150° anniversario dell’inizio dell’era Meiji: una breve e superficiale introduzione

Quando parliamo di Giappone, una delle prime cose a cui la gente pensa sono i robot, seguiti dal porno tentacolare.

La terza cosa a cui pensa, però, è un vago coacervo di “antiche tradizioni”.

Il Sumo, il Judo, l’Ikebana, lo spirito di sacrificio e tutta quell’altra roba che offre tante citazioni fighe per la firma sui forum.

Va da sé, la realtà è sempre più complicata di quanto ci si aspetti di primo acchito.

Il Giappone non fa eccezione.

8° vista di Edo, Utagawa Hiroshige, 1797-1858

Il fatto è che molte delle cose che oggi riteniamo “un sacco tradizionali” sono il frutto di un lavoro immane, zelante, ma soprattutto recente. Ad esempio lo Shintoismo come religione di Stato. Lo Shintoismo di certo è la religione più antica in Giappone, no?

Sì. Ma si è presto mischiata al Buddismo. Lo Shintoismo in quanto fede separata, come viene percepito oggigiorno, nasce nel XIX° secolo.

In altre parole, ha la stessa età di Garibaldi.

E non è l’unico esempio. Pratiche particolari di una regione o specifiche a una certa classe sono state riprese, rielaborate, riplasmate ad arte in un brillante e gigantesco sforzo propagandistico di creazione nazionale.

In breve, a un certo punto il Giappone è stato costretto, baionette alle reni, a entrare nella modernità. Due opzioni si offrivano al “Regno dove il Sole nasce” (cit. Imperatrice Suiko): fare la fine della Cina, o diventare una Nazione.

Il 23 ottobre di 150 anni fa, il principe Mutsuhito inaugurò il proprio regno assumendo il nome di Meiji.

Il coraggio, il cinismo e l’intelligenza dimostrati dagli artigiani del nuovo regime sono straordinari, e personalmente non conosco esempi comparabili alla magnitudine di questa impresa. Questo periodo è tra i più interessanti nella Storia dell’Arcipelago, nel bene e nel male.

In occasione del centocinquantenario, ho voluto dedicare un breve capitolo introduttivo alla faccenda.

Si tratta di un’infarinata minima, quindi non aspettatevi una lista di 15 libri in bibliografia. Questo articolo non vuole essere un’analisi approfondita di questo incredibile momento storico, ma vuole dare gli strumenti minimi per apprezzare la ricorrenza.

E gli strumenti minimi per capire perché L’ultimo samurai fa schifo, ma questa è un’altra faccenda.

Tra gli splendori di Edo c’era anche l’allegra usanza del crocifiggere la gente.

Foto di Felice Beato

Il lento collasso del Bakufu

Con “Bakufu” (Governo della Tenda) si intende il regime militare che governa il Giappone (tra alti e bassi) a partire dal XII° secolo. Nella fattispecie, il Bakufu dei Tokugawa è una dittatura militare di stampo feudale che ha controllato il Giappone dagli inizi del XVII° secolo alla metà del XIX°. 260 anni e passa di governo dei samurai.

Per buona parte di questo periodo, i Tokugawa avevano optato per un rigido (ma non totale) isolazionismo. Avevano chiuso i porti e vietato ai propri sudditi di andarsene in giro, lasciando come unici partners stranieri Olanda, Cina e Corea.

Ci sono stati anche contatti saltuari con Russi, Inglesi, Americani e Francesi, tutta roba insignificante.

La faccenda funziona per un po’, ma tutte le cose belle hanno una fine: verso la metà del XIX° secolo la pressione dei Barbari del Sud (nanban, il simpatico nomignolo che i giapponesi avevano per gli occidentali) si fa più petulante e difficile da ignorare.

Notate che già ai tempi era impossibile per uno staterello isolano tenersi fuori dai giochi internazionali. Eppure certa gente pensa che ciò sia fattibile oggigiorno. Bah.

Ad ogni modo, gli Americani sono la testa d’ariete in questa faccenda. Aprendo i porti giapponesi sperano di potersi guadagnare un comodo scalo verso la Cina e un punto di rifornimento per i pescherecci che saccheggiano il Pacifico.

Questo nuovo interesse internazionale per i porti giapponesi casca in un brutto momento per il Regime. Lo shōgun è malato e senza eredi diretti. Questo pasticcio crea tensione tra il Consiglio degli Anziani (scelto tra i capi dei vassalli ereditari dei Tokugawa) e le varie famiglie con eredi putativi da spingere.

Non solo: una crisi economica latente rosicchia le casse di diversi feudi, un sovrannumero di guerrieri senza prospettive mina la stabilità della quiete pubblica e la scuola di Mito (feudo di uno dei pretendenti, Tokugawa Nariaki) sta ridiscutendo l’intero concetto di legittimità e origine del potere.

Insomma, ci manca soltanto che degli stranieri vengano a ficcanasa-E OH GUARDA, UNA NAVE DI UN BEL NERO ALLEGRIA.

La Nave Nera di Perry

E’ il 1853, e Perry porta una lettera da parte del Presidente, legata in punta a un cannone Paixhans. L’evento è una secchiata di benzina sul focolare della crisi politica.

Per dare un’idea del what the fuck are we even doing che si respirava nella capitale Edo in quei giorni, Francine Hérail cita l’estratto del diario di un funzionario del Bakufu.

