Sangue del mio sangue: necromanzia, femminismo, cannibalismo e altre blasfemie

Evangeline Wrayburn è un’archeologa necromante. In un mondo dove la necromanzia è stata elevata a scienza, Evangeline usa mummie e cadaveri rianimati per dissotterrare tombe e vestigia. Il suo sogno più grande è diventare un’archeologa di chiara fama, di dirigere uno scavo tutto suo.

E’ competente, è intelligente, è audace, ma ha un problema.

Ha le tette (poche, ma ci sono).

Evangeline vive in una società vittoriana dove avere le mestruazioni basta a squalificare un ricercatore. Evangeline però non si arrende. Nella sua sempiterna lotta impari contro il Soffitto di Cristallo, le capita finalmente l’occasione della vita: un posto sullo scavo di una colossale piramide sotterranea, la tomba monumentale di Orrhane il Macilento, re necromante sepolto con la sua sposa bambina, gli schiavi e centinaia di migliaia di soldati non morti.

Il sito si trova in un deserto infestato da tribù ostili e al confine tra paesi nemici. La missione archeologica ha poco tempo per scoprire tutti i segreti del re necromante prima che il paese vicino li scopra e attacchi per papparsi il ritrovamento.

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Sangue del mio sangue è il secondo romanzo di Menconi che leggo. Come avevo già segnalato in questo articolo, Abaddon mi era piaciuto molto. In questo caso Menconi dichiara di aver voluto scrivere una protagonista femminista. Vi pare che una Feminazi Lesboislamica Rettiliana come la sottoscritta poteva farselo sfuggire?

Ovviamente no.

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L’ambientazione

Menconi ambienta la storia in una società di stampo vittoriano dove la necromanzia è un’attività sviluppata e diffusa. La società è organizzata di conseguenza, con mummie usate come manodopera a basso consumo, teste volanti come animaletti domestici, un’estetica legata alla morte e alla rianimazione, ecc. Il risultato è un insieme ben bilanciato di elementi familiari e bizzarria macabra.

Come accennato nell’articolo precedente, la tecnica di Menconi è ottima. Nonostante l’ambientazione sia aliena alla nostra, dettagli concreti sono inseriti nel testo senza spiegoni: il quadro generale emerge in modo spontaneo e naturale attraverso il punto di vista della protagonista. Il dettaglio dà sostanza al mondo, e la coerenza interna favorisce la sospensione volontaria dell’incredulità.

La professione di Evangeline permette peraltro di dotare il mondo del romanzo di una Storia e di una mitologia. Nonostante la stranezza, alla fine del romanzo abbiamo l’impressione di conoscere relativamente bene questo universo. L’idea di una piramide rovesciata sotterranea può apparire bizzarra d’acchito, ma diventa presto familiare.

La narrazione permette anche di apprezzare le storture della società descritta: come accennato, si tratta di una società patriarcale estremamente sessista, ma anche razzista e omofoba, come è normale aspettarsi dal contesto.

L’attenzione a dettagli di questo tipo e la nonchalance con cui i personaggi internalizzano questi elementi danno rotondità e verosimiglianza all’ambientazione.

1941

I negri viaggiano dietro!
(Citazione cinematografica per intenditori)

A tratti risalta fuori lo stile “videoludico”, come in Abaddon. Ad esempio, quando gli archeologi si trovano a dover superare un passaggio sorvegliato da dei mostri immortali. Evangeline riesce a trovare la combinazione necessaria a passare, e dopo aver “sbloccato” il passaggio la questione non si pone mai più, nonostante il pericolo resti e il trucco per passare richieda costante lavoro da parte di comprimari (e sia quindi vulnerabile all’errore umano).

Nell’insieme però questo tipo di ispirazione è molto meno presente che in Abaddon.

La storia

Evangeline è un’archeologa che usa la necromanzia (e quindi il controllo sulle mummie) nei propri scavi. Nonostante sia molto brava in ciò che fa, la sua carriera non riesce mai a decollare. Un po’ perché l’ambiente è difficile, un po’ perché nessuno la prende sul serio come donna archeologa.

Ho apprezzato moltissimo il modo in cui Menconi descrive le peripezie della protagonista e il muro di gomma su cui la nostra rimbalza in continuazione.

Nonostante Evangeline sia una lavoratrice indefessa e un’eccellente professionista, non riesce a sfuggire all’immagine che il mondo ha di lei: emotiva, debole, incompetente, vittima della propria natura.

La nostra si trova a giostrare conflitto da ogni lato: la famiglia non la sostiene, la professione è difficile, è indebitata fino agli occhi, lo scavo è in una zona pericolosa e le tensioni diplomatiche potrebbero risultare in una guerra da un giorno a quell’altro. In più, quasi nessuno la prende sul serio. A ogni occasione, Evangelina è sorpassata da gente meno competente, o lasciata da parte in barba alle regole.

Nonostante i continui ostacoli, la nostra riesce a imporsi nello scavo della gigantesca piramide sotterranea del re necromante Orrhane il Macilento, un tiranno pazzoide con una sposa bambina e una fine misteriosa.

Evangeline è attorniata da una variegata compagine di personaggi, soprattutto uomini. Uno scrittore pigro li avrebbe resi tutti tronfi incompetenti per far risaltare il genio ribelle della protagonista. Non con Menconi. Comprimari e antagonisti sono vari e memorabili, e le interazioni con Evangeline sono verosimili e credibili. C’è chi è misogino perché rozzo e ottuso, chi ha pregiudizi più o meno coscienti, chi antagonizza la protagonista per ambizione, chi per preconcetto bigotto, chi per motivi personali.

La prosa e la storia non si prendono troppo sul serio: Sangue del mio sangue vuole essere un racconto macabro e divertente, oltre che un romanzo di avventura. A tratti descrizioni e situazioni sfumano nel caricaturale e nel grottesco, con un tono molto più leggero e ironico rispetto ad Abaddon.

Verso l’ultimo terzo del libro, si sviluppa un interessante parallelismo tra Orrhane e Evangeline, e un interessante chiasmo. Orrhane è all’apice del potere, un re, un necromante con potere sulla vita e sulla morte. Evangeline non ha potere su niente, e anche la poca autorità che ufficialmente detiene le viene a stento riconosciuta.

Entrambi però sono ossessionati dall’immortalità. Orrhane non vuole morire, non vuole cessare di esistere. Evangeline vuole diventare una famosa archeologa, vuole essere conosciuta e riconosciuta.

Entrambi sono determinati, entrambi hanno pochi scrupoli. Orrhane praticava sacrifici umani, era pronto a consumare il sangue del suo sangue per ottenere ciò che voleva. E presto Evangeline si trova a dover compiere una simile scelta.

La vicenda nel suo insieme scorre bene e senza intoppi: non ci sono contraddizioni e buchi di trama.

Però c’è un punto che a parer mio pone problema. Non si tratta di un buco di trama, quanto di una dissolvenza molto conveniente.

Quando Evangeline decide di liberare Orrhane, il necromante è chiuso in una gabbia in una tenda sorvegliata da soldati cirani.

Evangeline entra senza problemi (cosa credibile nel contesto) e ravviva lo stregone.

Nella scena dopo, lo ha riportato nella piramide.

Come?

La gabbia sarà stata chiusa a chiave. Dove a preso la chiave?

E come lo ha tirato fuori dalla tenda? Orrhane è un albino, non proprio qualcuno che si mimetizza. Ma diciamo che l’ha nascosto in un cesto del bucato, di nuovo, come? C’erano cesti del bucato in giro?

I cirani di guardia non si sono insospettiti? Sono stati messi a guardia di un esemplare unico in uno scavo di importanza nazionale!

Insomma, ci sta che non abbia capito io, ma si tratta di un passaggio importante della trama e secondo me sarebbe stato necessario elaborare in qualche modo.

La protagonista

Al di là dell’ambientazione e della storia, il personaggio di Evangeline è, secondo me, uno dei punti di forza del libro.

Menconi dice di aver voluto scrivere un personaggio femminista. Non so quali siano le idee politiche del Menconi o cosa ne pensi delle femministe, ma a mio modesto parere il risultato è molto interessante.

Evangeline è un buon personaggio. E’ strutturato bene, è ricco, è simpatico.

Evangeline è una gran lavoratrice, è audace, è determinata, ed è competente nel suo campo. Per chi ha letto la mia OpinioneImperdibileTM su Star Wars 7, sa che ho un dente avvelenato per i personaggi femminili scritti a cazzo.

Rey è scritta a cazzo. Rey è bellissima nonostante il suo stile di vita. Rey è capace di pilotare il Millennium Falcon nonostante non ci abbia mai messo piede prima. Rey è capace di usare la forza contro un allievo sith nonostante non abbia avuto nessun addestramento. E così via.

Dov’è la fatica, dove sono i tentativi, dove sono gli sbagli madornali e le musate in terra?

Rey, seppur scritta mille volte meglio, ha lo stesso problema del protagonista di quella puttanata mostruosa di Educazione siberiana: se non c’è difficoltà il risultato non vale nulla, se non c’è debolezza non c’è forza, se non c’è paura non c’è coraggio.

Con Evangeline vediamo il lavoro, la fatica, la passione, la frustrazione, gli errori. Tutto ci viene mostrato.

Un altro tropismo comune quando qualcuno scrive a cazzo un personaggio femminile Forte e Indipendente è di renderlo anaffettivo e in generale acido e antipatico. Insomma, per evitare il cliché della ragazzina romantica, scriviamola come una sociopatica arrogante e sferzante.

Questo non è un problema legato solo ai personaggi femminili: il personaggio genio e arrogante strafottente è purtroppo un cancro diffuso. Nella realtà dei fatti, più uno conosce il proprio campo più è cosciente dei propri limiti e sarà quindi meno incline a tirarsela. Ma sto divagando.

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Pratchett ha una vasta gamma di eccellenti personaggi femminili

Evangeline è un personaggio senza troppi scrupoli, pronto a manipolare e mentire per arrivare dove vuole, ma è anche una persona responsabile ed empatica. Vuole sinceramente bene ai suoi Marmaduke e Fester, vuole bene ai genitori ed è ferita dal loro rifiuto, si assume la responsabilità di proteggere i propri sottoposti. La sua sete di gloria la spinge a fare o considerare azioni anche drastiche, ma resta una brava persona.

E’ ambiziosa, ed è pronta a mettere a repentaglio la vita altrui, ma non costringe il prossimo a prendere rischi che non prenderebbe lei per prima.

E’ anche un personaggio ben ancorato nel proprio contesto. Evangeline è spesso esasperata dal sessismo pervasivo della società perché ciò ha un impatto diretto su di lei. Allo stesso tempo ha interiorizzato del tutto il razzismo e l’omofobia. E’ verosimile: molte persone hanno difficoltà a tener conto di ciò che non ha un impatto diretto sulla loro pellaccia. E’ la ragione per cui la narrativa è importante: riuscendo a far immergere il lettore nei panni di qualcun altro (il personaggio) puoi offrire un punto di vista nuovo che la persona non avrebbe mai preso in considerazione prima. Perché una persona si interessi di un problema occorre stabilire una connessione a livello emotivo, non solo intellettuale.

Il Menconi scansa anche uno dei cliché che personalmente odio di più in assoluto in tutto l’universo narrativo di tutta la Storia della Letteratura: Madame Bovary.

Vi avevo accennato nel mio rant su Interstellar. Non ci sono davvero parole nel vocabolario per descrivere a che punto odio e disprezzo il cliché della donna vittima del proprio lato emotivo. La donna che sì, magari è anche competente, intelligente, forte, quel che cacchio vi pare, ma è sentimentale, ma si innamora, e l’amore romantico diventa il suo unico movente.

Non una qualsiasi forma di amore, no eh. Amore romantico. Perché ogni donna aspetta il suo Principe Azzurro, la sua vita gira intorno a quello!

A mio modesto parere questo tipo di storia fa dei danni.

Sia chiaro: mi rendo conto che l’amore romantico fa parte dell’esperienza di molti. Non c’è niente di male di per sé nelle storie con amore romantico. Quello che odio è quest’idea che un personaggio femminile non può essere davvero completo senza un uomo al suo fianco. Che se non sperimenti quel tipo di amore allora non sei davvero una persona a tutto tondo, non hai vissuto appieno.

Spesso, se il personaggio femminile non è incline al romanticismo, è per via di chissà quali traumi strappalacrime. Perché, in realtà, sotto la sua scorza di donna forte e competente c’è sempre e comunque un povero piccolo coniglietto spaventato che vuole solo essere raccolto e amato.

Capite, non è diventata ingegnere aerospaziale perché le garba fare l’ingegnere aerospaziale, me per riempire il vuoto lasciatole nel cuoricino dal babbo defunto, o qualche altra trovata del genere.

E’ una roba fin troppo pervasiva e che a parer mio ha contribuito non poco a rendere infelici un sacco di persone. E’ una formula diseducativa e dannosa.

Non è il caso di Evangeline. Certo, Evangeline incassa molto trauma, anche affettivo, ma è una donna indipendente, autosufficiente e competente, una donna davvero indipendente, autosufficiente e competente.

C’è della tensione sessuale nella storia, e viene trattata per quello che è: semplice attrazione sessuale. Ed è così rinfrescante da vedere. Evangeline è cosciente di ciò che prova, non ci sono storie romantiche, non ne ha bisogno, è un personaggio già completo che fa il suo arco, impara la sua lezione e supera i propri difetti. E per una volta tanto il suo difetto non è “ti manca il fidanzatino”.

Come accennato prima, uno scrittore sciatto avrebbe fatto risaltare la tostaggine indipendente della protagonista mettendola in mezzo a una folla di uomini maschilisti e stupidi. Loro hanno torto, lei ha ragione.

E’ una paraculata: specie in una società tradizionalmente maschilista, una misoginia più o meno interiorizzata non è appannaggio solo degli stupidi né solo degli uomini.

