Storie di documenti: specchi imperiali e tabelle di conversione

Una delle cose che mi fan salir l’Inquisizione è incrociare gente per cui la Storia non è altro che una fila di date, un incedere Magnifico e Progressivo di nozioni da mandare a memoria. Questa visione è un abisso di ignoranza atroce.

Credete che lo storiografo sia solo un masochista che si diverte a ricordare stronzate?
No cari miei, uno storiografo E’ MOLTO PIU’ MASOCHISTA DI QUANTO PENSIATE!

E oggi voglio dimostrarvi di cosa è fatto il quotidiano dei disadattati che si iscrivono in dottorato.

Oggi affrontiamo la storia dei materiali.

Può apparire come un argomento sterile e noioso rispetto ad altri settori, tipo la storia della filosofia, la storia politica o religiosa, ecc. Tuttavia la storia dei materiali, come quella militare, ha diramazioni vastissime. Possiamo immaginare l’impatto ambientale di una società dal modo in cui costruiva i tetti, e grazie a ciò possiamo interpretare con molta più sicurezza le fonti.

Tutti i furbi che studiano avvincenti rivolgimenti sociopolitici non possono evitare di fare i conti, di quando in quando, col sudicio, col rancio degli schiavi, con l’artigiano o col tipo di scarpe usate dai soldati.

E quindi oggi non parliamo di eccitanti gesta guerriere. Oggi parliamo di specchi.

Specchio imperiale conservato allo Shōsō-in

No, non si tratta di vezzosi accessori per signorine di buona famiglia. Siamo nella seconda metà dell’VIII° secolo, e gli specchi di questo periodo riflettono poco e male. Non sono optional frivoli, ma oggetti magici e simboli di potere.

Senza entrare nel merito del ruolo dello specchio sul Continente, basti sapere che, fin dall’alba della Storia Giapponese, questo oggetto ha avuto un’importanza capitale nell’Arcipelago.

Dalla prima comparsa del Giappone nelle fonti, nel Libro dei Wei, composto verso la metà del VI° secolo, notiamo la rilevanza di questo artefatto. Nel capitolo dedicato ai barbari delle isole, lo Wajinden, si parla difatti di Yamatai, un regno prominente in mezzo a una marmaglia di staterelli bellicosi. Yamatai, embrione dello stato nipponico, è governato da una regina-sacerdotessa, Himiko, che vive reclusa in un santuario.

Secondo il testo, Himiko avrebbe mandato un’ambasceria a Daifang nel 280. Da lì, gli inviati sarebbero stati rimbalzati alla capitale Wei di Luoyang. Il sovrano Wei aveva proclamato Himiko “regina dei Wa, amica dei Wei”, e le aveva rispedito indietro vari doni, tra cui spade, perle, stoffe e 100 specchi di bronzo.

Il ritrovamento archeologico di specchi cinesi nei grandi kofun del Kinai è un elemento a favore della veridicità della storia. Sempre l’archeologia ha permesso di vedere come interi stocks di specchi di uno stesso atelier siano stati seppelliti in tombe disseminate ai quattro angoli del Paese. L’interpretazione dominante di questo fatto è che l’invio di specchi in dono facesse parte del cerimoniale diplomatico che legava capi regionali alla nascente Corte di Yamato.

Lo specchio è portatore di un forte valore religioso: compare anche nel Kojiki nel celeberrimo episodio della caverna, in cui la dea solare Amaterasu fugge dal cielo (un mito molto simile a quello greco di Demetra alla ricerca di Persefone).

Nel corso della Storia, lo Specchio è diventato, assieme alla Spada e al Gioiello, uno dei tre regalia della Corte Imperiale. Avere il controllo di questi tre oggetti sacri significava avere il controllo della Dinastia. Un imperatore poteva essere sostituito, lo Specchio Imperiale no. Tanto è vero che alla battaglia di Dan no Ura i Taira cercarono di affondare i tre regalia piuttosto che lasciarli cadere in mano ai Minamoto (ma di questo parleremo un’altra volta).

 

Ok, ok, cominciamo!

Tagliando corto sull’importanza storica, spirituale, politica e magica dello specchio, veniamo a noi!