La situazione interna del Bakufu è solo vuoto e contraddizione. Vogliamo abolire le regole del Bakufu. Non vogliamo rovinare il prestigio del Bakufu. Tra gli anziani non c’è nessuno che possa trattare con gli stranieri. I preparativi militari sono insufficienti. Nessuno ha il minimo ardore di battersi contro gli stranieri. Non vogliamo rovinare le istituzioni. Il Consiglio non riesce a prendere una decisione.

E mica è finita qui: 3 mesi dopo la simpatica visita di quel bell’uomo di Perry, i nostri si affacciano alla finestra e BAM, navi russe. Anche loro vogliono usare i porti.

Il Capo del Consiglio degli Anziani è Abe Masahiro, e non sa che pesci pigliare. A sua discolpa, è un momentaccio brutto.

Il nostro manda una lettera circolare ai daimyō, i feudatari: vuole suggerimenti su come trattare con gli stranieri, visto che, vi direte, nessuno è davvero così idiota da voler combattere cannoni a proiettili esplosivi con pallettoni di moschetto seicentesco.

Consideriamo però che i grandi vassalli sono a questo punto gente abituata fin dall’infanzia a dare ordini e a vederli eseguiti. Non che essere daimyō fosse particolarmente divertente, ma si tratta comunque di uomini abituati a vedere il resto delle persone scattare come lucertole a ogni comando. Non proprio la miglior base di partenza per chi vuole trattare con potenze più forti ed avanzate.

La risposta dei daimyō è quindi “aprire il Paese ai barbari è assolutamente IMPENSABILE”.

Da notare che Abe aveva fatto qualcosa di rivoluzionario, chiedendo l’opinione non solo dei vassalli diretti dei Tokugawa, ma anche dei daimyō esterni. Questa cosa mandò a fuoco le mutande di non poche vecchie mummie tradizionaliste.

Ci pensate? Per certuni questa misura era scandalo senza precedenti! Va da sé, ‘sta gente non aveva ancora visto niente.

L’arrivo di Perry, Kinuko Y. Craft (1940-)

Abe riceve due tipi di consiglio:

-Tokugawa Nariaki, del feudo di Mito e padre di uno degli eredi putativi, propone: “non possiamo accettare le loro condizioni, ma non possiamo vincere se ci attaccano, ergo la cosa più logica è combattere fino alla morte di ogni singolo sparuto samurai e far esplodere quello ce resta dell’Impero”.

-Ii Naosuke, del feudo di Hikone, propone la rivoluzionaria idea: “cerchiamo di guadagnare tempo, trattiamo, diamogli dei contentini finché non riusciamo a imparare come si fanno le navi quei cosi che sparano robe esplosive, e poi gli si fa un mazzo così!”

Questo presupponeva che gli occidentali fossero abbastanza stupidi da permettere al Giappone di imparare ed acquisire la nuova tecnologia.

Casca bene perché gli occidentali sono effettivamente così stupidi, e lo hanno provato a diverse riprese. Ma che ci vuoi fare, l’arroganza e il razzismo fanno sì che uno possa essere allo stesso tempo un genio tecnico e avere il cervello fermamente avvitato nel culo.

Ma sto divagando.

Nel 1854 il Bakufu firma la Convenzione di Kanagawa, in cui si stabiliscono tre punti principali:

  • Le navi straniere potranno ricevere combustibile (steampower bitches!)

  • I porti di Shimoda in Izu e Hakodate in Ezo (Hokkaido) saranno aperti

  • Le navi in difficoltà che capitano nei paraggi saranno soccorse.

Il tutto col (comprensibile) piano di “impariamo le navi e le cose che fanno BUM, e ributtiamo a mare tutta questa marmaglia palliduccia”.

Tutto bene ciò che finisce bene, vero?

Falso. Il lieto fine è solo il coitus interruptus del casino e viceversa, in un infinito circolo di sollievo e zappate sui piedi.

Mentre il Bakufu lavora per superare la crisi politica, gli occidentali spingono per concessioni più generose. In particolare, il console americano cerca di mettere a punto un trattato col Giappone che tagli fuori l’Inghilterra. Riesce anche a trovare delle orecchie simpatetiche nel Bakufu, specie dopo l’incidente di Arrow, in cui gli Inglesi avevano cannoneggiato Canton.

Tutto procede benone quindi, i Demoni Bianchi mettono insieme un bel trattatello, decidono di presentarlo al…

Già, a chi?

I nostri hanno dimenticato un piccolissimo dettaglio: chi comanda, l’Imperatore o lo shōgun?

Whoopsie daisy!

Gli stolti non sapevano che i veri signori erano (e sono tutt’ora) i gattini.
Utagawa Kuniyoshi (1796-1861)

Da bravi occidentali, ai nostri non era passato manco per l’anticamera del cervello che i giapponesi potessero avere un sistema radicalmente differente dal loro.

La cosa viene sfruttata subito dal Bakfu che, ricordiamocelo, vuole prender tempo per poter poi picchiare gli stranieri con le loro stesse armi.

Di conseguenza, quando il progetto di trattato viene messo a punto, il Bakufu dice “sì, molto carino, ora però lo deve firmare il Figlio del Cielo”.

Il nuovo capo del Consiglio degli Anziani, Hotta Masayoshi, si risolve ad andare a Kyoto nel 1858, ma se il Bakufu ha guadagnato tempo, lo stesso tempo è stato guadagnato anche dai daimyō esterni, fino ad ora tagliati fuori dalla grande politica.

Per costoro, gli stranieri sono un ottimo pretesto per schierarsi contro Hotta, il Consiglio e il Bakufu in generale. Un pretesto da solo non basta però, ci vuole una qualche forma di legittimazione.