Nel libro di Menconi gli uomini che circondano Evangeline sono variegati e ben costruiti. Spesso sono competenti e capaci: non la prendono sul serio per via di un pregiudizio dato per scontato. Evangeline, dal canto suo, abituata a non essere mai presa sul serio, finisce per comportarsi allo stesso modo: non sta a sentire perché loro non stanno a sentire, finisce per isolarsi e entrare nella stessa logica arrivista di chi le frega le idee senza darle credito. Così facendo, gli altri archeologi fanno casino, ma anche lei combina casino. I personaggi devono mettere da parte le loro posizioni e riconoscere l’umanità e le capacità l’uno dell’altro per poter lavorare insieme e progredire.

L’ambizione è una caratteristica importante di Evangeline, specie quando si trova davanti all’annosa domanda: cosa sei disposto a sacrificare per ottenere ciò che vuoi?

Spesso in questi casi l’ambizione viene trattata come il difetto: il problema della tizia è che è ambiziosa,vuole diventare famosa e questo di per sé è sbagliato. Deve solo rendersi conto che l’amore è più importante, rinunciare alla sua ossessione e gettarsi tra le braccia del Principe Filippo di turno. Ah, quanta sofferenza evitata se solo si fosse subito resa conto di cosa era più importante!

Non è il caso con Menconi. Nella storia il problema non è l’ambizione, ma l’eccesso, l’ossessione. Per usare le parole del libro:

La vita eterna non ha alcun valore se sei un mostro con la mente annebbiata

Occorre un equilibrio sul prezzo che si paga e cosa si acquista.

Non è una condanna dell’ambizione, né una celebrazione superomistica del personaggio pronto a tutto, ma una presa di posizione molto più equilibrata e sfumata.

Perché abbiamo bisogno di più storie così
Come ho detto in altri articoli in passato, la gente non vive “nel mondo”, vive in un’idea che ha di mondo.

Tale idea non è costituita da oggettivi studi scientifici, ma da storie.

Sì, magari sul Riscaldamento Climatico ti sei fatta un’idea leggendo la stampa specializzata, ma per il resto ti basi soprattutto su storie e favole. Se senti sempre raccontare fatterelli di ebrei che rubano, darai per scontato che gli ebrei rubano senza nemmeno pensarci troppo, e magari un giorno ti chiederai da dove veniva quell’idea senza riuscire a trovare una risposta esatta.

Se fin da bambina ti raccontano storie dove il lieto fine è un matrimonio e tanti bambini, si innesterà il preconcetto che lo scopo vero alla fine è maritarsi e sgravare pargoli per la Patria.

Se lo stupro in prigione viene sempre presentato come una cosa buffa, gli uomini che ne sono vittime saranno derisi invece che aiutati. La prima reazione sarà una risata. Non perché hai attentamente ponderato la cosa e deciso che gli uomini meritano lo stupro, ma perché da sempre il soggetto ti viene presentato come una battuta buffissima.

Lo abbiamo visto con i personaggi omosessuali: da inesistenti, a antagonisti pervertiti, a macchiette buffe che pensano solo a scopare, e finalmente negli ultimi anni si sta arrivando ad avere personaggi scritti meglio. L’opinione pubblica sugli omosessuali è evoluta di conseguenza: oggi la maggioranza degli europei ritiene che debbano avere gli stessi diritti degli altri mentre negli anni ’80 potevano crepare tutti di AIDS e se lo sarebbero meritato.

In altre parole, per evitare di avere una visione stereotipata e povera della realtà, occorre una narrativa che non sia stereotipata e povera.

La narrativa buona ha la capacità di parlare con la nostra parte emotiva, con il nocciolo più primitivo della nostra persona. Non per forza uno cambia le proprie idee dopo un libro o un film, ma uno può acquisire un punto di vista nuovo. Empatizzando con un personaggio posso capirlo e posso arricchire l’immagine che ho del mondo.

Abbiamo bisogno di personaggi originali, che rompano i clichés. Abbiamo bisogno di personaggi variegati e differenti, di personaggi complessi.

Per anni le donne sono state ritratte come principesse in pericolo. Quando questo cliché ha stancato, abbiamo provato il contrario: maschiacci diverse dalle “altre” (cretinette interessate solo alla moda), capaci di tutto in barba alla logica. La nuova formula non era meno misogina della prima, purtroppo, perché era altrettanto piatta e stereotipata.

Personaggi tridimensionali e variati non sono solo belli da leggere: sono positivi in generale. Un romanzo zeppo di clichés, di per sé e preso da solo, non è un problema, è banale e basta. Un romanzo capace di originalità, di per sé e preso da solo, è utile al progresso.

Concludiamo coi Grumpies!

La storia

Good_Grumpy

L’ambientazione fantasiosa

Good_Grumpy

La protagonista

Good_Grumpy

Una dissolvenza troppo conveniente

Bad_grumpy

La mitologia

Good_Grumpy

I comprimari

Good_Grumpy

I dettagli bizzarro-macabri

Good_Grumpy

Sangue del mio sangue si trova su Amazon. Anche senza tutte le mie menate sull’importanza della narrativa per la società, la storia è divertente, il personaggio ben costruito e il Menconi scrive bene. Datci un’occhio.

MUSICA!

Le avventure di un Alpino astemio: “Bepo” Novello e la satira analcolica

Il cervello umano è un complesso organo sviluppato per risolvere problemi. E’ quello che fa in continuazione: risolve problemi.

Che capita però se nasci in un’agiata famiglia borghese e, tragedie permettendo, non hai problemi pressanti di cui occuparti?

Beh, il cervello se li crea.

Non c’è una ragione reale sul perché le norme sociali debbano essere così complicate, le ricorrenze così faticose, o le cene di famiglia così angosciose: è così e basta. L’inutilità gratuita del disagio che ne consegue è tragicomica.

Non sto tirando la pietra a nessuno, sia chiaro. Io stessa sono nata in una famiglia borghese (microscopica borghesia ora, grazie alla crisi economica), sono familiare con l’ambiente e so che è difficile sfuggirci.

Oggi vorrei parlare di un disegnatore che ha elevato il disagio borghese di tutti i giorni ad ARTE: Giuseppe Novello.

Novello nasce nel 1897 a Codogno. Suo zio è il pittore milanese Giorgio Belloni, un paesaggista affermato. Da ragazzo Novello visita spesso l’atelier dello zio e si appassiona di pittura. Il nostro decide: vuole fare il pittore come zio Giorgio!

E perché no dopotutto? Lo zio ha una buona carriera, il padre è un direttore di banca e la famiglia non ha certo urgenza di fondi.

Ma nessuno sfugge all’inutile disagio di cui sopra, e finito il Liceo Giuseppe è costretto baionette alle reni a cercarsi una carriera rispettabile.

Come tutti sappiamo, le femminucce devono sposarsi e sgravare tanti bambini. I maschietti invece hanno la vasta scelta tra 4 mestieri, gli unici esistenti sulla faccia della Terra: Avvocato, Dottore, Ingegnere e Architetto.

Il Novello finisce in facoltà di Legge. Ducunt volentes fata nolentes trahunt eccetera.

Ma il Novello non si rassegna: si laurea con una tesi sui diritti d’autore nelle Arti Figurative.

Frattanto che il Novello si dibatte tra le futili fisime della borghesia bene milanese, un Vero Problema si presenta: la Prima Guerra Mondiale.

Nel 1917 Novello viene arruolato e entra nel battaglio Tirano del 5° reggimento Alpini. Ha 20 anni precisi e sarà forse l’unico alpino astemio mai esistito.

No, sul serio.

Il tizio è un esperto in acque minerali. GIURO CHE NON STO SCHERZANDO!

Tornando a noi, non tutti quelli arruolati se la sono passata proprio malissimo durante la Guerra. La maggioranza sì, ma uno può sempre avere fortuna. Alla fine le guerre sono un po’ come catastrofi naturali: aleatorie. Chi se la passa bene, chi male, chi così così…

Giuseppe Novello si cucca prima la battaglia di Ortigara e poi la disfatta di Caporetto.

Ma esce dalla guerra con la pelle salva e tutti i pezzi del corpo più o meno intatti, quindi alla fine il nostro ha avuto molta più fortuna di decine di migliaia di giovanotti della sua età.

Tornato a casa il nostro abbandona ogni velleità di diventare avvocato e si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove aveva studiato anche lo zio pittore.

Riguardo alle sue scelte di carriera Novello commentò: “Sento tuttora questi miei clienti mancati che mi ringraziano per aver rinunciato alla toga per i pennelli: altrimenti sarebbero tutti in galera “.

Ad ogni modo, il nostro si diploma nel 1924 e inizia subito una promettente carriera di pittore.

Giuseppe non è solo un paesaggista: si diletta di caricature e satira, i suoi disegni compaiono dal 1925 nel quindicinale L’Alpino.

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Nel 1929 viene avvicinato da un altro ex-alpino, anche lui reduce di Caporetto: Paolo Monelli. Qualcuno degli habitués del blog avrà già sentito questo nome: il Monelli è l’autore de Le scarpe al sole (1921), sulla vita degli alpini sull’Altopiano di Asiago e la Valsugana. A differenza di Novello, Monelli era un interventista, e resterà una testolina per il resto della vita.

Restando in tema, Monelli propone al Novello di partecipare come umorista a una raccolta satirica pubblicata dall’editore Treves, e Novello accetta: nasce così La guerra è bella ma scomoda.

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Fun times

Sempre il Monelli introduce il Novello al circolo della Bagutta, una trattoria toscana dove facevano buca artisti e critici per parlare di libri ed arte davanti a un bicchiere di Chianti e un bel piatto di lampre (la più alta espressione artistica che Homo sapiens abbia mai raggiunto). Tra i baguttiani di spicco val la pena citare Adolfo Franci, nome che qualcuno ricorderà da Sciucià o Ladri di biciclette.

Qui il Monelli e compari avevano deciso (dopo non si sa bene quanti fiaschi di rosso di Greve) di creare un premio letterario di cui loro sarebbero stati giudici (ma ti pare?).

A chiosa, lo statuto del Premio Bagutta è riassumibile con “abbiamo bevuto come scimmie e abbiamo deciso che dall’anno prossimo daremo un premio all’opera presentataci che più ci garba!”

I Baguttiani reclamarono sempre indipendenza, tanto che il premio fu sospeso tra il ’37 e il ’46 per non subire pressioni dai fascisti. Onestamente non so quanto questa protestata indipendenza sia stata reale, visto che non si trattava proprio di antifascisti, anzi! Monelli era uno di quelli che s’ingollarono la panzana fascista con tutto il bicchiere, e uno dei laureati del premio Bagutta è quel pasticcio umano noto come Montanelli (che non so come mai insistiamo a prendere sul serio, ma bon). Ciò detto, tra i laureati compaiono anche Calvino, Primo Levi e altri, abbastanza da controbilanciare quella verruca pomposa che risponde al nome di Indro Montanelli.

[NOTA: se vi garba il Montanelli, cool, io adoro Ungaretti che certo non manca di scheletri nell’armadio. Ciò detto, il primo che dice “ma la storia di Roma era scritta bene” lo sculaccio con un battipanni storicamente accurato]

Tornando alla Bagutta, quale che fossero le tendenze politiche dei compari di bevute, resta un vivace e prominente circolo intellettuale del periodo, la cui produzione non dovrebbe essere giudicata solo dal clima politico. E parlando di clima politico, dal ’29 il Novello inizia a pubblicare su Il Guerin Meschino e La gazzetta del Popolo, due giornali storici finiti sotto il concone fascista.

Le vignette di Novello sono uno tra i rarissimi esempi di satira che sopravvisse durante tutto il Regime (perché se c’è una cosa per cui sono noti i fasci è il loro senso dell’umorismo). La ragione è semplice: sono vignette astemie. Sono satira di costume che prende in giro la sottocultura dell’alta borghesia del nord-Italia. Niente di politico, niente di davvero sensibile.

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Troviamo però una vena molto cinica in diversi disegni, non proprio in linea con la prosopopea nazionalista e pomposamente conformista del fascismo. Novello non è un coraggioso resistente come Bloch (martire a Parigi), non è un dichiarato antifascista o un idealista come Mucha (assassinato dalla Gestapo), ma non è nemmeno un leccaculo servo del potere come Pirandello.

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Politica a parte, durante il trentennio il Novello entra a far parte del mondo intellettuale, e con l’ex-commilitone Monelli si lanciano in una serie di progetti di ricerca importantissimi per la cultura italiana. Stiamo parlando di roba tipo la guida ai monumenti più brutti d’Italia o un viaggio gastronomico edito nel ’35 col titolo Il ghiottone errante. Nel frattempo, Novello pubblica vignette che deridono la borghesia bene, con la raccolta Il signore di buona famiglia.

Per alcuni, questo periodo rende Novello particolarmente poco potabile. E la cosa è più che comprensibile.

L’Italia è comandata da un bandito e un truffatorucolo improvvisatosi dittatore, la libertà d’espressione è annientata, i militari italiani compiono stragi atroci in Etiopia, il regime prepara il terreno alle leggi razziali, e Novello fa il dandy nei salotti intellettuali e va in tour gastronomico con quel pazzoide del Monelli. Se è vero che non tutti possono essere un Piero Gobetti o una Sophie Scholl, è anche vero che in certi contesti chi avalla è complice. E Novello, pur non mostrandosi un fascistone sbavante che va a pestare dissidenti, è senza dubbio complice della situazione.

Capisco come per alcuni questo renda Novello del tutto indigeribile.

In questo caso, io credo che l’autore presenti sufficiente interesse per essere degno di attenzione nonostante tutto (pur senza scordare il contesto).

In ogni caso Novello si trova presto a patire in prima persona dell’inettitudine criminale del regime, quando il Duce decide che entrare in guerra è proprio ciò che ci vuole.

Novello viene quindi richiamato al suo reggimento.

Si è cuccato Caporetto nella Prima Guerra Mondiale, quindi cosa gli riserva il Karma a questo giro?

La campagna di Russia.

