Vera gente da romanzo: Nikolai Bystrov

Questo blog non parla spesso di Storia contemporanea, e non ho intenzione di cambiare la cosa: tutti sanno che dopo il 1400 è tutta discesa.

Ciò detto, certi fatti o certa gente sono semplicemente troppo interessanti per essere lasciati ad ammuffire. Certi fatti o certa gente sembrano uscire dritti da un romanzo d’avventura, ed è bello ricordare ogni tanto che la realtà ha sempre più fantasia di noi.

Nella fattispecie, era un po’ che volevo parlare di questo signore. Più o meno da quando sono incespicata sul tatuatore e smerciatore di panzane, Nicolai Lilin. Già sapete cosa penso della sua storiella fantasy e di come mi deprima l’idea che tanti italiani prendano sul serio certe bischerate. Lilin ha fatto la galera due volte, Lilin era nell’esercito russo, Lilin è stato cecchino in Cecenia, Afghanistan e Iraq…

Lilin è anche andato su Marte insieme a Barbagli per sedare la grande rivolta dei Mimimmi.

La cosa mi infastidisce in particolar modo (che volete, noi zittelle acide ci infastidiamo almeno 8 ore al giorno tutti i giorni salvo domenica e festivi, è sul contratto), ma per non essere sempre quella negativa e rosikona che smonta favole, ho deciso di essere proactive, e raccontare la storia di un uomo che esiste davvero, e che davvero è stato soldato russo, e che davvero ha combattuto in Afghanistan.

Il suo nome è Nikolai Bystrov, ed è stato guardia del corpo di Massoud, il Leone del Pnashir.

Un piccolo quadro storico

Tadjik Ahmed Shah Massoud è stato uno dei più strenui nemici dei Sovietici prima e dei Talebani poi. La sua storia è affascinante, ma non è il soggetto dell’articolo, ergo ci limiteremo ad un breve riassunto.

In principio abbiamo l’aprile del 1978, quando il Partito Democratico Popolare d’Afghanistan (PDPA, infami bolscevichi) prende il potere con un colpo di stato. Tempo di accomodarsi e rinforzare la cooperazione coi compagni russi, che è già settembre, e il gran visir primo ministro Hafizullah Amin trova bene di far fuori il presidente.

In meno di niente, 18 delle 26 provincie sono in rivolta. Amin chiede aiuto a Mosca.

Mosca non resta indifferente. Il 25 dicembre un bel pacco di Natale varca il confine afghano, nella forma di 50.000 soldati. Due giorni dopo, Amin è morto, perché deludere Madre Russia è un errore molto, molto pericoloso. Dopotutto se Madre Russia vuole un pasticcio inverecondo, è capacissima di provvedere da sola.

Una dimostrazione del successo tattico dei russi in Afghanistan

Detto fatto, sedare rivolte in Afghanistan si avvera più ostico del previsto e il nostro Massoud, pio sunnita, si consacra alla guerra contro l’invasore miscredente. Nella sua bella valle del Panshir, dimostra di avere uno straordinario talento per picchiare sulle capocce sovietiche.

La guerra continua, si stiracchia, s’infogna. Sempre ottimisti, nell’86 i russi cercano di riappattumare il casino installando un altro dei loro a capo del governo: l’ex-capo dei servizi segreti, Najibullah. Najibullah sarà l’ultimo vassallo di Mosca.

L’anno dopo, i russi si disincagliano con lentezza e metodo dal merdaio. Altri due anni, e sono fuori dall’Afghanistan con la coda fra le gambe.

Il bilancio di questa bella avventura è di (circa): 14.500 sovietici, 18.000 soldati afgani, tra i 75.000 e 90.000 resistenti, tra 85.000 e 1,5 milioni di civili.

Nell’aprile del ’92 l’Afghanistan diventa uno stato islamico. Gaudio. Più o meno. Ad ogni modo la pace dura più o meno 5 settimane.

