corte schiodasse e mandasse un Esercito di Pacificazione.

-Con tutte le grane che ci piovono in testa e la carestia alle porte, ci manca solo un bello scazzo in periodo di semina.- Masakado tamburella le dita sull’elmo. Sospira. Se lo rimette in testa. -Pranzo al sacco gente, partiamo per Musashi.

-Ma che c’entriamo noi? Non abbiamo nessun cugino da uccidere, in Musashi.

-La vita non è fatta solo di cose belle e cugini da uccidere, sai.

-Non abbiamo nemmeno interessi, in Musashi!

-Appunto. Sono il nuovo pezzo grosso della regione e non sono coinvolto nel bisticcio. Sono potente e sono super partes. Sono l’unico che può mettere pace tra questi scimuniti.

-Ma è prudente?

-Qualcuno in questo fottuto Paese dovrà cominciare a ragionare da persona adulta, prima o poi!.- Masakado si allaccia l’elmo sotto il mento. -E poi non preoccuparti, non andiamo a uccidere nessuno. Arriviamo, mettiamo tutti d’accordo, ripartiamo. Pulito e preciso, nessuno si farà male. Cosa può andare storto?

Masakado riprende la strada e va a ricercarsi Takeshiba su per i monti. Il magistrato è il più basso in grado, ma è un notabile locale, la cui famiglia vive nella regione da tempo immemore. E’ popolare e benvoluto, come lo è Masakado. La plebaglia sarà rassicurata dal vedere il Rambo di Shimōsa andare a confortare il povero distrettuale, senza mischiarsi subito coi fottuti nobiloni della Capitale LadronaTM.

I fottuti nobiloni, da parte loro, vengono a sapere dell’arrivo di Masakado e non accolgono la notizia con molta gioia.

Tsunemoto, malfidato come un chihuahua, se la svigna subito per asserragliarsi in un posto un pochino più difendibile della capitale provinciale.

Okiyo, dopo qualche tentennamento, resta agli uffici. E’ un Principe Imperiale, fottuto Inferno, non si farà certo spaventare da un guerriero senza rango!

Masakado arriva alla Capitale provinciale con Takeshiba al seguito. Okiyo sbircia dallo spioncino.

-Vi avverto, uccidere un governatore è reato di tradimento!

-Oilà, vossignoria!- Masakado gli fa un sorriso a trentadue denti. -Che onore incontrarvi!

-Non sono tuo cugino, non puoi uccidermi!

-No no, sembrerà strano, ma non vogliamo far male a nessuno.

Ma certo!

-Suvvia, suvvia.- Masakado posa una mano sulla spalla di Takeshiba. -Ho un’idea rivoluzionaria per risolvere questa brutta storia.

Okiyo apre di uno spiraglio la porta del governo provinciale. -E sarebbe?

-Potremmo sederci intorno a un tavolo e discuterne da persone adulte.

Sguardi sorpresi tra gli astanti.

-Oibò, non ci avevamo pensato.

Alle spalle di Okiyo, uno scriba alza l’indice. -Non ci sono precedenti! Sarebbe altamente eterodo- Viene silenziato a sediate e trascinato via.

Okiyo lascia entrare i nuovi arrivati negli uffici,. Takeshiba è seguito da un pugno di compagni.

-Dov’è la tua retroguardia?

Takeshiba si stringe nelle spalle. -Dispersi da qualche parte.

-Non sai dove sono?

-Lo saprei se qualcuno non me li avesse dispersi attaccando a cazzo la-

Masakado fa scricchiolare le nocche, Okiyo e Takeshiba abbozzano, si siedono, parlano.

E il miracolo accade. Entrambi presentano il loro punto di vista, le loro necessità, gli obblighi, le difficoltà logistiche. Entrambi capiscono la posizione dell’interlocutore. Con la mediazione di Masakado, la trattativa si sviluppa, equilibrata e costruttiva, finché a fine giornata non viene raggiunto un accordo.

Gli scribi si precipitano ad aggiornare gli annali, la plebaglia ancora non si capacità che nessuno stia bruciando baracche o stuprando pecore, i guerrieri esitano, incerti se sentirsi sollevati o delusi. Tutto pare finito per il meglio, ma senza spargimenti di sangue a gratis la cosa sembra sbagliata.

Per loro fortuna la Legge di Murphy interviene.

Mentre i nostri stanno festeggiando con una solenne bevuta, un galoppino arriva da Takeshiba.

-Capo, abbiamo ritrovato la retroguardia!

-Ottimo!- Okiyo sbatte la mano sul tavolo. -Non è che potete ritrovare anche quell’altro bischero di Tsunemoto? Il figlio di puttana è sparito su per i monti e si sta perdendo questo momento storico!

-Errr…- Il galoppino sposta il peso da un piede all’altro. -Abbiamo trovato anche lui, in effetti… O meglio, la nostra retroguardia lo ha trovato…

Masakado silenzia gli astanti con un gesto. –Cosa è andato storto stavolta?

-La retroguardia… eh. Erano tagliati fuori, non sapevano cosa fare… E c’è il proverbio, no? “Nel dubbio ammazza qualcuno…”

-Oh no.

-Sono andati a uccidere Tsunemoto.

Takeshiba tentenna la testa. -Beh, era la cosa più logica da fare.

-Ci sono riusciti?

-No, Tsunemoto è in fuga verso la Capitale.- Il galoppino esita. -Pare abbia detto qualcosa del genere “Takeshiba ha messo il Principe e l’altro Ammazzasette contro di me!” e ” Lo dirò al Ministro degli Affari Supremi, brutti stronzi!”

Scende il silenzio. Masakado facepalma. Takashiba alza le mani.

-Che volete farci? Sono ragazzi!

Okiyo si schiarisce la gola. -Era troppo pretendere di concluderla ammodo, ‘sta cosa. Vediamo di non buttar via il bimbo con l’acqua sporca, dai…

-Fanculo.- Masakado si alza, acchiappa il fiasco. -Io me ne torno a casa. E voi andatevene tutti a fanculo.

Sembra un a triste conclusione per quella che sarebbe stata un’eccezionale prova di buonsenso da parte di non uno, ma ben TRE capoccia. Tuttavia non tutto finisce in mona.

Per più di un anno la situazione si calma. Okiyo continua a governare Musashi, Takeshiba se ne torna nel suo distretto, Masakado può dedicarsi ai suoi campi e ai suoi cavalli.

La pace sembra tornata nell’Est.

Purtroppo due faccende restano in sospeso. Una si chiama Sadamori, l’altra Tsunemoto.

Entrambi riescono ad arrivare alla Capitale (il primo sui gomiti, il secondo a cavallo). Entrambi cominciano a scrivere pagine su pagine di accuse e a mettono in moto la complessa macchina burocratica.

La quiete nell’Est è fragile ed effimera: quello che era cominciato come uno scazzo tra parenti sta per diventare una ribellione di proporzioni bibliche (fuoco e fiamme che piovono dal cielo, fiumi e oceani che ribollono, quarant’anni di buio, terremoti, vulcani, morti che escono dalle tombe, sacrifici umani, CANI E GATTI CHE VIVONO INSIEME… insomma, ci siamo capiti).

MUSICA!

Prima puntata

Seconda puntata

Terza puntata

Quarta puntata

Interludio

Sesta puntata

Settima puntata


Bibliografia

YANASE Kiyoshi, YASHIRO Kazuo, MATSUBAYASHI Yasuaki, SHIDA Itaru, INUI Yoshihira,Shōmonki, Mutsu waki, Hōgen monogatari, Heiji monogatari, Shōgakukan, Tōkyō, 2002, p.7-130

FUJIWARA Tadahira, Teishin kōki (Notes journalières de l’ère Teishin), Iwanami shōten, Tōkyō, 1956

KAWAJIRI Akio, Shōmonki wo yomu (Lire le Shōmonki), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2009

KAWAJIRI Akio, Taira Masakado no ran (La révolte de Taira Masakado), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2007

KAWAJIRI Akio, Yuregoku kizoku shakai (Une société aristocratique tremblante), Shōgakukan, Tōkyō, 2008; L’ère des zuryō

KITAYAMA Shigeo, Ōchi seiji shiron (Essai historique sur la politique de la Cour), Iwanami shōten, Tōkyō, 1970

In lingua occidentale

HERAIL Francine, La Cour et l’administration du Japon à l’époque de Heian, Genève, DROZ, 2006

HERAIL Francine, La Cour du Japon à l’époque de Heian, Hacette, Paris, 1995

HERAIL Francine, Gouverneurs de provinces et guerriers dans Les Histoire qui sont maintenant du passé, Institut des Hautes Etudes Japonaises, Paris, 2004

HERAIL, Francine, Aide-mémoire pour servir à l’étude de l’Histoire du Japon des origines à 1854, lieu de publication inconnu, date de publication inconnue

HALL John Whitney , Government and Local Power in Japan, 500 to 1700, Center for Japanese Studies Univesity of Michigan, 1999,

RABINOVITCH Judith N., Shōmonki, The story of Masakado’s Rebellion, Tōkyō, Monumenta Nipponica, Sophia University, 1986

PIGGOT Joan R., YOSHIDA Sanae, Teishin kōki, what did a Heian Regent do?, East Asia Program, Cornell University, Itacha, New York, 2008

FRIDAY Karl, Hired swords, Stanford University press, Stanford, 1992

FRIDAY Karl, The first samurai, John Wiley & Sons, Hoboken, 2008

FRIDAY Karl, Samurai, warfare and the state, Routledge, New York, 2004

FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Harvard University Press, Cambridge

BRYANT Anthony et MCBRIDE Angus, Early samurai, AD200-1500, n.35, Osprey publishing, Oxford, 1991

PIGEOT Jacqueline, Femmes galantes et femmes artistes dans le Japon ancien, Gallimard, 2003, Paris

Storie di documenti: specchi imperiali e tabelle di conversione

Una delle cose che mi fan salir l’Inquisizione è incrociare gente per cui la Storia non è altro che una fila di date, un incedere Magnifico e Progressivo di nozioni da mandare a memoria. Questa visione è un abisso di ignoranza atroce.

Credete che lo storiografo sia solo un masochista che si diverte a ricordare stronzate?
No cari miei, uno storiografo E’ MOLTO PIU’ MASOCHISTA DI QUANTO PENSIATE!

E oggi voglio dimostrarvi di cosa è fatto il quotidiano dei disadattati che si iscrivono in dottorato.

Oggi affrontiamo la storia dei materiali.

