The look of silence

Adi è un oculista, sta misurando la vista di un uomo anziano. Gli fabbricherà degli occhiali su misura, e lo farà gratis. In cambio, il vecchio ha accettato di parlare con lui davanti a una telecamera.

Il fratello maggiore di Adi è stato assassinato durante il genocidio in Indonesia. E’ stato arrestato, trascinato in mezzo al niente e preso a coltellate. E’ riuscito a scappare e tornare a casa. Ferito e senza via di fuga, non ha potuto fare altro che aspettare insieme ai genitori, aspettare che le squadre della morte tornassero a prenderlo e a finire il lavoro. Ha chiesto un ultimo caffé a sua madre, ma gli squadristi sono arrivati prima che potesse berlo.

Adi è nato due anni dopo. Non ha mai conosciuto suo fratello, ma è cresciuto col suo fantasma sulle spalle: ogni giorno sua madre racconta delle ultime ore del figlio, il ricordo è un chiodo fisso che la tormenta tutti i giorni da decenni.

Il vecchio che Adi sta esaminando è un membro delle squadre della morte che hanno torturato, pugnalato e affogato suo fratello maggiore.

Alcuni di voi conoscono il documentario The act of killing. Come spiegato nel mio precedente articolo sull’argomento, si tratta, a mio modesto parere, di uno dei migliori documentari mai realizzati nella storia del documentario. Le implicazioni politiche, storiche, tecniche e psicologiche sono tantissime e il film, al di là del suo interesse contingente, è uno sguardo sull’essere umano in generale e su ciò che significa uccidere. The act of killing è una storia universale che chiunque dovrebbe guardare.

Joshua Oppenheimer però non ha finito il suo lavoro: The act of killing non è che la prima metà della storia, ed è seguito da una seconda parte, The look of silence.

Genesi dei documentari, un breve riassunto

Alla tenera età di 26 anni, Oppenheimer cerca di realizzare un documentario su dei lavoratori indonesiani. I tizi sono costretti a maneggiare prodotti chimici molto simpatici che finiscono col dissolverti il fegato e farti morire di lunga e dolorosa agonia. I lavoratori cercano di sindacarsi, ma la cosa è più ardua di quanto possa sembrare.

Uno dei problemi maggiori è che questi lavoratori sono in buona parte discendenti delle vittime dell’eccidio ordinato da Suharto. Il governo indonesiano non ha mai riconosciuto nessuna colpa, anzi, l’organizzazione di paramilitari stragisti usata nella faccenda, Pancasila, è oggi in piena fioritura, ammanicata con generali, politici, funzionari, ecc.

In altri termini, immaginatevi di andare in gita a Berlino e trovare i nazisti ancora al potere.

Il primo progetto di Oppenheimer è quindi di fare un documentario sull’oppressione e l’ingiustizia di cui questi lavoratori sono vittime.

La faccenda non piace ai funzionari indonesiani, che lanciano una politica di intimidazione e rappresaglie fasciste, al punto che Oppenheimer deve sospendere la realizzazione per non mettere a repentaglio la vita di quelli che è venuto ad aiutare.

Che fare quindi?

Il problema viene preso per un altro verso: se Oppenheimer non può raccontare la storia delle vittime, forse può raccontare quella dei loro carnefici. Dopotutto questa gente è osannata dal Paese e gode dello status di celebrità locale.

Il piano funziona. Per anni Oppenheimer segue questi criminali di guerra, li riprende, li ascolta, documenta le loro sparate.

In The act of killing, Oppenheimer segue in particolare Anwar Congo, uno tra i più prolifici assassini di massa oggi in vita. Nel documentario, Anwar e compagni sono intervistati, e poi invitati a rivedere i filmati. La reazione degli assassini a quel punto è straordinaria.

Da The act of killing, Anwar Congo spiega i benefici della musicoterapia

In The look of silence, Oppenheimer va più lontano. In questa parte, i macellai di Pancasila non sono solo messi difronte alla loro stessa immagine, ma si trovano a parlare con una delle loro vittime.