Il documento che studieremo oggi risale al 762 e viene dal tesoro dello Shōsō-in. L’edizione su cui lavoreremo non è manoscritta (GRAZIE A DIO), ma è tratta dalla collezione Dai Nihon komonjo (volume 15).

Prima di saltare nella lettura di questo APPASSIONANTE pezzo però occorre munirsi degli strumenti adatti. In particolare, parlando qui di quantità e misure, sarà necessario dotarsi di una tabella di conversione. Non abbiamo dati diretti del periodo in esame, ma abbiamo la next best thing: una serie di cifre tratte dai Regolamenti dell’era Engi (Engishiki) redatti all’inizio del X° secolo. Si tratta di una codificazione successiva, ma che con ogni probabilità riporta senza troppe variazioni le misure stabilite dai Codici Ritsuryō di fine VII°-inizi VIII°. La nostra edizione è quella curata da Torao Toshiya (vol. 1, 2000).

Misure di lunghezza:

1 () = 2,97 m

10 shaku ()
100 sun ()

1 shaku = 29,7 cm [o 35,6 cm se si parla di “grandi shaku]

10 sun

100 fun ()

1 sun = 2,97 cm

10 fun

1 fun = 3mm

Misure di distanza

1 ri () = 534 m circa [salvo nel caso specifico di misure di terreno agricolo, ma non complichiamoci troppo la vita! NdTenger]

300 bu ()

1.800 shaku

1 bu = 178 cm CIRCA

6 shaku

Misure di superficie

1 chō () = 12.000 mq

10 tan ()

3.600 bu

1 tan = 1.200 mq

360 bu

1 bu = 3,33 mq

Misure di capacità

1 koku (/) = 80 l CIRCA

10 to ()

100 shō ()

1000 ()

1 to = 8 l CIRCA

10 shō

100

1000 shaku ()

1 shō = 0,8 l CIRCA

10

100 shaku

1000 satsu ()

1 = 8 cl CIRCA

10 shaku

100 satsu

1 shaku = 8ml CIRCA

Misure di peso peso, le Grandi Libbre

1 tai-kin (大斤) = 674 g

3 shō-kin (小斤)

16 dai-ryō (大両)

64 dai-bun (大分)

180 monme ()

1 dai-ryō = 42,125 g

4 dai-bun

11 monme

24 dai-shu (大鉄)

1 dai-bun = 10,53 g

2,75 monme

6 dai-shu

1 monme = 3,75 g

2,14 dai-shu

1 dai-shu = 1,75 g

Le Piccole Libbre

1 shō-kin (小斤) = 225 g

16 shō-ryō (小両)

64 shō-bun (小分)

180 monme

1 shō-ryō = 14,06 g

4 shō-bun

11 monme

1 shō-bun = 3,51 g

2,75 monme

Con la tabella alla mano, attacchiamo il testo!

Come prima cosa a destra leggiamo la data: Quindicesimo giorno del primo mese del sesto anno dell’era Tenpyō-hōji [762, NdTenger]

Segue l’oggetto del testo: Ordine per la fusione di quattro specchi imperiali [il carattere “” è un onorifico, NdTenger]

I caratteri in piccolo sono l’equivalente di una nota a pie’ di pagina e danno le dimensioni: ogni specchio dovrà avere un diametro di 1 shaku (29,7 cm ) e uno spessore di 5 fun (1,5 cm)

Quanto alla materia prima:

  • Rame puro: 70 kin [il testo dice Grandi Libbre, ma non è possibile, verrebbero specchi da 20 Kg! Un esemplare dell’epoca conservato allo Shōsō-in ne pesa scarsi 4. NdTenger] (15,75 Kg). Di queste, 48 (10,8 Kg) saranno forniti dall’atelier che si occupa del lavoro, e 22 (4,95 Kg) saranno fornite da diverse fonti.

  • Stagno bianco [si presume una lega brillante di stagno e piombo, NdTenger]: 5 kin e 16 ryō (1,35 Kg).

Totale del metallo: 17 Kg (con una proporzione grossolana di 90% rame e 10% lega di stagno), ovvero 4,27 Kg a specchio.

Veniamo al resto del materiale necessario per la fusione e la finitura!

