Emishi, gli eterni sconosciuti

Non si può studiare la storia giapponese pre-XIII° senza incappare in questo strano termine.

Emishi.

Fin dalle prime fonti storiografiche autoctone, nell’VIII° secolo, questo nome compare, e quasi sempre in circostanze drammatiche. Gli emishi si sono ribellati, gli emishi hanno bruciato i fortini di frontiera, gli emishi hanno teso un agguato al governatore e se lo sono mangiato con le fave e un buon chianti…

Bruciare fortini in particolare sembra essere stato un gran passatempo.

Person Who Speaks A Language Other Than Geek Is This A Barbarian ...

Nonostante gli emishi abbiano bruciato fortini imperiali per secoli, le informazioni al loro riguardo sono paradossalmente poche e confuse. Anche perché non scrivevano, che è una cosa che mi rende sempre molto triste.

La prima domanda che sorge spontanea a questo punto è: chi erano questi piromani impenitenti?

Chi erano gli emishi?

Emishi - Wikiwand

Emishi rendono omaggio al Principe di Sangue Shōtoku (il tizio a cavallo che sembra dire “‘sto frustino po’ esse’ de piuma o po’ esse’ de fero”), dallo Shōtoku taishi eden emaki, XI° secolo

La parola “emishi” (蝦夷 in un delle sue grafie più correnti) compare per la prima volta nel Nihon shoki, in riferimento al secondo mese del ventisettesimo anno del regno dell’Imperatore Keikō (98 d.C.). Un tale Takeshiuchi no Sukune torna da un viaggio delle regioni orientali e riferisce:

Tra i barbari orientali, c’è il pese (国) di Hitakami (日高見). In quel paese, uomini e donne legano i propri capelli in forma di martello, si tatuano e la gente è valorosa. Sono chiamati emishi. La terra è fertile e vasta, può essere presa con un attacco.

“Ho scoperto questo nuovo paese.”

“Figo, ma lo possiamo saccheggiare o no?”

Tutto il mondo è paese.

Ad ogni modo è importante sottolineare che Keikō è un sovrano semi-leggendario che secondo la tradizione avrebbe regnato tra il 71 e il 130 d.C. Non solo a quell’epoca non esisteva nessun “impero”, ma è relativamente certo che le isole giapponesi fossero un coacervo di tribù agrarie che si aggregavano e si disgregavano. In altre parole, non solo non esisteva l’impero, non esisteva nemmeno lo stato. Quella qui riportata è una leggenda trascritta agli inizi dell’VIII°, e non può essere assolutamente presa in parola.

L’idea che i fantomatici abitanti dell’est avessero costituito uno stato, Hitakami, è pure molto improbabile. L’esistenza di questo “paese” è propugnata anche da fonti cinesi, in particolare il Tongdian (通典), completato agli inizi del IX° secolo. E’ però più che probabile che i Cinesi tenessero queste informazioni dagli inviati Giapponesi, quindi la fonte cinese non “conferma” l’informazione, piuttosto “ripete per sentito dire”

Una cosa però è sicura: gli emishi vivono nella parte orientale e nordorientale di Honshū.

E’ anche importante notare che “emishi” non è l’unico termine usato per parlare della gente del nordest: ebisu, emisu, ezo, ecc. Sono pure termini usati in diversi contesti e periodi, ma non è chiaro in base a cosa e una discussione filologica esaustiva sull’argomento rischia di essere complicata (vorrei tenere questo articolo sotto le 3.500 parole, possibilmente!) [Edit: ho miseramente fallito]

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Il Tongdian non è la sola fonte cinese che fa riferimento a delle popolazioni insediate nel nordest del regno di Yamato. Lo Xin Tangshu (新唐書) o Nuovo Libro dei Tang, scritto nell’XI° secolo, descrive un’ambasciata del 668 dove l’inviato Wa è accompagnato da gente orientale. Costoro sarebbero dotati di una gloriosa barba di quattro piedi (120 cm!) e di un’incredibile abilità con arco e frecce.

Una delle teorie sulle origini del termine “emishi” è appunto che sia una distorsione della parola yumishi, (弓人 o弓師), “arciere” o “maestro d’arco”. Il secondo kanji di emishi è dopotutto “夷”, che può essere interpretato come una fusione del kanji di “arco” (弓) e “grande” (大).

Un’altra spiegazione attribuisce invece l’origine alla parola che gli Ainu usavano per riferirsi a loro stessi, ovvero emchu o enchu. E’ verosimile che questa parola, all’orecchio dei Wa della regione centromeridionale, suonasse qualcosa come emisu o emishi.

Quale di queste sarà la spiegazione corretta?

A dire il vero una non esclude l’altra, dacché i kanji possono essere stati usati per trascrivere una parola fonetica e scelti in base al loro significato implicito. In parole povere, può darsi che dovendo scegliere quali ideogrammi usare per trascrivere “enchu” i Giapponesi abbiano optato per i segni che indicavano le abilità di arcieri degli emishi.

Quindi voilà, la prova che gli emishi erano Ainu, giusto?

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Diciamo pure che “emishi” viene proprio da una parola Ainu e indicava gli Ainu.

Se Ainu = emishi, non è affatto detto che tutti gli emishi = Ainu.

Un altro passaggio del Nihon shoki, un po’ più affidabile stavolta, viene dal capitolo sul regno dell’Imperatrice Saimei (655-661). Il settimo mese del quinto anno (670) del regno dell’imperatrice, la corte spedì un’ambasciata alla corte dei Tang in Cina (al potere dal 618). Il brano è molto più vicino alla data di compilazione del Nihon shoki e si basa sui diari lasciati da due membri della spedizione.

Stando alla fonte, i Giapponesi portano al Figlio del Cielo un uomo e una donna emishi.

L’ambasciata è avvenuta davvero, dacché è confermata dalle fonti cinesi. Queste però non menzionano buffi primitivi a seguito dell’ambasciatore Wa, quindi non siamo proprio sicurissimi di come si sia svolta davvero l’udienza con Gaozong [Edit: erroneamente chiamato Gaozong nella versione precedente].

Stando al Nihon shoki, l’imperatore Gaozong li riceve il decimo mese intercalare. Dopo aver chiesto come sta Saimei, bene grazie, e i nipoti, bene anche loro, mi raccomando salutamela e tante buone cose, Gaozong s’interessa finalmente dei due emishi.

L’Imperatore quindi chiese: -Questo paese degli emishi, dove si trova?

Risposero rispettosamente: -E’ nel nordest.

L’Imperatore quindi chiese: Quanti tipi di emishi esistono?

Come nel primo passaggio, gli emishi sono gente nordorientale. Considerato che lo stato di Yamato è ancora giovane nel 670, può darsi che con “nordest” si intendesse il nord di quella che è oggi la prefettura di Miyagi.