Può apparire come un argomento sterile e noioso rispetto ad altri settori, tipo la storia della filosofia, la storia politica o religiosa, ecc. Tuttavia la storia dei materiali, come quella militare, ha diramazioni vastissime. Possiamo immaginare l’impatto ambientale di una società dal modo in cui costruiva i tetti, e grazie a ciò possiamo interpretare con molta più sicurezza le fonti.

Tutti i furbi che studiano avvincenti rivolgimenti sociopolitici non possono evitare di fare i conti, di quando in quando, col sudicio, col rancio degli schiavi, con l’artigiano o col tipo di scarpe usate dai soldati.

E quindi oggi non parliamo di eccitanti gesta guerriere. Oggi parliamo di specchi.

Specchio imperiale conservato allo Shōsō-in

No, non si tratta di vezzosi accessori per signorine di buona famiglia. Siamo nella seconda metà dell’VIII° secolo, e gli specchi di questo periodo riflettono poco e male. Non sono optional frivoli, ma oggetti magici e simboli di potere.

Senza entrare nel merito del ruolo dello specchio sul Continente, basti sapere che, fin dall’alba della Storia Giapponese, questo oggetto ha avuto un’importanza capitale nell’Arcipelago.

Dalla prima comparsa del Giappone nelle fonti, nel Libro dei Wei, composto verso la metà del VI° secolo, notiamo la rilevanza di questo artefatto. Nel capitolo dedicato ai barbari delle isole, lo Wajinden, si parla difatti di Yamatai, un regno prominente in mezzo a una marmaglia di staterelli bellicosi. Yamatai, embrione dello stato nipponico, è governato da una regina-sacerdotessa, Himiko, che vive reclusa in un santuario.

Secondo il testo, Himiko avrebbe mandato un’ambasceria a Daifang nel 280. Da lì, gli inviati sarebbero stati rimbalzati alla capitale Wei di Luoyang. Il sovrano Wei aveva proclamato Himiko “regina dei Wa, amica dei Wei”, e le aveva rispedito indietro vari doni, tra cui spade, perle, stoffe e 100 specchi di bronzo.

Il ritrovamento archeologico di specchi cinesi nei grandi kofun del Kinai è un elemento a favore della veridicità della storia. Sempre l’archeologia ha permesso di vedere come interi stocks di specchi di uno stesso atelier siano stati seppelliti in tombe disseminate ai quattro angoli del Paese. L’interpretazione dominante di questo fatto è che l’invio di specchi in dono facesse parte del cerimoniale diplomatico che legava capi regionali alla nascente Corte di Yamato.

Lo specchio è portatore di un forte valore religioso: compare anche nel Kojiki nel celeberrimo episodio della caverna, in cui la dea solare Amaterasu fugge dal cielo (un mito molto simile a quello greco di Demetra alla ricerca di Persefone).

Nel corso della Storia, lo Specchio è diventato, assieme alla Spada e al Gioiello, uno dei tre regalia della Corte Imperiale. Avere il controllo di questi tre oggetti sacri significava avere il controllo della Dinastia. Un imperatore poteva essere sostituito, lo Specchio Imperiale no. Tanto è vero che alla battaglia di Dan no Ura i Taira cercarono di affondare i tre regalia piuttosto che lasciarli cadere in mano ai Minamoto (ma di questo parleremo un’altra volta).

 

Ok, ok, cominciamo!

Tagliando corto sull’importanza storica, spirituale, politica e magica dello specchio, veniamo a noi!

Il documento che studieremo oggi risale al 762 e viene dal tesoro dello Shōsō-in. L’edizione su cui lavoreremo non è manoscritta (GRAZIE A DIO), ma è tratta dalla collezione Dai Nihon komonjo (volume 15).

Prima di saltare nella lettura di questo APPASSIONANTE pezzo però occorre munirsi degli strumenti adatti. In particolare, parlando qui di quantità e misure, sarà necessario dotarsi di una tabella di conversione. Non abbiamo dati diretti del periodo in esame, ma abbiamo la next best thing: una serie di cifre tratte dai Regolamenti dell’era Engi (Engishiki) redatti all’inizio del X° secolo. Si tratta di una codificazione successiva, ma che con ogni probabilità riporta senza troppe variazioni le misure stabilite dai Codici Ritsuryō di fine VII°-inizi VIII°. La nostra edizione è quella curata da Torao Toshiya (vol. 1, 2000).

Misure di lunghezza:

1 () = 2,97 m

10 shaku ()
100 sun ()

1 shaku = 29,7 cm [o 35,6 cm se si parla di “grandi shaku]

10 sun

100 fun ()

1 sun = 2,97 cm

10 fun

1 fun = 3mm

Misure di distanza

1 ri () = 534 m circa [salvo nel caso specifico di misure di terreno agricolo, ma non complichiamoci troppo la vita! NdTenger]

300 bu ()

1.800 shaku

1 bu = 178 cm CIRCA

6 shaku

Misure di superficie

1 chō () = 12.000 mq

10 tan ()

3.600 bu

1 tan = 1.200 mq

360 bu

1 bu = 3,33 mq

Misure di capacità

1 koku (/) = 80 l CIRCA

10 to ()

100 shō ()

1000 ()

1 to = 8 l CIRCA

10 shō

100

1000 shaku ()

1 shō = 0,8 l CIRCA

10

100 shaku

1000 satsu ()

1 = 8 cl CIRCA

10 shaku

100 satsu

1 shaku = 8ml CIRCA

Misure di peso peso, le Grandi Libbre

1 tai-kin (大斤) = 674 g

3 shō-kin (小斤)

16 dai-ryō (大両)

64 dai-bun (大分)

180 monme ()

1 dai-ryō = 42,125 g

4 dai-bun

11 monme

24 dai-shu (大鉄)

1 dai-bun = 10,53 g

2,75 monme

6 dai-shu

1 monme = 3,75 g

2,14 dai-shu

1 dai-shu = 1,75 g

Le Piccole Libbre

1 shō-kin (小斤) = 225 g

16 shō-ryō (小両)

64 shō-bun (小分)

180 monme

1 shō-ryō = 14,06 g

4 shō-bun

11 monme

1 shō-bun = 3,51 g

2,75 monme

Con la tabella alla mano, attacchiamo il testo!

Come prima cosa a destra leggiamo la data: Quindicesimo giorno del primo mese del sesto anno dell’era Tenpyō-hōji [762, NdTenger]

Segue l’oggetto del testo: Ordine per la fusione di quattro specchi imperiali [il carattere “” è un onorifico, NdTenger]

I caratteri in piccolo sono l’equivalente di una nota a pie’ di pagina e danno le dimensioni: ogni specchio dovrà avere un diametro di 1 shaku (29,7 cm ) e uno spessore di 5 fun (1,5 cm)

Quanto alla materia prima:

  • Rame puro: 70 kin [il testo dice Grandi Libbre, ma non è possibile, verrebbero specchi da 20 Kg! Un esemplare dell’epoca conservato allo Shōsō-in ne pesa scarsi 4. NdTenger] (15,75 Kg). Di queste, 48 (10,8 Kg) saranno forniti dall’atelier che si occupa del lavoro, e 22 (4,95 Kg) saranno fornite da diverse fonti.

  • Stagno bianco [si presume una lega brillante di stagno e piombo, NdTenger]: 5 kin e 16 ryō (1,35 Kg).

Totale del metallo: 17 Kg (con una proporzione grossolana di 90% rame e 10% lega di stagno), ovvero 4,27 Kg a specchio.

Veniamo al resto del materiale necessario per la fusione e la finitura!

  • Cera: 1 dai-ryō (674 g)

  • Polvere di ferro: 4 dai-ryō (168, 5 g)

  • Lingotti di ferro: 2

  • Tela di seta a tessitura semplice: 1 (2,97 m)

  • Tela di seta grezza a tessitura semplice: 2 shaku (59,4 cm)

  • Borra di seta: 2 ton (337 g)

  • Tela di canapa: 1 (2,96 m)

  • Cote a grani grossi: 2

  • Cote piccole a grani fini: 2 sacchetti

  • Olio di sesamo: 1 gō (8cl)

  • Carbone di legna: 12 koku (960 l)

  • Carbone da forgia: 6 koku (480 l)

  • Calce: 1 tai-kin (674 g)

  • Frecce: 20

La funzione dei vari materiali non è spiegata, ma sappiamo che gli scribi hanno tendenza ad aggruppare le diciture per tema.

La cera serve senza dubbio per creare lo stampo dello specchio (l’argilla non compare nella lista ma viene nominata in una nota più avanti).

Le frecce sembrano uno strano ingrediente. E’ possibile che la parola sia usata qui in senso lato, per indicare asticelle di bambù cave (simili all’asta di una freccia) che permettano l’uscita dell’aria durante la colata.

Non abbiamo dettagli per quel che riguarda l’uso della stoffa e del ferro, ma notiamo che sono elencati assieme alle pietre per lucidare. Se guardiamo altri tipi di artigianato, tipo la creazione di oggetti laccati, l’artefatto viene lucidato con l’uso di polvere di ferro impastata nell’olio e chiusa in un panno di diversa grana. E’ probabile che lo stesso valga per gli specchi: il tocco finale di lucidatura veniva forse dato alla stessa maniera.

Artigiani in un atelier dell’VIII° secolo

A partire dalla linea 8 si parla del personale necessario e delle “unità” che sono assegnate ad ogni uomo. Queste “unità” non sono spiegate, ma si tratta senza dubbio di “razioni giornaliere”. Notiamo che alcuni professionisti ne hanno più di altri, di certo perché il loro lavoro richiedeva più giorni di servizio.

In tutto si parla di 124 razioni, ovvero di 124 giornate lavorative complessive.

  • 5 fonditori (64 razioni). Si considera che passeranno 8 giornate a fondere e 56 a rifinire.

  • 1 cesellatore (15 razioni)

  • 1 tornitore (2 razioni)

  • 2 tornitori aggiuntivi (2 razioni)

  • 1 fabbro (3 razioni)

  • 2 assistenti di forgia (40 razioni). Riguardo al servizio di questi due tizi si considerano 12 giorni per andare a recuperare l’argilla a Nara, 2 come assistenti agli intagliatori, 3 di assistenza presso i vari artigiani e 23 come factotum.

Abbiamo un totale di 12 persone. Possiamo supporre che costoro impieghino una ventina di giorni in tutto per terminare i 4 specchi.

Nel frattempo questa gente deve mangiare, e il documento elenca con precisione chi ha diritto a cosa!

 

  • Riso: 2 koku, 4 to e 8 shō (195,2 l), ogni uomo riceve di media poco meno di 2 l al giorno. Tale riso poteva essere mangiato o scambiato per altri prodotti nei mercati della Capitale.

