In vita e in morte: l’arrivo del cavallo in Giappone

Pochi animali hanno avuto un impatto sulla storia giapponese come il cavallo.

Il cavallo è stato guerriero, messaggero, oggetto di cerimonie, soggetto di poesia e pittura, strumento diplomatico e ragione di guerra. Il suo allevamento ha cambiato la struttura economica e sociale, ha modellato l’orografia stessa di certe regioni.

In passato ho accennato alla Storia del cavallo domestico, a come, da ronzino di poche regioni della steppa, il nostro si sia diffuso sul Pianeta intero (invito a leggere i commenti e a clickare sul link fornito dall’ottimo compare Ghezzi).

Ho anche scritto della teoria di Egami Namio, secondo cui un popolo di cavalieri altaici avrebbe invaso l’arcipelago e fondato la dinastia di Yamato. Come potete leggere nell’articolo, la teoria è stata disputata e non è ormai accettata da nessuno, ma l’occasione ci ha permesso di apprezzare in parte l’apporto importantissimo delle polities coreane a quella che diventerà poi la cultura giapponese.

Ma come è arrivato il cavallo in Giappone, e quando? Per quale ragione?

Può parer bizzarro, ma il primo lavoro del cavallo sull’Arcipelago non è stato in campo militare o agricolo.

Il cavallo che arrivò in Giappone era un cavallo sacro, e oggi parliamo del suo debutto sulle isole.

Perché?

Perché è una storia affascinante che vi farà certamente guadagnare un sacco di punti con gli amici al bar!

Ufficiali di polizia a cavallo, dal Ban dainagon ekotoba

Tanto tempo fa, nel Miocene (23-5 milioni di anni fa), là dove un giorno esisterà il Giappone, sgambettavano lieti due adorabili animaletti: l’Hipparion e l’Anchiterium, due mammiferi perissodattili considerati come gli antenati dei cavalli nostrani. A questo stadio il Giappone non era un arcipelago, ma una massa di terra collegata al continente. Il magico duo poté quindi diffondersi nelle vaste foreste di laurisilve e scorrazzare lieto su colline e litorali.

Anche le belle cose però finiscono, e col declino dell’Era Glaciale questi equidi preistorici diminuisconoe finiscono per svanire senza lasciare discendenti. Con l’innalzamento del livello del mare, 18.000 o 12.000 anni fa, il Giappone si trova infine tagliato dal Continente.

Secondo Aikens, i primi umani arrivarono in Giappone alla stessa maniera dell’Hipparion e dell’Anchiterium, nel Pleistocene Medio, circa 200.000 anni fa (data attribuita al sito di Sozudai, nel nord-est di Kyūshū, dove abbiamo ritrovato quelle che potrebbero essere le più antiche tracce di attività umane sulle isole). A questo punto, è probabile che gli equidi giapponesi fossero già estinti.

Gli anni passano, e mentre sul continente si evolvono cavallucci simili alle bestie nostrane, il Giappone resta del tutto privo di equidi.

Verso il 10.000 avanti cristo le prime forme di ceramica compaiono in Kyūshū, marcando l’inizio del lungo Periodo Jōmon (10.000-300 a.C.). Il cavallo resta assente dai siti archeologici e dall’Arte. Non esiste nel mondo e non esiste nella mente dei primi abitanti delle isole.

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Fossile di Hipparion, notare le tre ditina là dove il nostro cavallo ne ha uno solo

Rare tracce ricompaiono di quando in quando verso la seconda metà del Periodo Jōmon. Si tratta senza dubbio di bestie importate dalla Corea e trasportate via nave. I ritrovamenti equini sono di conseguenza rarissimi: Kidder cita ad esempio il cumulo di Ataka, nel dipartimento di Kumamoto, risalente probabilmente al Jōmon medio. Qui avremmo trovato le ossa di un piccolo cavallo. Resti simili sono saltati fuori in Izumi, nel dipartimento di Kagoshima. In entrambi i casi le ossa non mostrano segni di mutilazione ed è possibile che gli animali in questione siano stati accuditi fino alla vecchiaia, come esotiche bestie simbolo di potere economico e politico.