Miyagi Prefecture - Wikipedia

La prefettura di Miyagi, anticamente parte della Privincia di Mutsu

E’ chiaro che Gaozong interpreta il termine “emishi” non come il nome di un popolo particolare (come gli Ye o gli Han o i Wa), ma come un termine generico per indicare gente non meglio specificata che vive in una certa regione (e chiede quindi “quanti tipi di emishi esistono”).

Dalla risposta degli ambasciatori giapponesi capiamo che questo è esattamente il modo in cui il termine viene usato:

Risposero rispettosamente: -Ce ne sono di tre tipi. Quelli che sono molto lontani sono chiamati Tsugaru (都加留), quelli dopo Ara-emishi (粗蝦夷) e i più vicini sono i Nigi-emishi (熟蝦夷). Questi emishi sono Nigi-emishi. Ogni anno inviano un tributo alla corte.

Tsugaru, normalmente scritto “津軽”, è una penisola nell’estremo nord dell’isola di Honshū. Quanto agli altri due, non è offerta nessuna indicazione geografica particolare. Gli Ara sono lontani, i Nigi sono vicini e portano un tributo. Secondo Hanihara, gli Ara (termine che evoca l’idea di violenza e riottosità) sono gli stronzi che non si piegano all’auto-evidente superiorità degli Yamato, mentre i Nigi sono bravi e mandano un tributo.

In altre parole, Ara e Nigi indicano due gruppi politici, non etnici.

Nel 1960, Inoue presentò l’ipotesi che i Nigi fossero gruppi stanziati nelle regioni più prossime al territorio controllato da Yamato, ovvero quelli che sono oggi i dipartimenti di Miyagi, Yamagata o Fukushima.

La discussione con Gaozong continua.

L’Imperatore chiese: -Questo paese conosce i cinque cereali?

Risposero rispettosamente: No. Mangiano carne.

L’Imperatore chiese: -Questo paese ha abitazioni?

Risposero rispettosamente: -No. Vivono nel cuore delle montagne sotto gli alberi

Per citare il Barbagli “ gente che andava nuda a caccia di marmotte quando noi già s’accoltellava un Giulio Cesare.”

Sappiamo grazie a dati archeologici che queste informazioni sono fake news: la risicoltura arriva nel nordest con uno o due secoli di ritardo rispetto a Kyūshū, ma era già ampiamente diffusa dal I° secolo d.C. almeno. Dato l’ambiente montuoso e il clima rigido, è probabile che la gente del nordest abbia comunque dato più spazio a caccia e pesca rispetto ai burrosi contadini del Kinai, ma dire che non coltivavano è falso. Stesso vale per le case: abbiamo ritrovato case seminterrate molto simili al tipo di tugurio senza finestre in cui dormivano i glebani delle ricche regioni occidentali.

Insomma, da un punto di vista archeologico, i poracci dei barbari campavano più o meno allo stesso modo dei poracci dell’Impero (male e poco). Sai che sorpresa.

International Workers’ Day

Poracci of the world UNITE!

Lo scopo di questo passaggio nel Nihon shoki non è quello di descrivere con accuratezza etnografica gli emishi, ma di distinguerli dai sudditi di Yamato. Yamato è un regno, è civilizzato, usa la scrittura, coltiva, costruisce capitali, proprio come i cinesi!

Quindi gli emishi sono barbari, scimmie che dondolano dagli alberi e non sono capaci di coltivare! Uomini e donne si pettinano alla stessa maniera, perfino. Cioè. Bah. Sai che si è arrivati al picco della bestialità quando va di moda il gender neutral.

Tirando le somme, emishi è un termine vago che indica popolazioni del nordest di Honshū che non riconoscono appieno l’autorità del clan Yamato (che è disceso dalla Dea del Sole, quindi devi proprio essere scemo per non capire che bisogna fare come dicono loro!).

La domanda che spesso sorge a questo punto è: ma gli emishi saranno mica gli Ainu?

Famiglia Ainu di Hokkaidō

Per chi non ha pratica, gli Ainu sono una popolazione etnicamente diversa dai giapponesi e che occupa principalmente l’isola settentrionale di Hokkaidō. Hanno una lingua diversa, costumi e riti completamente differenti, e un aspetto distinto rispetto al resto dei cittadini giapponesi.

Per un lungo periodo si è supposto che gli Ainu fossero gli aborigeni del Giappone, ricacciati gradualmente sempre più a nord via via che popolazioni di ceppo mongoloide arrivavano dalla Corea con la loro agricoltura figa, i loro cavalli e le loro belle armi di ferro.

Queste teorie non sono più attuali, ma ad ogni modo, gli emishi erano Ainu?

La risposta veloce è

Fact Check: Was there an increase in Violent Crime in Colorado ...

La risposta lunga è, comunque no, ma facciamo un minimo di chiarezza.

E’ importante notare che la cultura Ainu ha ricevuto riconoscimento e tutela solo molto di recente. Gli Ainu di oggi sono i sopravvissuti della feroce politica di assimilazione attuata a partire dal governo Meiji. E con “assimilazione” intendo un tentativo pianificato e sostenuto di cancellare del tutto la popolazione, via soppressione della cultura, distruzione dei luoghi di culto, violenza omicida e stupri sistematici.

Gli Ainu di oggi portano l’eredità delle atrocità commesse contro di loro e queste sono ormai parte integrante del loro attivismo culturale, politico e sociale. L’argomento è davvero interessante e merita uno spazio a sé: in questo articolo voglio parlare della popolazione Ainu prima che questo tentato genocidio impattasse in modo così drammatico la loro esistenza. Ci tenevo però a segnalarlo perché se mai vi incuriosisce la cultura promossa dalla comunità Ainu dovete essere coscienti di questo terribile capitolo nella loro storia.

Com’era la situazione prima che il governo giapponese decidesse di uniformare la popolazione?

Cominciamo col dire che differenze tra il sudovest e il nordest del Giappone sono sempre esistite: la ceramica di tipo Jōmon, ad esempio, compare circa 12.500 anni fa in Kyūshū, e procede lentamente arrivando in Hokkaidō solo 8.500 anni fa.

Tradizionalmente il lungo periodo Jōmon è considerato finito quando l’agricoltura (in particolare la risicoltura) diventa un’attività economica centrale, intorno al III° secolo a.C. Questa progressione è accettata per le isole di Kyūshū, Shikoku, e per buona parte di Honshū, ma non per il resto del paese. Più o meno nello stesso periodo in cui avviene la transizione Yayoi, in Hokkaidō e nel nordest di Honshū si passa nel Periodo Zoku-Jōmon (o Epi-Jōmon), ovvero un periodo in cui troviamo un nuovo tipo di ceramica ma che presenta una grande continuità col periodo precedente.