Making History Russian Cat Timofei

Il valoroso gatto Timofei con un prigioniero tedesco da lui catturato durante la Grande Guerra Patriottica, di Alexander Zavaliy

Ora capitano, Novello si guadagna una medaglia d’argento alla battaglia di Nikolajevka.

Nella sfiga il nostro ha comunque fortuna: è uno dei pochi che riescono a tornare con tutte le appendici apposto.

Novello sarà stato lieto di tornare a casa, ma non aveva contato sul proprio governo: l’8 settembre del ’43 arriva, il battaglione di Novello è in Alto Adige quando l’esercito cessa di esistere. Nel giro di 24 ore, il nostro e alcuni compagni, sbandati e confusi, abbandonati dal loro re, vengono catturati da una banda di tedeschi incazzati come iene.

Novello viene deportato in Polonia, poi nel campo di concentramento di Wietzendorf, in Germania.

Siccome è un personaggio, qualche manina influente ci mette una buona parola, e gli viene proposto di tornare in Italia come membro della Repubblica Sociale.

Novello rifiuta.

Tra i compagni di prigionia, un tal Guareschi, maledetto reazionario baciapile che ci ha donato l’impareggiabile Don Camillo (le serie tv sono meglio delle novelle, fight me!).

Nel 1945 la sorella di Novello viene a sapere della sua morte.

Tra i vari omaggi, spicca quello del giornalista Silvio Negro: “la morte, quando è ingiusta, colpisce di regola i migliori

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PIU’ FORTE DELLA GIOIA: L’autore dell’ammiratissimo articolo “In morte di un amico lontano” riceve la smentita della triste notizia

Solo che, usando le parole di Novello stesso, “evidentemente e per fortuna non sono tra quella eletta schiera “.

Come fece notare Buzzati, “il redivivo che si gode i propri elogi funebri è abbastanza novelliano

Contro ogni aspettativa, il Novello sopravvive alla prigionia e, dopo la guerra, torna in Italia, dove diventa vignettista per a Stampa.

L’Italia del Piano Marshall è l’Italia della “conciliazione”, l’Italia vittima, l’Italia che dà pochi mesi di galera ad assassini di massa come Graziani. E’ l’Italia che vuole con ogni atomo passare ad altro e far finta che non sia successo niente.

E Novello con questa vigliaccheria piccolo-borghese (di cui lui stesso è colpevole) ci va a nozze. Nel 1950 esce la sua nuova raccolta Dunque dicevamo, che canzona proprio quest’attitudine ignava.

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La stanza fiorita

Seguono Steppa e Gabbia, sulla sua esperienza in Russia e in prigionia, e Sempre più difficile, entrambi del ’57. Dieci anni dopo esce Resti fra noi.

Ad ogni modo dal ’65 in poi il nostro si dedica soprattutto alla pittura.

Novello si campa il resto della vita come artista apprezzato, ricevendo anche la medaglia d’oro di benemerenza dal Comune di Milano nel 1985.

Muore tre anni dopo a Codogno, dov’è nato, alla veneranda età di 91 anni.

Non male per uno che ha subito il disastro di Caporetto, la campagna di Russia, i campi di concentramento in Germania e la compagnia del Monelli.

Novello è stato importante per la satira del costume. Le sue vignette sono una lente di ingrandimento su ciò che c’è di piccolo, meschino e petulante nell’italiano, e in particolare nel borghese italiano.

Tipo la famiglia ricca a teatro che finge di non vedere il parentado povero che saluta dal loggione. O la famiglia che si rallegra del fatto che il recente bombardamento ha distrutto il caseggiato dirimpetto, liberando la vista sul mare.

Ma non c’è superiorità arrogante nelle vignette di Novello. Novello stesso è un borghese, e quando parla della meschinità dell’uomo, parla della meschinità che si annida in tutti, lui per primo:

“All’umorista che se ne sta sulla torre d’avorio ad osservare, non ho mai creduto. Prima di mettermi di fronte agli altri mi sono sempre guardato allo specchio e ho cominciato a ridere di me stesso

Non tutte le vignette sono incisive e crudeli, ovviamente. Molte sono bonarie, un’ironia inoffensiva sulla famiglia in ambascia poiché Luigino rifiuta di fare “ciao ciao” con la manina al signor Commendatore.

A conti fatti, si tratta di satira, o è semplice ironia di un borghese sui borghesi?

In un’intervista al Tempo del 1957, Novello si esprime sul perché i suoi disegni sono così popolari.

Forse la tua popolarità” mi ha detto un caro amico “è dovuta al fatto che i tuoi disegni piacciono anche ai cretini”. Dove quell’anche salva egregiamente i miei estimatori e il mio amor proprio.

Novello aveva amici preziosi.

Ciò detto, l’auto-deprecazione è un chiaro strumento di difesa. Novello non è il Bill Mauldin italiano, e lo sa.

Quindi che valore ha, a oggi?

Quando la moglie è in vacanza, perché Novello è Novello anche quando dipinge

Le vignette di Novello sono uno specchio della sua carriera: Novello non prende rischi, a meno che non sia costretto a farlo. Quando vince il premio per il ritratto nel 1940, abbandona il genere. Non parte volontario in guerra ma va quando chiamato. Negli anni ’60, davanti a una modernità che lo perplime, molla la satira e si dedica alla pittura. E la sua pittura è come le sue vignette: ironica, ma inoffensiva.

Sappiamo che Novello poteva, quando voleva, essere un commentatore crudele e cinico. Allo stesso tempo, anche le più crude delle sue vignette, non condannano mai davvero la borghesia.

E’ uno sguardo cinico, ma bonario.

E’ all’altezza delle lodi sperticate che gli riservano alcuni?

Forse no, ma alcune sue vignette sono eccellenti, ed è un fatto.

Merita di essere dimenticato come lo snob borghese che sfotte senza esporsi?

Nemmeno, anche se certa roba che ha disegnato è davvero la camomilla della satira.

Le vignette di Novello sono l’acqua minerale della satira. Allo stesso tempo, se non ci fosse l’elefante nella stanza delle sue simpatie per il regime, nessuno metterebbe in dubbio la sua bravura e la deliziosa costruzione dello scherzo.

Citavo Ungaretti dianzi, ma non è l’unico esempio. Ci sono artisti le cui opere sono così straordinarie e innovative che è facile separare il loro operato dal resto della loro persona. Ungaretti, Picasso, Charlie Chaplin, Woody Allen… Sì, è vero, Chaplin aveva un debole per le bambine quattordicenni. Era un predatore con spiccate tendenze pedofile. Il fatto che fosse un attore e artista assolutamente straordinario non lo assolve da nessuno dei suoi crimini, ed è importante sia separare l’arte dall’artista che ricordare che, se fu grande in un certo campo, fu terribile nel resto.

Esiste anche il caso contrario: certuni sono così sopravvalutati che è molto difficile riconoscere l’interesse del loro lavoro al di là di una personalità davvero infetta: ho già nominato Indro Montanelli, ma un altro fenomeno che non so perché ce lo prendiamo ancora tanto sul serio è Rousseau, per esempio. In realtà sono uomini che hanno un valore, ma la loro persona era così odiosa e la loro opera celebrata in modo così esagerato e ingiustificato, che la reazione a pelle è di buttare l’intero autore nel tritarifiuti.

Novello a parer mio si situa tra i due. Non è stato all’altezza dei suoi tempi, ma non è stato né un criminale né un traditore di Salò. La sua satira annovera alcuni esempi straordinari, ma anche molta fuffa di colore locale. Offre un interessante spaccato d’epoca e uno sguardo spietato nella società borghese del nord.

Capisco chi non ne voglia nemmeno sentire parlare. Personalmente però trovo che, al di là di tutto, era un umorista di talento, e le colpe che gli si possono assegnare non sono tali da offuscare la sua arte.

Ne consiglio quindi la lettura, pur con tutti i caveat del caso.

MUSICA!


Bibliografia

Un eccellente articolo de Il Tascabile

La pagina wiki del Novello

MONELLI Paolo e NOVELLO Giuseppe, Il ghiottone errante, Slow food editore, 2016

MONELLI Paolo e NOVELLO Giuseppe, La guerra è bella ma scomoda, Treves, 1929

NOVELLO Giuseppe, Il signore di buona famiglia, Mondadori, 1934

La storia del gatto Timofei

Soldati a Vapore

E’ il 1848 e il Regio Esercito combatte la Prima Guerra di Indipendenza contro gli infami oppressori austroungarici.

Il Risorgimento è un capitolo estremamente importante della Storia Italiana. In casa mia in particolare nessun infante scampa alle storie, agli aneddoti, alle dotte discussioni su Elena Casati Sacchi.

La ragione principale è che un certo numero di antenati ci sputtanarono un casino di quattrini dietro a Garibaldi e Mazzini, e in mancanza di cospicuo patrimonio di famiglia uno si consola con l’orgoglio.

Ad ogni modo è innegabilmente un momento storico che ben si presta a storie di avventura. C’è l’idealismo politico, l’intrigo, la guerra…

Come rendere il tutto un pizzico più meglio?

Con robottoni giganti, ovviamente!

Soldati a Vapore è un romanzo di Diego Ferrara.

Full disclosure: fui betareader per il romanzo. Ai tempi mi piacque molto, e da quando ho aperto il blog (circa un anno dopo la pubblicazione) ho sempre avuto voglia di parlarne. Le cose però si sono affastellate e solo di recente ho avuto il tempo di rileggerlo.

Avevo già nominato Diego Ferrara quando ho parlato di Piloti e nobiltà, edito da Vaporteppa. Come ricorderete, la storia mi era piaciuta. E’ divertente, interessante e con un numero sufficiente di elementi bizzarri.

Soldati a Vapore è un progetto più ambizioso: si tratta di un romanzo ucronico steampunk che ripropone un tema classico dell’epica nazionale ma arricchito con mec e cingolati giganti, che fanno sempre piacere.

Il romanzo comincia con una nota dal diario del protagonista, Giuseppe Basile, nel giugno del 1848.

Nel brano, il soldato Basile racconta dell’Elmo Potorio, una sorta di rituale cannibalistico in cui un austriaco viene vivisezionato e il suo cervello usato come ingrediente in un beverone che sarà poi condiviso da tutti i membri del gruppo.

L’introduzione stabilisce il tono goliardico della voce narrante, e nell’insieme il libro riesce a trovare un buon equilibrio tra la caricatura e la storia d’azione.

Giuseppe Basile è soldato nella compagnia meccanizata dei Pulcini Sanguinari. I nostri pilotano i Manzetti, robottoni bipedi a vapore armati di lanciafiamme.

Interpretazione di Manzetti

Sul lato austriaco, il nemico naturale del Manzetti è il Kreb, un mec dotato di calotta in vetro rinforzato e due tentacoli muniti di tenaglia.

Sia chiaro, l’ucronia del Ferrara non vuole essere un “what if” verosimile né hard sci-fi: sia il Manzetti che il Kreb che l’intera faccenda non sono realistici né fingono di esserlo. Soldati a Vapore necessita una buona Sospensione Volontaria dell’Incredulità. Nel contesto del libro, però, le macchine sono narrativamente ben pensate e ben descritte.

E con “ben descritte” intendo ritratte in azione e senza spiegoni: sono mostrate senza essere raccontate. A differenza di certi Nomi Noti della narrativa italiana, il Ferrara è abbastanza sgamato dal non scivolare in ridicoli sotterfugi come sbrodolamenti a caso o dialoghi forzatissimi dove due personaggi che conoscono già l’argomento decidono di descriverselo a vicenda per il beneficio del lettore.

“Buongiorno Basile, il tuo Manzetti a vapore sembra in buono stato!”
“Invero lo è, sia nelle due braccia che nei due piedi. Sapevi che ha un lanciafiamme?”
“Perdincibacco sì! Lascia che ti riassuma come si usa!”

Ecco, niente del genere.

Manzetti e Krebs non sono le uniche mostruosità meccaniche presenti nella storia. Insomma, la tecnologia può essere poco verosimile in assoluto, ma all’interno del libro è trattata in modo coerente e dettagliato.

Questo, che di per sé è un pregio, ha le sue conseguenze. Ma andiamo con ordine.

Jakub Rozalski dimostra come i robot giganti migliorano qualsiasi immagine

Stazionato sul Mincio, il protagonista Giuseppe Basile è un pilota di Manzetti. Non ci appare particolarmente intriso di spirito patriottico risorgimentale, ma non è nemmeno un cinico disincantato. Basile combatte la sua guerra onestamente, senza esporsi troppo ma senza fare il paraculo.

Il personaggio è ben costruito. Basile è una brava persona, non un pazzoide sanguinario. Allo stesso tempo non prova empatia per il nemico e compie con totale nonchalance azioni atroci, come bruciare vivo un pilota di Kreb intrappolato, o schiacciare un ferito sotto i piedoni del mec.

Questi non sono gli unici passaggi di violenza grafica del libro: in più punti c’è gente cotta al vapore, schiacciata, mitragliata e quant’altro.

Spesso però tali scene non sembrano truculente come dovrebbero, sembrano quasi normali. E questo perché, per Basile, lo sono. Il personaggio è ormai abituato a quel livello di brutalità e racconta le proprie disavventure con uno spiccato tono autoironico.

Ma veniamo alla trama!

Il nostro Basile si sta facendo la sua brava guerra in santa pace, quando un bel giorno lui e i suoi si vedono affibbiare una missione notturna: devono attaccare un convoglio austriaco di camion carichi di reclute e rifornimenti.

La missione si preannuncia facile e la scorta al convoglio minima.

Ovviamente la scorta non è minima e la missione non è facile. Basile riesce a stento a riportare le penne al campo, dove ha un’altra brutta sorpresa: dal convoglio è stato ritirato un pezzo meccanico per un robottone austriaco.

Problema: il pezzo meccanico in questione è quattro volte più grosso e complesso di quello che è ragionevole aspettarsi. Gli austriaci stanno architettando qualcosa, qualcosa di grosso.