Massoud meditabondo

“Bombardare o non bombardare?” Massoud e i dilemmi di ogni giorno.

Massoud è ora Ministro della Difesa sotto il governo Rabbani. Per dieci anni filati ha dato prova di grandi capacità tattiche, è riuscito a tenere la sua valle, a mettere d’accordo sgozzacapre locali, a proteggere al meglio la propria popolazione civile.

Con un uomo così capace al Governo, le cose dovrebbero andare lisce.

O forse no.

Le fratture etniche e tribali sono troppo profonde, e ora che i sovietici si sono levati dalle palle niente impedisce ai nostri di fare quello che sanno fare meglio: la guerra tra di loro.

Tra il 1992 e il 1996 la guerra civile continua a bollire, mentre Hekmatyar (sostenuto dall’etnia dominante Pashtun) e Massoud si cannoneggiano a vicenda nella zona di Kabul.

Intanto, sostenuti ai Pakistani, i Pashtun partoriscono quelle simpatiche blatte bipedi conosciute col nome di Talebani. Si mangiano l’Ovest del paese, chiudono su Kabul. Massoud li respinge una prima volta, ma alla fine si risolve ad abbandonare la città: il 26 settembre del 1996, Kabul viene presa dai Talebani. Due anno dopo, i pazzoidi hanno virtualmente vinto la guerra.

Massoud decide di tornare a far quello che sa far meglio: tenere il Panshir.

Il 9 settembre del 2001 due tunisini bombaroli riescono ad ucciderlo. Più di vent’anni di guerra, e a farti fuori sono due ritardati senza un futuro. Iste mundus furibundus falsa prestat gaudia

Quanto all’Afghanistan, è sempre in guerra (Spoiler).

La singolare storia di Nikolai Bystrov

Mentre Massoud si avvicinava ai circoli islamisti sunniti nella torrida Kabul, nel nord del Caucaso cresceva Nikolai Bystrov, figlio di due cosacchi che sgobbano nel kolchoz. A 18 anni viene arruolato nell’esercito e dopo sei mesi di addestramento lo spediscono al fronte. Non sa perché, non sa nemmeno l’Afghanistan dove cazzo si trova, ma c’è la guerra, e cosa di meglio per un cosacco di diciannove anni che una guerra, una vera guerra?

Lo slancio romantico di Nikolai non dura un granché. Essere soldatino sovietico è un mestiere ingrato, ancorché a lui non va poi così male: lo schiaffano a guardia dell’aeroporto di Bagram, dove può approfittare dell’ottimo clima e della squisita cortesia degli ufficiali.

Un bel giorno, alcuni di loro dicono a lui e due dei suoi compari di andare fino al villaggio Tale e Tale per comprare dell’hashish. L’hashish è vietato, ma non si dice di no a un ufficiale. Nikolai e soci si trovano quindi in un buco sperduto di seminomadi a chiedere in giro dove abita lo spacciatore. Dei bambini gli indicano una strada.

Solo che nel dialetto locale “spacciatore” e “fucilate” suonano quasi uguali.

I tre russi finiscono dritti in un agguato, una joint venture organizzata da gente di Massoud e Hekmatyar. Tutti e tre vengono feriti. Nikolai è colpito a un piede, ma riesce ad alzarsi quando glielo ordinano. Anche uno dei suoi compagni si tira su. Il terzo è ferito a entrambe le gambe. mujaheddin lo freddano sul posto. Dopodiché, secondo l’antica tradizione afghana, i tizi iniziano a scannarsi per decidere chi deve prendersi i prigionieri. Dopo tante proposte interessanti (“ammazziamoci tra di noi per decidere”, o “e se li tagliassimo in due e ognuno ne prendesse metà?”), Nikolai viene imbarcato dalla gente di Massoud, mentre il suo compagno viene preso dall’altro gruppo.