Come accennato in articoli passati, gli scambi con la Corea sono una costante nella quasi totalità della storia giapponese, e a maggior ragione nella preistoria: il commercio tra la penisola e le isole era fiorente! Un esempio sono le tombe del sito di Donghwa-dong, dove abbiamo trovato molte ossidiane di Kyūshū e ceramiche tipiche dell’industria Jōmon.

In generale, l’uomo Jōmon è un cacciatore-raccoglitore : nonostante la presenza di un’industria relativamente sviluppata (vedi l’esporto di ossidiane), la gente di Jōmon non coltiva e, soprattutto, non alleva.

Verso il IV° secolo a.C. si verifica una vera e propria rivoluzione: dal continente arrivano la coltivazione del riso, il bronzo e l’allevamento. Ciò coincide con l’arrivo di gente nuova, dalla fisionomia diversa rispetto alla gente di Jōmon. Si tratta di coreani che, spinti dalla pressione demografica, traboccano sulle isole. E’ l’inizio del Periodo Yayoi (300 a.C. – 300 d.C.). I nuovi arrivati e le nuove tecniche si radicano presto in Kyūshū. Secondo Rhee e Song-Nai, i nuovi arrivati erano particolarmente inclini ai matrimoni misti, e in poche generazioni possiamo constatare il fiorire di una cultura originale.

E’ importante sottolineare che a questo stadio non c’è un confine netto e definitivo tra la cultura delle isole e quella della penisola: specie tra il nord-Kyūshū e il sud-Corea notiamo molte similitudini culturali e antropologiche, anche se gli isolani mantengono caratteristiche distintive (tipo la pratica della mutilazione dentale, roba che i coreani saviamente evitavano).

La cultura Yayoi è molto più cosmopolita di quella Jōmon (che pure non era proprio isolata). In particolare col I° secolo d.C., oltre ai numerosi scambi con la penisola coreana, i capi-clan Yayoi allacciano relazioni anche con gli Han, con la comanderia di Lelang e con quella di Daifang.

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Come avevamo accennato in articoli precedenti, l’Arcipelago del I° secolo è tutto fuorché un paese unito. Lo Han Shu racconta di una trentina di “paesi” governati da “re” che versavano un qualche tipo di tributo agli Han. Ovvio, che cosa intendessero i cronachisti cinesi con “paese” e “re” è un gran mistero.

In ogni caso col III° secolo la Cina entra in uno dei suoi ricorrenti periodi di guerre civili e macelli: è il celeberrimo periodo dei Tre Regni, fonte di ispirazione di innumerevoli romanzi, film, poesie, dipinti, ecc. Niente stimola la creatività umana come un bel bagno di sangue e trauma irrisolvibile.

Secondo Kuji, quest’apoteosi del clusterfuck fu uno dei fattori che spinsero la coalizione e unificazione delle centinaia di polities microscopiche disseminate per la penisola coreana e l’arcipelago giapponese. Nell’arcipelago, un clan in particolare emerse più potente degli altri, alla testa di una modesta coalizione di capifamiglia, capi di territorio, predoni assortiti e quant’altro: il clan Yamato.

Questa nuova entità politica allacciò rapporti diplomatici con i nuovi signori di Lelang (la dinastia fondata da Gongsun Du) e poi con i Wei, non appena questi si papparono la penisola del Liaodong. Perché, checché ne dicano i sovranisti e altri scoppiati, “farsi i cazzi propri in casa propria” era una cosa cretina da pensare anche nel Giappone preistorico.

Tornando ai Wei, verso la metà del VI° secolo i nostri fanno compilare il ponderoso Wei shi, il Libro dei Wei. In questo testo compare il Wajin den, la prima traccia scritta delle isole giapponesi.

Secondo il Wajin den, le isole erano abitate da un popolo chiamato “Wa” (simpaticamente trascritto col kanji di “nanerottolo”, poi cambiato per amor di pace). Costoro erano divisi in numerosi “regni” (di nuovo, saggesù che cosa si intendesse per “regno”) di cui il più importante sarebbe stato Yamatai, sotto la savia guida della regina-sciamana Himiko. La sovrana sacra avrebbe intavolato relazioni con i Wei nel 239. Il ritrovamento di specchi Wei conferma che sì, effettivamente ci furono scambi in questo periodo tra il sovrano Wei e le élites isolane.