E così il nostro e i suoi compagni si trovano a dover attraversare le linee nemiche per trovare questo fantomatico mostro meccanizzato e demolirlo. Il nome in codice dell’ordigno: Crio.

Titanomachia, dal pennello di Joachim Anthonisz Wtewael (1566-1638)
Crio è uno della banda

Non voglio raccontare troppo di questo libro: è un romanzo che si legge alla svelta e sarebbe sciocco spoilerarlo.

Lo stile di Ferrara è scorrevole e divertente. Il punto di vista è ancorato nella testa del protagonista, che è un narratore a cui è facile affezionarsi.

Anche la tecnologia bizzarra è ben gestita. Questo però, come accennavo più su, ha conseguenze. In particolare, il “sapore” ottocentesco dell’ambientazione ne patisce.

In parte questo è inevitabile: nel 1848 buona parte delle armi leggere erano ancora ad avancarica, mentre il Ferrara descrive mitragliatrici e lanciafiamme, roba che starebbe molto meglio su un campo di battaglia del 1916, vapore o non vapore.

A parte il fronte sul Mincio e pochi altri elementi, è facile dimenticarsi che la vicenda si ambienta in un 1848 alternativo. Se spostassimo la faccenda duecento chilometri più in là, potremmo parlare di una versione steampunk di una delle trentordici battaglie sull’Isonzo, e la vicenda resterebbe più o meno immutata.

Questo non pone davvero problema a livello narrativo: la storia fila bene, i personaggi sono interessanti, la tecnologia a vapore è divertente.

Però sa un po’ di occasione persa. Forse con un’ambientazione più approfondita o dettagliata, si sarebbe potuto rendere in toni più vivi l’ottocento alternativo in cui avvengono i fatti.

Non si tratta però di un difetto vero e proprio, e quando lo lessi la prima volta manco ci feci caso. A distanza di cinque anni mi dico “avrei preferito”, ma non costituisce un problema strutturale.

In conclusione

Idea originale

I robottoni a vapore

La voce narrante

La grande battaglia contro Crio

L’elmo potorio

Soldati a Vapore è un romanzo divertente e scorrevole. Forse lo stile del Ferrara non ricalca del tutto la Tecnica Aurea propugnata dal Duca di Baionette, ma ha un buon ritmo e il tono sarcastico del protagonista lo rende una lettura gradevole.

Non è per tutti: i mec non sono spiegati, la scienza dietro questi trabiccoli non è esplorata e chi vuol fargli le pulci potrà probabilmente trovare diversi aspetti tecnici che non quadrano. Ciò detto, il romanzo non pretende di essere The Martian. E’ una storia di guerra con robottoni a vapore che si prendono a cazzotti. E in quanto tale è fatta bene.

Non è per puristi della hard sci-fi, ma per il resto della popolazione dico: dategli una possibilità!

Lo potete trovare su Amazon qui.

MUSICA!

Abaddon, di Giuseppe Menconi

Settembre si avvicina, con tutte le sue simpatiche scadenze, ma dopo questa bellissima estate l’idea di sciropparmi scartoffie e iscrizione ha un appeal nuovo. Diavolo, mi sembra quasi di dover andare in vacanza!

Non tutto era da buttare negli ultimi mesi. Uno degli aspetti positivi di questa maledetta estate, per esempio, è stato che ho finalmente trovato il tempo di leggere qualcosa che non fosse direttamente legato al mio settore. Tra le altre cose, ho potuto recuperare un po’ sui romanzi che mi ero procurata e che avevo poi messo da parte per tempi migliori.

Uno di questi romanzi è Abaddon, di Giuseppe Menconi!

La storia (potrebbe contenere leggeri spoilers)

Una nave spaziale arriva dal cielo e si parcheggia davanti al Golden Gate di San Francisco, dove rimane inattiva. La nave è protetta da scudi impenetrabili e viene sorvegliata notte e giorno, ma gli anni passano e la nave resta morta, come una gigantesca patata bollita. La gente si abitua alla sua presenza, la battezza Abaddon, l’Angelo Sterminatore del Vangelo.

William Boore è un militare, un eroe di guerra per pura botta di culo e un uomo stanco di correre rischi. Si è fatto assegnare al controllo della nave aliena contando di aspettare la pensione in una posizione prestigiosa ma sicura.

Tutto molto bello, finché gli scudi di Abaddon non si abbassano, e William è chiamato a prendere la testa di una nuova squadra ed entrare nella nave per vedere cosa si nasconde dentro e quali minacce si annidano nella gigantesca struttura.

Abaddon è un horror fantascientifico che aveva tutti i numeri per lasciarmi indifferente. Il setup “soldati cazzutoni entrano in astronave piena di mostri” non è una novità, l’eredità videoludica è lampante in diversi punti, e la storia in sé non è la cosa più originale dell’universo. A ciò aggiungete la mia personale idiosincrasia per quella che chiamerei una tendenza “post-evemerista” (e se gli dei erano ALIENI?!).

Detta così parrebbe una roba “Dead Space meets Voyager“, molto al di sotto dei miei raffinati gusti di signorina perbene.

Al contrario. Ho apprezzato un sacco questa storia.

Surprise!

Anche se il soggetto può sembrare già visto, la realizzazione è creativa e ben pensata. Il senso di claustrofobia e minaccia della nave è reso molto bene, e questo soprattutto per il fatto che Menconi ha un’ottima tecnica. Per tutto il romanzo la “telecamera” resta salda nella testa bacata di William e la storia è “mostrata” molto bene. Il che, in un racconto centrato sull’azione, è un grande pregio.

I personaggi sono tutti ben delineati e memorabili. Il protagonista-PoV è ovviamente il più approfondito. William non è un personaggio positivo, ma ha qualità che lo rendono interessante e likable nonostante tutto. William è un vigliacco e un macellaio, ma allo stesso tempo ha sincero affetto per suo figlio e sua moglie. L’angoscia di vivere in un ruolo fasullo e la consapevolezza di essere un codardo quando tutti lo ritengono un eroe sono rese in modo ottimo, senza bisogno di inutili spiegoni. Avendo una comprensione così chiara del protagonista, è facile farsi risucchiare nelle sue disavventure.

Il resto dei comprimari è altrettanto ben delineato. Tutti hanno tratti memorabili, senza però diventare caricature. Menconi usa benissimo lo spazio che ha per svilupparli e rende dei personaggi verosimili e attachants senza dilungarsi in dialoghi o scene e inutili. Per gran parte del romanzo, i soldati sono tutti paludati in tute identiche che li coprono da testa a piedi, ma le loro voci sono sempre distinte e non capita mai di confonderne uno con quell’altro.

Un altro punto a favore di questa storia è il dettaglio e l’attenzione portati all’equipaggiamento e alla tecnologia di cui i personaggi dispongono. Si nota una ricerca e una documentazione nel campo, il che rende la vicenda verosimile. Menconi ha curato bene questo aspetto e ne trae vantaggio durante la storia.

L’influenza videoludica è chiara, così chiara che il nome di Dead Space mi è saltato in mente pur non avendoci mai giocato. Nonostante tutto, ciò non sbalza mai il lettore fuori dalla storia. Niente scene ridicole tipo il pestaggio della scalinata in The protector, per intendersi (sì, mi piacciono i film di cazzotti fine a se stessi, so what!).

I nemici si presentano d’acchito come una masnada di mutanti assetati di sangue stile zombies, con la sola particolarità di essere esapodi invece che tetrapodi. Tuttavia anche loro, che potrebbero incarnare uno degli aspetti meno originali della storia, offrono un paio di gradite sorprese.

 

Orrori inumani scorrazzano nel buio!

Trattandosi di una storia di esplorazione, non voglio spoilerare oltre la trama!

Ho letto questo libro molto alla svelta. Nonostante la relativa lunghezza, scorre via molto bene. Da notare che mi è piaciuto nonostante la mia spiccata antipatia per diversi aspetti presenti, il che va tutto a merito di Menconi.

Concludendo

La tecnica narrativa  
Il protagonista  
I comprimari  
L’ambientazione  
Il ritmo  
Post-evemerismo (questo dipende puramente dai miei gusti)  
Il finale  

La cura dell’ambientazione eleva il libro sopra al semplice “sparatutto con mostri mutanti” e lo spessore dei personaggi lo eleva sopra al semplice “Alien 2 rivisitato” o “ficcy su Dead Space“. Non è diventato uno dei miei libri preferiti, ma è stata di certo una lettura molto gradevole.

Consigliato di cuore anche a chi non è appassionato del genere: è divertente, ha un ottimo ritmo, buona tensione.

Qui potete trovare i primi 5 capitoli per prova.

E qui potete trovare il romanzo.

MUSICA! (Because Aliens)

Noli timere messorem

Oggi è morto Terry Pratchett.

Pratchett è stato uno dei migliori e più prolifici scrittori dei nostri anni. Ho letto più di una venticinquina dei suoi libri, e non ho mai trovato una trama ripetitiva o un messaggio cacciato in gola a martellate o un personaggio mal costruito. Non tutti i suoi romanzi erano della stessa qualità, ma il peggiore che abbia mai scritto era divertente, i migliori sono perle di genialità.

Pratchett ha scritto una quarantina di romanzi sul Mondo Disco, più storie brevi, saggi, racconti… Era una fonte inesauribile di umorismo e fantasia, e adesso il mondo è un po’ meno interessante.

So che c’era da aspettarselo (era malato da tanto tempo), ma per il momento non riesco ad agguantare davvero l’idea che non scriverà più. Lo so che non scriverà più, ma non ci credo ancora. Quest’uomo è riuscito a farmi ridere e divertirmi mentre ero inchiodata a letto con ustioni di secondo grado su tutto il corpo. Mi ha strappato un sorriso durante il lutto per il mio migliore amico. Avrei voluto che fosse immortale per poter raccontare storie all’infinito.

Anche la sua clessidra è finita. Mi sembra che con lui siano morti tutti i personaggi che ho amato così tanto. Carota, Scuotivento, Cohen il Barbaro, il Professor Ridcully… anche MORTE, uno dei personaggi migliori di sempre.
Per celebrarlo, eccovi una storia breve di sua mano. E’ bella, è divertente, è tipicamente Pratchett: Death and What Comes Next.

Se non avete mai letto nulla di lui, fatelo. Un libro a caso, sono tutti carini o belli o bellissimi, sono tutti divertenti o geniali, sono tutti fantasiosi. Molti sono tradotti in italiano, ma consiglio la lettura in inglese: rendere fino in fondo lo stile e l’umorismo di Pratchett è impossibile.
Per chi non lo conosce, consiglio:

The colour of Magic, il primo libro della saga del Mondo Disco.

Mort, la storia dell’assistente di MORTE.

Pyramids, una storia di Assassini, Dei, piramidi e paradossi geometrici. Uno dei suoi romanzi migliori a parer mio.

La Trilogia delle Guardie Cittadine: Guards! Guards!Men at armsFeet of clay. Sono tre dei romanzi più belli che abbia mai letto.

Moving Pictures, con 1000 elefanti!

 

Musica.

 

Ship Breaker

Ho scoperto Bacigalupi con The windup girl, grazie a un articolo del Tapiro (qui per chi fosse interessato). Il romanzo mi garbò assai, e in particolar modo mi garbò l’ambientazione: un futuro non troppo remoto in cui il Cambiamento Climatico ha innalzato gli oceani, sterminato le colture e ridotto l’umanità a grattare il fondo del barile.

E’ un buon libro, ve lo consiglio.

Quello di cui oggi voglio parlare è un altro romanzo di Bacigalupi, Ship Breaker.

La storia si svolge in un universo come quello di The Windup girl (lo stesso?): a Bright Sands Beach, una popolazione assortita campa smontando antiche petroliere e rottami, per recuperarne le materie prime. La spiaggia è un luogo di miseria e crudeltà, in cui ognuno cerca di restare a galla, tra trafficanti di organi, spacciatori, sfruttamento e uragani.

In questo vivaio, Nailer è un ragazzino che recupera filo di rame dalle budella dei relitti. Fa parte di una banda di altri marmocchi, impiegati da un magnaccia perché abbastanza piccoli da infilarsi in condotti e anfratti. Presto Nailer sarà troppo grande per infilarsi nei tubi, ma sempre troppo piccolo per lavorare con le squadre pesanti, e Bright Sands Beach non è posto per disoccupati. Di giorno Nailer striscia nel buio e nei fumi tossici, di sera torna alla sua baracca, dove lo aspetta un padre violento col cervello fritto dalla droga. La sola “famiglia” che Nailer davvero ha è la sua banda, e in particolare Pima, la ragazzina capoccia, e sua madre Sadna, una delle rare brave persone in circolazione.

La routine di fame e fatica cambia di botto quando un grande uragano colpisce la spiaggia: allontanatisi per cercare qualcosa da mettersi sotto i denti, Nailer e Pima trovano un relitto nuovo, un clipper ultramoderno! La nave apparteneva chiaramente a gente molto ricca, e tra cadaveri e macerie c’è un sacco di ricchezza da recuperare. E’ un vero colpo di fortuna, un Lucky Strike che può permettergli di sfuggire alla fame e ai mercanti d’organi!

Nailer e Pima si fanno strada nel relitto e in una stanza, sorpresa: non tutti i passeggieri sono morti! Una ragazzina è ancora viva. Ha anelli d’oro alle dita e un diamante al naso. Si chiama Nita ed è ricca. Può valere un buon riscatto, o può valere una sanguinosa punizione, perché un Lucky Strike non basta a salvarti, devi saperlo sfruttare, devi essere intelligente.

E difatti, prima di subito i nostri si trovano nei guai: gli adulti sono sul posto, guidati dal padre di Nailer. E si sa, quando gli adulti s’impicciano, è sempre un casino.

Sano lavoro all’aria aperta!