Il documentario

In un’intervista a Vice, Oppenheimer spiega come, quando ha iniziato a lavorare con la gente della piantagione, una cosa lo avesse colpito in particolare. Non soltanto questa gente era ancora schiacciata da squadristi e piccoli capi-regime, ma l’intera comunità pareva incapace di parlare davvero di ciò che è successo negli anni ’60. Non era semplice paura delle rappresaglie. Questa gente era oppressa dal silenzio.

Molte delle persone uccise sotto Suharto erano semplicemente sparite, sgozzate e buttate in fiumi e canali. Le famiglie non avevano mai avuto un corpo da seppellire, un comunicato, niente. Questa gente era scomparsa nel nulla. Sopravvissuti e familiari non osavano quindi parlare di costoro come di morti perché, anche dopo decenni, persisteva un barlume di speranza che, in qualche modo e in qualche luogo, la persona fosse ancora in vita. In altre parole, non solo avevano perso amici e parenti, ma non erano mai stati capaci di fare il loro lutto, di superarlo.

Ancora oggi, la ferita non è richiusa, perché la storia non è mai stata conclusa.

Adi davanti alle interviste degli squadristi

C’è però un’eccezione: un uomo di nome Ramli. A differenza di molti altri, la morte di Ramli è confermata. Ci sono testimoni. Quindi di Ramli si può parlare, perché Ramli è morto davvero. I suoi assassini vivono ancora nello stesso villaggio, accanto alla sua famiglia.

Ramli è il fratello maggiore di Adi.

E’ Adi a proporre una collaborazione ad Oppenheimer: dopo aver visto le interviste fatte agli assassini, vuole incontrare questi uomini e parlare con loro. Vuole fronteggiarli. Spiega ad Oppenheimer che non vuole vendetta o rivalsa: quello che vuole è un’ammissione.

Questa gente ha vissuto per decenni nella stessa zona, sotto gli occhi di sua madre e di suo padre, come se non fosse successo niente. Davanti a Oppenheimer hanno raccontato le loro gesta ridendo e gesticolando. Per anni Adi ha seguito la creazione del documentario e guardato le interviste, ancora e ancora, interiorizzandole, digerendole, e nel 2012 finalmente sa cosa fare. La storia deve essere conclusa.

Adi vuole che questa gente ammetta la propria responsabilità per il crimine che hanno commesso. Vuole che riconosca le proprie azioni. E questo perché Adi vuole poterli perdonare, di modo che le generazioni future (Adi ha due figli) possano ricucire le ferite del paese e vivere uniti, non nel reciproco sospetto e timore.

D’acchito Oppenheimer non ne vuole sentir parlare: è troppo pericoloso. Dopo lunghe discussioni con Adi e la famiglia, tuttavia, cambia idea. Stabilito un modus operandi che riduca al massimo il rischio, l’avventura comincia.

Come in The act of killing, la reazione di questi squadristi è assolutamente affascinante.

Questa gente non rischia nulla: sono al potere, sono osannati dalla società, non corrono alcun tipo di pericolo e qualsiasi cosa dicano non ci saranno ripercussioni. Peraltro, questi uomini hanno già raccontato ad Oppenheimer di come hanno ucciso decine di persone. Cosa ci può esserci di tanto difficile, per gente simile, nell’ammettere l’uccisione di un singolo uomo?

Eppure, quando Adi li interroga, non uno di loro riesce ad ammettere “sì, è vero, ho partecipato, ho ucciso tuo fratello”. Tutti si ritirano. “Non ero davvero io il capo”, “non c’ero”, “non pensavo che pugnalarlo gli avrebbe fatto male”.

Adi parla con uno degli squadristi. Il tizio parta una maglietta con i colori di Pancasila.

Guerra e omicidio di massa sono sempre stati ricorrenti nella Storia e hanno contraddistinto tutte le società umane, da quando i primi Cromagnon cominciarono a sgozzare Mammuth. Tuttavia, c’è qualcosa di profondamente catartico nel momento in cui un uccisore, al di là di ogni contesto e contingenza, riconosce l’umanità di coloro che uccide.