La storia di Himiko e l’immortale dibattito so dove si trovasse davvero Yamatai sono argomenti degni di una tesi dottorale, e non ci dilungheremo in questo articolo, perché oggi parliamo di cavalli!

E secondo il Wajin den i Wa NON avevano cavalli.

Come si spiega allora il fatto che abbiamo trovato tracce della loro presenza ben prima del 239 e l’inizio delle relazioni Wei-Wa?

Il Wajinden e il Wei shi in generale sono fonti solitamente considerate come attendibili, ma in questo caso paiono in contrasto coi dati archeologici.

La prima cosa da considerare è che in Giappone i cavalli erano di certo molto più rari rispetto alla penisola coreana o alla Cina. Inoltre, al tempo della stesura del Wei shi, i cavalli del Continente erano usati come bestie da trasporto, da lavoro e da guerra. Erano diffusissimi e parte integrante della vita economica, sociale, politica e militare.

Lo stesso non si può dire del Giappone: la quasi totalità dei resti equini in Giappone sono associati in modo chiaro a contesti rituali, in particolare funerari.

Farris e Yokoyama propongono che i cavalli siano stati importati in principio come bestie da carne.

Ora, il problema è che, come animale puramente alimentare, il cavallo fa pietà. Un sacco di altre bestie domestiche producono più carne e latte per un investimento molto minore in risorse.

Farris cerca di parare a questo problema ipotizzando un consumo strettamente rituale della carne di cavallo.

Non ho trovato dati che parlino di consumazione rituale di carne di cavallo, ma una cosa è sicura: questo animale era, dal II° al V° secolo, una creatura sacra e magica.

Se i resti del Periodo Jōmon non mostrano segni di violenza, lo stesso non si può dire degli scheletri equini della fine di Yayoi e dell’inizio del Periodo Kofun (IV°-VI° secolo). In altre parole, con il III° secolo e gli stravolgimenti politici del Continente, il Giappone assorbe non solo nuovi concetti politici e sociali, ma un nuovo sistema simbolico e mitologico dove il cavallo riveste un ruolo capitale diverso da quello che ha potuto incarnare fino ad allora.

Il cavallo di fine Yayoi non viene allevato fino alla vecchiaia, viene sacrificato, un trattamento di favore di solito riservato solo ad elementi davvero importanti!

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Una delle regioni che offrono il più alto numero di esemplari antichi è quella di Kawachi. Durante il Periodo Jōmon questa zona (in particolare quella che è oggi la piana di Uemachi) era una baia in comunicazione diretta con la baia di Osaka. Col passare dei secoli, questo corpo d’acqua si trovò tagliato dal mare e divenne prima una laguna e poi, nel Periodo Yayoi, un lago.

La più alta concentrazione di resti è nel sud di questa zona acquitrinosa (l’acqua aiuta la conservazione di certi materiali organici come il legno o l’osso, che sarebbero altrimenti digeriti dal terreno giapponese).

Stiamo parlando di siti come Misono, Kyūhōji, Kami, Nishi Iwata e altri. Negli strati datati al III° o inizi del IV° secolo abbiamo trovato denti, ossa e artefatti coreani.

Resti sono saltati fuori anche in altre regioni, come nel sito di Shiobu in Yamanashi, dove abbiamo trovato dei denti di cavalli vittime di un sacrificio dell’inizio del IV° secolo. Secondo Kuji si trattava di ronzini piccoletti, 125cm al garrese tutt’al più.

Secondo Momosaki, la più alta concentrazione di cavalli sacrificati si troverebbe in Kyūshū: abbiamo 3 esempi in Fukuoka, 26 in Kumano, 25 in Miyazaki e 2 in Saga.