Ship Breaker è un romanzo Young Audults, e si vede: il target di riferimento è chiaramente più giovane di quello di The Windup girl. Non ci sono scene di stupro, e certi passaggi sono raccontati invece che mostrati. Non vediamo davvero gli adulti mettere le mani addosso a Pima, ne siamo solo informati.

Non che il libro sia “addolcito”: la società in cui i ragazzi si muovono è crudele, come è realistico supporre che sia. Immagino che Bacigalupi sacrifichi a tratti la tecnica per non calcare la mano. E’ un compromesso che non mi convince molto, ma passa tutto sommato bene.

I personaggi sono ben delineati e credibili nel loro contesto.

Nailer vive nel conflitto. E’ terrorizzato da suo padre, ma gli vuole anche bene e quando il pericolo arriva non può risolversi a lasciarlo morire. E’ cosciente di aver avuto fortuna in un paio di occasioni fondamentali, e non si monta la testa. Sa che le cose sarebbero potute andare diversamente, e che talvolta fai la scelta “morale” solo perché te lo puoi permettere. In questo è ben caratterizzato perché mischia bene tratti infantili con un modo di pensare quasi adulto (la spiaggia è un posto in cui la gente cresce in fretta).

Pima è una brava ragazza, affidabile, coraggiosa e generosa con quelli del suo gruppo. Ma deve sopravvivere, ed è pronta a prendere drastiche decisioni per l’interesse suo o dei suoi. Farebbe di tutto per il bene dalla sua banda, e non esiterebbe a mutilare una ragazzina inerme se questo vuol dire salvezza e sicurezza per loro.

Nita dal canto suo è una ragazzina di buona famiglia, coinvolta in una faida politica che oppone suo padre e suo zio (c’è anche un accenno ecologista! OMG!). E’ intelligente e piena di risorse, ma può essere sprezzante e ignorante per quel che riguarda i disperati della spiaggia. Non è una mocciosetta viziata, ma non ha i mezzi per cavarsela da sola in un ambiente del tutto nuovo.

Nell’insieme, la storia non è proprio originale. La struttura è piuttosto classica, ma l’ambientazione e i personaggi la rendono interessante. Il mondo di Bacigalupi è affascinante e il ritmo è ben gestito, come anche le interazioni tra i personaggi.

Mi piace anche il fatto che, pur essendo un romanzo per ragazzi, non sia buonista. Non per tutti finisce bene, perché nella vita non per tutti finisce bene. Non tutti si redimono. Nailer salva la pelle a suo padre: in un film di Hollywood il signore si sarebbe pentito delle proprie malefatte e avrebbe dato un taglio alla droga.

No. Richard Lopez ha i neuroni tostati e i neuroni tostati si tiene. Non smetterà di essere un pezzo di merda perché ormai fa parte della sua natura. Non lo è sempre stato, a quel che si capisce, ma la cosa non cambia: certe persone girano male e così restano.

Ma tiriamo le somme.

Talvolta il raccontato poteva essere evitato
La trama è a tratti prevedibile e certi colpi di scena un po’ telefonati
L’ambientazione
I personaggi
Le interazioni tra i personaggi
La storia
L’atmosfera
Il finale

 

Ship Breaker è breve e si legge in due o tre giorni. E’ una storia d’avventura divertente con dei buoni personaggi, a cui si perdona volentieri un frequente ricorso al raccontato.

Non sarà il libro dell’anno, ma è di sicuro consigliato!

Qualche brano per avere un’idea.

1

Nailer è stato rispedito nelle budella della nave per raccattare altro rame:

Bapi already didn’t like him. And Sloth was too damn eager to steal his slot. Her words still lingered in his mind: “I’ll get twenty times the scavenge he does.”

A warning. He had competition now.

It didn’t matter that Pima vouched for him. If Nailer failed to pull quota, Bapi would slash out his work tattoos and give Sloth a try. And Pima couldn’t do a damn thing about it. No one was worth keeping if they didn’t make a profit.

Nailer wriggled onward, driven by Sloth’s hungry words. More and more copper came down in his hands. His LED faded to black. He was alone. Nothing but a trail of loosened electrical cable to lead him out. For the first time he feared he might not be able to find his way. The tanker was huge, one of the workhorses of the oil age, almost a floating city in itself. And now he was deep in its guts.

When Jackson Boy died, no one had been able to find him. They’d heard him banging away on the metal, calling out, but no could locate a way into the double hull where he’d trapped himself. A year later, heavy crews cut open a section of iron and the little licebiter’s mummified body had popped out like a pill from a blister pack. Dry like leaves, rattling as it hit the deck. Rat-chewed and desiccated.

Don’t think about it. You’ll just bring his ghost onto the ship.

The duct was tightening, squeezing around his shoulders. Nailer began to imagine himself stuck like a cork in a bottle. Pinned in the darkness, never able to get free. He strained forward and yanked down another length of wire.
Enough. More than enough.

Nailer hacked Bapi’s light crew code into the duct’s metal with his knife, doing it blind, but at least making a stab at saving the territory for later. He tightened himself into a ball. Knees against chin, elbows and spine scraping the duct walls as he turned himself around. Folding tighter, letting out his breath, fighting off images of corks and bottles and Jackson Boy caught in the darkness, dying alone. Tighter. Turning. Listening to the duct creak as he squeezed against metal.

He came free, gasping relief.

In another year, he’d be too big for this work and Sloth would take his niche for sure. He might be small for his age, but eventually everyone got too big for light crew.

Nailer squirmed back down the duct, rolling the wire ahead of him. The loudest sound was his own rasping breath in the filter mask. He paused and reached ahead for the loosened wire, confirming that it was still there, still leading him out to the light.

Don’t panic. You took this wire down yourself. You just need to keep following it

A scuttling noise echoed behind him.

Nailer froze, skin crawling. A rat, probably. But it sounded big. Unbidden, another image intruded. Jackson Boy. Nailer could imagine the dead crew boy’s ghost in the ducts with him, creeping through the darkness. Stalking him. Reaching for his ankles with dry bone fingers.

2

Nailer e il suo gruppo parlano del tradimento di Sloth e di un incidente avvenuto in giornata.

“If you were Lucky Strike, you’d have figured out how to sneak it out, instead of wasting it. Be a big rich man now, owning the beach.”
The others grunted agreement, but Pima had gone still, her black skin a shadow. “No one’s that lucky,” she said bitterly. “Everyone daydreaming about being the next Lucky Strike is what made Sloth go bad.”

“Yeah, well”—Nailer shrugged—“I still feel lucky today.”

Pima made a face. “You weren’t just lucky,” she said. “You were smart. And Lucky Strike, he was smart, too. Half the crews out here find some cache of oil or copper or whatever and none of them figure out what to do with it. Crew boss grabs it in the end, and they get bumped off the wrecks. Shit.” She took another swig from the bottle and wiped her lips on her arm before passing it on to Moon Girl, who drank and coughed. “Luck isn’t what you need out here,” Pima said. “Smarts is what you need.”

“Luck or smarts, I don’t care, long as I’m not dead.”

“Cheers to that. Still, we get all excited about being like Lucky Strike and we lose our heads. We waste all our money throwing dice, trying to get close to Luck, trying to get the big win. We pray to the Rust Saint to help us find something we can keep for ourselves. Hell, even my mom puts good rice on the Scavenge God’s scale for a luck offering, and we just end up like Sloth.”

Pima nodded down the beach to where men from the heavy crews had started their bonfires. Nailshed girls were with them, laughing and teasing them, twining slender arms around the men’s waists, urging them to drink and spend. “Sloth’s down there now. I saw her. Dreaming about a Lucky Strike got her nothing except shame cuts through her crew tattoos, and a whole lot of bad company.”

Nailer studied the men’s bonfires. “You think she’ll come after me?”

“I would,” Pima said. “She’s got nothing to lose now.” She nodded at Nailer’s luck gifts. “You better find a good place to stash all that. She’ll probably try to steal it. Maybe she finds some sugar daddy down there to take her under his wing, but no one else is going to deal with her. Grub shacks won’t take her because the ship breakers won’t buy anything from someone with slashed crew tats. Smelter clans definitely won’t touch an oath breaker. Liar like that, she’s out of options.”

Moon Girl said, “She could sell off a kidney. Maybe tap out a couple pints of blood for the Harvesters. They’re always buying.”

“Sure. She’s got those pretty eyes,” Pearly said. “Harvesters would take those in a second.”

Pima shrugged. “Medical buyers can slice and dice her like a side of pork, but after a while everyone runs out of pieces. Then what?”

“Life Cult,” Nailer suggested. “They’d buy her eggs.”

“Just what we need.” Moon Girl made a face. “Bunch of half-men that look like Sloth.”

“Dog DNA would be a step up for her,” Pearly said. “At least dogs are loyal.”

3

Pima e Nailer trovano Nita

The girl’s eyes snapped open.

“Please,” she whispered.

Pima pressed her lips together, ignoring the words. The girl’s free hand brushed at Pima’s face and Pima swatted it away. Pima leaned on the knife and blood welled up. The girl didn’t flinch. Didn’t pull away, just watched, black eyes begging as the knife cut into her brown skin.

“Please,” she said again.

Nailer’s skin crawled. “Don’t do it, Pima.”

Pima glanced up at him. “You going to get squeamish on me? You think you’re going to save her? Be her white knight like in Mom’s kiddie stories? You’re just a beach rat and she’s a swank. She gets out of here, this ship’s hers and we lose everything.”

“We don’t know that.”

“Don’t be stupid. This is only scavenge if she’s not standing on it saying it’s hers. All that silver we found? All this gold on her fingers? You know this boat’s hers. You know it. Look at the room she’s in.” Pima waved a hand at the wreckage around them. “She’s no servant, that’s for sure. She’s a damn swank. We let her out, we lose everything.”

She looked at the girl. “Sorry, swank. You’re worth more dead than alive.” She glanced at Nailer. “If it makes you feel better, I’ll put her down first.” She moved the knife to the girl’s smooth brown throat.

The girl’s eyes went to him, starving for salvation, but she didn’t speak again. Only stared.

“Don’t cut her,” Nailer said. “We can’t make a Lucky Strike like this… It would be like Sloth was with me.”

“It’s not the same at all. Sloth was crew. She swore blood oath with you. She didn’t have morals. But this swank?” Pima tapped the drowned girl with her knife. “She’s not crew. She’s just a boss girl with a lot of gold.” She made a face. “If we pigstick her, we’re rich. No more crew for life, right?”

The gold glittered on the girl’s fingers. Nailer struggled with his conflicting emotions. It was more wealth than he had ever seen. More wealth than most of the crews collected in years off the ships, and yet it decorated this girl’s fingers as casually as Moon Girl pierced her lip with steel.

Pima pressed her case. “This is once in a lifetime, Nailer. We play it smart, or we’re screwed for life.” She was shaking and a glitter of tears showed in her eyes. “I don’t like it either.” She looked down at the girl. “It’s not personal. It’s just her or us.”

“Maybe she’ll give us a reward for saving her,” he said.

“We both know that’s not the way it works.” Pima looked at him sadly. “That’s for fairy tales and Pearly’s mom’s stories about the rajah who falls in love with his servant girl. We either get rich, or we die on heavy crew—if we’re lucky. Maybe we walk oil scavenge until our legs get sores and your dad beats your head in. What else? The Harvesters? The nailsheds? We can always run red rippers and crystal slide out to the wrecks until Lawson & Carlson string us up. That’s what we get. And swanky here? She goes right back to her rich girl life.”

Pima paused. “Or we get out. With this gold, we get out for good.”

Nailer stared at the girl. A few days ago, he would have cut her. He would have apologized to those desperate eyes, and put the knife in her neck. He would have made it a fast kill so she wouldn’t suffer—he wouldn’t hurt her the way his dad liked to hurt people—but still he would have cut her dead, and then he would have stripped that gold off her waterlogged corpse and walked away. He would have felt sorry, sure, would even have put an offering on the Scavenge God’s scale to help her get on to whatever afterlife she believed in. But she would have been dead and he would have called himself lucky.

Now, though, the dark reek of the oil room filled his mind—the memory of being up to his neck in warm death staring up at Sloth high above him, her little LED paint mark glowing—salvation if only he could convince her, if only he could reach out and touch that part of her that cared for something other than herself, knowing that there was a lever inside her somewhere, and if only he could pull it, she would go for help and he would be saved and everything would be fine.

He’d been so desperate to get Sloth to care.

But he hadn’t been able to find the lever. Or maybe the lever hadn’t been there after all. Some people couldn’t see any farther than themselves. People like Sloth.

People like his dad.

4

Nita e Nailer in viaggio

“Is this it?” Nailer asked. “Is this the Orleans?”

Nita shook her head. “These were just towns outside the city. Support suburbs. They’re everywhere. Stuff like this goes for miles. From when everyone had cars.”

“Everyone?” Nailer tested the theory. It seemed unlikely. How could so many people be so rich? It was as absurd as everyone owning clipper ships. “How could they do that? There’s no roads.”

“They’re there.” She pointed. “Look.”

And indeed, if Nailer scrutinized the jungle carefully, he could make out the boulevards that had been, before trees punctured their medians and encroached. Now, the roads were more like flat fern and moss-choked paths. You had to imagine none of the trees sprouting up in the center, but they were there.

“Where’d they get the petrol?” he asked.

“They got it from everywhere.” Nita laughed. “From the far side of the world. From the bottom of the sea.” She waved at the drowned ruins, and a flash of ocean. “They used to drill out there, too, in the Gulf. Cut up the islands. It’s why the city killers are so bad. There used to be barrier islands, but they cut them up for their gas drilling.”

“Yeah?” Nailer challenged. “How do you know?”

Nita laughed again. “If you went to school, you’d know it, too. Orleans city killers are famous. Every dummy knows about them.” She stopped short. “I mean…”

Nailer wanted to hit her smug face.

Tool laughed, a low rumble of amusement.

Insomma, dategli un’occhio se avete tempo.
Nel frattempo, MUSICA.

Aneddoti e narrativa: Vaporteppa

Questo è un articolo di narrativa, e come tale vorrei iniziarlo con un aneddoto di vita vissuta.