  • Cera: 1 dai-ryō (674 g)

  • Polvere di ferro: 4 dai-ryō (168, 5 g)

  • Lingotti di ferro: 2

  • Tela di seta a tessitura semplice: 1 (2,97 m)

  • Tela di seta grezza a tessitura semplice: 2 shaku (59,4 cm)

  • Borra di seta: 2 ton (337 g)

  • Tela di canapa: 1 (2,96 m)

  • Cote a grani grossi: 2

  • Cote piccole a grani fini: 2 sacchetti

  • Olio di sesamo: 1 gō (8cl)

  • Carbone di legna: 12 koku (960 l)

  • Carbone da forgia: 6 koku (480 l)

  • Calce: 1 tai-kin (674 g)

  • Frecce: 20

La funzione dei vari materiali non è spiegata, ma sappiamo che gli scribi hanno tendenza ad aggruppare le diciture per tema.

La cera serve senza dubbio per creare lo stampo dello specchio (l’argilla non compare nella lista ma viene nominata in una nota più avanti).

Le frecce sembrano uno strano ingrediente. E’ possibile che la parola sia usata qui in senso lato, per indicare asticelle di bambù cave (simili all’asta di una freccia) che permettano l’uscita dell’aria durante la colata.

Non abbiamo dettagli per quel che riguarda l’uso della stoffa e del ferro, ma notiamo che sono elencati assieme alle pietre per lucidare. Se guardiamo altri tipi di artigianato, tipo la creazione di oggetti laccati, l’artefatto viene lucidato con l’uso di polvere di ferro impastata nell’olio e chiusa in un panno di diversa grana. E’ probabile che lo stesso valga per gli specchi: il tocco finale di lucidatura veniva forse dato alla stessa maniera.

Artigiani in un atelier dell’VIII° secolo

A partire dalla linea 8 si parla del personale necessario e delle “unità” che sono assegnate ad ogni uomo. Queste “unità” non sono spiegate, ma si tratta senza dubbio di “razioni giornaliere”. Notiamo che alcuni professionisti ne hanno più di altri, di certo perché il loro lavoro richiedeva più giorni di servizio.

In tutto si parla di 124 razioni, ovvero di 124 giornate lavorative complessive.

  • 5 fonditori (64 razioni). Si considera che passeranno 8 giornate a fondere e 56 a rifinire.

  • 1 cesellatore (15 razioni)

  • 1 tornitore (2 razioni)

  • 2 tornitori aggiuntivi (2 razioni)

  • 1 fabbro (3 razioni)

  • 2 assistenti di forgia (40 razioni). Riguardo al servizio di questi due tizi si considerano 12 giorni per andare a recuperare l’argilla a Nara, 2 come assistenti agli intagliatori, 3 di assistenza presso i vari artigiani e 23 come factotum.

Abbiamo un totale di 12 persone. Possiamo supporre che costoro impieghino una ventina di giorni in tutto per terminare i 4 specchi.

Nel frattempo questa gente deve mangiare, e il documento elenca con precisione chi ha diritto a cosa!

 

  • Riso: 2 koku, 4 to e 8 shō (195,2 l), ogni uomo riceve di media poco meno di 2 l al giorno. Tale riso poteva essere mangiato o scambiato per altri prodotti nei mercati della Capitale.

  • Sale: 4 shō, 9 e 6 shaku (3,97 l), ovvero ogni uomo riceveva circa 32 ml di sale al giorno (sempre di media).

  • Alghe: 13 kin e 10 ryō (circa 9 Kg), ovvero 74 g di alghe al giorno per uomo, se si conta in Grandi Libbre. Se odiamo i nostri artigiani possiamo ipotizzare Piccole Libbre, il che darebbe un totale di circa 3 Kg in totale per 25 g di alghe al giorno, ma sembra un tantinello esagerato.

  • Alghe Arame: 10 kin e 8 ryō (circa 7 Kg) per 84 razioni (certa gente lavora più a lungo di altra), per una media di 84 g di alghe a capoccia per 84 giorni.

  • Carne/pesce salati: 8 shō e 4 (6,72 l), razioni per 3 artigiani per 84 giorni, ovvero un misero 80 ml al giorno a capoccia di media.

  • Aceto: 4 shō e 2 (6,56 l) per 84 giorni lavorativi, 78 ml al giorno di media.

  • Stuoie di paglia: 2

  • Stuoie [di pianta non identificata]: 2

  • Stuoie di bambù sottile: 2

  • Cuscini rotondi: 6.