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Testa di cavallo sacrificato, dal sito di Narai

L’associazione del cavallo con le élites e le loro tombe non è originale dell’Arcipelago giapponese, né è un’evoluzione recente. Al contrario: possiamo dire che è parte integrante del più antico e originale rapporto tra l’uomo e questo animale. Un’associazione che potrebbe rimontare a un tempo perfino più antico del più antico allevamento.

Fin dalle più remote origini dell’addomesticamento e l’allevamento, il cavallo è stato un simbolo sacro legato alla morte. Gideon Shelach cita il ritrovamento di cavalli sacrificali nei cimiteri di Meoqinggou e Dahuazhongzhuang, siti risalenti al I° millennio avanti Cristo e situati nell’attuale Cina (la zona studiata da Shelach copre parte di Heibei, Shanxi, Shaanxi, buona parte del Gansu e Qinghai, Liaoning e Mongolia Interiore, e la parte occidentale di Jilin e Heilongjiang).

I kurgans Pazyryk del Kazakistan risalgono al V° secolo a.C. In questi tumuli costruiti nelle valli degli Altai abbiamo trovato 69 cavalli intatti e 18 scheletri, tutte vittime costrette a seguire il loro padrone nella morte.

Questa prerogativa mortuaria del cavallo può essere ritrovata nel resto dell’Asia: nella sua espansione attraverso il continente, il cavallo domestico ha portato con sé il suo valore sacro e magico. Come nel celebre sito di Dereivka, in Ucraina, il cavallo accompagna il cavaliere in vita e lo segue nella morte.

Il sacrificio di cavalli associato a riti funerari era praticato anche nella penisola coreana, nella regione di Buyeo, e nello sciamanesimo del regno di Silla il cavallo accompagnava l’anima del defunto nell’Aldilà. A titolo d’esempio, i tumuli del sito di Hwangnam n.98, collocato tra la metà del IV° e la metà del V° secolo, contenevano una vittima di sacrificio umano e, sul cucuzzulo, indizi che lasciano supporre il sacrificio di cavalli bardati.

Usanze simili si ritrovano fin nella regione di Gaya, nel sud della penisola, in quella che diventerà Gumgwan Gaya: qui, verso la fine del III° secolo, lo stile di sepoltura subisce una drastica evoluzione. L’architettura della camera mortuaria cambia, i tesori funerari diventano più sfarzosi, e si prende la sana abitudine di sacrificare uomini e cavalli per il defunto, una simpatica pratica molto simile a quella di Buyeo.

Shin Kyung-Cheol suggerisce perfino che questo cambiamento e l’apparizione di una classe dirigente potente (abbastanza potente da potersi permettere un’atrocità come i sacrifici umani) sarebbero da spiegarsi con una massiccia immigrazione di alti papaveri di Buyeo.

Insomma, se la Corte di Wa è stata trasformata e consolidata dall’arrivo massiccio di nobili di Baekje, Gumgwan Gaya sarebbe stata partorita dopo l’immigrazione di nobili di Buyeo.

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Haniwa di cavallo della regione di Nara

L’associazione tra il cavallo e la tomba dell’élite è quindi una caratteristica originale e fondamentale della cultura equestre generale. In Corea constatiamo che questo legame tra il capo e il cavallo non è esclusivo alla sfera funeraria: il cavallo pare un simbolo indispensabile di legittimità regale.

Nel primo capitolo del Samguk sagi, la più antica cronaca dei regni di Corea, compilata nel 1145, viene raccontata la nascita del fondatore della dinastia di Silla, Hyeokgeose. Il nostro amico dal nome complicato è un fanciullo divino nato da un uovo, e il suo arrivo viene annunciato da un misterioso cavallo che svanisce dopo aver attratto l’attenzione sul mitico sovrano.

Il cavallo non è quindi solo un simbolo di potere e prestigio, ma un messaggero divino, un veicolo del Fato per portare nel mondo il legittimo sovrano e scortare la sua anima nell’Aldilà dopo la morte. Il cavallo è, nel mondo reale e nel mito, il compagno del Re.