  • Sale: 4 shō, 9 e 6 shaku (3,97 l), ovvero ogni uomo riceveva circa 32 ml di sale al giorno (sempre di media).

  • Alghe: 13 kin e 10 ryō (circa 9 Kg), ovvero 74 g di alghe al giorno per uomo, se si conta in Grandi Libbre. Se odiamo i nostri artigiani possiamo ipotizzare Piccole Libbre, il che darebbe un totale di circa 3 Kg in totale per 25 g di alghe al giorno, ma sembra un tantinello esagerato.

  • Alghe Arame: 10 kin e 8 ryō (circa 7 Kg) per 84 razioni (certa gente lavora più a lungo di altra), per una media di 84 g di alghe a capoccia per 84 giorni.

  • Carne/pesce salati: 8 shō e 4 (6,72 l), razioni per 3 artigiani per 84 giorni, ovvero un misero 80 ml al giorno a capoccia di media.

  • Aceto: 4 shō e 2 (6,56 l) per 84 giorni lavorativi, 78 ml al giorno di media.

  • Stuoie di paglia: 2

  • Stuoie [di pianta non identificata]: 2

  • Stuoie di bambù sottile: 2

  • Cuscini rotondi: 6.

E gli specchi sono realizzati!

Una dozzina di artigiani, un atelier, una ventina di giorni, cibo e risorse, per ottenere magnifici oggetti di prestigio ad alto valore diplomatico.

L’impatto ambientale di questi artefatti comprende carbone di legna (prodotto particolarmente dannoso), trasporto di materiale e cibo fresco, produzione di seta (coltivazione di gelsi e allevamenti di bachi), produzione di cera, ecc. Si tratta di oggetti che, oltre a richiedere capacità particolari e manodopera specializzata, necessitano un notevole investimento di risorse.

Occorre anche considerare che la frenetica attività e la concentrazione demografica avevano disboscato buona parte del Kinai, che in questo periodo comincia a risentire del sovraccarico umano. Ciò rende la fabbricazione di oggetti d’arte come questi più onerosa, ma sempre meno che importare i dannati oggetti direttamente dalla Cina!

 

Specchio ritrovato nel tumulo di Yanoura nel dipartimento di Saga

La lettura di documenti del genere può apparire arida e noiosa. Non è di certo eccitante come il resoconto della rivolta di Masakado, ma io ho una passione malsana per numeri e nomenclature. Sono diretti, precisi, ordinati. Offrono una finestra nella vita quotidiana del tempo e un contesto necessario alla produzione artigianale del periodo. Quando si passa allo studio di ambascerie e doni imperiali, è importante che il dato “TOT specchi” (o simili) non sia semplicemente una cifra sulla carta, ma che comporti per lo meno una nozione del lavoro e dell’investimento che tali oggetti comportavano.

Peraltro, ora avete un’idea migliore di cosa significa lo studio dei documenti. Roba del genere è all’ordine del giorno QUANDO TUTTO VA BENE. Pensateci due volte prima di cacciarvi in questo ginepraio.

MUSICA!

(Ok, l’argomento è stato scelto anche per poter linkare questa canzone a fine articolo, che ce posso fa’)


Bibliografia

Il testo è stato analizzato durante il seminario della professoressa Von Verschuer Charlotte

Dai Nihon komonjo, Shōsō-in monjo, vol.15 p.182-183, VIII° secolo

FARRIS William Wayne, Sacred Texts and Buried Treasures, University of Hawai’i Press, Honolulu, 1998

Population, Disease, and Land in Early Japan, 645-900, Harvard-Yenching Institute Monograph Series 24, 1995

TORAO Toshiya, Engishiki, Shuueisha, vol.1 , 2000

Von Venrschuer Charlotte, Le riz dans la culture de Heian – mythe et réalité, Collège de France, 2003

Paleografia casalinga: dall’800 con furore

Di recente ho dovuto abbandonare la Ville Lumière per dar manforte al resto del clan. La casa di famiglia deve essere ristrutturata e questo significa riordinare e far posto.

Ora, io non ho idea di come funzionino le cose nelle famiglie normali. Nel nostro caso abbiamo per le mani uno scatapeus gigante che non è stato pulito da almeno trent’anni, e in cui detriti di generazioni e generazioni si sono stratificati e pressati in un nuovo tipo di sedimento, la Scartoffite.

Non esagero quando dico che per lavorare nelle cave di scartoffite sono necessari guanti, tutta, mascherina e protezione per i capelli.

In capo a una settimana avevamo trovato animali morti, merda, larve rinsecchite, avanzi di cibo lasciati lì dall’VIII Armata Alleata, il vaso da camera di Garibaldi e un numero imprecisato di manuali di buona condotta per signorine ‘800.

In mezzo a tutto il letamaio però sono saltate fuori anche cose divertenti. Oggi parleremo quindi di paleografia casalinga!

I due esemplari che conto mostrarvi sono stati ritrovati in un mucchio di ricette scritte a mano da generazioni di madri di famiglia. Perché erano lì? Non ne ho la più pallida idea.

So però da dove arrivano: si tratta di carte appartenenti alla famiglia Frangialli, smollate ai Sacerdotti in tempo immemore perché “nostro figlio verrà forse a cercarle, vi dispiace mica tenerle per noi per qualche mese?”

Un secolo dopo, il signor Frangialli ancora non si è fatto vivo, e a questo punto spero davvero che non lo faccia (non mi piace quando gente di più di 115 anni viene a farmi visita!).

 

Il primo esemplare che vi propongo oggi è un’avvincente storia illustrata.

Trascriszione:

I

Master Tidi proves do be indisposed – Miss Bianca making particular observation upon the phenomena

 

I

Mastro Tidi è indisposto – La signora Bianca esegue pedisseque osservazioni del fenomeno

II

Malady proving to be of the most alarming sort,

Miss Bianca tries strong medicaments and efficient means.

 

II

Dacché la malattia si avvera essere quanto mai allarmante, la signora Bianca tenta forti medicine e metodi efficaci.

III

Which prove to have a very good effect.

 

III

La cosa ha effetti molto positivi.

IV and last

So now Miss Bianca is to be seen again on the Pincio bringing (?) Mr Tidi.

 

IV e ultimo

Sicché ora la signora Bianca può esser vista di nuovo sul Pincio portare a passeggio Mr. Tidi

 

Come si nota, il documento non è datato, ma l’abito della signora Bianca nell’ultimo riquadro presenta il taglio tipico della moda del primo decennio del ‘900. Non ci sono indizi che spingano a supporre, da parte dell’autore, la scelta deliberata di abbigliare la signora Bianca con abiti anacronistici. Quindi possiamo ipotizzare con relativa sicurezza che il documento è da collocarsi, indicativamente, tra il 1900 e il 1910.

Un altro indizio ci è dato dal nome dell’eroina in questa frizzante storia di iniziativa e inventiva: Bianca.

Il pezzo in analisi è stato infatti trovato insieme ad altre carte, una delle quali (analizzata poco più in basso) è una lettera datata 1879 e firmata Blanche Capelli, ovvero Bianca Capelli, sposa di Ugo Frangialli e conoscente della famiglia Sacerdotti.

E’ evidente che il luogo di ritrovamento non può essere considerato del tutto affidabile per l’identificazione e datazione del documento. Tuttavia, ci pare sufficiente per ipotizzare l’alta probabilità che la giovane autrice della lettera e la matura signora protagonista del racconto siano, invero, la stessa persona.

Ok, direte, è un buffo fumetto su una tizia che svermina il cane. Strana cosa da ficcare in mezzo a ricette o libri di cucina, ma poco più che una bizzarra curiosità.

E’ vero.

Ma colgo questa occasione per introdurvi ad un esercizio accademico di grande importanza, un esercizio che chiunque voglia buttarsi nelle Scienze Sociali deve saper eseguire: la supercazzola universitaria (livello: Dottorato).

Cominciamo!

Venendo al contenuto della storia e all’interpretazione del testo in quanto tale, vediamo la signora Bianca riconoscere nel deretano del proprio cagnolino chiari sintomi di infestazione da parassiti. Con sicurezza e spirito pratico, la signora somministra un robusto clistere alla bestiola, che, nel riquadro III, caga un pitone di 8 metri.

Da un punto di vista figurativo, il valore artistico dell’opera ci pare indiscutibile. Notate con quale sicurezza e maestria l’artista ha ritratto la sofferenza della bestia, nelle fauci aperte e nelle zanne digrignate, o nel collo arcuato durante l’espulsione dell’anaconda nel terzo riquadro.

Il cappellino a punta è chiaramente ispirato al copricapo dei dottori della Peste del 1629-1630. In questo contesto è un palese simbolo di malattia e sofferenza, ma anche di ridicolo e oscurantismo reazionario. Mostra quanto sia paradossale e sciocco cercare la soluzione al male in una millantata tradizione radicata in un fumoso passato falsamente glorificato.

La signora Bianca, d’altro canto, viene ritratta con attributi scientifici (la lente, il clistere), all’epoca sicuramente associati con la professione maschile del ricercatore e del medico. Spoglia di ornamenti e ninnoli femminili, la signora impugna gli attrezzi e agisce con piglio e prontezza, incurante di convenzioni e stigma sociale. Nell’ultimo riquadro la vediamo torreggiare al centro della scena, trionfante e sicura.

Questa breve novella è chiaramente una rappresentazione simbolica dell’emancipazione femminile, allora sul nascere (la prima Giornata Internazionale della Donna fu tenuta in alcuni paesi europei nel 1911, due anni dopo il lancio del Women’s day negli USA). Non è un caso che il cane si chiami MASTER Tidi. Tidi rappresenta la società dominata dagli uomini!

La Donna, la signora Bianca, constata con acutezza come la società patriarcale sia sofferente e tormentata dai parassiti, rappresentazione lapalissiana degli stereotipi e della violenza che la cultura maschilista infligge alle donne e, di conseguenza, a sé stessa.

Spogliandosi dei propri ammennicoli e vezzi, la Donna interviene e infligge una cura traumatica ma necessaria alla Società. La signora Bianca non ha timore di essere giudicata o di ricevere una spruzzata di diarrea nel viso. Sa cosa c’è da fare e non esita. Il suo coraggio purifica la Società dall’infame serpente velenoso dell’autorità patriarcale, che striscia via, sconfitto.

Nell’ultima scena il cane ha perso il ridicolo cappellino e ora cammina felice. La signora Bianca può rivestirsi degli abiti vezzosi, non è più costretta a rinnegare la propria femminilità per difendere la propria indipendenza, bensì è libera di affermarsi ed essere riconosciuta.