E guarda te le coincidenze, a Kyoto c’è un’intera Corte di aristocratici civili infognati lì e tagliati fuori dall’esercizio del potere. Aristocratici che teoricamente detengono l’autorità, ma che di fatto non contano quasi nulla e che da generazioni sognano i bei tempi andati di quando erano loro a comandare.

Quando Hotta arriva a Kyoto, molti di costoro hanno adottato la causa xenofoba e anti-Bakufu dei daimyō esterni, e le trattative sono un fiasco. Hotta si dimette in disgrazia e smolla il posto a Ii Naosuke, che riesce a firmare un accordo di amicizia e commercio con gli yankees.

La faccenda prevede:

  • Scambio di rappresentanti diplomatici tra il Giappone e gli Stati uniti

  • Apertura progressiva dei porti di Nagasaki (in Kyushu), Yokohama e Niigata

  • Libertà di commercio

  • Numerose e mortalmente noiose clausole su diritti di dogana ed extraterritorialità.

Accordi simili furono firmati lo stesso anno con Inglesi, Francesi, Russi e Olandesi.

Tutto è bene ciò che finisce bene, no?

No.

Si sa come funzionano le cose: agli occidentali gli dai un dito e ti strappano il braccio alla spalla per spolparselo a piene ganasce.

Appena 4 anni dopo, l’Inghilterra, secondo la sua antica e rispettabile tradizione di bullismo e prevaricazione, costringe il Bakufu a rivedere i trattati rinunciando al diritto di fissare le regole doganali. Sono i famigerati “trattati ineguali”.

Sul momento, questi trattati divennero il perfetto casus belli per la politica interna.

Dovete immaginare una massa di guerrieri di basso rango incazzati come calabroni all’idea di essere bulleggiati dalle scimmie bianche per il solo fatto che le scimmie bianche hanno cannoni più grossi. Non è giusto, ecco!

Manco a farlo apposta, questa storia catalizza malcontenti e frustrazioni soggiacenti.

Sia chiaro, a ‘sto punto i daimyō hanno tutti più o meno ingollato l’idea che, per il momento almeno, i barbari bisognava cuccarseli. Questo però non impedisce loro di usare i trattati ineguali per delegittimare il Bakufu.

E anche a ragione! Per due secoli e mezzo hai tenuto il Paese con pugno di ferro perché “noi siamo il Governo della Tenda, noi siamo la dittatura militare, bada come siamo tosti”, e appena arrivano quattro scimmioni con le barche nere cali le braghe?

E’ dura da accettare.

E in tutto ciò, ricordiamocelo, ancora non è stato scelto un successore per lo shōgun!

Prodromi di guerra civile

Ora, secondo Hérail si possono individuare grosso modo due partiti dietro ai due eredi putativi.

  • Il partito di Mito, che sosteneva la candidatura del figlio di Nariaki, Yoshinobu. Il partito era costituito in particolare da daimyō esterni che volevano spingere l’evoluzione del governo verso una federazione di feudi sotto un consiglio interno dei vassalli ereditari.
  • Il partito conservatore, che sosteneva Iemochi dei Tokugawa di Kii ed era costituito dai vassalli ereditari.

Il Boia, Felice Beato

Il partito conservatore vince, e Ii Naosuke lancia il Ripulisti dell’Era Ansei, una campagna di epurazione politica volta ad impedire ai daimyō di allearsi tra loro e immischiarsi con le faccende di Corte. Gente arrestata, gente esiliata, gente decapitata o costretta a sbudellarsi, insomma ci siamo capiti.

Tra i condannati a morte figura tale Yoshida Shōin, guerriero del feudo di Chōshū, alleato della Corte Imperiale e considerato nemico del Bakufu. Prima di stirare le zampe, Shōin aveva ispirato e influenzato un congruo numero di rampolli dell’aristocrazia guerriera del feudo. E sai qual’è una buona idea quando hai un carismatico maestro che ti attizza giovani facinorosi? Renderlo un martire.

Manco a dirlo, la repressione dell’era Ansei provocò un certo qual malcontento verso il Bakufu, ormai visto come corrotto regime a letto con gli stranieri.

Sono i prodromi della guerra civile, l’alba del grido di battaglia sonno jōi, “onorare l’Imperatore, espellere i barbari”!

Facinorosi all’opera.
Foto di Felice Beato

Sia chiaro: non si tratta di mere reazioni isteriche da parte di xenofobi con una scopa in culo. C’erano innumerevoli problemi con l’apertura dei rapporti, dal cambio dell’oro al lievitare del prezzi alla fuga di mercanti, tutta roba di cui magari parleremo in altra sede.

Ora come ora voglio concentrarmi sul travaglio politico.

E a proposito di travaglio politico, Ii Naosuke viene assassinato nel 1860.

Gli succede Andō Nobumasa, che cerca di accalappiarsi la Corte proponendo un matrimonio tra una principessa imperiale e il giovane shōgun, il quattordicenne Iemochi.

L’Imperatore dell’epoca non ce l’ha particolarmente col Bakufu, ma il suo entourage è zeppo di aristocratici che non vedono l’ora di scardinare la dittatura militare e restaurare il potere della Corte come nel magico periodo di Heian. Per costoro, l’occasione è perfetta per minare la credibilità del Bakufu.

Accettano quindi il matrimonio, a patto che il Bakufu butti fuori i barbari e si rimangi i trattati. E così Andō si ritrova preso tra gli aristocratici da una parte e gli occidentali da quell’altra.

Vedi, se avessero ghigliottinato tutti i nobili quando ne avevano la possibilità, non si sarebbe posto il problema. O forse sì.