Storie simili a quella raccontata dal Samguk sagi si ritrovano anche nel Nihon shoki, documento molto più antico e che narra delle origini e delle vicissitudini della Famiglia Imperiale giapponese. Un episodio relativamente conosciuto è quello del cavallo di creta, narrato nel 14esimo rotolo, al settimo mese del nono anno del regno dell’Imperatore Yūryaku (r. 456-479):

Il primo giorno fu detto, nella regione di Kawachi: “C’è una donna, la figlia di Tanabe no Fubito Hakuson del distretto di Asukabe, moglie di Fuminobito Kariryō del distretto di Furuichi. Hakuson venne a sapere che sua figlia aveva partorito e andò ad offrire i propri auguri alla residenza del marito, e tornò verso casa a notte, alla luce della luna.

Alla collina di Ichibiko (sotto la tomba di Homuta) incontrò qualcuno che cavalcava un cavallo rosso. Il cavallo s’innalzò come un drago e subito fuggì, impaurito come un cigno. Il suo corpo miracoloso era come il crinale di un colle, di forma davvero inusuale. Hakuson si avvicinò e, avendo visto il cavallo, lo desiderò.

Frustò il cavallo bianco-bluastro che stava cavalcando e allineando le loro teste allineò le loro redini. Il cavallo bluastro restava indietro dacché le sue zampe erano pigre, non riusciva a raggiungere [il cavallo rosso].

L’uomo che cavalcava il cavallo migliore si rese conto che Hakuson lo voleva, e si fermò, e scambiò i cavalli, e ognuno prese quello dell’altro. Hakuson ottenne il cavallo migliore e fu molto felice, e galoppò nel proprio cortile.

Rimosse i finimenti e nutrì il cavallo e lo lasciò dormire.

Il giorno dopo il cavallo migliore si era tramutato in un cavallo di creta. Hakuson pensò che fosse una cosa bizzarra e andò a investigare alla tomba di Homuta, dove trovò il suo cavallo bluastro tra i cavalli di creta della tomba. Lo riprese e rimise il cavallo di creta al suo posto.

In questo strano passaggio abbiamo tutti gli elementi che contraddistinguono il cuore simbolico della cultura equestre: la nascita di un erede, il viaggio, la tomba.

La notte è spesso considerata come un momento di passaggio, dove il mondo dei vivi e quello dei morti si toccano e si confondono. Di solito questa vicinanza è percepita come qualcosa di estremamente pericoloso, una coincidenza spazio-temporale in cui i morti possono contattare i vivi e trascinarli nel loro mondo. Da questo punto di vista Hakuson è fortunato: il suo incontro col fantasma non pare lasciargli nessuna conseguenza negativa e Hakuson può recuperare il suo cavallo vivo e tornare a casa.

Come abbiamo visto più in alto: il cavallo accompagna l’uomo alla nascita, nella vita, e nella morte.

Il Nihon shoki ci trasmette anche chiari riferimenti alla pratica di sacrifici umani e di cavalli sulle tombe dei membri della Famiglia Imperiale. Stando alla fonte, l’imperatore mitico Suinin (r. 29 a.C. – 70 d.C.) avrebbe ordinato la creazione delle haniwa come sostituti di uomini e animali.

sacrificio

Quello che mi viene in mente ogni volta che sento qualcuno cianciare di “antiche tradizioni”

E’ fuori di dubbio che la cultura equestre sia stata portata in Giappone da immigrati della penisola coreana. La maggior parte delle tracce di allevamento sono, in questo periodo, nel Kinai e nell’isola di Kyūshū: due regioni particolarmente soggette all’influenza civilizzatrice della Corea (è divertente dire una cosa del genere in una sala piena di dottorandi e poi indovinare dall’espressione del viso chi degli asiatici è giapponese e chi è coreano).

Non solo, possiamo concludere senza ombra di dubbio che cavallo e allevamento sono rimasti sotto il controllo dei nuovi arrivati per un lungo periodo: artefatti coreani sono spessissimo associati a questa nuova attività.

Ora però viene da chiedersi: il signor Kim arriva da Gaya con queste bestie strafighe per cui i capi-clan isolani stravedono. Perché il signor Tanaka del villaggio accanto non lancia un business simile? Perché il cavallo resta così raro, perché la sua presenza pare limitarsi a così poche regioni per tanto tempo?