Nusamai type pottery

Ceramica Nusamai datata 2.700-2.400 anni fa e ritrovata nello scavo dell’Abitazione 13 nel sito di Sakaeura II, nel nord di Hokkaidō (dalla collezione di materiali archeologici del bacino inferiore del fiume Tokoro). Il sito di Sakaeura II appatiene alla Cultura di Okhotsk, distintamente non Giapponesi.

Da un punto di vista archeologico, abbiamo quindi una Cultura che si generalizza in quasi tutto l’arcipelago, fino al III° secolo a.C., quando inizia una sorta di “speciazione”, tra la cultura del sudovest e del centro, e quella del nordest e di Hokkaidō. Mentre nel sudovest e nel centro si sviluppa una società stratificata e un primo embrione di stato, in Hokkaidō e nel nordest troviamo tracce di differenziazione sociale (piccoli tumuli con ceramiche Sue e spade di ferro, ecc.), ma nulla che lasci supporre una stratificazione vera e propria.

SakuraeII_House1

Abitazione 1 in Sakurae II, esempio di cultura Satsumon

House3_Hiraide

Abitazione 3 del sito di Hiraide nella prefettura di Nagano (Honshu centrale), esempio di cultura Haji (dal tipo di ceramica del periodo, diffusasi dal IV° secolo d.C.). P1,2,3,4 indicano i buchi lasciati dai pilastri del tetto.

La fase successiva nella storia di Hokkaidō, chiamata Cultura Satsumon (VIII°-XIII° secolo), comprende agricoltura e utensili in ferro, ma anche una spiccata influenza della cultura Okhotsk, smaccatamente marittima. Sia siti Satsumon che siti Okhotsk coesistono per secoli sulle coste settentrionali dell’Isola di Hokkaidō.

Tokoro_chashi

Abitazione 1 dal sito di Tokoro Chashi in Hokkaidō, uno degli esempi meglio documentati di Cultura Okhotsk

Si tratta di Ainu?

In realtà non possiamo davvero parlare di Ainu prima del XIII° secolo.

Ancora negli anni ’70 era oggetto di dibattito se gli Ainu fossero gente Jōmon rintuzzata a Hokkaidō dai Wa meridionali, o gente arrivata nel XIII° dal nord. Aikens e Higuchi ipotizzano che gli Ainu siano diretti discendenti della cultura Satsumon.

Ad ogni modo l’archeologia conferma una divergenza culturale sud-sudovest-centro VS nordest-Hokkaidō, con i due estremi geografici che presentano la più grande diversità.

L’archeologia non è l’unico approccio alla questione: come accennavo nel mio articolo sullo stato, il concetto di “razza” è ormai riconosciuto come il pasticcio pseudoscientifico che è, ma checché ne dicano i “race realists” e altra feccia simile, questo non significa assolutamente che le differenze somatiche tra gruppi vengano ignorate o negate. In altre parole, le differenze somatiche esistono (dato oggettivo), la razza (concetto intellettuale che interpreta tale dato) è stato superato in favore di un approccio nettamente migliore e più scientifico (e che quindi si presta meno a bizzarre interpretazioni politiche).

A questo proposito, Hanihara sostiene che morfologicamente non c’è nessuna differenza tra gli scheletri del periodo Satsumon e i moderni scheletri degli Ainu. In altre parole, la gente di Satsumon aveva già l’aspetto dell’Ainu moderno. In contrasto, il sud-ovest del Giappone mostra, a partire dalla fine del periodo Jōmon, una somiglianza crescente con altre popolazioni del Nord-est Asiatico. Questa somiglianza è particolarmente evidente in Kyūshū e diminuisce progressivamente che ci si sposta verso il nordest dell’isola di Honshū.

In altre parole, la gente del nordest e di Hokkaidō mantiene le caratteristiche somatiche della popolazione Jōmon molto più a lungo rispetto ai gruppi che vivevano in altre regioni.

E che ne è della lingua?

La lingua Giapponese e quella Ainu sono diverse, ma hanno anche similitudini strutturali e lessicali importanti. Secondo Aikens e Higuchi, si tratta in entrambi i casi di lingue Altaiche, e secondo il metodo glottocronologico avrebbero cominciato a separarsi tra i 5.000 e gli 8.000 anni fa (più o meno quando il Giapponese iniziò a distinguersi dal Peninsulare da cui deriva anche il Coreano). I dialetti regionali odierni sono pure separabili in due ceppi distinti, che spaccano il paese in Nordest e Sudovest.

The best dialects memes :) Memedroid

Non sembra, ma Americano e Australiano sono lingue molto vicine

In realtà Robbets fa notare che non c’è per niente consenso sulla parentela genealogica del Giapponese, Coreano e altre lingue Trans-Eurasiatiche. Cioé, è apparente che Giapponese e Coreano sono legati, e pare che le lingue Tungusiche delle regioni vicine siano il parente prossimo più probabile, ma queste similitudini sono genealogiche (queste lingue hanno un antenato in comune) o semplicemente frutto della vicinanza geografica e dell’inevitabile meccanismo di appropriazione?

Nota rilevante: quando si parla di “lingue Altaiche” non si intende che gli Altai furono effettivamente la regione di origine di questa comunità linguistica. Già negli anni ’20 il linguista Ramstedt, un colosso della linguistica altaica, situa la possibile zona di origine  più a est, sui monti Da Hinggan.

Nel 1996 Juha Janhunen ipotizzò che, nonostante Mongolo, Tunguso, Coreano e Giapponese non fossero geneticamente legate, le comunità linguistiche rispettive avevano probabilmente origine nella stessa zona geografica che va dalla Corea alla Manciuria Meridionale. Da un punto di vista culturale, queste comunità sarebbero legate a quella che è definita oggi la Cultura di Hongshan.

Hongshan

Zona della Cultura di Hongshan

La comunità linguistica del proto-Giapponese e proto-Coreano sarebbe situata nel nord della Penisola Coreana.

Secondo Robbets esiste bel et bien una relazione genealogica tra il Giapponese, il Coreano e altre lingue Trans-Eurasiatiche (chiamate anche Altaiche). In altre parole, la lingua dei Wa e quella dei coreani sono strette parenti.

Pin on Owls and Pussycats

 

Quindi, che conclusioni possiamo trarre?

Già dagli inizi del periodo Jōmon notiamo delle differenze economiche e culturali tra la gente che viveva nel nordest di Honshū e Hokkaidō, e quella che viveva nel sudovest di Honshū e Kyūshū (Shikoku compare sempre pochissimo perché, per qualche oscura ragione, non se la fila mai nessuno!). Somaticamente la popolazione sembra molto uniforme nell’Arcipelago. E’ molto probabile che, oltre alle differenze culturali, economiche e religiose, i vari gruppi parlassero lingue diverse ma vicine tra loro.