Ma sto divagando!

Andō è in una brutta situazione, ma non per molto, visto che nel 1862 si ritira a seguito di un increscioso incontro ravvicinato con una coltellata (cortesia di sei scalmanati di Mito). Sono i rischi della politica quando la politica è fatta bene.

Il giovane Iemochi. Sapete di cosa ha bisogno una dittatura in grave crisi? Di generalissimi quattordicenni!

Non è possibile trattare coi barbari se il partito pro-aristocrazia continua a minare la credibilità shogunale. Dopo l’attentato contro Andō, Shimazu Hisamitsu del feudo di Satsuma marcia su Kyoto, perché mobbastaveramenteperò.

Butta fuori a pedate tutti i partigiani più scalmanati della restaurazione (torneranno poco dopo) e si fa nominare dalla Corte consigliere ufficiale presso il Bakufu per portare avanti una sobria ma seria modifica del regime. Questa corrente riformista è chiamata “Alleanza tra Corte e Guerrieri”, kōbu gattai, altresì detta volemosebbene.

Come prima cosa viene creato un tutore per quel moccioso dello shōgun.

Siccome ci vuole una scelta politicamente savvy m anche deliziosamente ironica, il ruolo viene dato a Yoshinobu. Che era l’altro erede putativo. Evviva!

A questo punto abbiamo quindi, in grosso, 3 partiti:

  • I lealisti del Bakufu a Edo

  • I lealisti dell’Imperatore a Kyōto

  • I grandi daimyō che cercano di mediare ed evitare una guerra civile

E in tutto ciò i rapporti con i barbari sono usati senza alcuno scrupolo nella politica interna.

Una complessa , delicata e sfaccettata problematica riguardante degli stranieri che viene appiattita e sfacciatamente usata per propaganda interna, dov’è che l’ho già sentita? Hummm….

Guarda te i casi della vita, la xenofobia è un sentimento tanto più totalizzante in quella cospicua massa di guerrieri senza feudo, rendita o lavoro. Gente educata fin dalla nascita ad essere facinorosa e tosta, a sentirsi migliore e orgogliosa del proprio status, e che ora si trova senza prospettive, senza speranza e senza scopo.

Costoro sgrondano a Kyōto, alla ricerca di un qualche vago sentimento di identità e ragion d’essere, e se la prendono coi demoni bianchi, e se la prendono col Bakufu che amoreggia coi demoni bianchi, scordandosi che il Bakufu ha davvero poca scelta e che i demoni bianchi sono sì figli di puttana ma non sono la causa principale della crisi economica, dell’alienamento o della sclerosi del regime.

Sono sentimenti del genere che portano ad incidenti celebri come quello di Namamugi, dove degli inglesi vengono attaccati dalla scorta di un daimyō.

Nel 1863, Yoshinobu e il baby-shōgun accettano in principio di scacciare i barbari. Più una dichiarazione di intenti che altro, dacché, ricordiamocelo, militarmente i giapponesi contro gli occidentali hanno le stesse probabilità di un bambino di cinque anni contro il Predator.

Ma questo sfugge alla gente del feudo di Chōshū. Ve li ricordate? Sono quelli a cui il Bakufu ha martirizzato il maestro.

Costoro vengono a sapere della decisione di Kyōto, e con l’ottuso zelo di un doganiere svizzero cannoneggiano le barche che passano nello stretto di Shimonoseki.

Mappa dei luogi nominati. Hakodate non si vede perché è in Hokkaido (ovvero in culo agli orsi)

Sulle navi occidentali la gente si sorprende.

-Qualcuno ha scorreggiato?

-No, mi sa che era un petardo o qualcosa così.

-No, è un pilloro partito da quel fortino lì.

-Fortino? Non è il museo della Marina?

-No, guarda, ci hanno sparato di nuovo.

Manco a dirlo, gli occidentali spianano le batterie costiere di Chōshū. Poco dopo gli Inglesi mettono i puntini sulle i bombardando Kagoshima. Nel caso qualcuno si fosse scordato di Namamugi.

A parte i disgraziati di Kagoshima e la signora Kyoko che coltivava zagare sulle coste di Chōshū, il vero sconfitto della Battaglia di Shimonoseki è il Bakufu, che ha perso totalmente la faccia: non è più capace di controllare la situazione, non è più un interlocutore degno di quel minimo rispetto che gli occidentali erano disposti a riservare a dei non-bianchi.

E come al solito, quando cominci a puzzare di debolezza, i cani si avventano. Gli Inglesi si buttano a coltivare relazioni con la Corte e i feudi del sud a scapito del Bakufu, mentre i Francesi si accalapiano il regime di Edo.

Ma intanto che fa il partito conservatore, quello del “cerchiamo di fare fronte unito, cazzo di maniaci, che questi sennò ce se magnano”?

Per prima cosa, cerca di montare una spedizione punitiva contro Chōshū e di impadronirsi della guardia imperiale.

I capi di Chōshū decidono che, spetta, questo merdone sta per scoppiarci in faccia, cerchiamo di metterci una pezza e sottomettiamoci.

Oh beh, troppo tardi: gli intransigenti fanno un colpo di stato. Sotto la nuova élite, Chōshū si allea con Satsuma, dove pure c’è stato un ricambio di classe dirigente, ora costituita da guerrieri di medio rango.

Long story short, nel 1866 Chōshū respinge le truppe shogunali.

Nel frattempo Yoshinobu era riuscito a diventare shōgun. Gioia di breve durata. C’è ormai una guerra civile in sordina, il Bakufu si sta sgretolando, i barbari sono al confine che si leccano i baffi.