Al primo villaggio, il nostro viene trascinato in una piazzetta dove sono stesi i cadaveri di altri rissi. I mujaheddin li indicano e sberbreticano in una lingua che non conosce, ma il messaggio è abbastanza chiaro: farà la stessa fine. Se lo aspetta. Nell’esercito gli hanno raccontato degli orrori indicibili che i mujaheddin infliggono ai prigionieri (storie peraltro fondate).

Nikolai non ha nessuna voglia di morire o di farsi torturare: appena lasciato solo, cerca di scappare. Riesce a uscire dalla cella e percorrere la straordinaria distanza di “di là dal cortile”, prima di essere ripreso e rovinato di botte. Gli afghani gli fanno saltare i denti, gli rompono le costole, ma non lo uccidono.

Nei giorni successivi, lo trascinano da un posto all’altro. Nikolai tenta di scappare di nuovo, con eguale fortuna. I suoi carcerieri gli fanno capire che se non l’abbozza lo appendono a un albero per il collo e lo lasciano agli avvoltoi.

Dopo qualche giorno di marcia arrivano in un posto chiamato Badarak, dove Nikolai viene rinchiuso in un bugigattolo. Non cerca più di scappare ormai: non ha la minima idea di dove si trova e non ha più fiato di provare. Peraltro, anche se riuscisse a evadere e ritrovare i suoi, che trattamento gli riserverebbero i russi?

Arrendersi è considerato tradimento, e i prigionieri recuperati sono trattati male o peggio, dalla semplice condanna sociale ai sei anni di lavori forzati. Lì dove si trova, nessuno lo mena finché obbedisce, non ha freddo né fame e si è convinto che probabilmente non hanno intenzione di ucciderlo. Forse sta meglio lì, dimenticato dal mondo, che coi suoi.

Un giorno i suoi carcerieri lo tirano fuori. Uno di loro è un ingegnere, parla un po’ di russo. Lo portano in un cortile, dove sono attruppati una trentina di tizi barbuti. L’ingegnere gli dice di salutare.

Nikolai esita. Nel mazzo, uno degli uomini attira la sua attenzione in modo particolare. Come lui stesso racconta, non sa cosa di preciso lo colpisce, ma l’uomo emerge rispetto agli altri afghani. Si dirige su di lui.

Gli altri lo agguantano. Gli chiedono perché si stia avvicinando proprio al tizio, tra tutti quanti.

-Sembra il capo.- spiega Nikolai. -Ho pensato di salutare il capo per primo.

Il tizio è Massoud, che trova la cosa divertente, ricambia la stretta di mano e lo invita a mangiare alla sua tavola. Quando si dice affinità elettive.

Dopo l’incidente, Nikolai è portato in un altro villaggio dove viene rinchiuso insieme ad altri prigionieri sovietici. Nonostante sia felice di vedere dei connazionali, non si fida di loro, e loro non si fidano di lui. Non osa dir loro il suo vero nome, né da dove viene. D’altra parte, è sicuro come la morte che anche loro stiano mentendo. Sono rinchiusi insieme, ma alla fine ognuno di loro è solo.

Il tempo passa, e Massoud ricompare. L’offensiva è ripresa e tenere un pugno di prigionieri in gattabuia non conviene a nessuno. Offre loro la scelta: possono andarsene dove vogliono: in Russia, o in Pakistan, e poi in Francia, o in Svizzera, o dove diavolo vogliono.

Quasi tutti optano per partire. Nikolai ci pensa, ma si rende conto che ormai non vuole andare più da nessuna parte. Decide di restare con Massoud.

Un giorno il nostro si trova a viaggiare col comandante e le sue guardie del corpo. Stanno ascendendo un passo molto ripido, e Nikolai parte avanti, distanziando il gruppo. Arriva per primo in vetta e si siede ad aspettare.