Questo motivo è ricorrente in letteratura: da Ulisse che piange alla reggia dei Feaci ascoltando l’orrore del sacco di Troia, al guerriero Kumagai che esita a uccidere il giovane Atsumori sulla spiaggia di Suma, il combattente che interiorizza per la prima volta il dolore del proprio nemico è un topos rintracciabile in tutto il mondo e in tutte le epoche.

In letteratura occidentale, l’esempio classico più conosciuto viene dall’Iliade: si tratta del dialogo tra Achille e Priamo. In un poema che racconta della guerra in ogni suo aspetto (la gloria, l’orrore, le tante piccole tragedie senza senso, l’eroismo, la strategia, ecc.), il culmine della storia viene raggiunto quando Achille e Priamo sono riuniti nella tenda. Priamo bacia la mano dell’uomo che ha ucciso suo figlio, rinunciando a ogni risentimento. Achille piange, riconoscendo in Priamo la pena che suo padre Peleo dovrà subire (Achille sa che non tornerà mai vivo dalla guerra). Non c’era modo di evitare la morte di Ettore, non c’è modo di evitare quella di Achille, ma in quel momento i due uomini trovano pace.

Questa riconciliazione nel cordoglio, questa catarsi nel dolore, pur non ponendo fine al conflitto, pone fine alla storia: l’Iliade si conclude con i funerali di Ettore, l’”ira di Achille” è finalmente estinta.

Gli uomini intervistati da Oppenheimer non sono personaggi, sono macellai reali e non uno di loro ha il coraggio di assumere una responsabilità personale davanti a una delle sue vittime. Questi uomini non sono guerrieri, sono vigliacchi che la società ha armato e aizzato contro una minoranza.

Non c’è catarsi e non c’è riconciliazione.

Una nota positiva

The look of silence ha avuto un effetto notevole in Indonesia, dove il dibattito sul genocidio è finalmente tornato sulla tavola. Adi e la sua famiglia si sono dovuti trasferire e Oppenheimer non può più rimettere i piedi nel paese, ma nonostante Adi non sia riuscito a ottenere ciò che voleva, il silenzio delle vittime è finalmente stato spezzato. Adesso la bruttura dell’umanità è sullo schermo, alla portata di tutti.

Joshua Oppenheimer e Adi

C’è tantissimo altro in questo film che difficilmente può essere riassunto in un articolo. La varietà e la vastità degli elementi è straordinaria e ogniuno di essi merita attenzione.

Come The act of killing, questo documentario è un bellissimo esempio di cinematografia, e una storia sull’uomo e sulla società. E’ uno sguardo ravvicinato a ciò che di più pericoloso si nasconde nella razza umana: la banalità del male.

L’estetica è magnifica, il contenuto è straordinario, la narrazione eccellente. Come il precedente documentario, The look of silence ha vinto una valanga di premi, tutti meritatissimi.

E’ un bellissimo pezzo che straconsiglio. Guardatelo.

MUSICA!


Pagina wiki del documentario

Intevista di Oppenheimer a Vice

Dibattito pubblico a Berlino

The act of killing

Raccontare storie è un’attività universale di tutte le società. Le buone storie offrono diverse cose: sense of wonder, evasione, divertimento. Non solo però. Raccontare e leggere una buona storia, quale che ne sia il formato, è un modo in cui gli esseri umani cercano di conoscersi meglio e comprendersi meglio.

Ora, anche se si parla di storie di fantasia, gli elementi migliori di ogni buon racconto vengono sempre dalla realtà e dalla comprensione che abbiamo di essa.

Nei generi che mi interessano, spesso si parla di guerra o di uccisioni. E’ normale: il conflitto è ciò che fa una storia, e la lotta all’ultimo sangue è l’immagine ultima del conflitto. Non è quindi da stupirsi se moltissimi personaggi nelle nostre storie si trovano davanti all’atto di uccidere.

L’atto di uccidere ha una carica enorme per gli esseri umani, sia essa simbolica, spirituale o morale. Il modo in cui il personaggio reagisce davanti a tale atto è determinante in una storia.