Dalla fine del Periodo Jōmon iniziamo a notare una distanza progressiva sia a livello culturale che economico che politico che somatico.

Secondo Hanihara, gli isolani del periodo Jōmon, gli Ainu e gli abitanti delle isole Ryūkyū sarebbero geneticamente distinti dalla popolazione agricola del Periodo Yayoi e dai giapponesi moderni. In particolare, i geni della gente Jōmon e Ainu mostrano spiccate similitudini col genoma degli abitanti del Sudest Asiatico, mentre la gente Yayoi e i moderni giapponesi sono geneticamente simili a popolazioni del Nordest Asiatico.

Esistono anche nette differenze morfologiche tra la popolazione Yayoi e quella Jōmon. Stando agli scheletri, possiamo ipotizzare che la gente Jōmon fosse probabilmente alta di media 1,50m, con spalle larghe e una struttura robusta, nasi pronunciati e denti piccoli. La gente Yayoi pare avesse un’altezza media di 1,60m, fosse più slanciata, con nasi più piccoli e denti più grandi.

Questo supporta la teoria di ondate di immigrazione che si intensificano agli inizi del Periodo Yayoi e che avrebbero spinto la gente Jōmon verso la periferia.

Occhio però: c’è stata anche tanta mescolanza, e Hanihara non suggerisce assolutamente che Giapponesi e Ainu siano due popolazioni perfettamente distinte. Al contrario, i Giapponesi moderni hanno, chi più chi meno, similitudini con gli Ainu. In altre parole, gli Ainu derivano dai Jōmonesi, mentre i Giapponesi derivereddero da una commistione (più o meno importante) di Jōmonesi e immigrati continentali del Periodo Yayoi. Le similitudini tra Giapponesi e Ainu aumentano nelle regioni nordorientali di Honshū, dividento il paese in due regioni etniche tra Kyūshū e Hokkaidō, con una vasta zona grigia nel mezzo. La regione del nordest di Honshū e Hokkaidō mantengono una maggiore continuità col Periodo Jōmon per un lasso di tempo più lungo che non la regione del sudovest, che aveva frequenti e vivaci contatti con la penisola coreana e la Cina.

Un’ulteriore divisione avviene a partire dall’VIII° secolo: in Hokkaidō appare la cultura Satsumon, mentre il nordest di Honshū è progressivamente colonizzato da gente della regione centrale e meridionale. Come accennato a inizio articolo, questo si è accompagnato a migrazioni, deportazioni e guerre. Ciò nonostante, come abbiamo visto, la popolazione del nordest di Honshū non viene del tutto assimilata dai Wa: mantengono tratti linguistici, somatici e culturali nettamente distinti da quelli della regione centrale. Allo stesso tempo, adottano caratteristiche delle popolazioni centromeridionali, differenziandosi dagli Ainu di Hokkaidō ma sensa essere del tutto assorbiti dai Giapponesi meridionali.

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Quindi, tornando alla nostra domanda: gli emishi  sono Ainu?

No, gli emishi vengono prima degli Ainu.

Gli emishi e gli Ainu hanno origini comuni?

Sì. In realtà pare proprio che tutti gli abitanti delle isole giapponesi siano discendenti dei Jōmonesi, e che si siano sviluppati in modo diverso a seconda delle correnti culturali e migratorie a cui erano soggetti.

Quindi con emishi si intende un qualche tipo di gruppo proto-Ainu, in opposizione coi Wa della regione centro-meridionale?

No.

Possiamo affermare con relativa sicurezza che il nordest era abitato da gente diversa dal sudovest.

Ma è importante ricordare che emishi è un termine politico, non etnografico.

Come abbiamo visto, esistono varie tradizioni culturali, somatiche e linguistiche nell’arcipelago giapponese. Il termine “emishi” non indica un gruppo particolare, ma una regione. In principio, indicava “quelli che non sono sudditi del re di Yamato”, con gli anni lo troviamo affibbiato anche a funzionari del governo, che magari erano “discendenti di quelli che non sono sudditi del re di Yamato”.

In altre parole, gli “emishi” sono i “barbari orientali”.

Da un punto di vista etnico, la sola cosa che possiamo dire di loro è che i futuri Ainu discendono da (alcuni degli) emishi, ma non tutti gli emishi erano proto-Ainu.

Emishi comprende proto-Ainu, ma anche immigrati coreani provenienti dalla federazione di Gaya, o dal regno di Silla, o addirittura dal temuto regno di Goguryeo, comprende sudditi di Yamato che si sono dati alla macchia, gente che ha vissuto nel nordest per millenni, e gente che è arrivata dal Kantō per non dover sottostare al nuovo governo centralizzato.

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Non abbiamo modo di definire gli emishi con certezza. Le uniche fonti che ne parlano sono quelle di Yamato, che usano la parola “emishi” con lo stesso vago razzismo inconsistente con cui certi mentecatti italiani usano la parola “rifugiato”. Sembra che si stiano riferendo a qualcosa di specifico, ma nei fatti il significato assegnato alla parola è “quell’orda di gente aliena in contrasto con noi, società civile ed evoluta”.

E’ probabile che gli Yamato abbiano adottato questo tipo di tono e narrativa dai Cinesi. Nello Shan Hai Ching (山海経), il Classico delle montagne e dei mari, opera già in circolazione al tempo degli Han Occidentali (206 a.C.-9d.C.), compare il termine “毛民”, letteralmente “popolo peloso”, riferito a un popolo barbarico del nordest, che abita in delle isole del Pacifico ed è descritto come basso, peloso, primitivo, che vive in case scavate nel terreno.

Sounds familiar?

Uno dei termini che i Giapponesi usarono per riferirsi ai “barbari orientali” o emishi è ebisu “毛人”, “gente pelosa”, o mōteki “毛狄”, “nemici pelosi”.

Familiar yet?

In realtà i termini giapponesi si distinguono in senso ed uso da quelli cinesi, ma è possibile che lo Shan Hai Ching o la tradizione cinese in generale siano la fonte d’ispirazione per la scelta di detti termini.

Questo non significa che Ainu ed emishi non avessero nulla a che fare. Al contrario, hanno molto a che fare ed esistono importanti continuità culturali, linguistiche e somatiche tra gli abitanti del nordest e gli Ainu.

Il punto è che la realtà culturale ed etnografica dell’Arcipelago Giapponese è molto più complessa di un semplice Giapponesi VS Ainu.

Tra VIII° e XIII° secolo, periodo della “pacificazione” della regione nel nordest di Honshū, possiamo stabilire che gli emishi avevano sì tratti comuni con gli Ainu, ma pure tratti comuni con i Wa della regione centrale, e benché non si fossero coalizzati in una società stratificata di tipo statale come la corte di Yamato, il loro livello tecnologico era più o meno lo stesso di quello delle truppe imperiali.