Poche settimane fa ero in Italia in visita dagli Augusti Genitori. Come ogni fine di agosto, il mio tempo era assorbito da incontri col gruppo Bilderberg, consolidamento del dominio giudaico e lettere di insulti alla mia università. Io e la segreteria abbiamo un rapporto masochista, non tanto di amore e odio, quanto piuttosto di odio e antipatia (cit.).

Sicché un bel giorno pianto il summit rettiliano per l’asservimento dei goya e vado in Paese. Faccio un giro dei vari tabaccai. L’ultima volta che hanno visto un francobollo era il 1923, uno di loro giura che glieli ha mangiati il cane, un altro mi urla “NON LI AVRAI MAI SPORCA GIUDEA ALLAH AKBAR!” e si fa saltar per aria.

Avevo due opzioni: rinunciare a spedire la lettera o andare alle Poste. L’idea di lasciare la mia segretaria senza la sua usuale dose di “che cazzo state combinando coi miei documenti, manica di luddisti psicopatici” mi rattristava troppo. Alle Poste dunque!

Ammetto che sette anni a Lutezia mi hanno rammollita. A Lutezia uno entra, compila i fogli, affranca alla macchinetta e in dieci minuti è fuori dalle palle, libero come un fringuello.

Le porte automatiche si aprono con un cigolio di ruggine e metallo, una zaffata di putrefazione e polvere mi investe. Bambini piangono, aggrappati a madri macilente che hanno esaurito le scorte di merendine. Una di loro cerca di sedare il pargolo facendogli respirare della colla. Un vecchio si guarda intorno spaesato. Ha i calzoni corti e una mantellina troppo piccola. E’ qui dal 1925, voleva spedire una cartolina alla nonna. In un angolo, una donna con gli occhi iniettati di sangue sta armeggiando con una scatola puzzle per evocare i Cenobiti (che tanto non si muoveranno perché non ci sono più anime da sbranare, qui dentro). Sul tabellone lampeggiano i numeri A012, A011 e E018. Tiro il bigliettino. E389. Sarà da ridere.

Io non ho paura. Sono un vichingo, checchazzo. Mi siedo sulla cenere dei secoli. Apro la borsa.

E l’orrore mi assale.

Ho scordato la roba a casa. Non ho portato nulla! Non il romanzo americano che sto leggendo, non il romanzo giapponese che sto leggendo, né il saggio di Souyri né il numero Osprey dei Pirati d’Estremo Oriente. Sono disarmata, sola e in territorio nemico!

Il mio coraggio scema, mi ficco il bigliettino in tasca e mi precipito fuori dall’ufficio. La luce del sole mi fa male agli occhi. Ho visto una libreria da queste parti. Eccola!

Entro, m’infilo nel settore narrativa.

E’ lì che mi rendo punto a che punto il Paese sia messo male.

Pensate che la crisi sia brutta? Guardate al tipo di “arte” che mettiamo insieme. Non sono nemmeno nel reparto Fantasy/Sci-Fi (noto per essere il reparto Cottolengo), sono proprio in Narrativa, e sugli scaffali si assiepano tomi buoni per soli due target: i ritardati mentali giovani e i ritardati mentali vecchi che vorrebbero essere giovani. Tra le altre cose, scopro che la Licia Nazionale ha sfornato una nuova Creatura, con protagonista una Metallara.

Licia Troisi + Metal = WE ARE DOOMED! DOOMED!

Ora, io non ce l’ho col trash. Io amo il trash! Le porte dell’abisso è uno dei miei film preferiti, Tommy Wiseau è uno dei miei idoli (Oh hi Mark), ho un piccolo altare in casa dedicato solo al Daibosatsu Rocca-nyorai…

Ma quando esiste solo il trash, allora inizio ad aver paura. Insomma, sono come Vincent Smith di Silent Hill 3: venero il Dio, ma non per questo vorrei vederlo realizzato nel mondo reale. Il trash è il sale della vita, ma non lasciategli conquistare il Mondo o è la fine.

Nella fattispecie, l’unica cosa lontanamente potabile era una traduzione di Stephen King, che è peraltro uno degli autori più sopravvalutati di sempre (Sì, l’ho detto, non vi temo funz, fatevi sotto!).

Grazie al Cielo l’editoria digitale è messa un po’ meglio.

Non voglio scrivere un articolo sullo stato della letteratura digitale in Italia. Se vi interessa, leggetevi gli articoli del Duca di Baionette, è molto più informato di me. Oggi voglio parlare di racconti.

Racconti editi da Vaporteppa.

Sono sicura che tra i bazzicatori di questo piccolo blog molti già la conoscono: si tratta di una casa editrice digitale specializzata in narrativa fantastica, in particolar modo Steampunk (da cui il nome), ma non solo.

Devo essere sincera, di solito, quando vado a selezionare le mie letture, “fatine”, “mec a vapore”, “retro-futurismo” e “conigli” non sono proprio le parole chiave che mi vengono in mente. Non sono una gran lettrice di Stempunk o bizzarrie, conosco il genere molto poco e molto male.

Tuttavia tutti i racconti che finora ho letto usciti dalle fucine di Vaporteppa mi sono piaciuti, alcuni di più, alcuni di meno. Mi sono piaciuti in primo luogo perché sono di buona qualità. Alcuni brevi, altri lunghi, tutti sono scritti bene. Il livello tecnico degli autori sbriciola a mani basse quello di altri “campioni” dell’editoria cartacea. Non c’è paragone. Sul piano tecnico i vaporteppari vincono.

In secondo luogo, i racconti che ho letto finora hanno in generale una vena ironica e divertente.

Avete presente quando la Troisi pretende di scrivere passaggi tragici, o quando Altieri parla di ninja crucci che ammazzano lanzi a secchiellate e pretende di essere preso sul serio?

Niente di tutto questo. Il tono e lo stile cambiano ovviamente da autore ad autore (duh!) ma in generale nessuno, a mia esperienza, fa il passo più lungo della gamba. Non mi è ancora capitato di leggere passaggi involontariamente ridicoli: le scene esagerate o divertenti lo sono perché l’autore vuole che lo siano, non per sbaglio.

Con queste basi, certe opere mi sono piaciute più di altre per le trovate fantasiose, o i personaggi, o il tono più o meno spiritoso, ma sono tutte di qualità oggettivamente buona.

Qui alcune di quelle che ho letto e che consiglio caldamente anche ai non appassionati del genere.

 

L1L0, di Pippo Abrami


La storia è abbastanza lineare: L1L0 è un automa a vapore con tre cervelli di scimmia, creato da un illustre scienziato di Praga per salvare sua figlia, tenuta ostaggio in una caserma.

Cosa distingue L1L0? Il Witz. Dacché qualunque essere autocosciente, una volta resosi conto di essere un bollitore dalla forma vagamente lagomorfa, si toglierebbe la vita, L1L0 è stato dotato di Umorismo Giudaico, l’ironia fatalista.

Un minuto di awe per una delle idee migliori che abbia mai trovato in un racconto. Il Witz è in effetti un’arma culturale elaborata per sopravvivere i diciassette secoli di oppressione e antisemitismo. Inserirla come componente anti-suicidio è geniale.

Non è solo una trovata deliziosa, è anche un grande pregio della storia. L1L0 è il personaggio-PoV, ed è il suo modo di vedere e pensare a dar vita a quella che altrimenti sarebbe una quest piatta e fine a se stessa.

Le scene d’azione sono ben descritte, il Punto di Vista è adorabile, la storia è semplice ma riesce a tirar fuori un twist che non scade nello zuccheroso e banale. Con tutto che ho un’idiosincrasia feroce per i marmocchietti in narrativa (ho il santino di Erode tra la foto di Wiseau e quella di Mattia Sorrenti), il racconto mi è piaciuto un sacco.

 

Piloti e Nobiltà, di Diego Ferrara


Diego Ferrara è lo stesso che ha scritto Soldati a vapore, un racconto che straconsiglio (magari ne riparlerò). A questo giro seguiamo Elsa, un pilota donna in un mondo di uomini, che deve eseguire un volo dimostrativo di un nuovo eligibile anfibio, a beneficio di una banda di nobili (possibili acquirenti). Tra Elsa e i suoi passeggeri il disprezzo è a prima vista e reciproco, e mentre il volo prosegue e le richieste assurde si moltiplicano, la situazione si fa più scomoda e la tensione sale.

Elsa è il Personaggio-Punto di Vista. Elsa è una donna forte, competente, con un brutto carattere e un’antipatia feroce per i Nobili. E’ un buon personaggio, con qualità e difetti, e all in all molto credibile.

In questa storia l’umorismo non è dato tanto dal tono della protagonista (che di umorismo ne ha poco), quanto dalla vicenda vera e propria. Specie alla fine, il racconto strapperà un largo sorriso a chi apprezza l’humour nero (tipo me).

Consigliatissimo anche questo.

 

 

La maschera di Bali, di Francesco Durigon


Questo è forse il più fantasy tra i racconti che ho letto finora e uno dei più “seri”. E’ anche l’unico in cui ho una riserva. Ma veniamo al dunque.

Londra, 1897. Il Dipartimento di Scienze Occulte sta studiando su un povero alienato gli effetti di alcune maschere tribali, ritenute magiche in qualche maniera. Durante l’esperimento, la maschera balinese di Rangda prende vita, e la situazione precipita: in poche ore Londra è invasa da orde di demoni immortali e fiammeggianti, affamati di carne umana.

Due personaggi sono voci narranti: Abigail, veggente del Dipartimento di Scienze Occulte, e John Plye, soldato di Sua Maestà Britannica, mandato al macello contro le orde demoniache.

Parliamo dei pro della storia per cominciare. I personaggi sono ben caratterizzati nel poco spazio disponibile, sono credibili e funzionano bene nella storia.

Le scene d’azione sono eccellenti. Il volo di Plye sui tetti di Londra e il primo scontro coi demoni è un piacere da leggere.

Per il fattore: “mah”…

Attenzione, SPOILERS!

La “seconda vita” di Plye pare poco concludente. Abbiamo messo in scena un buon personaggio, gli abbiamo dato una morte intempestiva e accidentale, il che potrebbe starci bene (fatalità della guerra, stiamo come d’autunno sugli alberi eccetera). Ma non finisce lì, viene resuscitato alla meno peggio, creando una buona situazione di conflitto: Plye preferirebbe essere morto che non uno zombie motorizzato, e lo si può capire.

Ergo abbiamo un buon personaggio (il soldato di fegato), lo ficchiamo in un contesto interessante (un dipartimento scientifico invaso da mosti e demoni), con un conflitto eccellente (essere non-morto)… e poi boh, Plye viene massacrato poche pagine dopo senza nemmeno arrivare in fondo al percorso.

Era proprio necessario?

Sarebbe cambiato qualcosa se invece di avere il suo punto di vista Abigail fosse stata accompagnata per il breve tratto da un soldato a caso?

Insomma, a mio avviso un peccato.

FINE SPOILER

In conclusione, la storia resta ben scritta, con scene notevoli e una vicenda interessante. L’impressione è che ci sia molto più materiale da sfruttare, anche in termini di ambientazione e personaggi. Forse il tutto si presterebbe meglio a essere rielaborato per un romanzo, più che non per un racconto breve.

Nonostante tutto, una lettura gradevole, che consiglio.

 

 

Caligo, di Alessandro Scalzo


Questo non è un racconto, ma un romanzo. Dalla quarte di copertina:

Repubblica di Zena, Italia, 1912. Barbara Ann ha quasi diciassette anni e un seno che se crescerà ancora diventerà davvero imbarazzante. Ma questo non è il suo problema principale: da alcuni mesi soffre di forti emicranie e allucinazioni. Cosa c’è nella testa di Barbara Ann? E come si collega alla morte di suo padre, il defunto colonnello Axelrod, il primo uomo a mettere piede su Marte nel 1894, ossessionato dalla ricerca di qualcosa di ignoto fin da quando ritornò dal Pianeta Rosso? E cosa vuole Michele, quel bel ragazzo biondo col cappotto che puzza di piscio? Barbara Ann si troverà immischiata in un gioco internazionale tra Inghilterra, Austria e il protettorato inglese di Zena… e intanto, chi si preoccuperà dei suoi criceti?
Un’avventura Steampunk con mech, zombie e scafandri potenziati, in una Genova del 1912 che non è mai esistita.

Come avrete capito dalla quarta, Caligo ha una vena ironica molto presente. C’è anche molto fan-service, e l’autore non è timido a riguardo (Barbara Ann ha delle tettone così!).

Di solito mi dà sui nervi quando l’autore indulge in descrizioni fisiche del/la protagonista per il puro scopo di titillare il lettore. Nihal che si contempla nello specchio e si trova gli occhi “troppo grandi” è un esempio immortale.

Trovo anche fastidioso e vagamente inquietante quando l’autore approfitta della storia per ficcarci dentro una sua personale perversione, che non ha nulla a che fare con la trama, non serve a niente, è lì solo perché piace all’autore. Un po’ come la gatta con tre tette in Star Treck 5. Shatner, what the hell?

Nella fattispecie il fatto che Barbara Ann abbia delle tettone così e che ce lo ricordi in più di un’occasione passa, perché alla fine segue bene il tono semiserio della storia, oltre che il carattere represso-esibizionista-masochista del personaggio. Ci sono dei momenti di puro fan-service in stile anime-ecchi, perché, non scordiamocelo, Barbara Ann ha delle tettone così, ma gli si perdona, perché alla fine la scena è divertente e non rallenta la storia. E poi Barbara Ann ha delle tettone così.

Tette a parte, la storia è originale e il personaggio di Barbara Ann interessante e divertente da leggere. Combina bene competenze, inventiva, coraggio, pregiudizi e bizzarrie. Ambientazione e comprimari peraltro le corrispondono bene: una Genova d’acciaio, catrame e fumi di scarico, dove niente è come sembra, dove chiunque potrebbe essere una spia, un traditore o un abbonato a Superomo (recapito anonimo e discreto).