Trionfante sugli infidi parassiti del Pregiudizio e dell’Oppressione Borghese, la Donna marcia verso un futuro radioso di eguaglianza, giustizia e libertà!

Il cane appare piccolo in questa illustrazione, e ciò simboleggia l’insicurezza maschile di vedersi sminuire dall’emancipazione femminile. Mostra il timore di certi uomini di essere offuscati, discriminati, in pratica di subire ciò che le donne hanno subito per secoli.

Ma l’artista sfata questa sciocca paura: come qualsiasi osservatore attento può notare, il cane non cammina sullo stesso piano della signora Bianca. Mr Tidi non è rimpicciolito, ma appare più piccolo dacché è più lontano! Legati insieme, la signora Bianca e il suo amato cagnolino, avanzano su percorsi paralleli e compagni, senza che nessuno dei due adombri l’altro.

Questo è un chiaro grido di denuncia e solidarietà tra i sessi, un’affermazione di progresso ed emancipazione!

Sembra che stia coccolando il gatto, in realtà sta ricevendo istruzioni dai Missi Dominici dell’Imperatore Interplanetario Kittoh de Destroyah (sì, l’Universo è dominato dai gattini, SVEGLIA!)

Il secondo documento che voglio proporvi non ha la carica sovversiva e moderna del primo, ma può aiutare alcuni dei miei lettori a rimettere certi dispiaceri nella giusta prospettiva.

Sono sicura che a molti di voi sarà capitato di ritrovarsi nella tanto temuta friendzone. E’ di certo una situazione dolorosa.

Tuttavia c’è di peggio, come la vispa penna della signorina Blanche sta per mostrarci.

Trascrizione

San Pellegrino, 1er Septembre 1879

Monsieur!

Un évènement imprévu vient changer le cours des affaires que nous étions en train de traiter avec vous! Aussi ne vous étonnez pas si au lieu d’être maman qui est intermédiaire entre vous et moi c’est moi qui le devient entre elle et vous.

Oui, monsieur, il faut que je vous l’avoue ; les efforts que vous avez faits pour blesser [?] mon cœur, ont eu un résultat inattendu ! Mon cœur froid et insensible ne s’est pas laissé toucher ; –

celui si tendre de ma mère a malheureusement subi l’influence à laquelle le mien a su résister et ce [adjective ?] cœur s’est éperdument épris de vous !

Le mot est lâché, et je n’ai maintenant autre chose à faire, que de vous prier de [verbe?] auprès de celle qui désormais ne vit plus que pour vous.

Oui, Monsieur! – Ses yeux ne voient qu’une image – c’est la vôtre – Ses lèvres n’ont qu’un soupir, c’est votre nom –

Son cœur n’a qu’un désir – c’est vous-même !

Hâtez-vous donc de venir consoler par votre présence ce cœur si profondément blessé d’amour pour vous ! –

Yeux bruns vous attendent, voulez-vous y jeter !

Croyez-moi avec la plus haute estime votre bien dévouée

Blanche Capelli

à Mr. E. C. M.

 

Italiano

San Pellegrino, 1 Settembre 1879

Signore!

Un evento imprevisto ha cambiato il corso degli affari che stavamo intrattenendo con voi! Peraltro, non stupitevi se invece di essere la mamma a far da intermediaria tra voi e me, sono io a diventar l’intermediaria tra lei e voi.

Sì, signore, devo confessarvelo: gli sforzi che avete fatto per ferire [? il verbo non quadra nel contesto, si tratta senza dubbio di un altro verbo avente come senso di “conquistare” o qualcosa del genere] il mio cuore hanno avuto un risultato inatteso! Il mio cuore freddo e insensibile non si è lasciato sfiorare… quello sì tenero di mia madre ha sfortunatamente subito l’influenza alla quale il mio ha saputo resistere. [Leggevo questo a tavola con la famiglia, a ‘sto punto è esploso lo stadio NdTenger] e questo [aggettivo?] cuore si è perdutamente innamorato di voi!

La parola è lanciata, non mi resta che una cosa da fare, ed è pregarvi di [Boh?! Andare?] presso colei che ormai non vive che per voi.

Sì, signore!  I suoi occhi non vedono che un’immagine – la vostra. Le sue labbra non hanno che un sospiro, è il vostro nome.

Il suo cuore non ha che un desiderio – siete voi stesso!

Sbrigatevi allora e venite a consolare questo cuore che soffre profondamente d’amore per voi!

Occhi bruni vi attendono, vogliate immergervici!

Vogliate credere nella mia più alta stima, vostra devotissima

Blanche Capelli,

al Sg. E. C. M.

Se avesse aggiunto dimenticato “posso chiamarti ‘papà?'” sarebbe stato un pelino troppo esagerato. Invece no, questa lettera è perfetta!

Si tratta chiaramente di una brutta copia (notare le correzioni e le parti aggiunte) di una lettera. Il testo suggerisce che lo sfortunato signor E. C. M. stesse spasimando per i begli occhi della signorina Capelli (e che la mamma di costei fosse vedova).

Non so come sia finita questa romantica storia d’amore. E’ molto probabile che il signor E. C. M. (abilmente ritratto a piè di pagina) si sia dato latitante, ma a noi piace credere che la storia d’amore abbia avuto un lieto fine per la signora Capelli Madre!

Certo è che la strategia della vispa signorina è originale e creativa. Perché ricorrere a un ti vedo più come un amico quando puoi optare per un io non sono innamorata, ma mia madre è cotta stracotta di te!

Potreste pensare “ah, ma lo posso fare solo se mamma è vedova o divorziata”. Beh, no. Siamo nel 2017, svegliatevi! Potreste alludere al fatto che i vostri sono una coppia aperta super-moderna! Un minimo di fantasia, approfittate delle conquiste!

Mia personalissima idea (non basata su niente in particolare): la mamma della signorina Capelli aveva pescato il signor E. C. M. come Genero Ideale e stava facendo pressione sulla figlia… che non voleva saperne. La signorina Bianca ha dunque deciso “se ti garba tanto, sposatelo te!”. La lettera potrebbe essere interpretata come “non mi garbi, sei ancora sul radar solo perché piaci tanto alla mamma”.

In ogni caso: OUCH!

Credi che la friendzone sia un problema? Benvenuto nella MOTHERZONE!

Un’ultima nota: noterete che il disegno presenta alcune similitudini stilistiche col rivoluzionario racconto illustrato analizzato più in alto. E’ possibile che il primo documento non sia la mano di un amico della signora Bianca, quanto un’opera realizzata da lei stessa. In questo caso la storia assumerebbe un carattere ancora più potente e autobiografico!

E’ possibile. Dopotutto la signora era in buoni termini con i Sacerdotti (durante il Fascismo Maria Sacerdotti fu feroce emancipazionista e presiedette la sezione fiorentina della Federazione Italiana Laureate e Diplomate degli Istituti Superiori) e con le suffragette Ada e Beatrice Sacchi (di famiglia mazziniana e fieramente progressista).

Tutto torna quindi, il valore simbolico del primo documento è confermato!

La morale della favola è: prima di buttare via blocchi di Scartoffite, dateci un occhio. Potreste trovarci piccole perle di surrealismo fossile!

E ora una canzone a tema!

MUSICA!


Per chi volesse saperne di più sulle signor Sacchi e Sacerdotti.

Illustri sconosciuti: Taira no Masakado (2.3)

Bentornati in questa fossa di fastidio e mestizia. Oggi riprenderemo una delle nostre serie: la mirabolante storia di Taira Masakado!

La scorsa puntata avevamo lasciato il nostro baldo comandante a un punto morto con il suo acerrimo nemico: lo zio/suocero Yoshikane. I due si sono incontrati sul monte Tsukuba, ma a parte far esplodere delle mucche (e non dite che la Storia non è affascinante), non sono riusciti a concludere niente di significativo. Con la cattiva stagione alle porte, i due contendenti sono costretti a ribuscare la porta di casa: Masakado a Iwai e Yoshikane a Ishida.

La nostra cara cartina del Nord-Est dell’Impero, per chi si fosse scordato DOVE capitano le rivolte migliori!

La parodistica scaramuccia non è stata proprio senza risultati: essendosi svolta puntuale nel periodo della trapiantazione del riso, una bella fetta di raccolto è andata a baldracche, i contadini scappano, i piccoli guerrieri si danno al brigantaggio, i burocrati pregano e in generale gente che non c’entra niente crepa di stenti.

Sul piano militare, la faccenda è bloccata. Masakado ha dalla sua parte un editto imperiale che gli dà ragione, ma i funzionari provinciali che dovrebbero assisterlo trascinano i piedi, restii ad inimicarsi il potente Yoshikane (ricordiamolo, ex-vicegovernatore).

La stallo però non dura. Un bel giorno qualcuno ha la brillante idea di andare da Yoshikane.

-Senti capo, e se invece di aspettare il beltempo e fare un’altra spedizione che levati facessimo un bell’attacco notturno? Arriviamo a Iwai, zick-zack, passiamo a a fil di spada tutto ciò che respira, e quando passa l’Ispettore Imperiale diciamo che è stato un incidente!

-Un incidente…

-Sì, tutti gli uomini, donne e bambini di Iwai si saranno tragicamente tagliati la testa per distrazione mentre si radevano.

-Dobbiamo essere sicuri di spacciarli tutti in una botta sola, però. E non abbiamo idea di come sia fatta casa di Masakado, quel cialtrone non mi ha mai invitato.

-Aha.- Il genio sorride. -Ma io ho la soluzione!

-Spara.

-C’è questo ragazzino, Hasetsukabe no Koharumaru. I suoi hanno uno sputo e un cazzo di terra morta qui in Hitachi, e siccome non tirano su nemmeno da campare il canarino, il citto va a lavorare in Iwai per arrotondare.

Yoshikane si fa attento. -Un ragazzino che va e viene tra questa provincia e Iwai…

-Un ragazzino che la gente di Iwai è abituata a vedere e che non attira l’attenzione.- Rincara il genio.

-Un ragazzino le cui terre (chiamandole così) si trovano nella mia zona d’influenza.

-Esatto.

-Mandalo a chiamare!

Due bravi impacchettano Koharumaru e lo portano da Yoshikane. Non sappiamo molto di questo garzone. Ha dodici o quattordici anni, è un uomo libero e non miserabile, ma comunque della fascia bassa della plebaglia. Una fascia scomoda, specie in un periodo di carestie ed epidemie a nastro come questa lieta metà del decimo secolo.