Ma come renderlo nel modo migliore?

Documentandosi. Come nelle storie di guerra, la documentazione è fondamentale. Meglio comprendi gli elementi di tattica, meglio sarai capace di inventare e descrivere scontri armati. Per l’omicidio è uguale: meglio comprendi l’atto di uccidere, meglio saprai descriverlo in una storia. E sappiamo che la nostra Storia offre innumerevoli esempi di studio, perché la brutalità è parte essenziale della nostra natura, che piaccia o meno.

The act of killing

Il 1 ottobre 1965 l’Indonesia fu teatro di un colpo di stato operato da un gruppo interno all’esercito, il Movimento 30 Settembre. Il colpo fallì in modo epico: già dal 2 ottobre il generale Suharto aveva il controllo di Jakarta e non ci mise molto a reprimere il resto dei ribelli.

La colpa fu buttata sul Partito Comunista Indonesiano (PKI). Quella che seguì fu una colossale purga contro i comunisti e, già che c’erano, contro la minoranza cinese e i javanesi (molti in Java supportavano i comunisti). Il tutto, con la benedizione americana: in piena Guerra Fredda, il comunista buono è il comunista morto. Se poi bruci il suo villaggio e stupri le sue sorelle anche meglio.

E’ difficile calcolare i morti, ma si parla di almeno 500.000, anche se altre stime suggeriscono tra 1 e 3 milioni. In certi casi cittadine fluviali dovettero fare appello ai militari perché i cadaveri intasavano i canali.

L’esercito non condusse direttamente il massacro: più spesso che no, preferì organizzare o incoraggiare milizie locali, gruppi mussulmani o delinquenti di strada. E qui entra in scena Pancasila.

Pancasila è il nome di un’organizzazione paramilitare filo-Suharto attiva già dal ’59. Il nome fa riferimento ai principi fondatori dello stato indonesiano (tra cui “umanità giusta e civilizzata” e “democrazia guidata da saggezza e unanimità”, bwahahahahahah!), ma nei fatti si tratta di un gruppo che organizzava delinquenti e maniaci e legittimava il loro operato. Molte delle squadracce scatenate durante la purga era affiliate a Pancasila.

Ora, la cosa interessante è che oggi, 2015, Pancasila Youth è ancora alive and kicking, con più di 3 milioni di membri e legami importanti con il governo e l’esercito. L’ecatombe degli anni ’60 è tutt’ora un soggetto tabù per certi versi, sdrammatizzato per certi altri. Quando menzionato, se ne parla come dell'”Incidente del ’65”, il numero di morti viene ridotto senza ritegno, tutto nella miglio vena del più becero revisionismo storico.

Tipo, ops, stavamo ripulendo il settore Genocidio e ci è partito un Pogrom. Haha, mani di burro!

E’ in questo clima che, nel 2001, Joshua Oppenheimer arriva in Indonesia, nel nord di Sumatra. Oppenheimer vuole realizzare un documentario sui lavoratori di piantagione (The Globalisation tapes). A oggi, i lavoratori di queste piantagioni temono di organizzarsi in un sindacato, dacché molti sono discendenti di comunisti o presunti tali sterminati negli anni ’60, e sono ancora oggi discriminati. La paura d un possibile pogrom è più forte di quella di una sicura morte per avvelenamento nel maneggiare prodotti chimici dannosi. Alé.

Durante il suo lavoro Oppenheimer si attirò però l’attenzione sgradevole del governo indonesiano. Davanti all’intimidazione, i tizi con cui stava lavorando suggerirono a Oppenheimer di cambiare soggetto: se il governo non lasciava parlare loro, forse non avrebbe posto problemi a un documentario sui carnefici. Oppenheimer avrebbe così potuto portare a galle i soprusi e l’impunità di questi delinquenti, tutto senza attirare folgori indesiderate su se stesso e sui lavoratori di piantagione che, diciamolo, avevano già abbastanza grane così.