Quanto alla loro organizzazione economica, c’erano ovvie differenze con le attività delle regioni più calde, ma gli emishi praticavano l’agricoltura, estraevano il ferro e allevavano cavalli proprio come i loro antipatici vicini colonizzatori (probabilmente allevavano più cavalli perfino, ma questa è un’altra storia).

Da quello che possiamo estrapolare, gli emishi erano stanziati in vari territori che gli imperiali chiamano mura, e organizzati su base clanica o tribale, in gruppi che potevano federarsi o dissolversi a seconda delle necessità, e che non di rado erano in guerra tra loro. In altre parole, un’organizzazione non troppo diversa da quella che si suppone aver caratterizzato il resto del Giappone prima del processo del secondary state formation che ha portato al regno di Wa.

Re_Yamato

Il re di Wa secondo le haniwa funerarie

E’ più che probabile che questo discorso sugli emishi non sia più attuale di qui a qualche anno. Le uniche fonti scritte di cui disponiamo sono estremamente parziali e povere in dettagli. Non solo: a differenza della Cina, la corte giapponese non ci ha lasciato nessuna opera “etnografica” degna di questo nome. Non solo non abbiamo testimonianze dirette, ma non abbiamo nemmeno un punto di vista esterno che sia ragionevolmente neutrale: la letteratura di questo periodo è estremamente politica.

Con il progresso della scienza, delle tecniche archeologiche e delle metodologie sociologiche ed etnografiche, è molto possibile che il nostro punto di vista su questa strana gente nordorientale cambi ancora, come già è avvenuto in passato.

Ora, volevo concludere col caveat che questo si tratta di un articolo molto superficiale sull’argomento, e che siete invitati ad approfondire, e che il dibattito storiografico non si conclude mai.

Ma ho di recente visto l’ennesimo video di un Tuttologo cianciare di Neomarxismo Postmodernista (se vi sembra una contraddizione in termini, non siete i soli), di come nelle Università sia praticamente IMPOSSIBILE dibattere di cose e di come tutti, studenti e ricercatori, DEBBANO confermarsi all’immutabile e definitiva sentenza dell’”accademia”.

E sapete che? Mi garba questo fantasioso mondo alternativo.

Quindi scordate gli ultimi paragrafi: Io sono il vostro profeta, ogni singola parola da me scritta è assolutamente corretta perché l’ho detto io, chiunque non sia d’accordo è Nazista e, per citare Karl Marx: “be gay, do crime!”.

MUSICA


BIBLIOGRAFIA

AIKENS Melvin C., HIGUCHI Takayasu, Prehistory of Japan, Academic Press, Londra, 1982

CRESCENTE Nadia. “Il Nord del Giappone verso la conversione agraria. Le più recenti indicazioni archeologiche.” Il Giappone, vol. 40, 2000, pp. 5–36

FRIDAY Karl F. “Pushing beyond the Pale: The Yamato Conquest of the Emishi and Northern Japan.” Journal of Japanese Studies, vol. 23, no. 1, 1997, pp. 1–24

HANIHARA Kazuro. “Emishi, Ezo and Ainu: An Anthropological Perspective.” Japan Review, no. 1, 1990, pp. 35–48

INOUE Mitsusada, SAKAMOTO Tarō, IENAGA Saburō, ŌNO Susumu, Nihon shoki (jō, ge), Iwanami Shoten, Tōkyō, 1968, Keiko 27/2; Saimei 5/10 int.

ROBBETS Martine, “The historical comparison of Japanese, Korean and the Trans-Eurasian Languages”, in Rivista degli Studi Orientali, vol. 81, n.1/4, 2008, p.261-287

SASAKI Kaoru, Ainu to « Nihon », Yamakawashuppansha, Tōkyō, 2001

TAKAHASHI Takashi, Emishi, Chūkō shinsho, Tōkyō, 1989

YAGI Mitsunori, Kodai emishi shakai no seiritsu, Dōseisha, Tōkyō, 2010

La collezione di materiali archeologici del bacino inferiore del fiume Tokoro

 

 

 

Dello Stato: dotti bisticci su uova e galline

Sono passati mesi dal mio ultimo articolo. La ragione principale è una full immersion nella mia tesi dottorale, che dovrò ben finire un giorno o l’altro. Oh my, non vedo l’ora di raggiungere la crescente schiera di disoccupati ultraqualificati sotto i ponti di Parigi!

Per questo articolo, l’idea in principio era di scrivere una lungagnata mostruosa sullo stato di Yan o sul misterioso regno di Buyeo, dove i morti sono accompagnati da maschere di bronzo che urlano per sempre nel buio.

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Maschere mortuarie dal sito di Maoershan, National Museum of Korea, Seoul

Tutta roba molto figa, però mi sono resa conto che per una comprensione migliore era necessario un verboso e noioso preambolo sui termini impiegati dalla storiografia e dall’archeologia. Uno dei concetti che cicciano fuori sempre quando si parla di Buyeo (o anche di Wa) è quello di stato.

Quando una società primitiva si trasforma in Stato, perché, come?

Tutti impieghiamo il termine “stato”, di rado ci poniamo la questione del significato. Quindi oggi parleremo di questo: cosa chiamiamo stato? Come nasce e perché?

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Questions!

Lo stato: un appassionante dibattito sui termini

Prima d’impelagarci sulla natura dello stato è necessario introdurre prima il concetto di polity.

Polity viene definita da Yale Ferguson e Mansbach Richard come una qualsiasi entità politica o gruppo di persone aventi un’identità collettiva, che siano in grado di smuovere risorse e che siano organizzati in una qualche forma di gerarchia istituzionalizzata.

Spesso il termine polity viene impiegato per indicare gruppi umani organizzati senza sbilanciarsi troppo attribuendo loro caratteristiche anacronistiche o scorrette.

Anche il termine polity può però essere anacronistico, dacché presuppone un senso di identità collettiva. A che punto possiamo dire che un gruppo mostra segni di identità collettiva e cosa vuol dire “identità”?

Il principale problema quando si studiano gli esser umani è che non sono animali: non agiscono in base a condizioni oggettive, ma si comportano in buona parte sulla base di percezioni e sentimenti. E le percezioni e sentimenti non lasciano chiare tracce archeologiche.

Da un punto di vista meramente materiale, la razza umana è un continuum: possiamo riconoscere tratti etnici o culturali comuni, ma non possiamo identificare netti confini o usare detti tratti per isolare scientificamente una popolazione dall’altra. In altre parole, la realtà non è un Fantasy per adolescenti: le razze non esistono.

Quella che però esiste è l’identità. Esistono gruppi che si identificano come separati da altri. Questa distinzione non ha necessariamente base su dati oggettivi, ma ha effetti sulla realtà oggettiva, il che la rende reale.