La storia bilancia bene momenti semiseri con momenti più truci. La scena in cui Barbara Ann ha una crisi di emicrania non ha niente di umoristico, e non è la sola, ma passaggi dl genere sono molto ben dosati senza mai essere melodrammatici.

Le scene d’azione sono buone, e Barbara Ann è una che se la sa cavare senza scadere nel cliché della tettona guerriera (peraltro, ho già detto che ha delle tettone così?). L’ambientazione è solida e creativa, con la giusta dose di follia e realismo.

Le finale ha un twist, che io non mi sarei aspettata, ergo è oggettivamente un buon twist partendo dall’assunto che (ormai lo saprete) io sono infallibile.

Insomma, non voglio spoilerarvelo troppo perché vale davvero la lettura.

E questo è tutto per questo sabato. Oggi sono di corvé Al festival Beermageddon, che promette di essere altrettanto epico del proprio nome.

Intanto, un pezzo dalla band FogHorn. Non è il mio genere di Metal, ma siccome ci suona il mio jarl, è buono a prescindere!

Horde Noire!

The Ocean at the end of the lane

[Achtung: questo articolo è stato pubblicato automaticamente! Se tutto è andato bene, in questo momento dovrei trovarmi in Kazakistan. Ergo non so se potrò regolare i commenti o occuparmi del blog in qualsivoglia maniera. Mi scuso se alcuni interventi non compariranno, me ne occuperò quanto prima. Nel frattempo fate i bravi.]

 

The Ocean at the end of the lane

 

Ho sentimenti contrastanti per Gaiman.

No, ok, non è vero: io detesto Gaiman. Non perché non sappia scrivere, è una questione personale. Gaiman è uno dei criminali dietro la sceneggiatura di Beowulf, a oggi uno dei film più raccapriccianti che abbia mai visto (tratto peraltro da uno dei poemi più belli che abbia mai letto).

Essendo però io una fanciulla illuminata e di larghe vedute, so fare astrazione dalla mia personale (e ovviamente giusta) opinione sull’individuo, e considerare anche i suoi lati positivi.

Devo ammettere che ho letto solo due libri suoi, American Gods e questo qui, ed entrambi presentano gli stessi pregi e gli stessi difetti.

Ma andiamo con ordine.

La storia si apre col nostro protagonista, un uomo di mezza età, divorziato con figli adulti e distanti, che ritorna da un funerale. Sulla strada, decide di passare a vedere la casa in cui ha vissuto tra i cinque e i dodici anni. Trasportato dai ricordi, va fino alla fattoria degli Hempstock, dove viveva una sua amica d’infanzia, Lettie.

Dietro la fattoria, ricorda, c’era uno stagno, che Lettie chiamava Oceano, un oceano da cui lei, sua madre e sua nonna sarebbero arrivate tanto, tanto tempo prima. Lettie non è più in giro quando il nostri amico arriva, è partita anni prima e il protagonista nemmeno ricorda per dove.

Arrivato sul luogo, i suoi ricordi cominciano a svolgersi.

La vicenda di questo libro è una sorta di lungo flashback retrolampo e ruota intorno agli strani eventi accaduti al protagonista quando era bambino e alla famiglia Hempstock.

L’evento che scatena la vicenda è un suicidio: è a causa di questo che il protagonista, all’età di sette anni, incontra Lettie e la sua strana famiglia.

La famiglia Hempstock è a mio parere uno dei pregi di questo romanzo: Gaiman riesce a far trasparire la loro natura soprannaturale e bizzarra senza però mai dire con chiarezza chi sono costoro, cosa fanno per davvero o perché.

Di solito la mancanza di precisione è un difetto e una scusa per far succedere roba a caso. Non in questo libro. I poteri di Lettie, di sua madre e di sua nonna non sono spiegati o definiti, ma hanno dei limiti, e questi limiti danno per lo meno l’impressione di coerenza. Niente gente che si ricorda all’ultimo di poter sparare plasma o che scorda la magia quando comoda all’autore.

Insomma, un buon rimaneggiamento dell’archetipo delle fate gentili.

Tornando alla trama, dopo il fattaccio, qualcuno o qualcosa comincia a lanciare monetine alla gente o rimpiattarle in giro. Il protagonista quasi si strozza svegliandosi con una di queste in gola. Insieme a Lettie Hempstock, il narratore si avventura in una sorta di mondo parallelo, per snidare la responsabile di questo, un parassita sovrannaturale.

Non voglio spoilerare altro della trama, perché tutto sommato il libro vale la lettura.

La storia è abbastanza classica: ricalca per molti versi l’archetipo della creatura maligna che infiltra la famiglia (nelle favole come matrigna, qui come tata), trasformando quello che dovrebbe essere l’unico vero rifugio per il bambino in un ambiente ostile e pericoloso.

Come nelle favole, il protagonista deve scegliere tra convivere con la minaccia o fuggire nel grande mondo ostile e incerto, e come nelle favole, la cattiva farà di tutto per impedirglielo.

Gaiman fa un buon lavoro. Questo archetipo, per cominciare, è ben scelto, perché ha i suoi uncini in molti lettori. Molti da bambini hanno avuto momenti in cui si sono sentiti in pericolo o abbandonati nella loro stessa casa (vera o immaginata che fosse la situazione), e dopotutto questa è una delle ragioni per cui l’infanzia è uno schifo. In questo libro questo sentimento di paura, impotenza e abbandono è reso bene.

Anche il climax è gestito bene, con un aumento del conflitto e del pericolo costante e ben ritmato fino allo showdown finale.

Quindi un libro fighissimo, no?

Purtroppo, come con American Gods, Gaiman non sa come finirlo.

Fino alle ultimissime pagine la faccenda tiene molto bene. E poi… poi il buon Niel decide di mandare tutto in vacca con uno dei cliché più abusati.

Dopo aver ricordato tutto, il protagonista dimentica di nuovo a fine conversazione.

Non è una buona idea. E’ un’idea quasi brutta quanto “era tutto un sogno” (credo che quest’ultima sia la fine peggiore possibile, piuttosto fate che arriva la Morte Nera e fa saltare il pianeta, ma per favore, non infilateci quello schifo di “era tutto un sogno”!).

Perché dico questo?

Perché una storia è cambiamento. I personaggi incontrano un problema, reagiscono al problema ed evolvono. Il punto è che alla fine della storia non siamo più esattamente dove eravamo partiti. Tutti abbiamo giocato ogni tanto al Gioco dell’Oca, sappiamo quanto sia fastidioso ritornare alla casella iniziale mentre gli altri vanno avanti.

Se il protagonista dimentica tutto, tutto quello che ha imparato sparisce.

Ora, se state scommettendo su qualcosa di kafkiano pessimista e del tutto deprimente, ok, ma se non è il caso trovate una fine migliore, per pietà!

Gaiman specifica che gli eventi lasciano comunque un impatto sul protagonista, ma nonostante ciò la stragrande maggioranza dell’informazione è persa, e alla fine di questo flashback il nostro è lo stesso uomo stanco della prima pagina!

Non ho letto altri romanzi di Gaiman per il momento, ma ho il sospetto che il buon Neil sia uno di quelli che non sanno come concludere.

La storia sa sfruttare bene l’archetipo da cui prende ispirazione
Il protagonista è un buon personaggio narrante: non mi strapperei i capelli dall’entusiasmo, ma è comunque buono e attachant
I comprimari sono resi molto bene: possono essere persone sgradevoli, ma sono molto verosimili
Gli elementi fantastici sono ben gestiti
Il villain è meschino e vanesio, con motivazioni non proprio di ferro
Ma è descritto bene e in modo coerente: è un buon villain, e per quanto poco “grande”, resta più che abbastanza pericoloso da rappresentare un vero pericolo per il protagonista
Il climax è gestito molto bene
Il senso di angoscia e abbandono del protagonista è reso molto bene
Le Hempstock sono abbastanza ben tratteggiate
Il libro è scritto bene
La fine è deludente.

9 a 2.

Un punteggio molto buono, ma vorrei mettere un caveat: questo libro vince bene anche perché gioca sicuro. La storia è lineare, molto ispirata agli archetipi più popolari. Il che non è un difetto. Ma non aspettatevi un libro che vi cambierà la vita o qualcosa di terribilmente ambizioso.

E’ una favola, e come tale va benissimo. E’ un libro che non mi avrà lasciato moltissimo, ma che è fatto bene, breve (meno di 200 pagine) e molto gradevole da leggere. Se vi capita dategli un’occhiata!

Qualche estratto:

I

A gust of wind threw leaves and dirt up into our faces. In the distance I could hear something rumble, like a train. It was getting harder to see, and the sky that I could make out above the canopy of leaves was dark, as if huge storm-clouds had moved above our heads, or as if it had gone from morning directly to twilight.

Lettie shouted, “Get down!” and she crouched on the moss, pulling me down with her. She lay prone, and I lay beside her, feeling a little silly. The ground was damp.

“How long will we—?”

“Shush!” She sounded almost angry. I said nothing.

Something came through the woods, above our heads. I glanced up, saw something brown and furry, but flat, like a huge rug, flapping and curling at the edges, and, at the front of the rug, a mouth, filled with dozens of tiny sharp teeth, facing down.

It flapped and floated above us, and then it was gone.

“What was that?” I asked, my heart pounding so hard in my chest that I did not know if I would be able to stand again.

“Manta wolf,” said Lettie. “We’ve already gone a bit further out than I thought.” She got to her feet and stared the way the furry thing had gone. She raised the tip of the hazel wand, and turned around

“I’m not getting anything.” She tossed her head, to get the hair out of her eyes, without letting go of the fork of hazel wand. “Either it’s hiding or we’re too close.” She bit her lip. Then she said, “The shilling. The one from your throat. Bring it out.”

I took it from my pocket with my left hand, offered it to her.

“No,” she said. “I can’t touch it, not right now. Put it down on the fork of the stick.”

I didn’t ask why. I just put the silver shilling down at the intersection of the Y. Lettie stretched her arms out, and turned very slowly, with the end of the stick pointing straight out. I moved with her, but felt nothing. No throbbing engines. We were over halfway around when she stopped and said, “Look!”

I looked in the direction she was facing, but I saw nothing but trees, and shadows in the wood.

“No, look. There.” She indicated with her head.

The tip of the hazel wand had begun smoking, softly. She turned a little to the left, a little to the right, a little further to the right again, and the tip of the wand began to glow a bright orange.

 

II

My mother was in there with a woman I had never seen before. When I saw her, my heart hurt. I mean that literally, not metaphorically: there was a momentary twinge in my chest—just a flash, and then it was gone.

My sister was sitting at the kitchen table, eating a bowl of cereal. The woman was very pretty. She had shortish honey-blonde hair, huge gray-blue eyes, and pale lipstick. She seemed tall, even for an

“Darling? This is Ursula Monkton,” said my mother. I said nothing. I just stared at her. My mother nudged me.

“Hello,” I said.

“He’s shy,” said Ursula Monkton. “I am certain that once he warms up to me we shall be great friends.” She reached out a hand and patted my sister’s mousey-brown hair. My sister smiled a gap-toothed smile.

“I like you so much,” my sister said. Then she said, to our mother and me, “When I grow up I want to be Ursula Monkton.”

My mother and Ursula laughed. “You little dear,” said Ursula Monkton. Then she turned to me. “And what about us, eh? Are we friends as well?”

I just looked at her, all grown-up and blonde, in her gray and pink skirt, and I was scared. Her dress wasn’t ragged. It was just the fashion of the thing, I suppose, the kind of dress that it was. But when I looked at her I imagined her dress flapping, in that windless kitchen, flapping like the mainsail

of a ship, on a lonely ocean, under an orange sky.

I don’t know what I said in reply, or if I even said anything. But I went out of that kitchen, although I was hungry, without even an apple. I took my book into the back garden, beneath the balcony, by the flower bed that grew beneath the television room window, and I read—forgetting my hunger in Egypt with animal-headed gods who cut each other up and then restored one another to life again.

My sister came out into the garden.

“I like her so much,” she told me. “She’s my friend. Do you want to see what she gave me?”

She produced a small gray purse, the kind my mother kept in her handbag for her coins, that fastened with a metal butterfly clip. It looked like it was made of leather. I wondered if it was mouse skin. She opened the purse, put her fingers into the opening, came out with a large silver coin: half a crown.

“Look!” she said. “Look what I got!”

I wanted a half a crown. No, I wanted what I could buy with half a crown—magic tricks and plastic joke-toys, and books, and, oh, so many things. But I did not want a little gray purse with a half a crown in it.

“I don’t like her,” I told my sister.

“That’s only because I saw her first,” said my sister. “She’s my friend.”

I did not think that Ursula Monkton was anybody’s friend.

 

III

I bolted, ran down the hallway, round the corner, and I pounded up the stairs. My father, I had no doubt, would come after me. He was twice my size, and fast, but I did not have to keep going for long. There was only one room in that house that I could lock, and it was there that I was headed, left at the top of the stairs and along the hall to the end. I reached the bathroom ahead of my father. I slammed the door, and I pushed the little silver bolt closed.

He had not chased me. Perhaps he thought it was beneath his dignity, chasing a child. But in a few moments I heard his fist slam, and then his voice saying, “Open this door.”

I didn’t say anything. I sat on the plush toilet seat cover and I hated him almost as much as I hated Ursula Monkton.

The door banged again, harder this time. “If you don’t open this door,” he said, loud enough to make sure I heard it through the door, “I’m breaking it down.”

Could he do that? I didn’t know. The door was locked. Locked doors stopped people coming in. A locked door meant that you were in there, and when people wanted to come into the bathroom they would jiggle the door, and it wouldn’t open, and they would say “Sorry!” or shout “Are you going to be long?” and—

The door exploded inward. The little silver bolt hung off the door frame, all bent and broken, and my father stood in the doorway, filling it, his eyes huge and white, his cheeks burning with fury.