Massoud gli ha dato un fucile mitragliatore cinese per il viaggio. Le rotelle nella testa sovietica di Nikolai si mettono a girare. Controlla. E’ carico.

In lontananza baluginano delle pistole di segnalazione. Significano “russi nelle vicinanze”. Nikolai ragiona. Potrebbe uccidere Massoud e tutti i suoi. Non ci vorrebbe niente, sa come fare. Potrebbe ucciderli e tornare dai suoi.

Solo che è stato Massoud a dargli quell’arma. Può sparare in faccia all’uomo che gli ha risparmiato la vita e lo ha liberato? All’uomo che si è fidato di lui nonostante tutto?

Nikolai resta seduto sul passo. Il gruppo lo raggiunge. Massoud gli sorride senza dire niente. Era una prova? Nikolai non lo sa e non lo saprà mai. Insieme alle altre guardie del corpo, prendono un té e ripartono. Nikolai è ormai arruolato.

Nelle interviste, il nostro racconta di come, col tempo, l’Afghanistan gli si sia appiccicato addosso: si lascia crescere la barba, si converte (anche se non rinnega mai il suo battesimo ortodosso), impara a conoscere il proprio capo e ad ammirarlo. In un’intervista comparsa su Guerres & Histoire, spiega: “lo amavo più di mio padre”.

Per anni Nikolai resta una fedele guardia del corpo. Viaggiano insieme, combattono insieme, mangiano nello stesso piatto. Quando Massoud è sicuro che Nikolai non ha nessuna voglia di tornare in Russia, si preoccupa di trovargli una moglie, una brava ragazza della sua tribù. Zarlasht è il nome della signorina, una comunista convinta ed ex-ufficiale dell’esercito afghano. Dopo la caduta di Najibullah, si era ritrovata nella brutta posizione di avere le poppe in un paese di talebani. Zarlasht non ha simpatia per i russi, ma Nikolai non ha quasi più niente di russo ormai. I due convolano, mettono su famiglia.

La storia la sappiamo e non va a finire bene. Nel 1995 Nikolai ha ormai tre figli, il paese è infognato a morte, i talebani premono su Kabul. Massoud gli consiglia caldamente di sloggiare e tornarsene in Russia. Davanti alla prospettiva di allevare i marmocchi in un paese dilaniato tra guerra civile e dittatura religiosa, Nikolai decide di seguire il consiglio di Massoud.

Afghanistan. Non ci andate. Lasciate perdere. Cioé… nope.

Sarà l’ultimo addio al suo capo, ma non l’ultimo addio al paese. Oggi Nikolai vive a Oust-Labinsk, facendo lavoretti occasionali. Torna regolarmente in Afghanistan per cercare i resti dei soldati sovietici caduti e riportarli alle famiglie.

Quando il giornalista gli chiede come sente la morte di Massoud, risponde in lacrime: “era il mio talismano, la sia morte è la più grande tragedia della mia vita”.

La storia di Nikolai Bystrov è una storia avventurosa e triste, interessante da diversi punti di vista. Non è l’unico esempio di prigioniero “convertito” alla causa del nemico, ma è notevole per come da straniero in catene sia arrivato a legare uno stretto rapporto personale col carismatico capo nemico. A oggi, non può togliersi dalla testa il dubbio: se fosse rimasto, sarebbe cambiato qualcosa? Se fosse rimasto, avrebbe potuto salvare la vita di Massoud, il Leone del Panshir?

Inshallah, suppongo.

MUSICA


Bibliografia

BRAITHWAITE Rodric, Afgantsky: The russians in Afghanistan 1979-89, Oxford University Press, 2013

MACLASHA Yacha, “Nikolai Bystrov, un Sovietique au service de Massoud”, in Guerres & Histoires n° 27, Mondadori france, ottobre 2015

Bystrov su The voice of Russia

Un’intervista a Bystrov

Il documentario di Christophe de Ponfilly, Massoud l’Afghan, 1998 (francese)