E gli specchi sono realizzati!

Una dozzina di artigiani, un atelier, una ventina di giorni, cibo e risorse, per ottenere magnifici oggetti di prestigio ad alto valore diplomatico.

L’impatto ambientale di questi artefatti comprende carbone di legna (prodotto particolarmente dannoso), trasporto di materiale e cibo fresco, produzione di seta (coltivazione di gelsi e allevamenti di bachi), produzione di cera, ecc. Si tratta di oggetti che, oltre a richiedere capacità particolari e manodopera specializzata, necessitano un notevole investimento di risorse.

Occorre anche considerare che la frenetica attività e la concentrazione demografica avevano disboscato buona parte del Kinai, che in questo periodo comincia a risentire del sovraccarico umano. Ciò rende la fabbricazione di oggetti d’arte come questi più onerosa, ma sempre meno che importare i dannati oggetti direttamente dalla Cina!

 

Specchio ritrovato nel tumulo di Yanoura nel dipartimento di Saga

La lettura di documenti del genere può apparire arida e noiosa. Non è di certo eccitante come il resoconto della rivolta di Masakado, ma io ho una passione malsana per numeri e nomenclature. Sono diretti, precisi, ordinati. Offrono una finestra nella vita quotidiana del tempo e un contesto necessario alla produzione artigianale del periodo. Quando si passa allo studio di ambascerie e doni imperiali, è importante che il dato “TOT specchi” (o simili) non sia semplicemente una cifra sulla carta, ma che comporti per lo meno una nozione del lavoro e dell’investimento che tali oggetti comportavano.

Peraltro, ora avete un’idea migliore di cosa significa lo studio dei documenti. Roba del genere è all’ordine del giorno QUANDO TUTTO VA BENE. Pensateci due volte prima di cacciarvi in questo ginepraio.

MUSICA!

(Ok, l’argomento è stato scelto anche per poter linkare questa canzone a fine articolo, che ce posso fa’)


Bibliografia

Il testo è stato analizzato durante il seminario della professoressa Von Verschuer Charlotte

Dai Nihon komonjo, Shōsō-in monjo, vol.15 p.182-183, VIII° secolo

FARRIS William Wayne, Sacred Texts and Buried Treasures, University of Hawai’i Press, Honolulu, 1998

Population, Disease, and Land in Early Japan, 645-900, Harvard-Yenching Institute Monograph Series 24, 1995

TORAO Toshiya, Engishiki, Shuueisha, vol.1 , 2000

Von Venrschuer Charlotte, Le riz dans la culture de Heian – mythe et réalité, Collège de France, 2003

Storie di documenti: Ashikaga Yoshimasa e la colletta della Befana

Il 2 gennaio 2015 scrissi:

Il 2015 è finito, finalmente. E’ stato un anno molto grumpy, e ho alte aspettative per il 2016.

Le mie aspettative non sono state deluse. Riuscirà il 2017 a essere ancora più grumpy del 2016?

Noi della Fortezza diciamo di sì.

Per attaccare questo nuovo anno di fastidio e antipatia, ho deciso di presentare un articolo un po’ diverso dal solito. Non voglio parlare di battaglie e ammazzamenti, ma analizzare un dettaglio pratico, un tipo di documento con cui lo studioso di Storia si trova alle prese. Nella fattispecie, una lettera diplomatica dello shōgun al re di Corea. Perché? Così avrete un’idea di che tipo di documento il ricercatore si trova a leggere e analizzare.

Il quadro storico

Il Padiglione d’Argento, in cui Yoshimasa passò buona parte del suo tempo (buon per lui)

All’inizio del XV° secolo il governo giapponese non ha relazioni ufficiali e dirette con la Corea, ovvero non ci sono lettere ufficiali tra l’Imperatore e la dinastia di Joseon (1392-1910). Alo stesso tempo, le grandi famiglie giapponesi non esitano ad avere scambi privati con la corte coreana, di solito usando grandi mercanti come intermediari.

La lettera di cui ci occupiamo oggi è tratta dallo Zenkoku hōki, una raccolta di missive scambiate tra lo shōgun e il re di Corea, ovvero tra Ashikaga Yoshimasa (1436-1490) e re Sejo (1417-1468).

Chi è Yoshimasa?