Occorre cambiare qualcosa, qualcosa di grosso, e subito.

Viene ritirata fuori dal cilindro l’idea di un gran consiglio di daimyō, a cui Yoshinobu parteciperebbe non come shōgun, ma come grande feudatario. In cambio, Yoshinobu deve semplicemente rinunciare al titolo di Generalissimo e mettere fine a un regime vecchio di 200 anni.

Ma le grane volano sempre a squadriglie, e a fine gennaio del 1868 l’Imperatore muore. E’ un terremoto politico. I guerrieri di Chōshū e Satsuma s’impossessano del palazzo e catapultano il giovanissimo Principe Mutsuhito al centro della scena politica. E’ l’inizio della sanguinosa Guerra di Boshin.

Il 23 ottobre Mutsuhito assume ufficialmente il nome di Meiji. Il Bakufu viene dichiarato illegittimo e i feudi di Yoshinobu sono requisiti. In novembre, Yoshinobu abdica al Castello di Edo.

Al Castello lo shogunato Tokugawa era nato, ed al Castello muore.

Yoshinobu rinuncia al titolo

260 anni e passa di dittatura ininterrotta, quindici generazioni di generalissimi, stroncati da un principe di sedici anni appena. Perché siamo in Giappone, e la Rivoluzione qui la fa l’Imperatore.

Le dimissioni di Yoshinobu non mettono fine alla guerra. Dopo due secoli di pax Tokugawa, il Paese doveva sanguinare.

Tutte le guerre sono crudeli, ma c’è un posto speciale nel Panteon dell’Orrore per le guerre civili. E questa qui non fa eccezione.

sf7319-1024x1024.png

I’m here to chew bubblegum and save the Empire. E se per farlo devo scimmiottare i Barbari del Sud, così sia.

Per quanto romanzesca sia l’immagine del principe adolescente che riconquista il proprio posto alla testa del Paese, non fu Meiji in persona a salvare il Giappone. La grandezza di Meiji fu di sapersi circondare di gente capace, saper ascoltare e saper rinunciare al proprio orgoglio per il bene del regno.

La Restaurazione Meiji è un periodo di storia brutale, fatto di rinunce, violenza, persecuzione politica e religiosa. E’ in questo periodo che vengono piantati i semi di ciò che sarà un giorno il fascismo giapponese, ovvero la balorda ideologia che portò l’Impero alla sconfitta e all’umiliazione.

Ma quanta scelta avevano i ministri e i loro collaboratori nel 1868?

Quasi un secolo dopo, Golda Meir dichiarò che era pronta a comprare armi agli odiati francesi, “anche se il loro leader fosse il demonio in persona”, pur di armare i propri soldati. Meiji e i suoi ministri erano altrettanto pronti a vendere l’anima se questo significava salvare l’Impero dalle mire fameliche delle potenza occidentali.

In 40 anni scarsi il Giappone passò da un mucchio di feudi che si trastullavano con archi e moschetti a una potenza marittima e militare capace dei sconfiggere i Russi. Con tutto il male e il dolore che la Restaurazione portò con sé, è difficile non ammirare la determinazione e l’ingegno degli architetti del nuovo regime.

Importarono il nazionalismo per salvarsi, e decenni dopo il nazionalismo fu una delle cause della rovina del Paese. Come detto su, la Storia è un ciclo infinito di sollievo e zappate sui piedi, e le soluzioni dei problemi di oggi sono spesso la causa dei problemi di domani.

MUSICA!


Bibliografia

Hérail francine, Histoire du Japon, POF, 1986

Nishiyama Matsunosuke, Edo Culture : daily life and diversions in Urban Japan, University of Hawai’i Press, 1997

Souyri Pierre-François, Nouvelle Histoire du Japon, Parrin, 2010

Commercio e denaro: traffico di uomini e ricchezza tra VIII° e X° secolo

Messires et mes dames, spero abbiate passato un buono shabbat. Bentornati in questo luogo di frustrazione e invidia. Oggi noi esuli eravamo alle urne. Per festeggiare un avvenimento così avvincente come le elezioni europee, ho deciso di deliziarvi con un articoletto su qualcosa di altrettanto avvincente: commercio!
Si tratta di un articolo molto generale, volto a dare una visione generale degli scambi e magari demolire certi luoghi comuni.

Il crollo dell’Impero Romano è forse uno dei periodi più caotici e difficili della storia Europea. Se Costantinopoli se la cavò relativamente bene, in Occidente la botta fu molto più forte.

Tra IV° e VIII° secolo possiamo individuare alcuni grandi movimenti generali: rallentamento degli scambi e dell’economia monetaria, declino dei centri urbani e del potere politico, predominanza economica di agricoltura e ricchezza fondiaria (ergo sviluppo di una civiltà rurale e di aristocrazie locali).

Nel corso del IX° secolo, l’Occidente romano-germanico si ristrutturò, parato da Costantinopoli da un lato, ma esposto agli assilli di ungheresi, scandinavi e saraceni (che nonostante si fossero rotti le corna su Bisanzio e Poitiers avevano mantenuto una forte presenza nel Mediterraneo).

Il commercio pare anemico, e le fonti ne parlano molto poco. Con la spinta Mussulmana del VIII° secolo, l’Occidente aveva perso buona parte delle rotte del Mediterraneo occidentale: a differenza di quei bastardi dei Bizantini, i franchi non avevano il fiato e la flotta sufficienti per tenere i saraceni fuori dalle palle. I porti di Langue D’Oc e della Provenza cadono in letargia, dato che, a parte Giudei e Frisoni, sono pochi a praticare ancora il commercio marittimo. Stando a certi storici, l’Occidente franco resta imbottigliato.