He said, “Right.”

That was all he said, but his hand held my left upper arm in a grip I could never have broken. I wondered what he would do now. Would he, finally, hit me, or send me to my room, or shout at me so loudly that I would wish I were dead?

He did none of those things.

He pulled me over to the bathtub. He leaned over, pushed the white rubber plug into the plug hole. Then he turned on the cold tap. Water gushed out, splashing the white enamel, then, steadily and slowly, it filled the bath.

The water ran noisily.

My father turned to the open door. “I can deal with this,” he said to Ursula Monkton.

She stood in the doorway, holding my sister’s hand, and she looked concerned and gentle, but there was triumph in her eyes.

“Close the door,” said my father. My sister started whimpering, but Ursula Monkton closed the door, as best she could, for one of the hinges did not fit properly, and the broken bolt stopped the door closing all the way.

It was just me and my father. His cheeks had gone from red to white, and his lips were pressed together, and I did not know what he was going to do, or why he was running a bath, but I was scared, so scared.

 

IV

Ginnie Hempstock returned. She was carrying my old dressing gown. “I put it through the mangle,” she said. “But it’s still damp. That’ll make the edges harder to line up. You don’t want to do needlework when it’s still damp.”

She put the dressing gown down on the table, in front of Old Mrs. Hempstock. Then she pulled out from the front pocket of her apron a pair of scissors, black and old, a long needle, and a spool of red thread.

“Rowanberry and red thread, stop a witch in her speed,” I recited.

It was something I had read in a book.

“That’d work, and work well,” said Lettie, “if there was any witches involved in all this. But there’s not.”

Old Mrs. Hempstock was examining my dressing gown. It was brown and faded, with a sort of a sepia tartan across it. It had been a present from my father’s parents, my grandparents, several birthdays ago, when it had been comically big on me. “Probably . . . ,” she said, as if she was talking to herself, “it would be best if your father was happy for you to stay the night here. But for that to happen they couldn’t be angry with you, or even worried . . .”

The black scissors were in her hand and already snip-snip-snipping then, when I heard a knock on the front door, and Ginnie Hempstock got up to answer it. She went into the hall and closed the door behind her.

“Don’t let them take me,” I said to Lettie.

“Hush,” she said. “I’m working here, while Grandmother’s snipping. You just be sleepy, and at peace. Happy.”

I was far from happy, and not in the slightest bit sleepy. Lettie leaned across the table, and she took my hand. “Don’t worry,” she said.

And with that the door opened, and my father and my mother were in the kitchen. I wanted to hide, but the kitten shifted reassuringly, on my lap, and Lettie smiled at me, a reassuring smile.

“We are looking for our son,” my father was telling Mrs. Hempstock, “and we have reason to believe . . .” And even as he was saying that my mother was striding toward me. “There he is! Darling, we were worried silly!”

“You’re in a lot of trouble, young man,” said my father.

Snip! Snip! Snip! went the black scissors, and the irregular section of fabric that Old Mrs. Hempstock had been cutting fell to the table. My parents froze. They stopped talking, stopped moving. My father’s mouth was still open, my mother stood on one leg, as unmoving as if she were a shop-window dummy.

“What . . . what did you do to them?” I was unsure whether or not I ought to be upset.

Ginnie Hempstock said, “They’re fine. Just a little snipping, then a little sewing and it’ll all be good as gold.”

E hum, che musica potrei mettere alla fine di questo articolo?

Well, nel film si nomina un oceano, e mi va di cambiare un po’ genere a questo giro.

L’ISLANDA DOVEVA VINCERE, DANNATI SVEDESI!

La favola della botte

Bentornati in questo luogo di acredine e antipatia.

Il libro che vorrei segnalare oggi rientra nella categoria dei Buoni libri, tanto per dare una boccata d’aria prima dell’ultima puntata di Altieri. Non è proprio narrativa, quanto 170 pagine di trolleggio raffinato ed estemporaneo.

 

Diciamo subito che chiunque affermi di aver scritto per l’universale progresso dell’umanità è un genio del male.

In questo libriccino Swift si sbizzarrisce prendendosela con tutti a tappeto, a cominciare dagli scrittori suoi contemporanei. Difatti per tutto il libro, si finge un imbrattacarte moderno e ne scimmiotta lo stile ampolloso, le digressioni inutili e l’ego spropositato.

L’opera si apre infatti con una serie di scritti dello stesso autore, titoli imperdibili come Panegirico sul numero TRE, Storia generale delle orecchie o il mio preferito in assoluto, Modesta difesa delle azioni della plebaglia nei secoli.

Segue poi una pomposa quanto autocelebrativa lettera a nientemeno che il Principe Posterità, in cui l’autore lo mette in guardia contro un infame individuo che frequenta la sua corte e che è nemico per principio di tutte le ottime opere che gli artisti contemporanei mettono al mondo. E qui un assaggio.

Ma perché non ci siano altri dubbi per Vostra Altezza su chi fu l’autore di così grande rovina, Vi supplico di notare quella grande e orribile falce che il vostro governatore ostenta, portandosela sempre appresso. Abbiate la compiacenza, Vostra Altezza, di osservare la lunghezza, la forza, l’affilatura e la durezza delle sue unghie e dei suoi denti; considerate il suo velenoso e abominevole alito, infetto e corrosivo, nemico di ogni cosa viva, e quindi riflettete, se mai, a qualsiasi prodotto deperibile, di carta e inchiostro, della nostra generazione, sia possibile opporre adeguata resistenza.

Eh, si sa, il Tempo è una brutta bestia. Ma la colpa non è di chi forgia opere mediocri e dimenticabili. La colpa è del Tempo, e Swift è un Troll.

Leggere questo libro non è solo divertente: dà anche una misura di quanto certe bischerate non siano una decadenza nostrana, ma abbiano eccellenti precedenti. Parlando di una futura opera tutta dedicata a “lodi imparziali” sui suoi colleghi contemporanei, l’Autore afferma:

Descriverò le loro persone a lungo e nei minimi particolari, mentre ne descriverò il genio e l’intelletto in modo più succinto.

Dopo aver assistito al tipo di marketing mentecatto del baby-boom fantasy (chissenefrega se il libro fa schifo, l’ha scritto un quattordicenne lebbroso amante degli Abba, o chisssenefrega di che genere è, l’ha scritto una diciassettenne cieca), e dopo aver letto questo articolo su Masterpiece, questa frase mi ha fatto ribaltare dal ridere. Jon, Jon, se solo tu sapessi…

E sempre sullo stesso tema, l’Autore auspica la creazione di un’Accademia fatta apposta per begli ingegni, che li formi per l’universale progresso, e che dovrebbe esere strutturata con diverse scuole (Bestemmia, Salivazione, Idea Fissa, Noia… e Pederastia, che non so perché dovrebbe avere professori francesi e italiani!).

Il libro conta una lettera, una prefazione e un’introduzione prima di venire al dunque… e anche quando viene al dunque, l’Autore infila digressioni a destra e a sinistra. Ora, forse fa meno ridere oggi, ma abituata agli infodump estemporanei di buona parte dei nostri imbrattacarte fantasy o Sci-Fi, io l’ho trovato ancora attuale, amaro e divertente insieme.

Per darvi un’idea

Avendo così reso il dovuto omaggio di deferenza e riconoscimento a una consuetudine consolidata tra i nostri nuovi autori con una lunga digressione non richiesta, e un’universale critica, non necessaria, ponendo in luce, con molta fatica e grande abilità, i miei pregi e gli altrui difetti [Swift è un figo, c’è poco da fare], con integerrima giustizia verso me stesso e franchezza verso di lo so, posso ora riprendere con piacere il mio discorso, per somma soddisfazione sia del lettore che dell’autore.

La cosa doveva stuzzicarlo al punto che a metà strada infila una “digressione in lode delle digressioni”!

L’Autore fantoccio di Swift si dilunga in roba che non c’entra niente (la balorda spiegazione fisica sull’oratoria e il peso del suono) e in lamentele. Perché allora come oggi, chiaramente, qualsiasi problema l’Arte incontri non è mai da imputare al mentecatto che tiene la penna o al truffatore che vende la sua robaccia, ma ai ladri di idee, il Tempo infame o i lettori!

Ma il danno maggiore subito dalla ricezione generale degli scritti della nostra confraternita (come succede allo stato sublunare di tutte le cose passeggere) è derivato dalla vena superficiale di molti lettori del nostro tempo, i quali in nessun modo potranno essere persuasi a spingersi oltre la superficie e la scorza delle cose.

D’altro canto l’autore è anche cosciente che certe Brutte Persone disapprovano queste parentesi inconcludenti. E ribatte

Ma, dopo tutte le obiezioni di questi arroganti censori, è evidente che la società degli scrittori ben presto si ridurrebbe a un numero molto trascurabile di uomini se gli autori fossero costretti a scrivere libri con l’obbligo fatale di non offrire nulla al di là di ciò che ne è l’argomento.

Quando finalmente l’Autore si decide a venire al punto, ovvero alla Favola della Botte, capiamo che in questa parte i suoi bersagli non sono tanto critici e scrittori, quanto tre grandi sette cristiane: Cattolicesimo (impersonato dal fratello Peter), Anglicanesimo (Martin) e Protestanti (Jack, che ci fa in assoluto la figura peggiore). I tre fratelli hanno ricevuto degli abiti magici dal Padre, che crescono con loro e porteranno loro ogni bene finché rispetteranno le qualche regole che il Padre lascia loro nel testamento.

Tutto fila liscio all’inizio, finché i nostri non si innamorano delle dame Argent, Grand Titres e Orgueil. Per poter far breccia nel loro cuore, i nostri devono prima ritagliarsi un posto nell’alta società che, tutta seguace di un culto che fa dell’abito l’essenza dell’uomo, basa il proprio giudizio solo sul vestiario. I nostri sono impicciati dal testamento paterno, ma Peter, facendo leva sulla sua grande erudizione, dà il via a una serie di interpretazioni, aggiustamenti e riletture che alla fin fine si risolvono in “facciamo un po’ come ci pare”.

Peter è caratterizzato dalla vastità della cultura che impiega a proprio profitto e dalle numerose invenzioni per il bene dell’umanità, del tipo

Un altro progetto di Lord PETER su l’istituzione di un ufficio di assicurazione [le indulgenze] per le pipe, i martiri dello zelo moderno, i volumi di poesia… e i fiumi (ovvero contro i danni che questi ultimi potevano subire a causa degli incendi).

E la salamoia universale o la follia di PETER non ve le racconto, perché sono geniale e non voglio spoilerarvele.

Dopo aver rotto i piatti con Peter (spoiler…?), i due fratelli rimasti decidono di disfarsi dei fronzoli eretici, ma mentre Martin ci va coi piedi di piombo, Jack è così furioso e disgustato che dà di matto e inizia a fare a pezzi il proprio abito.

Nella sua follia, Jack fonda due nuove sette. La prima, gli Eolisti, venerano il vento e vaticinano a suon di rutti e scorregge.

Le parole non sono altro che aria, e il sapere non è altro che parole, ergo il sapere non è altro che aria.

La seconda setta fondata da Jack è chiaramente quella calvinista, che viene trattata a pesci in faccia senza alcun ritegno.

E l’Autore non si risparmia l’ennesima digressione sulla follia, in cui si permette una piccola parentesi su Luigi XIV, con mia grande gioia:

L’altro esempio è quello che lessi da qualche parte nell’opera di un autore molto antico, riguardante un potente Re, il quale in un periodo di tempo lungo trent’anni, si divertì a conquistare e perdere città, a sconfiggere eserciti e ad essere sconfitto, a cacciare principi dai loro domini, a spaventare i bambini fino a privarli dei loro mezzi di sussistenza, e a bruciare, devastare, saccheggiare, mettere a ferro e fuoco, fare crociate contro eretici, massacrare sudditi e forestieri, amici e nemici, uomini e donne. Si dice che i filosofi di ogni paese avessero in corso un grande dibattito per accertare le cause naturali, morali e politiche, per trovare una soluzione originale a tale fenomeno.

E’ sempre un piacere vedere descritto in poche righe uno dei miti della cultura francese contemporanea.

Swift non si lascia neppure sfuggire l’occasione per qualche frecciata di gratuito cinismo, tipo quando parla della felicità,

la predisposizione perpetua a essere ingannati.

Infine, concludo con un affondo ai critici, perché ovviamente Swift non perde occasione di perculare anche loro. Ed essendo io una fiskalista del caxo snz vita sxale (cit.), ho apprezzato in modo particolare la cosa. E’ come se dal passato Swift mi avesse lanciato una ciabatta!

Pausania scrive infatti che costoro erano una razza d’uomini che si dilettavano a mordicchiare il superfluo e le escrescenze dai libri: così, dopo averli a lungo osservati, i più saggi decisero di sfrondare dalle proprie opere quanto fosse in eccesso, o marcio, o morto, o avvizzito, e i rami troppo invadenti. Però, tutto questo, egli ingegnosamente nasconde sotto la seguente allegoria: che i Nopli di Argia appresero l’arte della potatura delle vigne osservando che quando un ASINO le aveva brucate esse poi crescevano più rigogliose e producevano grappoli migliori.

In definitiva, è un libro spassosissimo, ma non credo sia adatto a tutti. E’ spiritoso, arguto e trollesco, ma potrebbe risultare noioso a chi non si interessa dei soggetti sbeffeggiati. E’ scritto in modo volutamente balordo, e questo può divertire alcuni e tediare altri.

Quindi, in conclusione, caldamente consigliato a chi “bazzica” il settore della narrativa o si interessa di religione! Per gli altri, a vostro rischio. Alla peggio, vista la taglia smilza, non ci avrete investito né troppo tempo né troppi soldi.

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P.S. Il libro mi è stato regalato in italiano, quindi non ho idea del livello di difficoltà che pone la lingua originale.

Buona Pasqua a Tutti, Eolisti o meno! Festeggiamo con un’immagine di Brodèn vestito da coniglio