Ashikaga Yoshimasa, dal pennello di Tosa Mitsunobu

E’ l’ottavo shōgun della dinastia Ashikaga e detiene il titolo dal 1449 al 1490. Manco a dirlo, il XV° è un brutto periodo. Non che la vita in Giappone sia mai stata una festa, ma con Yoshimasa è particolarmente rognosa.

Non che sia solo colpa sua, beninteso. Per cominciare il Paese si cucca un bel rosario di rovesci climatici che sputtanano i raccolti. Da una parte gli usurai si fanno tondi, dall’altra contadini e guerrieri di provincia cominciano a ribellarsi.

Per fare un esempio, nel 1462 la gente del dominio Niimi (guidata da piccoli guerrieri locali) decide: “sai che? Moriremo tutti di fame e di peste, tanto vale cavarsi qualche sasso dalla scarpa”.

Vanno dall’amministratore del dominio, lo ammazzano e danno fuoco a ogni cosa. Gli ufficiali che si recano sul posto trovano una scritta cubitale in sangue e frattaglie: WORTH IT.

E mentre avvenimenti di questo genere si diffondono per tutto il Paese, le famiglione al potere decidono che è il momento perfetto per scannarsi tra loro Genpei style. Un anno dopo la redazione della lettera che ci apprestiamo a leggere sarebbe scoppiata la Guerra di Ōnin, un bagno di sangue di proporzioni epiche che sprofonderà il Paese nel Periodo Sengoku (altresì conosciuto come “150 anni di guerre civili e bordello così atroce che se fossero sbarcati i Klingon nessuno ci avrebbe fatto caso”).

E Yoshimasa in tutto questo che fa?

Verrebbe da dire “nulla”, ma purtroppo non è così. A parte sputtanare miliardi in regge e giardini, il nostro fa danni, immischiandosi in scazzi ereditari e politici ma senza implicarsi davvero, dando appoggio a tizio o a caio secondo l’umore, e lasciando briglia sciolta al suo savio mentore.

Non è proprio un personaggio simpatico.

Ma aveva gran gusto estetico e intellettuale! E’ grazie a lui che vediamo fiorire arti come la Cerimonia del The, il Nō e quant’altro.

Ma torniamo a noi. Non voglio dilungarmi troppo nel contesto, le cose saranno spiegate via via.

La lettera

Primo anno dell’era Bunshō, segno del Cane ramo maggiore del Fuoco

Come ogni documento ufficiale che si rispetti, la lettera comincia con la data. Il primo anno dell’era Bunshō corrisponde al 1466 nel calendario gregoriano. Il resto è dedotto secondo il ciclo sessagesimale del calendario cinese, che si articola in 60 “binomi” ottenuti associando due serie, una di dieci “Tronchi Celesti” (gli “agenti” taoisti) e una di dodici “Rami Terrestri” (i segni zodiacali).

Minamoto no Yoshimasa del Giappone

Porge i suoi rispetti a sua eccellenza il re di Corea.

(L’autore di questa lettera è Menkoku)

Le lettere ufficiali dovevano essere scritte il cinese. Questo perché il cinese è una delle invenzioni migliori di sempre.

Re Sejo riceve la lettera di Yoshimasa. Ed è già grumpiness…

Pensateci. In un alfabeto fonetico come può essere il nostro, ogni simbolo corrisponde a un suono. Nel caso degli ideogrammi, ogni simbolo corrisponde prima di tutto a un concetto. Questo che significa?

Che non hai bisogno di conoscere il cinese per leggere il cinese. Una volta che hai imparato un pugno di regole per l’ordine di lettura, dato che ogni segno è un concetto, puoi leggere il testo nella grammatica che più ti è congeniale (io leggo il cinese in giapponese, per esempio). Per un impero multiculturale come era (ed è sempre stata) la Cina, questo era uno strumento straordinario, al pari dell’acciaio e della ruota.

Non hai bisogno di costringere i tuoi sudditi a imparare la tua lingua. Basta insegnar loro a leggere quello che tu scrivi nella loro lingua! La comunicazione diventa molto più semplice e offri meno appigli al risentimento separatista. E’ pratico, è collaudato, è geniale.