In realtà il commercio non morì mai del tutto. Boutruche osserva che storiografi come Pirenne giudicano il traffico troppo vitale prima degli infedele e troppo morto dopo. Resta comunque il fatto che gli assi commerciali si spostarono più verso nord.

Il mondo Islamico, che collegava il Mediterraneo con l’Oceano Indiano, portò una frana di grane, ma anche qualche novità e un po’ di linfa al commercio Occidentale. I Mussulmani misero le mani su grandi regioni aurifere (come il Sudan) e misero nuovo oro in circolazione. La moneta d’oro si diffuse in Egitto, Siria, Africa del Nord e, dal X°, Sicilia e Spagna mussulmana. Dinar islamico e Nomisma bizantino erano le monete d’oro più correnti in Mediterraneo. Ergo se da un verso gli infedeli falciarono le gambe al traffico marittimo franco e dettero un gran fastidio a quello bizantino (ma lì facevano bene!), dall’altro commerciarono coi latini, reimmettendo oro nelle loro economia. Bisogna tener presente che la bilancia commerciale non era a favore dei franchi, il che era risultato in un lento drenaggio dell’oro verso gli infami del Bosforo.

Cosa fornivano i franchi ai loro dirimpettai maomettani o ai loro cugini invertit bizantini? Secondo Boutuche: schiavi, marmo, legno per navi, armi e metallo. Molto del bestiame umano era razziato in terre slave e lettoni al di là dell’Elba o comprato agli Anglosassoni, e molto del traffico finì per orientarsi sulla Spagna Islamica, visto che comunque in Mediterraneo Orientale erano ben riforniti.

In cambio, i franchi importavano stoffe preziose, spezie, profumi, incensi, avorio, cuoio lavorato e papiro, ma anche vino, olio d’oliva, miele, frutta e verdura secca.

Questo caprioletto vampiro è il Moscus Moschiferus, cervide himalayano che produce pallette odoranti, il muschio, estremamente apprezzate e ricercate in tutto il mondo. No, non è photoshoppato. Pensare che la Tigre dai Denti a Sciabola è estinta mentre questa bestiaccia ancora se la spassa…

Costoro non erano gli unici interlocutori commerciali dei franchi: dal VII° si aprono nuove rotte commerciali si svilupparono lungo i fiumi, come il Mosa, o nei paesi Renani, verso il Mare del Nord.

L’oro non aveva un gran corso in Europa occidentale: dal VII° le monete sono battute principalmente in argento.

Va precisato che non si tratta di un impoverimento delle classi alte, che basavano la loro ricchezza sulla terra, quanto di un abbassamento del livello di vita. Peraltro, l’uso era di non ridurre l’oro in banali lingotti o monete: i potenti di questo periodo preferivano farne oggetti d’arte, gioielli o paramenti sacri, eventualmente da portarsi nella tomba. Il forziere con i dobloni non si addice a un franco, che era più propenso a far fare un bel crocifisso o un diadema, un acquamanile o un vassoio sbalzato, onde poi fonderli se c’era bisogno di far la guerra a qualcuno. Perché immagazzinare banali dischetti gialli quando ci puoi fare qualcosa di carino? I franchi erano gente creativa.

Arrivati al potere, i carolingi si diedero daffare per migliorare le rotte commerciali e lottare contro l’anarchia monetaria e la frode endemica che ne conseguiva. Gli atelier monetari si davano alla pazza gioia. Se ne contano un centinaio all’epoca di Carlo il Calvo, specie in punti nevralgici del commercio internazionale e locale, o presso miniere di piombo argentifero, o presso saline. Nell’editto di Pitres (864), Carlo il Calvo cercò di ridurre a 9 il numero di atelier e ridurre anche il numero dei mercati.

Riassumendo, sotto i carolingi si battevano solo denari, monete d’argento a percentuale abbastanza debole. L’oro circolava solo come moneta araba o bizantina.

I sovrani franchi non riuscirono a risolvere del tutto il problema della, hum… creatività monetaria, ma risanarono non poco la situazione, a beneficio degli scambi interni, ma anche di quelli con Bisanzio, con la Spagna Mussulmana e col Nord. Fu stabilita una relazione di peso fissa tra il denaro franco, il dirham, il nomisma.

Tornando al commercio, abbiamo l’importante testimonianza di Ibn Khordadbeh, alto funzionario di Bagdad, che ci parla degli scambi tra Oriente e Occidente. A fare la spola sono in generale giudei rodaniti (“della strada”) installati in Gallia meridionale.

Una rotta portava i mercanti all’istmo di Suez, e da lì verso il Sind, la Cina e l’India. Al ritorno, i giudei passavano da Porto Said, Costantinopoli e tornavano dai franchi.

Una seconda rotta più meridionale passava verso la Siria, Bagdad, l’Oman, e ancora più a est.

A volte venivano predilette rotte terrestri, attraverso la Spagna, l’Africa Settentrionale, fino in Egitto e in Siria, per riallacciarsi all’itinerario precedente.

Infine, una rotta scendeva in Italia, passava da Bisanzio, saliva per i “paesi Slavi”, il Caspio, le regioni del basso Volga, l’Amu Daria, la Transoxiana e la Cina.

Purtroppo non abbiamo dettagli sulle transazioni, il volume d’affari o il ritmo dei viaggi.