Koharumaru arriva alla residenza di Yoshikane, ex-governatore, discendente di imperatori e uomo più potente della provincia. E’ probabile che il marmocchio non abbia mai nemmeno osato guardare in faccia un uomo della statura di Yoshikane. Anche perché guardare in faccia i guerrieri è sempre una cattiva idea.

Stando allo Shōmonki, Yoshikane lo riceve son mille cortesie, lo copre di regali e di attenzioni. Una volta messo a suo agio il pargolo, il nostro va al sodo.

-Dimmi, te lavori alla residenza di Iwai, vero?

-Porto carbone per la forgia.

-Dimmi, caro figliolo… che ne diresti la prossima volta che vai di portare con te un bravo signore amico mio?

-In che senso?

-Oh, voglio regalare a mio nipote delle tendine nuove, ma da quando gli ho sgozzato i figli non mi invita più (vai a sapere!). Non so di che colore ha la carta da parati, non vorrei che le tendine stonassero! Se tu potessi portare uno dei miei con te, ecco, questa brava persona potrebbe osservare per benino com’è costruita la base di Iwai e venirmelo a dire.

-Vuoi che infiltri uno spione in casa di uno dei migliori guerrieri della regione?

-Ora via, “spione”! “Esperto di ricognizione” sarebbe più appropriato…

-Se va male mi staccano la testa e ci giocano a pallone.

-Ma se va bene ti faccio diventare gregario a cavallo (umanori no rōtō).

E’ un’offerta ghiotta, l’occasione di una vita, una breccia fuori dalla miseria, lontano dalla vita da cavaterra e dritto nel geloso circolo dei guerrieri domestici. Come seguace montato, Koharumaru potrebbe ottenere terre, una casa, magari perfino qualche servizio presso un nobile patrono alla Capitale. Koharumaru è giovane, non ha mai avuto la pancia piena in vita sua, decide di correre il rischio.

Le gioie della vita all’aria aperta.

Koharumaru arriva alla residenza di Masakado accompagnato da un estraneo. Il piantone lo ferma.

-Chi è ‘sto tizio?

-E’ il fratello del cognato del vicino di mio padre.

-Basta che non sia uno zio o un cugino, non vogliamo casino nella base.

I due passano.

La mancanza di precauzioni alla base di Masakado pare bizzarra. Può spiegarsi in vari modi. Intanto il fatto è narrato nello Shōmonki, fonte principale della storia e giudicato molto affidabile in generale. E’ comunque una fonte di seconda mano (chi l’ha scritto non era sul terreno) e non può essere presa per oro colato a prescindere. E’ possibile che questa faccenda non sia accaduta o sia accaduta in modo diverso.

E’ possibile. Però il testo viene convalidato in diversi punti da altri documenti e si dimostra molto attendibile. Quindi è probabile che la storia sia autentica.

Assumendo ciò, è possibile che Koharumaru non sia stato fermato perché era una faccia conosciuta. E’ anche possibile che Koharumaru fosse un cavaterra troppo basso nella gerarchia per attirare davvero l’attenzione: una certa arroganza è insita nella società di classe e l’arroganza è la morte della cautela.
Tuttavia Masakado e i suoi danno prova, in generale, di competenza e prudenza, quindi la prima opzione pare più probabile.
Infine, non bisogna dimenticare che Masakado gode dell’approvazione ufficiale della Corte: Masakado ha ragione, il che lo rende, in teoria, intoccabile. Probabilmente non si aspetta un attacco, non nella cattiva stagione.
Il piano di Yoshikane riflette grande audacia e spregiudicatezza, e si basa su una singola scommessa: “se li ammazzo tutti in una notte e non disturbo le carovane di tributi, la pace torna nella provincia e la Corte lascerà perdere tutta questa incresciosa faccenda”.

In parole povere, Yoshikane confida che la Corte non investirà in una campagna punitiva fintanto che la quiete viene ristabilita. Yoshikane si sente intoccabile e protetto dalle conseguenze grazie alla propria posizione e ai suoi legami personali con notabili e capibanda.

Resta una scommessa avventata: Masakado è popolare, è capace, ha la benedizione Imperiale, il che vuol dire che solo i veri fedelissimi di Yoshikane saranno disposti a rischiare la pellaccia contro di lui.

Ad ogni modo la missione di ricognizione di Koharumaru va a buon fine, Yoshikane ha le sue informazioni, può passare all’azione.

La battaglia di Iwai

La zona dello scontro.

Quattordicesimo giorno del dodicesimo mese del settimo anno dell’era Jōhei (checcazzo vi ridete, le persone civili datano così, e comunque è l’inverno del 938).

E’ buio, Yoshikane esce dalla sua residenza. Ha elmo, armatura lamellare, sode a proteggergli i bicipiti, gambali. 80 dei suoi uomini migliori lo aspettano, arco in pugno, faretra piena, sciabola all’anca. Sono i suoi guerrieri personali, il cuore pulsante della sua banda di guerra, i migliori, i più fedeli. Non c’è posto per seguaci recalcitranti o ragazzini di primo pelo in una missione come questa. Iwai è a una trentina di chilometri, attraverso due fiumi e pantani.

I nostri montano a cavallo, escono in ordine da Ishida sulla strada coperta di brina. Non ci sono uomini a piedi con loro, solo cavalieri. Nessuno parla, nella notte si sente solo lo scalpiccio sommesso degli zoccoli sulla terra battuta.

Nemmeno l’esercito più preparato però è perfettamente silenzioso, non quando sei coperto d’acciaio in groppa a una bestia. E la notte è piena di occhi.

A una ventina di chilometri dalla meta, il gruppo viene visto da un guerriero di Masakado. Una nutrita banda di cavalieri non è mai una buona notizia, specie se, avvicinandoti, puoi sentire di quando in quando il lieve tintinnare dell’acciaio. Ma chi sono e dove vanno?

Il guerriero si avvicina al gruppo da dietro, li raggiunge. Il suo cavallo va al passo come il loro, è piccolo e tarchiato come il loro, nella notte nuvolosa la sua armatura è nera come la loro, la sua faccia un buco nero nella bocca dell’elmo, come la loro.

Si spinge nel cuore del gruppo. Nessuno parla, nel buio nessuno si rende conto che c’è un cavaliere in più, ma quel cavaliere è lì per osservare. Riconosce un ornamento su un elmo, uno stemma su una manica, abbastanza da essere sicuro: ora sa chi sono, e sa dove stanno andando.

Si lascia distanziare di nuovo, senza mai un moto di agitazione, senza uno slancio di fretta. Appena è abbastanza lontano dalla banda, pianta i talloni nei fianchi del cavallo e corre come se non ci fosse un domani. Corre a Iwai.

Infiltrati. E’ sempre colpa dei fottuti infiltrati.

Siamo tra le 5 e le 7 di mattina del 15, il cielo è ancora color piombo, l’aria è tanto fredda da strapparti il naso. La residenza di Iwai è silenziosa e morta nella nebbia. Non sappiamo di preciso come fosse costruita. Probabilmente somiglia a un villaggio: la casa di Masakado, quelle più piccole dei suoi sodali, contadini e artigiani, il tetto allungato delle scuderie, quello ripido dei magazzini, la distilleria, il camino della forgia. Le cime nude degli alberi da frutto sporgono di certo oltre la palizzata. C’è probabilmente un fossato basso e largo fuori dalla palizzata, con punte di bambù nascoste nel fango tipo triboli.

Yoshikane sorride nella luce grigia.

-Perfetto! Allora ragazzi, ricordate! Lisci come l’olio, attacchiamo dal nulla, li troviamo in pigiama, tagliamo i-

Una salva di frecce piove dal nulla. Cavalli nitriscono, urli di sorpresa e dolore.

-Checcazzo?

Una seconda salva di frecce. Yoshikane fissa la residenza inorridito. Le parole di suo nipote Sadamori gli attraversano la testa: ci ha sgamato.

Il portone si spalanca, Masakado e una decina di cavalieri sono armati da capo a piedi. Stanno facendo una sortita. Masakado sprona il cavallo, incocca, scocca. La sua freccia fende l’aria con un sibilo sordo, centra in piena faccia un uomo chiamato Taji no Yoshitoshi. E’ il miglior arciere di Yoshikane, uno così tosto che fa colazione a chiodi arrugginiti e ricaga lingotti d’acciaio per pranzo.

Yoshitoshi schianta giù di sella morto come uno stoccafisso. Perché puoi essere tosto quanto ti pare, ma le frecce in fronte sono democratiche e uguali per tutti. Il morale degli uomini di Yoshikane si sgonfia all’istante.

Una cosa che impararemo con questi articoli: una sola freccia può decidere il destino di un Impero.

Il gruppo di Masakado è in minoranza, ma prende la banda di Yoshikane del tutto alla sprovvista. Si avventano sul nemico come lupi sui fagiani e scatenano un carosello sanguinoso di arti mozzati e ossa rotte.

La gente di Yoshikane cerca di riorganizzarsi, ma la terra trema. Dalla boscaglia e dai campi intorno a loro arrivano urla e nitriti. Nella nebbia si disegnano guerrieri incazzati su cavalli schiumanti. Masakado non ha avuto il tempo di radunare i suoi uomini, ma ha avuto tempo di mandare dei messaggeri e avvertire dell’attacco. I fedeli alleati si sono precipitati carichi come bombe a mano, perché se c’è qualcosa che fa imbestialire un guerriero è dover combattere prima del caffé.

La banda di Yoshikane viene presa a sandwich tra i Mirabolanti Dieci di Iwai e il resto dei fedeli di Masakado. E’ un cicciaio. Yoshikane riesce a scappare, ma lascia 40 dei suoi a terra.

E’ la fine di Yoshikane. Masakado ha vinto con una sortita, lui e un pugno di valorosi, da soli nella prima luce mattutina, contro un nemico di otto volte superiore. E’ un trionfo, Masakado è il miglior guerriero della regione, uomini accorrono per giurargli fedeltà, donne restano incinte a sentirne parlare, il Time gli dedica un’edizione straordinaria.

Yoshikane invece ha perso, la sua banda è annientata, i suoi guerrieri morti, feriti o disonorati. Ha perso e i perdenti hanno sempre torto agli occhi del Mondo. E’ la fine della sua carriera Il suo nome sparisce dalle fonti, non metterà mai più piede su un campo di battaglia, non alzerà mai più un dito contro suo nipote. Come l’antagonista dei Duellanti, è un morto che cammina. Solo e senza gloria, muore di malattia due anni dopo.