Tuttavia c’è un piccolo caveat: chi scrive il documento deve sapere il cinese, e deve saperlo bene. Una minoranza di letterati poliglotti resta quindi necessaria. Yoshimasa, che di certo scriveva benissimo, si affidava quindi a dei professionisti per la redazione delle lettere ufficiali. Il signor Menkoku, misterioso autore di questo documento, era senza dubbio un monaco letterato.

Ma veniamo al nome che il nostro Generalissimo usa. I Minamoto sono il clan di cui la famiglia Ashikaga fa parte ed è con questo nome che Yoshimasa interagisce con altri leaders stranieri. Da notare che lo shōgun non include il proprio titolo nella lettera, ma prende cura di usare un linguaggio di raffinata cortesia e rispetto nei confronti di Sejo.

Di rimando, nelle risposte, il Re di Corea ha la cortesia di indirizzare le proprie lettere al “re del Giappone” (intendendo lo shōgun).

Al di là delle formule di buona creanza, i due paesi hanno relazioni egalitarie, in quanto entrambi si considerano come regni indipendenti ma satelliti del Grande Ming.

Il Grande Ming

Nonostante i nostri due Paesi siano separati da 1000 li, dal Grande Oceano, lo scambio di inviati ci rende vicini. Ogni volta che abbiamo richiesto qualcosa, ce lo avete sempre accordato senza fallo. La nostra gratitudine è inesprimibile.

Yoshimasa non perde troppo tempo in salamelecchi: lui e Sejo sono uomini occupati, quindi non meniamo il can per l’aia e andiamo al sodo. Caro collega, voglio chiederti qualcosa.

Nella nostra capitale meridionale [Heijō] c’è un tempio. Il suo nome è Yakushi-ji.

Yoshimasa sta parlando del tempio dedicato al Bodhisattva Yakushi, patrono dei rimedi. Fu costruito nel 680 in Fujiwara-kyō dal grande imperatore Tenmu, con lo scopo di invocare la misericordia di Yakushi e salvare la vita della sua consorte, gravemente ammalata. La consorte in questione, la principessa Unosarara, era figlia del defunto imperatore Tenji.

A chiosa, Tenji era fratellastro di Tenmu. Quindi Unosarara era nipote di suo marito. Ma bon, i nobili di Corte hanno sempre avuto un comportamento altamente endogamico.

Il tempio di Yakushi dopo i finanziamenti coreani

Unosarara guarì dalla malattia (spoiler). A dire il vero, guarì così bene che sopravvisse Tenmu e gli succedette come l’Imperatrice Jitō (e vale la pena notare che in giapponese la parola che significa “imperatore”, tennō, non ha nessuna connotazione di genere ed è utilizzato per indicare sovrani uomini o donne senza distinzioni).

Tornando al tempio, all’inizio dell’8° secolo lo Yakushi-ji fu spostato all’allora capitale Heijō e oggi fa parte della conurbazione di Nara.

Quest’anno è stato danneggiato, scosso e squassato da una bufera. [La bufera] Era tale l’urlo di un drago, il grido di un elefante. A questo soggetto, abbiamo deliberato assieme alla folla [degli alti dignitari, Yoshimasa era una persona seria e non aveva giurie popolari, NdTenger].

Il passaggio sul drago-elefante è interessante perché pone un problema comunissimo quando si maneggiano questo genere di documenti. Non è difficile capire cosa Yoshimasa intenda quando tira in ballo bestie mitologiche o pseudo-tali: vuol dire che la bufera faceva un chiasso mostruoso. L’uso bizzarro della figura retorica è probabilmente un vezzo di stile dell’autore, una citazione a qualche passaggio o commentario cinese di cui oggi non siamo più a conoscenza.

Ma assodato che il senso generale è chiaro, come tradurre senza che risulti ridicolo al lettore moderno?

Non c’è una soluzione perfetta, purtroppo. A volte certe espressioni non possono essere restituite in altre lingue.

Il nostro tesoro è esaurito, non abbiamo le forze e il restauro è impossibile. Se il Vostro Grande Paese non intende aiutarci, che altro mezzo ci resta per risolvere questo problema? Con questa lettera Vi chiediamo di intervenire.

Tombola. Yoshimasa scopre le carte: vuole soldi.