Su distanze più modeste, nel X° c’era commercio con la Spagna Mussulmana, specie da parte dei mercanti di schiavi di Verdun, che vendevano negli emirati di Cordoba e tornavano con cuoio e tessuti preziosi. Altri, da Marsiglia, Arles e Narbonne andavano a Gaeta, Napoli, Salerno, Amalfi, dove trovavano stoffe preziose, artigianato, spezie e profumi importati da Costantinopoli e dalle zone mediterranee sotto controllo mussulmano.

Vi sento molto interessati a questo argomento!

Tornando nello specifico al commercio marittimo, i documenti parlano più di pirati che di mercanti (spesso le due categorie si cavalcavano), il che ci fa supporre che l’attività di questi ultimi fosse piuttosto debole. Sappiamo che i mercanti dell’Italia del sud commerciavano con Bisanzio sotto protezione dell’Imperatore d’Oriente, ma per quanto riguarda il nord-est, preferivano le vie terrestri via la Lombardia e le Alpi. C’è da dire che pirati e mercanti sono spesso la stessa gente.

A partire dal IX Venezia cresce. Esporta in Oriente prodotti italiani e schiavi dalmati, e riporta prodotti di lusso da Bisanzio, Marocco, Egitto, Sicilia o Siria.

Altre vie puramente terrestri erano nei paesi renani, tra la piana di Boemia e il nord dei Carpazi, con i mercanti del Mar Nero. Kiev era un altro crocevia molto importante, tra Baltici, Mare Nero, Caspio e Turkestan. La valle Danubiana era stata liberata dagli avari nell’VIII°, ma s’intasò di nuovo con gli ungheresi. Praga divenne un punto nodale del traffico di schiavi. Sale, bestiame, schiavi e armi andavano e venivano da queste regioni a quelle più occidentali grazie a mercanti giudei o franco-germanici.

Infine, dal IX° al XII° altre vie collegavano i paesi del Mar Nero, il Caspio e l’Asia centrale con le regioni scandinave e franche, tracciate in particolari dai Variaghi svedesi (il termine variago significa, in origine, “mercante”).

Gli svedesi commerciavano anche con Bizantini. Novgord e Kiev erano due centri di commercio internazionale. I mercanti scandinavi vendevano pellicce, miele, schiavi e ambra a mussulmani e bizantini. Riportavano prodotti da oriente e Russia meridionale.

Altri mercanti nati erano i frisoni (sottomessi ai carolingi nell’VIII° secolo), che giravano per il Mare del Nord, l’Atlantico fino al Golfo di Guascogna e la Manica. Commerciavano con Inghilterra, Danimarca e Svezia. Facevano anche traffico fluviale nei Paesi Bassi e in Fiandra. Portavano mercanzie dell’Ovest in Scandinavia via Reno, Mosa, Schelda, bacino di Parigi o fiumi della Germania settentrionale. Ridistribuivano nei pasi franchi prodotti dei baltici e drappi inglesi, spezie, profumi e stoffe preziose.

Nell’840, il traffico cominciò a soffrire delle invasioni normanne.

Centri come Dorestad declinano, altri, come Tiel, Etaples, Montreuil o Wissant, fioriscono. Birka cedette il posto a Sigtuna, Hedeby a Slesvig. Certe rotte commerciali s’interrompono, svaniscono e poi sono riaperte da nuovi uomini. Bisogna aspettare il X° secolo prima che il commercio si riprenda dalla batosta normanna.

Per l’Occidente del IX° e del X°, il Mediterraneo restò un centro di commercio abbastanza importante, anche se a periodi i mari erano così pericolosi che i mercanti preferivano fare lunghi giri o seguire le coste. L’asse principale di scambio restò comunque orientato a nord.

Insomma, nonostante l’idea preconcetta che abbiamo di “Medioevo”, l’Occidente non era ripiegato su se stesso: c’erano scambi, ma questi mancavano di una buona organizzazione tecnica ed erano controllati. I sovrani mussulmani controllavano i traffici e la circolazione monetaria, così faceva pure l’infame Bisanzio, con dogane, passaporti, divieto di esportazione di metalli preziosi, etc. I carolingi avevano politiche simili: accordavano dispense ai mercanti che rifornivano il Palazzo, le abbazie e le chiese.

Una grossa fetta della popolazione restava straniera al commercio su grande distanza ma non a transazioni locali e regionali. I prodotti scambiati in questo contesto sono molto meno raffinati: cereali, vini, prodotti dell’allevamento o della pesca, tessili, tessuti ordinari.

I mercati locali erano costituiti da qualche fiera o piccoli mercati frequentati dai vicini, dove giravano pochi denari. In effetti, nei villaggi e nel piccolo scambio la moneta è quasi assente: si preferiva il baratto. Quasi assente, ma non del tutto assente. In parte circolava, ed era raccolta ad esempio per pagare le tasse e le rendite. Presente o no, la moneta era comunque un étalon d’echange: il debitore pagava in natura, ma con prodotti stimati e valutati in rapporto a un valore monetario.

La cosa è un po’ diversa nel nord della Francia, Paesi Bassi, ovest e centro della Germania, dove una popolazione più densa favorì un maggiore sviluppo commerciale. Si creano faubourgs di commercianti e artigiani a Metz, Verdun, Tournai, Mayence, Cologne. I centri urbani si sviluppano gradualmente.

Il nocciolo “pre-urbano” era di solito un monastero, un’abbazia, un castello o un Palazzo. Alle volte cittadine nascevano dal nulla in riva a un fiume o su un estuario. I faubourgs di mercanti e agglomerazioni nuove dedicate agli scambi si chiamano portus. Alla fine del X° i porti sono sulla buona strada per diventare piccole città.