Quanto al giovane Koharumaru, la sua storia finisce senza sorprese. Dopo circa due settimane di caccia, viene catturato e decapitato una giornata d’inverno, il terzo giorno del primo mese dell’ottavo anno di Jōhei.

E così si conclude la seconda fase delle rivolte di Jōhei e Tengyō.

Ma non è finita. Perché gli eroi non possono invecchiare, e il lieto fine è solo una questione di timing.

MUSICA!

Prima puntata

Seconda puntata

Terza puntata

Quinta puntata

Interludio

Sesta puntata

Settima puntata


Bibliografia

YANASE Kiyoshi, YASHIRO Kazuo, MATSUBAYASHI Yasuaki, SHIDA Itaru, INUI Yoshihira,Shōmonki, Mutsu waki, Hōgen monogatari, Heiji monogatari, Shōgakukan, Tōkyō, 2002, p.7-130

FUJIWARA Tadahira, Teishin kōki (Notes journalières de l’ère Teishin), Iwanami shōten, Tōkyō, 1956

KAWAJIRI Akio, Shōmonki wo yomu (Lire le Shōmonki), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2009

KAWAJIRI Akio, Taira Masakado no ran (La révolte de Taira Masakado), Tōkyō, Yoshikawa Kōbunkan, 2007

KAWAJIRI Akio, Yuregoku kizoku shakai (Une société aristocratique tremblante), Shōgakukan, Tōkyō, 2008; L’ère des zuryō

KITAYAMA Shigeo, Ōchi seiji shiron (Essai historique sur la politique de la Cour), Iwanami shōten, Tōkyō, 1970

In lingua occidentale

HERAIL Francine, La Cour et l’administration du Japon à l’époque de Heian, Genève, DROZ, 2006

HERAIL Francine, La Cour du Japon à l’époque de Heian, Hacette, Paris, 1995

HERAIL Francine, Gouverneurs de provinces et guerriers dans Les Histoire qui sont maintenant du passé, Institut des Hautes Etudes Japonaises, Paris, 2004

HERAIL, Francine, Aide-mémoire pour servir à l’étude de l’Histoire du Japon des origines à 1854, lieu de publication inconnu, date de publication inconnue

HALL John Whitney , Government and Local Power in Japan, 500 to 1700, Center for Japanese Studies Univesity of Michigan, 1999,

RABINOVITCH Judith N., Shōmonki, The story of Masakado’s Rebellion, Tōkyō, Monumenta Nipponica, Sophia University, 1986

PIGGOT Joan R., YOSHIDA Sanae, Teishin kōki, what did a Heian Regent do?, East Asia Program, Cornell University, Itacha, New York, 2008

FRIDAY Karl, Hired swords, Stanford University press, Stanford, 1992

FRIDAY Karl, The first samurai, John Wiley & Sons, Hoboken, 2008

FRIDAY Karl, Samurai, warfare and the state, Routledge, New York, 2004

FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Harvard University Press, Cambridge

BRYANT Anthony et MCBRIDE Angus, Early samurai, AD200-1500, n.35, Osprey publishing, Oxford, 1991

PIGEOT Jacqueline, Femmes galantes et femmes artistes dans le Japon ancien, Gallimard, 2003, Paris

Genpei 2.1: Agiremo con Buonsenso solo dopo aver esaurito ogni altra possibilità

Abbiamo lasciato i Taira alle prese con ribellioni diffuse in tutto il Paese, Yoritomo ancora saldamente basato a Kamakura ma pesto dopo un rovescio di fortuna, i monaci in rivolta e l’Imperatore Goshirakawa alla Capitale col cerino in mano.

Molti di questi disordini non dipendono direttamente dalla guerra tra Taira e Minamoto: piuttosto, la situazione difficile e la debolezza del governo esacerbano rivalità locali e familiari. Insomma, se gli aristocraticoni imperiali si sgozzano tra cugini, perché la stessa simpatica usanza non dovrebbe essere praticata in provincia? E’ importante tenersi al passo con le ultime tendenze!

E’ vero però che buona parte di questi conflitti sono polarizzati dai due galli del pollaio. Un esempio sono i Kōno, che si ribellano in Iyo nell’isola di Shikoku. Il movente iniziale è una rivalità con un’altra famiglia di notabili locali, ma dopo l’arrivo di un Castigatore Taira incazzato, i nostri baldi guerrieri son lesti a precipitarsi da Yoritomo, che per conto suo è ben lieto di allungare i tentacoli anche nel Mare Interno.

Kiso Yoshinaka attacca la residenza dei Jō in Echigo, dal pennello di Utagawa Yoshitora

I Taira possono dirsi soddisfatti di aver vinto almeno una battaglia contro di lui, ma non hanno tempo di riposare: in Shinano si trova ancora Kiso Yoshinaka, e il giovane comandante è carismatico, abile e ambizioso. Tre grossi difetti.

I Taira si riuniscono alla Capitale.

-E’ necessaria una spedizione punitiva.- Decreta il Capo del Clan, Munemori, secondo figlio di Kiyomori. -Come stiamo a fantaccini?

-Sono morti di fame sulla via del ritorno.

-E i cavalieri?

-Si sono mangiati i cavalli sulla via del ritorno.

-Tutti?

-No, il resto delle bestie si è azzoppato inciampando sui cadaveri dei morti di fame.

-Ottimo…

-Abbiamo dei vassalli in Echigo, i Jō, magari bastano loro a scapitozzare Yoshinaka.

-Massì, dai, basteranno. Cosa può andare storto?

I Jō sono incaricati di scapitozzare Yoshinaka. Sequestrano beni e cibo, radunano i guerrieri di Dewa, Echigo e dintorni a calci nel culo e si dirigono in tromba in Shinano. Il loro esercito conterebbe 40.000 o 60.000 uomini secondo le fonti, ma sappiamo che i numeri sono sempre da prendere cum grano salis. Quello che però è certo, è che si tratta di un’accozzaglia male assortita di bande diverse, poco uniformi e disunite (nonché spesso nemiche tra loro). Questa gente viene tirata al fronte a combattere per gente che non conosce contro altra gente che non conosce, quando potrebbe restare a casa ad allevare cavalli e sbudellare cugini. La maggior parte di questi guerrieri ha tanto da perdere e poco da vincere.

Nel mentre, Yoshinaka sta preparando i suoi uomini. Secondo le fonti, si tratterebbe di 2.000 truppe montate, divise in 3 bande principali di cui una (la Kiso) sotto il suo diretto controllo.

Tra le sue truppe troviamo anche nominati i Takeda di Kai, ma pare strano, visto che questi combattevano per Yoritomo (cugino e rivale di Yoshinaka). Secondo Uesugi è più probabile che le truppe di rincalzo venissero da Kōzuke, provincia in cui Yoshinaka aveva discreta influenza.

I due partiti si incontrano sulla piana alluvionale della Yokota.

La regione dei Circuiti di Hokuriku e Tōsan

Yoshinaka ha gente convinta, ma meno numerosa. Promette male. Al consiglio di guerra, i nervi sono tesi.

-Potremmo scatenare delle papere.- Propone qualcuno. -Ho sentito dire che sulla Fuji hanno fatto una macello.

-Le papere?

-Pare.

-Chi l’avrebbe mai detto…

-Dei rinforzi del clan Inoue dovrebbero arrivare.- Interviene un altro. -Dice che son qualche migliaio, sempre pochi ma magari fanno più danni delle papere.

Nessuno fa più danni delle papere!

-Però-

-E poi non cambia, sono sempre troppo pochi, quando i Jō li vedranno arrivare, faranno salsicce di loro e dei loro cavalli.

-Vero.- Conviene Yoshinaka. -Potrebbero non vederli arrivare.- Sorride. -Viviamo in tempi molto confusi, dopotutto.

E’ una mattina del sesto mese, il campo dei Jō è un casino bestiale in potenza. Jō Nagashige pretende un rapporto sullo stato delle truppe.

-A parte coltellate tra le scapole, risse tra ubriachi e minacce, va benone.- Attacca l’aide-de-camp. -La banda dei Tali ha cercato di dar fuoco alla banda dei Tizi per una storia di corna.

-Furto di donne o furto di arieti?

-Non credo faccia davvero differenza, dalle loro parti.

-E quindi?

-Sono stati interrotti dalla banda dei Semproni che inseguiva Un’Altra Banda A Caso.

-Sempre corna?

-No, sono cugini, quindi devono uccidersi tra loro.

-E’ naturale.

-Sì, mio signore.

-Tifo? Peste?

-Non ancora, se diamo battaglia oggi riusciamo a fare più morti di spada che di malanni!

-Sarebbe bello.

-Secondo i nostri calcoli, abbiamo ancora quindici ore prima che quest’accozzaglia di facinorosi esaltati inizi ad autodigerirsi.

Un messaggero arriva di corsa nella tenda di Nagashige. -Capo, sta arrivando una banda di qualche migliaio di cavalieri!

-Chi diavolo sono?

-Non si capisce molto bene, ma hanno le bandiere dei Taira.

Nagashige guarda l’aide-de-camp. -Stiamo aspettando rinforzi?

L’aide-de-camp si stringe nelle spalle. -Poesse. Alcune delle bande se ne sono già andate, alcune stanno dando la caccia ai paraculi che non si sono ancora mossi di casa loro, altra gente ancora è in ritardo…

-Bon, a caval donato non si guarda in bocca, date il benvenuto ai nostri amici!

Spoiler

Per citare lo Heike monogatari:

“Ah, quindi anche in questa provincia c’erano partigiani degli Heike! Ciò è incoraggiante!- esclamò, ringagliardito.

Ma i sette distaccamenti [dei nuovi arrivati], che nel frattempo si erano avvicinati, fecero giunzione a un segnale convenuto e tutti insieme lanciarono l’urlo di guerra. Gli stendardi bianchi [Genji] che tenevano pronti si levarono all’improvviso. E la gente di Echigo, a questa vista:

“I nemici sono senza dubbio decine di migliaia! Che ne sarà di noi!- si dissero, impallidendo.

Nella fretta e la precipitazione, gli uni spinti nel fiume, gli altri gettati nei dirupi, ben pochi scamparono e molti furono colpiti.

Le bande sopravvissute e quelle rimaste a Echigo si rendono conto che i Jō sono pestimale. Quando il gatto non c’è, i topi ammazzano il cugino: scoppiano rivolte ovunque, fuoco e massacro si diffondono attraverso la provincia come un’epidemia. Fino a quel giorno i Jō hanno comandato grazie alla protezione dei Taira. Yoshinaka ha mostrato ai guerrieri che le braccia dei Taira sono più corte di quanto si pensasse.