In Storia si cerca di aggirare questo spinoso problema basandoci sul concetto di culture piuttosto che su quello di etnie.

Abbiamo “la gente della ceramica Mumun”, “quelli che fanno i tumuli a forma di buco di serratura” o “quelli che coltivano il riso in risaie allagate”. Il vantaggio è che ci possiamo basare su cose che la gente fa, che è il meglio che si possa sperare in contesti dove gli uomini non hanno lasciato documenti scritti in cui parlano della propria identità.

Ovvio, questo approccio porta con sé il suo ballino di problemi: una cultura archeologica è una convenzione diagnostica che riguarda particolari set di cultura materiale (come detto, il tipo di ceramica, o di arma, ecc.).

In archeologia occidentale c’è stata in passato la tendenza a dare per scontato che la gente all’origine di una determinata cultura archeologica in una determinata regione appartenesse anche a una determinata etnia.

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Ceramica Mumun, esempio di cultura archeologica coreana

In altre parole, se nella valle dell’Arno venivano trovati piselli di terracotta fabbricati nella stessa maniera e associati alla stessa forma di capanna di fango, si supponeva che la Gente dei Piselli fosse tutta della stessa etnia (il Popolo dei Glebani, per esempio).

Questo approccio cultura dei piselli = popolo dei piselli è ancora vero per certi archeologi cinesi. E si capisce: è comodo. Ho dei dati oggettivi che mi dicono che questa gente faceva la stessa roba (per lo meno in certi ambiti), magari i resti umani che ho si somigliano pure, ne deriva che sono la stessa gente!

E’ qui che la percezione e l’identità entrano in gioco.

Per restare in toscana, Fiorentini e Pisani hanno più o meno lo stesso aspetto, mangiano roba simile, costruiscono case simili e parlano lingue molto affini (ho sentito che ogni tanto si accoppiano pure tra di loro). Resta però il fatto inoppugnabile che Pisa merda.

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Scherzi a parte, non ha davvero importanza se ‘sta gente cucina, costruisce muore allo stesso modo: se si considerano di gruppi diversi questo avrà un effetto sulle loro azioni e sulla loro storia. Non solo: molti elementi culturali lasciano poche tracce archeologiche (musica, filosofia, credenze, dialetti, ecc).

Più etnie possono condividere la stessa cultura archeologica, o una sola etnia può manifestare numerose culture archeologiche. Insomma, questa corrispondenza cultura/etnia non può essere data per scontata.

Ma cosa si intende per etnia?

Nel 1969 Barth Fredrik propose che per delimitare un gruppo sociale l’accento non doveva essere messo sui tratti culturali, ma sugli ethnic boundaries, le delimitazioni etniche. Queste delimitazioni, questa identità etnica, sarebbe secondo Barth qualcosa che persiste attraverso diverse culture e sopravvive a fenomeni come le migrazioni.

La caratteristica dell’identità etnica è che non nasce da sé. Non esiste da sola: è qualcosa che viene sempre elaborato in funzione di qualcos’altro.

L’identità si costruisce in opposizione a qualcosa o a qualcuno. Si conviene che il nostro gruppo ha determinati attributi che gli altri non hanno (o hanno in modo diverso), e questo a prescindere dalla forma dei pitali o delle tombe.

Nel 1986 Smith Anthony ha offerto una definizione utile di etnia: si tratta di una comunità accomunata da un senso di unicità culturale e comunione storica:

A named human population with shared ancestry and myths, histories and cultures, having an association with a specific territory and a sense of solidarity. (The Ethnic Origins of Nations)

Una determinata popolazione umana che condivida ascendenze e miti, storie e culture, che abbia un’associazione con un territorio specifico e un senso di solidarietà.

Notare il miti e le storie: la narrativa è il modo con cui le società umane costruiscono il proprio mondo (o per lo meno la visione che ne hanno, che nella pratica è la stessa cosa).

Che conseguenze ci sono quindi per gli archeologi?

Gli esseri umani esprimono la propria identità attraverso la propria cultura materiale. Deve esserci un modo di raccattare indizi basandosi sui resti!

Dagli anni ’70 l’archeologia occidentale ha cercato di correggere il tiro individuando non tanto elementi culturali, ma insiemi significativi di elementi culturali e lo stile (stile inteso come la forma e non la sostanza di un oggetto) di detti elementi.

Lo stile diventa particolarmente riconoscibile quando si ha a che fare con società-stato, o per usare un anglicismo state-lever societies.

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Il tumulo attribuito all’Imperatore Nintoku. La forma, la taglia delle tombe e la ricchezza e qualità del corredo funerario sono indicatori molto usati per elaborare ipotesi sulla società Wa di prima dei Codici

Lo stato non è sempre stato un termine ben definito in Scienze Sociali.

Cohen ha individuato 3 tipi di definizione di stato, che optano per porre l’accento su 3 caratteristiche diverse:

  • Le definizioni basate sulla stratificazione sociale: mettono l’accento sulla correlazione tra l’emergere dello stato e la nascita di una società a classi stabili. Una stratificazione in classi presuppone che gruppi diversi godano di un diverso accesso alle risorse.
    Il primo ad articolare un discorso moderno sull’argomento è Rousseau, ma è il magico duo Marx-Engels ad avere l’impatto maggiore. Per quelli che sposano questo tipo di definizione, lo stato è il frutto di una società stratificata in cui la classe dirigente ottiene il controllo dei mezzi di produzione. Lo stato è elaborato per mantenere questo controllo e difendere i privilegi dell’élite.
    Fried Morton sposa questa posizione: per lui lo stato è un sistema di governo centralizzato che emerge inevitabilmente da un sistema di ineguaglianze istituzionalizzate in cui i capi hanno un accesso privilegiato alle risorse.

  • Le definizioni basate sulle strutture dello stato stesso: questo approccio si rifà a pensatori del XIX° come Herbert Spencer, Lewis Henry Morgan e Henry Maine. E’ stato ripreso a inizio XX° da gente come Hobhouse, Wheeler e Ginsburg, che definiscono lo stato come un sistema di relazioni di autorità gerarchiche in cui le unità politiche locali perdono autonomia e finiscono subordinate a un’autorità centrale.
    Cohen schiaffa nella stessa categoria le definizioni offerte da Wright e Johnson, che si focalizzano sul mezzi attraverso cui l’informazione è processata in uno stato. Adams invece mette l’accento su come l’energia è ottenuta e usata dal governo centrale. Per costoro le interazioni sociali sono transazioni o flussi di informazioni in cui strati più alti decidono e influenzano strati più bassi. Questo approccio è particolarmente usato dagli archeologi per trovare indicatori e poi catalogare le società sulla base di come trasferiscono informazioni o su come ottengono e distribuiscono l’energia.