Quanto ai mercanti, se si fa astrazione dai vagabondi e i rivenditori ambulanti di pacottiglia, i legitimi mercatores erano in genere di 3 tipi : Giudei (principali fornitori dei Re e per prodotti orientali) ; Frisoni ; mercanti aborigeni con antenati rurali. I mercanti godevano di diversi privilegi locali (economici, giudiziari, ecc), ma la Chiesa li guardava con sospetto (gente che fa soldi, che schifo!). Ad ogni modo, a questo stadio sono di solito troppo pochi per costituire una vera classe.

In conclusione, c’è una vera differenza, in questo periodo, tra Oriente e Occidente. L’Occidente continua a basare la sua economia sull’agricoltura e sul dominio terriero. La specializzazione delle attività è appena abbozzata, le tecniche di produzione, trasporto e consumazione restano rudimentali, le nozioni di capitale, investimento ecc. sono anche quelle appena nate. I prezzi sono stabili ma elevati per il potere d’acquisto. Persistono pratiche che si basano sul metallo prezioso, ma le monete sono poche e il baratto domina. Inoltre, la gente cerca in genere di « vivere del suo ». I monasteri ricercano l’autosufficienza, come aveva consigliato il Concilio d’Orléans nel 538. La Chiesa aveva vietato ai cristiani il prestito a interesse dall’VIII° secolo (*), cosa che pone problema quando si vuol lanciare un buisness. Insomma, si tratta in generale di un’economia di consumo controllata dai Re e i capi locali. Spesso è in atto una vera e propria economia di guerra, che drena il surplus verso l’esercito.

N’empêche, anche se fragili e operati tra entità cellulari, gli scambi esistevano, e perfino i contadini potevano maneggiare moneta per comprare ogni tanto sale o metallo. In realtà, l’autarchia dei grandi signori era meno reale di quanto si pensi. Per dirla con le parole di Bloch:

La società d’allora non ignorava di certo né la compera né la vendita. Ma non viveva, come la nostra, di compera e di vendita. (La société féodale, p.108)

Il commercio non era il solo fattore di circolazione di beni. Le rendite per la protezione di un capo o roba simile giocavano un ruolo. Uguale per il lavoro umano, dacché la prestazione aveva più spazio dello scambio, nella vita economica.

Se da un lato la ricchezza era indissociabile dal comando, i potenti avevano una capacità di acquisto limitata, anche a causa della penuria monetaria e della taglia ridotta dei tesori. Piccoli e grandi vivevano in maggior parte sulle risorse del momento.

L’atonia della circolazione monetaria riduceva peraltro a quasi niente il ruolo sociale del salario. Questo infatti presuppone che la fonte del denaro non rischi di estinguersi a ogni due per tre. Era necessario quindi pagare con altro che non fosse il versamento periodico di soldi, condizione molto precaria in questo periodo.

Due soluzioni furono trovate: invece di pagare qualcuno in denaro, prendere il tizio presso di te, mantenerlo e fornirgli una “prevenda”. Altra soluzione: dargli della terra che possa sfruttare (o da cui possa esigere delle rendite) per potersi mantenere.

E’ chiaro che i legami erano diversi da quelli generati dal salariato. Da signore a uomo il legame è intimo, più che non da padrone a salariato, ma si dissolve alla svelta quando il beneficio del sottoposto diventa ereditario. La società feudale ondeggia tra il legame stretto da uomo a uomo e quello lento della tenuta terriera.

“Non hai ancora finito?”

Dello sviluppo e della natura del legame feudale parleremo un’altra volta! Lo scopo di questo articolo era solo di fare una rapida panoramica degli scambi e della circolazione monetaria in Europa. Spesso il commercio è un aspetto che viene sorvolato del World Building sciatto, e questo è MALE. La stessa roba non si trova ovunque, né tantomeno allo stesso prezzo. Pensateci la prossima volta che accozzate prodotti eterogenei nel villaggio contadino del PresceltoTM.

Ora, quale canzone potrebbe concludere un articolo su commercio e vil denaro?

Ma che domande

 

 

 P.S.

Il 16 giugno sarà l’anniversario della morte di Marc Bloch, ebreo francese, veterano decorato della Grande Guerra, cofondatore degli Annales, nume della storia Medievale, patriota e resistente, catturato, torturato e fucilato dai Nazisti. Morì con molto onore, rassicurando i suoi compagni di esecuzione. Secondo i testimoni, un ragazzo accanto a lui si lasciò sfuggire “ça va faire mal” (farà male). Bloch gli posò una mano sulla spalla e rispose “Mais non, petit, cela ne fait pas mal” (Ma no, piccolo, non fa male). Morì gridando “Vive la France”.

Giusto per ricordarlo. Bloch è stato uno studioso straordinario, un buon soldato, un patriota valoroso, un grande uomo. Merita di essere celebrato.

———————————————————————————————————————————————-

Bibliografia

BOUTRUCHE Robert, Seigneurie et Féodalité, Ed. Montaigne, Parigi, 1968, p.1-64

BLOCH Marc, La société féodale, Albin Michel, Parigi, 1939, p.97-114

 

(*) Pietro Moroni mi fa notere che tale divieto si ammorbidì molto nell’XI°, permettendo anche ai Cristiani di prestar quattrini e (gulp!) guadagnarci sopra. Gli usurai per eccellenza restarono comunque gli ebrei, a cui i pesci grossi tiravano sòle con più agio. Fonte: Luciano Pellicani, La genesi del capitalismo e le origini della modernità (Marco editore).