Salve, mi serve il raccolto per far la guerra a mio cugino. Come sarebbe non c’è raccolto?

La notizia della battaglia della Yokota non tarda ad arrivare a Yoritomo.

Yoritomo non è stupido, sa che queste sono brutte notizie.

-Se continua così, tuo cugino potrebbe perfino marciare sulla Capitale.- Gli fanno notare.

-Lo so.

-E’ discendente di Yoshiie come te, potrebbe rivendicare una posizione dominante nel clan.

-LO SO.

-Potremmo attaccarlo.

-Noi abbiamo appena perso, lui ha appena vinto, cerchiamo di non fare stronzate troppo grosse.

-Potremmo allearci con lui…

-Piuttosto mi faccio sbranare dai chihuahua.

-E allora che facciamo?

Yoritomo sospira. -So che sto per dire qualcosa che vi parrà rivoluzionario, impensabile e perfino immorale.

I guerrieri impallidiscono. -Oh no.

-Sì. Dobbiamo dar prova di buonsenso.

Svenimenti e nausea.

-E’ contro la tradizione!

-L’ultimo notabile di buonsenso è stato Masakado, e tutti sappiamo com’è andata a finire!

-E i bambini? Che esempio daremo ai bambini?

Yoritomo li silenzia con un gesto. -Mi duole tantissimo, ma a mali estremi, estremi rimedi. Chiamatemi uno scrivano.

Yoritomo è un politico accorto e un fine conoscitore dell’essere umano. Non scrive direttamente al capo dei Taira Munemori, contatta surrettiziamente l’Imperatore Ritirato Goshirakawa e gli chiede di passare il messaggio. Magari se Sua Maestà Frate ci mette una buona parola, i Taira saranno più inclini a dargli retta.

Il messaggio recita qualcosa del genere: “sentite, al di là di tutto, tutti noi vogliamo solo difendere l’Imperatore, giusto? Insomma, senza Imperatore è la guerra civile fino all’ultimo uomo e nessuno vuole questo. Quindi facciamo così: voi vi tenete l’Ovest e i vostri porti per commerciare con la Cina, noi l’Est e i pascoli dei cavalli. Non è niente di drammaticamente diverso da quello che abbiamo fatto per 300 anni, ovvia! Mettiamoci una bella pietra sopra e volemosebbene.”

Munemori e soci considerano la proposta.

-Ha senso.- Osserva uno. -E ci caverebbe da una brutta impasse. I Kikuchi di Kyūshū sono ancora in rivolta, la fame falcia centinaia di plebei al giorno, in Shikoku stanno corteggiando la causa Geniji e il nostro nuovo imperatore ha cinque anni appena.

-Potremmo in effetti lasciar perdere.- Conviene un secondo. -Lasciamo che sia Yoritomo ad occuparsi di suo cugino Yoshinaka, noi ci teniamo il boccone grasso della regione centro-occidentale e loro possono tornare a scopare arieti ed allevare cavalli. O era il contrario?

-Tutto questo ha molto senso e solo un pazzo rifiuterebbe una proposta simile.- Munemori annuisce. -Ma mio padre Kiyomori mi ha fatto giurare di non far mai la pace con i Minamoto, quindi ciccia.

Non sto scherzando.

Ah, le colpe dei padri…

I Taira tentano di riportare l’ordine in Hokuriku, ma le rivolte continuano: Noto e Kaga si ribellano, gli intendenti fedeli ai Taira sono cacciati o uccisi a colpi d’accetta.

Taira Michimori viene spedito con un esercito di pacificazione e arriva senza ingombro al governo provinciale di Echigo.

-Oh, non è così male, dopotutto.- Commenta. -Yoshinaka non si è nemmeno fatto vedere. Magari la gente è stanca di sangue e pronta a tornare in riga.

-Magari, mio signore.

-E questi bei riverberi che si vedono, cosa sono? Festeggiamenti?

-E’ il benvenuto dei Kaga-Genji?

-Oh, vedi che ci festeggiano perfino loro? Cosa stanno bruciando?

-Villaggi.

Michimori è partito per pacificare l’intero Circuito, ma ridimensiona presto le sue ambizioni alla provincia di Echigo. E anche in quel caso, calmare i guerrieri locali è un po’ come voler ragionare coi calabroni dopo avergli scorreggiato nel nido. Notabili, frati, intendenti di santuari, tutti sono armati e tutti sono affamati. Chi ha fame uccide.

Perfino i vassalli Taira capiscono l’antifona: ci vuole un capo carismatico e in cui la gente creda. Michimori non risponde alla descrizione, Yoshinaka sì. Molti cambiano campo in meno di un mese.

Dopo aver perso più di 80 vassalli personali, Michimori si rassegna e abbandona Echigo. Si asserraglia nella fortezza di Tsuruga, ma prima ancora che i suoi possano mandargli rinforzi è costretto a mollare tutto e fuggire in montagna. Il circuito dell’Hokuriku è un vespaio senza compassione, e dal casino Yoshinaka emerge con una banda temibile e compatta.

Dal canto suo, Yoritomo cerca di lanciare un attacco decisivo sulla Capitale, ma viene bloccato dalle truppe di Koremori, autore del disastro sull Fuji e della vittoria sulla Sonomata.

Nell’undicesimo mese, il Paese è un disastro e i tre contendenti principali (Yoritomo, Yoshinaka, Taira) si trovano in un’impasse militare. Nessuno di loro può muoversi senza esporre il fianco, e nessuno di loro ha le risorse di attaccare e difendersi allo stesso tempo.

Intanto, la carestia infuria. Miserabili muoiono gli uni sugli altri per le strade della Capitale. I campi vengono abbandonati. Ispettori delle tasse brutalizzano plebei e notabili per strizzar loro riso e bestie per la guerra. La gente fugge, la gente si ribella, l’economia collassa.

Il macello di Genpei non è finito, ma entra in una fase di gelo. E’ il 1182, e tutto è allo stesso tempo in subbuglio e cristallizzato.

Quindi cosa abbiamo imparato oggi, bambini?

Uccidete vostro cugino prima che lui uccida voi. Nella miglior tradizione tragica, il sangue del proprio sangue è il più dolce da spargere.

MUSICA!

Puntate precedenti:

Genpei 0.1

Genpei 0.2

Genpei 1.0

Genpei 1.1

Genpei 1.2

Genpei 1.3

Genpei 2.0


Bibliografia

FARRIS William Wayne, Heavenly warriors, Harvard University Press, 1995, Cambridge

FRIDAY Karl, Samurai, warfare and the state, Routledge, 2004, New York

ROYALL Tyler, The tale of the Heike, Viking, 2013, New York

SOUYRI Pierre-François, Histoire du Japon Médiéval – Le monde à l’envers, Tempus, 2013, Paris

UESUGI Kazuhiko, Genpei no sōran, Yoshikawa Kōbunkan, 2007, Tōkyō

Storie di documenti: Ashikaga Yoshimasa e la colletta della Befana

Il 2 gennaio 2015 scrissi:

Il 2015 è finito, finalmente. E’ stato un anno molto grumpy, e ho alte aspettative per il 2016.

Le mie aspettative non sono state deluse. Riuscirà il 2017 a essere ancora più grumpy del 2016?

Noi della Fortezza diciamo di sì.

Per attaccare questo nuovo anno di fastidio e antipatia, ho deciso di presentare un articolo un po’ diverso dal solito. Non voglio parlare di battaglie e ammazzamenti, ma analizzare un dettaglio pratico, un tipo di documento con cui lo studioso di Storia si trova alle prese. Nella fattispecie, una lettera diplomatica dello shōgun al re di Corea. Perché? Così avrete un’idea di che tipo di documento il ricercatore si trova a leggere e analizzare.

Il quadro storico

Il Padiglione d’Argento, in cui Yoshimasa passò buona parte del suo tempo (buon per lui)

All’inizio del XV° secolo il governo giapponese non ha relazioni ufficiali e dirette con la Corea, ovvero non ci sono lettere ufficiali tra l’Imperatore e la dinastia di Joseon (1392-1910). Alo stesso tempo, le grandi famiglie giapponesi non esitano ad avere scambi privati con la corte coreana, di solito usando grandi mercanti come intermediari.

La lettera di cui ci occupiamo oggi è tratta dallo Zenkoku hōki, una raccolta di missive scambiate tra lo shōgun e il re di Corea, ovvero tra Ashikaga Yoshimasa (1436-1490) e re Sejo (1417-1468).

Chi è Yoshimasa?

Ashikaga Yoshimasa, dal pennello di Tosa Mitsunobu

E’ l’ottavo shōgun della dinastia Ashikaga e detiene il titolo dal 1449 al 1490. Manco a dirlo, il XV° è un brutto periodo. Non che la vita in Giappone sia mai stata una festa, ma con Yoshimasa è particolarmente rognosa.

Non che sia solo colpa sua, beninteso. Per cominciare il Paese si cucca un bel rosario di rovesci climatici che sputtanano i raccolti. Da una parte gli usurai si fanno tondi, dall’altra contadini e guerrieri di provincia cominciano a ribellarsi.

Per fare un esempio, nel 1462 la gente del dominio Niimi (guidata da piccoli guerrieri locali) decide: “sai che? Moriremo tutti di fame e di peste, tanto vale cavarsi qualche sasso dalla scarpa”.

Vanno dall’amministratore del dominio, lo ammazzano e danno fuoco a ogni cosa. Gli ufficiali che si recano sul posto trovano una scritta cubitale in sangue e frattaglie: WORTH IT.

E mentre avvenimenti di questo genere si diffondono per tutto il Paese, le famiglione al potere decidono che è il momento perfetto per scannarsi tra loro Genpei style. Un anno dopo la redazione della lettera che ci apprestiamo a leggere sarebbe scoppiata la Guerra di Ōnin, un bagno di sangue di proporzioni epiche che sprofonderà il Paese nel Periodo Sengoku (altresì conosciuto come “150 anni di guerre civili e bordello così atroce che se fossero sbarcati i Klingon nessuno ci avrebbe fatto caso”).

E Yoshimasa in tutto questo che fa?

Verrebbe da dire “nulla”, ma purtroppo non è così. A parte sputtanare miliardi in regge e giardini, il nostro fa danni, immischiandosi in scazzi ereditari e politici ma senza implicarsi davvero, dando appoggio a tizio o a caio secondo l’umore, e lasciando briglia sciolta al suo savio mentore.

Non è proprio un personaggio simpatico.