Oppenheimer andò quindi a ricercarsi i vecchi membri delle squadracce per scoprire cosa e era stato di loro. Molti di questi vecchi si rivelarono più che disponibili a parlare dei fatti, molti addirittura offrirono di ricreare le scene per la gioia della telecamera. Perché non avrebbero dovuto, dopotutto?Vivono in una perfetta impunità.

Per usare le parole di Oppenheimer, è un po’ come andare in Germania e trovare i Nazisti sempre al potere.

Bada a ciò che fai, Oppenheimer ti vede

Di intervista in intervista, Oppenheimer si è infine trovato in contatto con Anwar Congo, un delinquente con all’attivo più di mille morti. E’ con Anwar che nasce il film vero e proprio.

Il documentario

Anwar Congo esegue una dimostrazione. Il tizio con la testa nel cappio è sempre vivo, per la cronaca. Io comunque mi sarei cagata in mano.

The act of killing non è un documentario sui massacri del ’65. E’ un documentario sugli uomini che li hanno perpetrati e sulla loro vita oggi. Sull’impunità di cui godono loro e i loro famigli, e sul prezzo che hanno pagato in termini di salute mentale.

Come gli altri intervistati, Anwar comincia col portare Oppenheimer sul luogo delle esecuzioni, dove fa una dimostrazione ridendo e scherzando. Solo che dopo, Anwar vede il video. E’ forse la prima volta che si contempla dall’esterno, e quello che vede non gli piace. Bisogna fare qualcosa per migliorare quella scena. Forse i capelli vanno tinti, o i vestiti non sono belli… No, non basta, bisogna girarne un’altra, altre, no, un intero film!

Solo che il problema non è che i suoi capelli sono grigi o che il decoro è scarso. Il problema è che Anwar ha ammazzato più di mille persone e in vecchiaia si trova a fare i conti con l’idea, come molti altri come lui.

Per sette anni, Oppenheimer ha seguito Anwar e la sua cricca di unlikable criminals e osservato la realizzazione della loro grande opera cinematografica.

Herman travestito da donna brandisce la testa mozzata di Anwar. Anwar mostra queste ed altre scene ai nipotini “hihihi, guarda caro, la testa del nonno è tagliata via, haha…”

The act of killing è un documentario su dei criminali invecchiati che cercano di rielaborare una storia, di riraccontare quello che hanno fatto per esorcizzare dubbi e incubi. The act of killing porta sullo schermo il processo mentale di chi cerca scuse per il passato (Anwar e i suoi amici) o per il presente (Herman e gli altri delinquenti di Pancasila).

Questo è uno dei documentari più inquietanti e interessanti che abbia visto di recente, è un ritratto vivido e dettagliato di un assassino di massa e dei suoi successori.

Usare la tua bambina come attrice nella scena in cui bruciate il villaggio e massacrate tutti a bastonate. Pancasila, padri dell’anno dal 1959.

Anwar è chiaramente un uomo di intelligenza mediocre. E’ qualcuno che ha ammazzato stricto sensu centinaia di persone, chi col machete chi strangolato col fil di ferro. E non lo ha fatto per nessuna missione divina o politica, lo ha fatto per soldi. Non è mai stato punito, non è mai stato condannato. L’intera società si è stretta intorno a lui per confermargli che ha fatto bene, e che alla fine il filo di ferro è un modo umano di uccidere (sic).

Eppure il passato torna nella vecchiaia, ti impedisce di dormire tranquillo. Secondo Oppenheimer, la maggior parte dei vecchi assassini sono nelle condizioni di Anwar, e la crassa vanteria non è che un modo per raccontarsi che hanno fatto bene, che sono eroi della Patria. Solo che alla differenza degli altri incontrati, il dolore di Anwar era “più vicino alla superficie”.