Pertanto abbiamo mandato come Inviato in capo Yuen e come Inviato aggiunto Sorai, per visitarVi e trasmetterVi i nostri pensieri. Se Sua Maestà volesse accordarci la Sua assistenza, potremmo intraprendere i restauri, invero l’Oriente non è forse unito nel Buddismo? La Terra Pura è il tesoro di vicini amichevoli.

I due tizi nominati non sappiamo chi siano. Si tratta sicuramente di monaci letterati capaci di affrontare l’etichetta della corte coreana senza perdere la faccia.

Notare il simpatico richiamo all’amicizia universale nella religione, sempre molto utile quando hai bisogno di quattrini.

I tributi della nostra terra sono elencati in allegato.

Yoshimasa è un uomo di mondo, non un mendicante. Una richiesta di fondi non si fa con una letterina elegante e un paio di teste pelate adepte di Confucio. Assieme a lettera e messaggeri, lo shōgun invia ovviamente una serie di doni (qui chiamati “tributi” per umiltà), sperando di ricevere in cambio o un valore maggiore o beni di alto valore d’uso.

In questo periodo il Giappone è infatti esportatore di oggetti di estremo lusso: oggetti d’arte come scatole laccate, paraventi, ventagli decorati, sciabole da parata e quant’altro, molto apprezzati sul Continente.

Il secondo mese infine si riscalda. La sola cosa che desidero è che prendiate cura della Vostra salute.

Anno del segno del Cane ramo maggiore di Fuoco, secondo mese, ventottesimo giorno

Minamoto no Yoshimasa del Giappone.

E così si conclude la lettera. Sappiamo che il re di Corea rispose con cortesia e che mandò finanziamenti e beni. E’ una missiva molto breve che non perde tempo in inutili girti di parole. Dal nostro punto di vista può apparire fin troppo diretta e sfacciata. Peraltro, la straordinaria vita di lusso e arte che lo shōgun conduceva era ben nota, ma ciononostante è perfettamente accettabile, da parte sua, fare la questua presso un re straniero per rappezzare i templi scoperchiati dal vento.

Il corpus di lettere tra Yoshimasa e i re coreani è estremamente ricco e tocca diversi soggetti, dai sigilli diplomatici, alle importazioni, a missioni per procura del tipo “il mio ambasciatore ha sbudellato un funzionario Ming, puoi chiedere te se l’Imperatore se l’è presa?” o argomenti di interesse comune tipo “ci sono più pirati che pesci nel Mar della Cina, ne sai qualcosa?”.

La lettura di documenti del genere offre numerosi spunti di approfondimento e, talvolta, preziosi attimi di WTF diplomatico. Come primo articolo di questo genere, ho preferito trattare qualcosa di semplice e innocente, come la restaurazione di un tempio. Un inizio molto pio e devoto, che sia mai qualche Bodhisattva si muove a pietà per questo 2017 che già me le fa girare.

MUSICA!


Bibliografia

Articolo basato sul seminario “Histoire et philologie du Japon Ancien et Médiéval”, Ecole Pratique des Hautes Etudes.

 

HASHIMOTO Yū, Itsuwari no gaikō shisetsu, Yoshikawa kōbunkan, Tōkyō, 2012 p.1-74

HERAIL Francine, Histoire du Japon, POF, 1986, p.242-277

KEENE Donald, Yoshimasa and the Silver Pavillion, Columbia University Press, New York, 2003, p.229

MORITA Kyōji, Ashikaga Yoshimasa no kenkyū, Izumi Shoin, Ōusaka, 1993, p.361

SOUYRI Pierre, The world turned upside down, Pimlico, Londre, 2002, p.142-217

VON VERSCHUER Charlotte, Le commerce extérieur du Japon, Maisonneuve & Larose, Paris, 1988, p.101-131

SCHOTTENHAMMER Angela, The East Asian Mediterranean: Maritime Crossroads of Culture, Commerce and human migration, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2008, IGAWA Kenji « Travels of Ambassies in Fifteenth to Sixteenth Century East Asia », p.273-288 ; HASHIMOTO Yū « The information strategy of the Imposter Evnoys from northern Kyūshū to Chōson Korea in the Fifteentth and Sixteenth century », p.289-316 ; OLAH Csaba « Trouble during trading activities between Japanese and Chinese in the Ming period », p.317-330

ZUKEI Shūhō, Zenrin kokuhōki, 1470 (edizione curate da ISHII Masatoshi, 1995)