  • Infine ci sono definizioni a posteriori che si concentrano su tratti diagnostici: quali sono gli elementi che accomunano i primi stati centralizzati? Il problema di questo approccio è che non si può ottenere un set standard di caratteristiche che sia applicabile a più di un pugno di società. Alcune fanno sacrifici umani altri no, alcuni chiedono totale fedeltà altri lasciano spazio alla semi-subordinazione, ecc.

Ma come si arriva allo stato?

In generale gli studiosi convengono che c’è una progressione da una società più semplice verso una società più complessa.

In antropologia occidentale, i modelli tassonomici principali sono quelli di Service e Fried.

Tra parentesi, questi due non erano d’accordo su un sacco di cose ma scrivevano comunque libri insieme. E’ uno spasso!

(Vabé, mi diverto male, ma se non mi divertivo male col cazzo che finivo in dottorato).

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Il modello di Service ipotizza un’evoluzione dalla banda, alla tribù, al chiefdom (il livello sopra quello puramente tribale, con un territorio controllato da un capo principale) e infine lo stato.

Per Fried, che riprende le teorie di Engels di lotta tra classi, si passa da un contesto primitivo con una società relativamente egalitaria e si procede verso società sempre più complesse: società a ranghi, società stratificata e società statale.

Personalmente non amo troppo il termine “egalitario” quando si parla di società umane, che sono sempre gerarchiche in una qualche misura. Quello che però si intende qui non è tanto che i Cromagnon fossero una democrazia, quanto che c’è una differenza sostanziale tra un anziano nel gruppo di cacciatori raccoglitori che funge da memoria storica del gruppo, e un re Yamato che può smuovere decine di migliaia di operai per costruire la sua tomba monumentale.

C’è anche da notare che la differenza tra una società complessa non statale e una statale non è netta.

Per Cohen il tratto che distingue lo stato da altri tipi di organizzazioni è la capacità della società statale di restare unita.

I non-stati tendono a spaccarsi in unità simili tra loro: una banda cresce fino a un certo punto, oltre il quale un gruppo decide di staccarsi e allontanarsi, costituendo una nuova banda simile alla prima. Stesso vale per le tribù e i chiefdoms. Lo stato è l’unica struttura che invece è costruita per resistere a questa tendenza centrifuga. Lo stato si può espandere senza dividersi, fagocitare altre polities, diventare eterogeneo e crescere senza i limiti stringenti di strutture meno complesse.

Questo perché lo stato ha la capacità di coordinare lo sforzo umano in azioni collettive di portata generale. Per ciò fare, lo stato evolve una classe dirigente o burocrazia governativa. I burocrati, come gerarchia ufficiale, fungono da collante tra i non-funzionari e il regime.

Nei chiefdoms la situazione è differente: anche loro possono avere funzionari e centri di organizzazione del potere, ma ogni nodo della rete è una replica dell’ufficio al centro del sistema. Quando la pressione è troppa, i nodi possono spezzarsi e sono già strutturati per essere repliche indipendenti capaci di eseguire funzioni governative.
Al contrario, negli stati antichi i funzionari al centro hanno funzioni uniche che non vengono svolte da nessun altro nel sistema. I centri di potere locali sono costruiti sul modello di quello centrale ma non ne sono una replica.

Byington cerca di offrire una definizione complessiva di stato: è una polity complessa, caratterizzata da una significativa stratificazione sociale, con almeno 2 classi (i governanti e i governati), un governo centralizzato con una burocrazia professionale, un corpus di leggi e un monopolio dell’uso legittimo della forza.

Ma viene prima la società stratificata, o la stratificazione è un effetto dello Stato?

Nasce prima l’uovo o la gallina?

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Nasce prima il Tuatara

Ci sono due modelli principali su come lo stato nasce: il modello di Service mette avanti l’integrazione e la cooperazione organizzata tra diverse parti della società; Fried d’altro canto mette avanti il conflitto, la lotta e la forza coercitiva dello stato.

Per chi spinge la teoria del conflitto, la centralizzazione deriva dalla competizione: gruppi lottano per il controllo di risorse limitate e alla fine uno dei contendenti vince stabilendo il controllo (almeno per un periodo) sulle risorse. Il punto è l’ineguale accesso alle risorse.

Per Fried l’ineguale accesso alle risorse è ESSENZIALE per la formazione di uno stato: un gruppo conquista l’accesso privilegiato a una risorsa e si trova quindi nella necessità di difendere detto accesso. La centralizzazione e il potere repressivo che mantiene la stratificazione sociale sono elaborati a questo scopo.

Fried distingue inoltre tra primary (pristine) states, ovvero stati che si sono spontaneamente evoluti, e secondary states, ovvero stati che si sono evoluti sotto l’influenza di stati vicini preesistenti.

Va da sé, i secondary states sono la forma più comune di state formation.

Service d’altro canto focalizza invece sull’aspetto di integrazione. Sì, lo stato ha conflitti, ma lo stato ha anche una capacità straordinaria di organizzare e coordinare grandi numeri di persone, spesso di diversi background etnici o ecologici. L’idea che lo stato sia tenuto insieme solo o soprattutto dalla minaccia della forza coercitiva da parte dell’autorità centrale è riduttiva: la gente in uno stato spesso supporta lo stato. Per Service quello che tiene insieme lo stato non è la violenza, ma la reciprocità e la legittimità.

Si può argomentare che non esiste legittimità senza una qualche forma di reciprocità, ma questo è un ginepraio per un altro articolo!

Da un punto di vista pratico, Service nota che un governo centralizzato offre protezione e sicurezza, strumenti per gestire le dispute, accesso a risorse in cambio di accettazione dell’autorità.

La principale opposizione tra Service e Fried sembra filosofica e porta sullo stato stesso, visto come un’entità benefica che richiede un prezzo per un vantaggio sociale generale (Service) o una struttura oppressiva nelle mani delle classi dirigenti volta a mantenere le classi subalterne nella loro condizione di sfruttamento (Fried).

Dall’alto della mia inesistente esperienza di ricercatrice io dico che entrambe sono vere. Ormai si considera che entrambi i punti di vista hanno limiti e meriti, e una posizione non esclude necessariamente l’altra.

Han Fei (?-233 a.C.), fondatore del Legismo e grande fan dell’uso della forza repressiva da parte dello Stato, perché gli uomini sono belve e solo uno Stato autocratico e severo può impedire ai glebani di sbranarsi tra di loro. Odiava la plebe e morì suicida.

Ma parliamo della storia, di come mai certe società diventano stati altre no.

Come per ogni fenomeno storico, è necessario un contesto che lo renda possibile, ed è necessaria l’interazione di un certo numero di fattori.