Ma aveva gran gusto estetico e intellettuale! E’ grazie a lui che vediamo fiorire arti come la Cerimonia del The, il Nō e quant’altro.

Ma torniamo a noi. Non voglio dilungarmi troppo nel contesto, le cose saranno spiegate via via.

La lettera

Primo anno dell’era Bunshō, segno del Cane ramo maggiore del Fuoco

Come ogni documento ufficiale che si rispetti, la lettera comincia con la data. Il primo anno dell’era Bunshō corrisponde al 1466 nel calendario gregoriano. Il resto è dedotto secondo il ciclo sessagesimale del calendario cinese, che si articola in 60 “binomi” ottenuti associando due serie, una di dieci “Tronchi Celesti” (gli “agenti” taoisti) e una di dodici “Rami Terrestri” (i segni zodiacali).

Minamoto no Yoshimasa del Giappone

Porge i suoi rispetti a sua eccellenza il re di Corea.

(L’autore di questa lettera è Menkoku)

Le lettere ufficiali dovevano essere scritte il cinese. Questo perché il cinese è una delle invenzioni migliori di sempre.

Re Sejo riceve la lettera di Yoshimasa. Ed è già grumpiness…

Pensateci. In un alfabeto fonetico come può essere il nostro, ogni simbolo corrisponde a un suono. Nel caso degli ideogrammi, ogni simbolo corrisponde prima di tutto a un concetto. Questo che significa?

Che non hai bisogno di conoscere il cinese per leggere il cinese. Una volta che hai imparato un pugno di regole per l’ordine di lettura, dato che ogni segno è un concetto, puoi leggere il testo nella grammatica che più ti è congeniale (io leggo il cinese in giapponese, per esempio). Per un impero multiculturale come era (ed è sempre stata) la Cina, questo era uno strumento straordinario, al pari dell’acciaio e della ruota.

Non hai bisogno di costringere i tuoi sudditi a imparare la tua lingua. Basta insegnar loro a leggere quello che tu scrivi nella loro lingua! La comunicazione diventa molto più semplice e offri meno appigli al risentimento separatista. E’ pratico, è collaudato, è geniale.

Tuttavia c’è un piccolo caveat: chi scrive il documento deve sapere il cinese, e deve saperlo bene. Una minoranza di letterati poliglotti resta quindi necessaria. Yoshimasa, che di certo scriveva benissimo, si affidava quindi a dei professionisti per la redazione delle lettere ufficiali. Il signor Menkoku, misterioso autore di questo documento, era senza dubbio un monaco letterato.

Ma veniamo al nome che il nostro Generalissimo usa. I Minamoto sono il clan di cui la famiglia Ashikaga fa parte ed è con questo nome che Yoshimasa interagisce con altri leaders stranieri. Da notare che lo shōgun non include il proprio titolo nella lettera, ma prende cura di usare un linguaggio di raffinata cortesia e rispetto nei confronti di Sejo.

Di rimando, nelle risposte, il Re di Corea ha la cortesia di indirizzare le proprie lettere al “re del Giappone” (intendendo lo shōgun).

Al di là delle formule di buona creanza, i due paesi hanno relazioni egalitarie, in quanto entrambi si considerano come regni indipendenti ma satelliti del Grande Ming.

Il Grande Ming

Nonostante i nostri due Paesi siano separati da 1000 li, dal Grande Oceano, lo scambio di inviati ci rende vicini. Ogni volta che abbiamo richiesto qualcosa, ce lo avete sempre accordato senza fallo. La nostra gratitudine è inesprimibile.

Yoshimasa non perde troppo tempo in salamelecchi: lui e Sejo sono uomini occupati, quindi non meniamo il can per l’aia e andiamo al sodo. Caro collega, voglio chiederti qualcosa.

Nella nostra capitale meridionale [Heijō] c’è un tempio. Il suo nome è Yakushi-ji.

Yoshimasa sta parlando del tempio dedicato al Bodhisattva Yakushi, patrono dei rimedi. Fu costruito nel 680 in Fujiwara-kyō dal grande imperatore Tenmu, con lo scopo di invocare la misericordia di Yakushi e salvare la vita della sua consorte, gravemente ammalata. La consorte in questione, la principessa Unosarara, era figlia del defunto imperatore Tenji.

A chiosa, Tenji era fratellastro di Tenmu. Quindi Unosarara era nipote di suo marito. Ma bon, i nobili di Corte hanno sempre avuto un comportamento altamente endogamico.

Il tempio di Yakushi dopo i finanziamenti coreani

Unosarara guarì dalla malattia (spoiler). A dire il vero, guarì così bene che sopravvisse Tenmu e gli succedette come l’Imperatrice Jitō (e vale la pena notare che in giapponese la parola che significa “imperatore”, tennō, non ha nessuna connotazione di genere ed è utilizzato per indicare sovrani uomini o donne senza distinzioni).

Tornando al tempio, all’inizio dell’8° secolo lo Yakushi-ji fu spostato all’allora capitale Heijō e oggi fa parte della conurbazione di Nara.

Quest’anno è stato danneggiato, scosso e squassato da una bufera. [La bufera] Era tale l’urlo di un drago, il grido di un elefante. A questo soggetto, abbiamo deliberato assieme alla folla [degli alti dignitari, Yoshimasa era una persona seria e non aveva giurie popolari, NdTenger].

Il passaggio sul drago-elefante è interessante perché pone un problema comunissimo quando si maneggiano questo genere di documenti. Non è difficile capire cosa Yoshimasa intenda quando tira in ballo bestie mitologiche o pseudo-tali: vuol dire che la bufera faceva un chiasso mostruoso. L’uso bizzarro della figura retorica è probabilmente un vezzo di stile dell’autore, una citazione a qualche passaggio o commentario cinese di cui oggi non siamo più a conoscenza.

Ma assodato che il senso generale è chiaro, come tradurre senza che risulti ridicolo al lettore moderno?

Non c’è una soluzione perfetta, purtroppo. A volte certe espressioni non possono essere restituite in altre lingue.

Il nostro tesoro è esaurito, non abbiamo le forze e il restauro è impossibile. Se il Vostro Grande Paese non intende aiutarci, che altro mezzo ci resta per risolvere questo problema? Con questa lettera Vi chiediamo di intervenire.

Tombola. Yoshimasa scopre le carte: vuole soldi.

Pertanto abbiamo mandato come Inviato in capo Yuen e come Inviato aggiunto Sorai, per visitarVi e trasmetterVi i nostri pensieri. Se Sua Maestà volesse accordarci la Sua assistenza, potremmo intraprendere i restauri, invero l’Oriente non è forse unito nel Buddismo? La Terra Pura è il tesoro di vicini amichevoli.

I due tizi nominati non sappiamo chi siano. Si tratta sicuramente di monaci letterati capaci di affrontare l’etichetta della corte coreana senza perdere la faccia.

Notare il simpatico richiamo all’amicizia universale nella religione, sempre molto utile quando hai bisogno di quattrini.

I tributi della nostra terra sono elencati in allegato.

Yoshimasa è un uomo di mondo, non un mendicante. Una richiesta di fondi non si fa con una letterina elegante e un paio di teste pelate adepte di Confucio. Assieme a lettera e messaggeri, lo shōgun invia ovviamente una serie di doni (qui chiamati “tributi” per umiltà), sperando di ricevere in cambio o un valore maggiore o beni di alto valore d’uso.

In questo periodo il Giappone è infatti esportatore di oggetti di estremo lusso: oggetti d’arte come scatole laccate, paraventi, ventagli decorati, sciabole da parata e quant’altro, molto apprezzati sul Continente.

Il secondo mese infine si riscalda. La sola cosa che desidero è che prendiate cura della Vostra salute.

Anno del segno del Cane ramo maggiore di Fuoco, secondo mese, ventottesimo giorno

Minamoto no Yoshimasa del Giappone.

E così si conclude la lettera. Sappiamo che il re di Corea rispose con cortesia e che mandò finanziamenti e beni. E’ una missiva molto breve che non perde tempo in inutili girti di parole. Dal nostro punto di vista può apparire fin troppo diretta e sfacciata. Peraltro, la straordinaria vita di lusso e arte che lo shōgun conduceva era ben nota, ma ciononostante è perfettamente accettabile, da parte sua, fare la questua presso un re straniero per rappezzare i templi scoperchiati dal vento.

Il corpus di lettere tra Yoshimasa e i re coreani è estremamente ricco e tocca diversi soggetti, dai sigilli diplomatici, alle importazioni, a missioni per procura del tipo “il mio ambasciatore ha sbudellato un funzionario Ming, puoi chiedere te se l’Imperatore se l’è presa?” o argomenti di interesse comune tipo “ci sono più pirati che pesci nel Mar della Cina, ne sai qualcosa?”.

La lettura di documenti del genere offre numerosi spunti di approfondimento e, talvolta, preziosi attimi di WTF diplomatico. Come primo articolo di questo genere, ho preferito trattare qualcosa di semplice e innocente, come la restaurazione di un tempio. Un inizio molto pio e devoto, che sia mai qualche Bodhisattva si muove a pietà per questo 2017 che già me le fa girare.

MUSICA!


Bibliografia

Articolo basato sul seminario “Histoire et philologie du Japon Ancien et Médiéval”, Ecole Pratique des Hautes Etudes.

 

HASHIMOTO Yū, Itsuwari no gaikō shisetsu, Yoshikawa kōbunkan, Tōkyō, 2012 p.1-74

HERAIL Francine, Histoire du Japon, POF, 1986, p.242-277

KEENE Donald, Yoshimasa and the Silver Pavillion, Columbia University Press, New York, 2003, p.229

MORITA Kyōji, Ashikaga Yoshimasa no kenkyū, Izumi Shoin, Ōusaka, 1993, p.361

SOUYRI Pierre, The world turned upside down, Pimlico, Londre, 2002, p.142-217

VON VERSCHUER Charlotte, Le commerce extérieur du Japon, Maisonneuve & Larose, Paris, 1988, p.101-131

SCHOTTENHAMMER Angela, The East Asian Mediterranean: Maritime Crossroads of Culture, Commerce and human migration, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2008, IGAWA Kenji « Travels of Ambassies in Fifteenth to Sixteenth Century East Asia », p.273-288 ; HASHIMOTO Yū « The information strategy of the Imposter Evnoys from northern Kyūshū to Chōson Korea in the Fifteentth and Sixteenth century », p.289-316 ; OLAH Csaba « Trouble during trading activities between Japanese and Chinese in the Ming period », p.317-330

ZUKEI Shūhō, Zenrin kokuhōki, 1470 (edizione curate da ISHII Masatoshi, 1995)