Seguire i rimuginii di Anwar è un viaggio nelle scuse: sto male perché ho guardato quel morto negli occhi, sto male perché ho dubbi, ma alla fine ho fatto bene, alla fine ho protetto il Paese, alla fine li ho uccisi bene, alla fine li ho mandati in Paradiso…

Anwar non è l’unico personaggio. E’ attorniato da una compagine di giovani delinquenti di Pancasila, molti dei quali sembrano caratterizzati da un misto di tendenza alla prevaricazione incallita e una strana naiveté. Quando uno degli anziani dice loro che devono smetterla col film perché farà “apparire male” Pancasila, la loro risposta è “ma è successo così davvero”. C’è uno strano candore nel fatto che costoro non capiscono cosa ci sia di male nel bruciare villaggi di comunisti, nel presentarsi alle elezioni col dichiarato proposito di ricattare il prossimo, nell’esigere un pizzo. Questa è la loro realtà di tutti i giorni, nessuno ha mai detto loro che massacrare i cinesi è stato sbagliato o che non va bene taglieggiare qualcuno, quindi perché nasconderlo?

Già, perché?

Adi Zulkadry è un altro personaggio esaminato in The act of killing. A differenza di Anwar, Adi pare molto più articolato e cosciente della realtà, il che lo rende, per certi versi, molto più inquietante. Adi non ha bisogno di raccontarsi troppe storie, ha un atteggiamento molto più cinico rispetto agli altri. Quando gli viene chiesto se ritiene il massacro un crimine di guerra, la risposta di Adi è semplicemente:

“Sono i vincitori che definiscono cosa è crimine e cosa no, e io ho vinto”.

Quando Anwar gli dice che non riesce a dormire e che i morti gli tornano davanti la notte, Adi gli dice:

“E’ perché sei un debole”.

Quando pensate a un uomo che ha strangolato col fil di ferro centinaia di persone, ve lo immaginereste con un cappello da cow boy rosa? Bene, cominciate.

Cappelli rosa e travestiti a parte, la conclusione del documentario è tragica e frustrante. Anwar non riuscirà mai a rendere quella famosa prima scena meno brutta da vedere o da pensare. Ma se hai commesso crimini imperdonabili come fai ad ammetterlo davvero e continuare a vivere? Alla fine certa gente resta incastrata nel proprio inferno, e tutto sommato è giusto così.

The act of killing non è solo un documentario sul pogrom. Per la precisione, non vuole essere un documentario sulle stragi del ’65. The act of killing è un documentario sull’Indonesia di oggi, sul negazionismo e sull’oppressione odierna. E’ anche un documentario sull’uccidere e sulle ripercussioni dell’atto di uccidere sull’individuo e sulla società attorno a lui.

E’ chiaro che lo scopo principale di Oppenheimer è attuale: vuole incoraggiare un cambiamento in Indonesia. Tuttavia non si limita a questo. E’ un trip surreale in uno dei territori più bui della nostra specie. E’ una storia universale e forse il miglior documentario che abbia mai visto sulla mentalità, la vita e la psicologia di uno sterminatore di massa.

Chiunque voglia raccontare una storia di assassini e uccisioni, farebbe bene a guardarsi questo documentario. E chi non vuole raccontare niente farebbe bene a guardarselo lo stesso.

The act of killing è surreale, bizzarro, agghiacciante, triste, frustrante, interessantissimo. Oppenheimer ha impiegato dieci anni di lavoro (7 di riprese e 3 di editing) per realizzarlo, e la mole dell’impresa si nota.

Concluso nel 2012, il documentario ha ricevuto celebrazioni entusiaste nel mondo intero e lanciato una timida discussione in Indonesia (meglio tardi che mai).

Elencare tutti i premi ottenuti dal film sarebbe troppo lungo (c’è una pagina wikipedia apposta). Noto soltanto festival come quello di Berlino, il British academy film awards, lo European film awards, lo Human Rights Human Dignity International film festival 2013, e via così per un totale di 63 premi e 74 nominations.

Guardatelo, è un bellissimo documentario!

Qui il trailer.

La famosa prima scena di Anwar.

Il rogo del villaggio.

Un’intervista a Oppenheimer.

Il documentario intero.

La storia peraltro non è finita. Quest’anno esce una nuova puntata dell’epopea indonesiana con un altro documentario di Oppenheimer, The look of silence.

Buona visione.

MUSICA