Va bene che non ci si inventa allevatori, ma quanto ci vorrà mai ad imparare ed esportare il sistema?

Come in tutte le cose, probabilmente ciò fu il frutto di numerosi fattori.

Intanto ci sta che i locali non affini agli scambi con i coreani fossero troppo conservatori per imparare qualcosa di nuovo. Ricordiamoci che l’unica cosa più difficile che cacciare un’idea nuova nella capoccia di qualcuno è tirarne fuori una vecchia (detto che venne creato per l’esercito ma che funziona con la maggioranza della gente in generale).

Immagino il signor Tanaka che coltiva il suo miglio e intanto sbircia da sopra la siepe tutti questi immigrati strambi che parlano questa lingua che non si capisce e con queste bestie, che io davvero non so, ma dove andremo a finire, puzzano e mordono, sì guarda, mordono! E poi per farci che, per sacrificarli in cima ai tumuli? No, no, mi spiace, un tempo sui tumuli ci si sacrificava esseri umani, un tempo i sacrifici erano cose serie, mica ora che ci portano su ‘ste bestie, e vogliamo parlare dell’odore? Uno non si sente più padrone in casa sua!

Al di là del signor Tanaka e delle sue lungimiranti opinioni, parte del Giappone non si presta molto all’allevamento di cavalli: il cavallo è una bestia da prateria, e a parte la piana del Kantō il Giappone è scarso in pianure erbose.

Il Kantō sarà in effetti una delle regioni trainanti nella produzione di cavalli (in particolare cavalli da guerra), ma in questo periodo la zona è ancora fuori portata del clan Yamato e tagliata fuori in buona parte dall’influsso coreano. Peraltro non esistono strade in questo periodo, molti dei trasporti avvengono via mare e i cavalli non incassano bene questo tipo di gita.

Infine, c’è il fattore culturale: la cultura equestre è una novità venuta da fuori e importata dalle élites. Ci vorrà tempo prima che si innesti e sia assimilata dal resto della popolazione aborigena.

La diffusione dei centri di allevamento e l’uso del cavallo nel rituale funerario della classe dirigente marcano, a mio modesto parere, l’inizio dell’esistenza di una cultura equestre nell’Arcipelago.

Come accennato prima, i cavalli non sono proprio una novità sulle Isole. Ma il ruolo rituale e funebre del cavallo è un nocciolo arcaico e distintivo della più antica cultura equestre. Il cavallo è stato uno psicopompo molto prima di essere un guerriero, un contadino o un mezzo di trasporto.

Durante l’epoca Jōmon e la prima parte del Periodo Yayoi i cavalli sono rarità esotiche e oggetti di sfarzo.

Con l’ascendere del clan Yamato la forma più originale ed essenziale della cultura equestre arriva finalmente nelle Isole. Adesso il cavallo non è più un raro bene di lusso. Il cavallo è un simbolo indispensabile di legittimità regale, porta con sé il primo embrione dell’idea di Sovrano e Dignità Imperiale.

Himiko

Ricostituzione della regina Himiko

Questo stato di cose doveva ovviamente cambiare. Il cavallo diventerà l’elemento militare più stimato della storia e il mezzo di trasporto prediletto. Cavallo e allevamento rivestiranno un ruolo assolutamente centrale nello sviluppo della Corte di Yamato, la sua espansione e il crollo del monopolio politico dell’aristocrazia civile nel XII° secolo.

Allo stesso tempo il cavallo non perderà mai del tutto la sua carica sacrale: anche dopo la fine dei sacrifici, il cavallo resterà per secoli parte integrante del rituale di Corte.

Fin nel XII° secolo possiamo forse ancora intravedere, nel Rituale della presentazione dei puledri all’Imperatore, un barlume ancora vitale dell’antichissima cultura equestre nata nella Steppa. Un’eredità forgiata dai capitribù dell’Asia centrale e sopravvissuta fino all’aristocrazia dell’Impero del Giappone.

MUSICA 


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