Fino agli anni ’70, il discorso accademico ha cercato di individuare i “fattori decisivi”, i prime movers all’origine della statalizzazione. Tradizionalmente questi si dividono in fattori sociali e fattori ambientali. Alcuni esempi di ipotetici prime movers possono essere l’aumento demografico, la circoscrizione di una società in un ambiente definito, una guerra di conquista, lo sviluppo di un complesso sistema di irrigazione, il commercio su lunga distanza, ecc.

Nel 1972 L’archeologo Flannery Kent intervenne nel dibattito su questo miracoloso “fattore catalizzante” criticando l’approccio semplicista alla questione e auspicando una visione più “multi-variabile” che tenesse conto di numerosi fattori contemporaneamente, inseriti in un contesto socio-ambientale.

L’intervento di Flannery fu preso sul serio e nel 1978 Cohen propose un nuovo modello che vede la formazione dello stato come un processo sistemico (ovvero avente un effetto su tutto il sistema/organizzazione) e multi-causale.

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Sta geremiade è quasi finita, tenete duro!

Come accennato prima, Fried ha introdotto la distinzione tra pristine states e secondary states. Nel 1992 Rhee Song Nai propone una nuova categoria, ovvero quella si stato autoctono.

Se il pristine state è un’evoluzione spontanea e il secondary state è l’effetto di una diretta influenza subita da parte di uno stato vicino, come spiegare la formazione di stati in regioni che non erano in diretto contatto con stati preesistenti?

Nella penisola coreana, ad esempio, possiamo constatare che polities si “statalizzano” sotto l’influenza di enti come la Cina dei Wei, pur non subendo una diretta minaccia o un contatto continuo.

Per Rhee, che parlava nello specifico del regno di Goguryeo, lo stato autoctono si forma sotto l’influenza di stati distanti. Alcuni dei fattori in gioco in questo caso sono il commercio su lunga distanza e la circoscrizione.

Il commercio è spesso un elemento importante nella nascita degli stati o nell’evoluzione delle società in generale: il commercio può introdurre una nuova tecnologia che stravolge del tutto le abitudini, può consolidare il potere dell’élite o può provocare uno slittamento del potere (per esempio la nascita di una prospera classe mercantile).

C’è un nesso tra la differenziazione organizzativa di una società e la sua abilità di mantenere reti di scambi commerciali: per esistere, il commercio necessita surplus, concentrazione dei beni, logistica, ecc.

Per quanto riguarda la circoscrizione, il termine indica un limite al territorio o all’accesso alle risorse. Se queste limitazioni portano a urti coi vicini, questo può incoraggiare il senso di identità di cui parlavamo a inizio articolo o anche a una centralizzazione dell’autorità (un’autorità centralizzata semplifica l’organizzazione della difesa).

Le pressioni esterne possono controbilanciare le tensioni interne a una società, spingerla a stratificarsi e statalizzarsi. Niente di meglio di un nemico per stimolare il senso di identità. Come dice Byington, the clear notion of “us” depends largely on a “them” to which draw contrast.

La pressione esterna, la scarsità di risorse, la necessità di organizzare e gestire strutture complesse come commercio o irrigazione sono tutti fattori capitali nella creazione di uno stato, pristine, secondary o autoctono. Nessuno di questi elementi è però sufficiente, preso da solo.

Come tutto ciò che riguarda le società umane, non esiste una formula matematica sempre applicabile.

Esistono mille tipi di autorità e strutture sociali, e le loro forme sono determinate da innumerevoli fattori (ambiente, storia, cultura, livello tecnologico, mezzi di produzione, ecc.). La natura delle società fa sì che di solito è impossibile determinare con certezza cosa sta influenzando cosa: se è il commercio a incoraggiare la stratificazione sociale e la specializzazione o se il commercio si sviluppa perché c’è stratificazione e specializzazione.

Personalmente trovo che la discussione sull’uovo e la gallina abbia un interesse relativo: questi fattori si influenzano l’un l’altro, evolvono e cambiano insieme.

A parer mio la costante che caratterizza ogni forma gerarchica umana non è tanto il potere coercitivo o l’accesso privilegiato a risorse strategiche (che, to be fair, sono spesso fattori), quanto la legittimità del potere politico.

Le società sono adattamenti evolutivi e hanno determinato la nostra sopravvivenza in un mondo dove quasi tutto cercava di ucciderci. Ma le società si basano principalmente su una serie di convenzioni. Anche il sentimento identitario, alla fine, non è che un accordo su un certo numero di convenzioni.

Il fatto che siano convenzioni non le rende meno importanti: una convenzione può essere inventata di sana pianta e basata sul nulla assoluto, ma il fatto che sia condivisa da un certo numero di individui fa sì che abbia un effetto, e quindi sia reale.

La legittimità è pure una convenzione, a mio modesto parere tra le più arcaiche e radicate nella nostra psiche.

La legittimità può essere costruita, manipolata o minata, ma nessuna classe dirigente ha mai avuto un controllo totale e duraturo su di essa. La legittimità del potere politico è la chiave di volta necessaria a tenere insieme e una qualsiasi gerarchia, e abbiamo numerosi esempi di classi dirigenti che, pur avendo il monopolio del potere coercitivo, non sono riuscite ad evitare lo sgretolamento della loro società. La legittimità è quella cosa che i cinesi chiamavano il Mandato del Cielo.

Ma questo è argomento per un altro verboso articolo!

Per ora mi limito a parlare di stato, che ritengo di aver punito a sufficienza i miei lettori (per ora!).

WE ARE BACK IN BUSINESS BITCHES!

MUSICA!


Bibliografia

BYINGTON Mark E., The Ancient State of Puyo in Northeast Asia, Harvard University Press, Cambridge, 2016, p.279-306

COHEN Ronald et SERVICE Elman R., Origins of the State : The Anthropology of Political Evolution, Institute for the Study of Human Issues, Philadelphia, 1978

WEBSTER David, “Warfare and the Evolution of a State: A Reconsideration”, in American Antiquity, vol.40, n° 4, Cambridge University Press, Cambridge, 1975, p.464-470

Letture aggiuntive

BARTH Fredrik, Ethnic Groups and Boundaries, 1969

FLANNERY Kent, “The Cultural Evolution of Civilization”, in Annual Review of Ecology and Systematics 3, 1972

FRIED Morton, The Evolution of Political Society: an Essay in Political Anthropology, 1967

RHEE Song Nai, “Secondary State Formation: The Case of Kuguryo State”, in Pacific Northeast Asia in Prehistory: Hunter-Fisher-Gatherers, Farmers, and Sociopolitical Elites, 1992

SERVICE Elman, Primitive Social Organization: An Evolutionary Perspective, 1962

VERMEULEN Hans e GOVERS Cora, The Anthropology of Ethnicity: Beyond “Ethnic Groups and Boundaries”, 2000